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Mb
Marco Bava è un economista, consulente finanziario e spesso attivo
nel panorama italiano come esperto di economia e finanza. È noto per le
sue opinioni critiche su temi come la gestione della finanza pubblica
italiana, le banche e la situazione economica generale del Paese.
Inoltre, in passato è stato coinvolto in varie iniziative politiche e
civiche, dove ha cercato di sensibilizzare l'opinione pubblica su
questioni legate alla trasparenza economica e alla gestione del debito
pubblico.
Dal Vangelo secondo Luca Lc
21,5-19 “In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato
di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei
quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non
sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e
quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose:
«Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome
dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro!
Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché
prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro
regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze;
vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi
perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni,
trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete
allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non
preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché
tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e
dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa
del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza
salverete la vostra vita».”
La gangster
che si fece
suora
pierangelo sapegno
Le due vite di Angela Corradi sono finite adesso. Quella della donna
gangster con la svastica tatuata sulla schiena e della suora laica che
ha dedicato la sua vita ai disperati e agli sconfitti. La notizia l'ha
data su Facebook Tino Stefanini, uno degli ultimi superstiti della
famigerata mala della Comasina: «Resterai per sempre nei nostri cuori».
Ma di Angela Corradi, morta a 73 anni, resta qualcosa di più anche per
tutti noi, il mistero della vita e dei suoi peccati, la sottile linea di
demarcazione che può dividere il bene dal male sulle strade del dolore.
Tutto quello che non possiamo vedere e facciamo fatica a capire. Una
volta le chiesero come aveva fatto a scoprire Dio. «Perché ho sentito la
sua voce», aveva risposto. «Mi disse "Io ci sono". Mi disse solo
questo». Era una sera che Angela Corradi aveva un mitra in mano e una
pistola infilata nei calzoni e stava uscendo dalla sua casa di via
Osculati ad Affori per andare a uccidere qualcuno. Ma qualche anno dopo,
aveva il velo e degli occhiali a goccia che nascondevano uno sguardo che
levigava il tempo e anche le sue ferite, perché non si vive la sua vita
senza perdere pezzi e portarne le cicatrici. Allora le chiesero come
faceva a essere così sicura che fosse la voce di Dio. «Lo so e basta»,
disse con tono di nuovo duro. Il fatto è che pure quando sposò Dio e si
fece terziaria francescana non perse mai la forza del suo carattere. Era
scritta nei suoi occhi, quella forza. Era la pupa del gangster, la «pupa
della banda Vallanzasca», come titolavano i giornali, la compagna
inseparabile di Vito Pesce, il braccio destro del bel René, che la
chiamava «la sorellina» e di lei diceva che non era solo bella e
coraggiosa: «Angelina è stata la donna che in quanto a palle dava dei
punti e tanti maschietti cazzuti. Una forza della natura.
Fondamentalmente, era una femmina da sballo. Bella, intelligente,
simpatica, capace di essere dolcissima. Ma quando c'era da dimostrare il
suo carattere, persino il suo uomo faceva bene a non contraddirla». Era un giorno di luglio del 1978 quando venne folgorata da Cristo,
mentre doveva andare a vendicare «uno sgarro fatto ai miei compagni in
carcere». Lo raccontò cinque anni dopo esatti, al meeting di Cl a
Rimini: «Io posso solo tentare di farvi vedere una scena. Sono in casa,
sono armata fino ai denti e quando varcherò quella porta so che l'unica
cosa che devo fare è uccidere qualcuno. E sono molto determinata a
farlo. È in quel momento che mi si è presentato il Signore. Non Lui, io
mento se dico Lui. Ma la sua voce. E l'ho sentita benissimo. Ha solo
detto "ci sono". Non ha detto altro. E io mi sono terrorizzata. Non
avevo mai avuto paura di niente. Ma quella volta sì». Prima di cambiare
la sua vita, Angela era stata tutto quello che poteva essere una nata
come lei nella nebbia dell'anonimato ai margini della metropoli. Era
stata commessa, e poi modella prima di approdare nella banda di
Vallanzasca per un «atto di ribellione». Si era tatuata sulla schiena
una svastica e su un dito la «N» di nazista con una croce sovrapposta.
Diventò una protagonista di quegli anni di violenza e finì anche in
carcere, cinque anni a San Vittore. Era una donna bellissima, hanno
sempre ripetuto quelli che l'avevano conosciuta. I suoi lavoravano nel
circo. Il padre faceva il giro della morte in motocicletta. Poi un
gravissimo incidente l'aveva paralizzato e da allora anche la madre,
Bruna, acrobata, lasciò il tendone. I suoi cercarono di avviarla agli
studi, ma non ci fu verso. Angela voleva scappare, andare via da quella
prigione di case grigie e uguali, dalle pene della sua famiglia. A
sedici anni fuggì di casa e dopo poco tempo si legò ai ragazzi della
mala che in quegli anni stavano scalando le gerarchie di Milano a mitra
spianati, lasciando una scia di morte dietro di loro. Diventò la
compagna di Vito pesce, uno degli uomini più spietati della banda
Vallanzasca. I giornali, raccontando i corpi senza vita sparsi sulle
strade, tutte quelle esplosioni di violenza e le sparatorie, li
chiamavano «i killer drogati. La più feroce gang del Dopoguerra». In
quegli anni morì suo padre, mentre lei veniva arrestata. Di San Vittore
ricordò la vita vuota e arida dietro a quelle sbarre.
La conversione avvenne all'improvviso, quando era già una suora laica,
la sua auto, una A112, venne crivellata di colpi in piena notte e lei
rimase quasi in fin vita con ferite sul volto. «Gesù, Gesù aiutami...»,
ripeteva ai medici del Niguarda. Sua madre Bruna raccontò che «era
uscita per andare a portare aiuto ai bisognosi». In realtà,
quell'episodio rimase un mistero senza risposta.
Un po' come il suo viso, conservato negli archivi della cronaca nera e
nelle foto che la immortalarono col velo. Non aveva più i capelli tinti
di biondo e lo sguardo sprezzante. Ma gli occhi sono lo specchio
dell'anima. E non sono cambiati. Erano troppo duri, quand'era ragazzina,
ma anche adesso erano gli occhi di una che aveva sempre dovuto
combattere nella sua vita, farsi largo tra le infinite e irrisolte
violenze delle periferie, fra quegli edifici nudi che nascondevano tutti
le stesse miserie e le stesse rabbie, in quelle ripetizioni di facciate
sempre uguali e in quel piatto e uniforme plurale di una sconfitta
comune, dove ogni finestra apparteneva solo alle nebbie della
disperazione, un disegno senza altri colori che non fossero quelli dei
sogni di chi vuole scappare. Alla fine però Angela Corradi è tornata qui
e ci è rimasta fino alla sua morte, a 73 anni, per dedicarsi alle anime
perse dei drogati, dei detenuti, dei più deboli, di tutti quelli rimasti
senza speranze nella battaglia della vita. È ritornata da dov'era
partita, nella terra di mezzo, nei luoghi di tutti quelli che continuano
a perdere.
TO.11.07.24
Intervento fatto al Collegio Carlo Alberto di Torino sulla censura
assembleare dell’art.11 del Decreto Capitali
E’ sempre positiva una analisi storica democratica.
Qui in p.za Arbarello a TORINO c'era la Facolta' di Economia ed ho
imparato l’ economia industriale dal prof Goss Pietro.
Che dai 25 anni ho potuto applicare concretamente direttamente con
Gianni Agnelli.
L’invidia dei docenti di Economia di TORINO per questa mia
esperienza formativa , mi e’ costata 16 anni di blocco per la
laurea in Economia a Torino , ottenuta poi in 16 mesi a Novara, a
cui e’ seguita una 2^ laurea in giurisprudenza a Torino per
riabilitarmi con il prof.Dezzani di Economia e Commercio a Torino.
Altri 20 anni mi blocca Economia e Commercio di Torino per l'esame
da dottore Commercialista che poi supero a Roma.
A 30 anni proposi a Gianni Agnelli superFIAT, LA FUSIONE IFI
FIAT , che mi chiese di portare a Cuccia, e che Gabetti e Galateri ,
con cui collaboravo, ed a cui chiesi un aiuto, mi bloccarono.
Umberto Agnelli attraverso Boschetti mi propose di rifare la Stilo,
ma Morchio si oppose .
Muoiono Edoardo Agnelli Gianni Agnelli e Umberto Agnelli
, Gabetti ,attraverso donna Marella e Yaky sceglie Marchionne
che privo di conoscenze automobilistiche, ha lasciato a Yaky la
sola scelta di VENDERE la Fiat che sta progressivamente riducendo la
produzione negli stabilimenti italiani.
A cui Cirio Urso e Pichetto rispondono rifiutando l’esame del mio
PROGETTO H2 PER AUTOTRAZIONE. Lo trovate sul mio sito
www.marcobava.it. Mentre DENORA ne REALIZZA uno suo IN LOMBARDIA
programmando il più importante stabilimento europeo di
elettrolizzatori per produrre H2 , affiancata da SNAM dopo che se
ne parlato nell’assemblea aperta di Snam 1 mese fa, in cui viene
convita del futuro della produzione dell’H2 con elettrolizzatori che
fara’ appunto con Denora in Lombardia. Ed io prevedo che seguira’ la
produzione delle auto ad H2 in Lombadia invece che in Piemonte
, che forse saranno finanziate da Unicredito e S.PAOLO. Queste sono
visioni strategiche.
Tutto cio’ mentre a Torino ed in Italia il presidente del S.PAOLO
ispirando l’art.11 fascista
del Decreto capitali, censura, in Italia, unica nel mondo, la
democrazia nelle assemblee, pero’ non applicata da Snam che
forse non e’ un importante cliente di S.PAOLO.
Prof Goss Pietro E’ COSCIENTE dei danni che questa sua censura
democratica sta provocando e provocherà rispetto alla storia del
paese che avete illustrato ?
Perche’ lo sta facendo viste le conseguenze di impoverimento
regionale e nazionale ?
Qual’e’ il fine ? il POTERE FINE A SE STESSO come mi risposte anni
fa Grande Stevens ?
La stessa decadenza si manifesta anche attraverso le assemblee
Juventus in cui, anche se non sono state mai chiuse , sono stato
aggredito 2 volte dallo staff. Tutto cio’ non puo’ che portare alla
vendita della Juve come e’ successo per Fiat portando sempre piu’ il
Piemonte verso la deriva democratica ed economica.
Senza democrazia in economia non ci può essere sviluppo. Siete
d’accordo ?
Mb
Per confermare quale fosse il grado di conoscenza che avevo con GA che
mi ha insegnato dare il 5 posso aggiungere che :
soffriva di insonnia per cui leggeva ed alle 12 aveva sonnolenza
amava la boxe
quando aveva una influenza si curava con la penicellina
Sul prof.GP posso invece ricordare:
che ho concordato l'appoggio alla sua prima nomina a presidente di
Intesa S.PAOLO con il prof.Bazoli in cambio di una sua presidenza
onoraria con partecipazione alle decisioni strategiche;
che gli ho proposto una fusione di Unicredito in Intesa S.Paolo
TO.12.04.24
Illustre Presidente del
Consiglio Giorgia Meloni perche' con l'art.11 del DISEGNO DI LEGGE
CAPITALI avete approvato un restringimento di fatto della libertà ?
perché avete voluto dimostrarci di volervi ispirare all'epoca
fascista sfociato nel delitto Matteotti ? Non credo sia
nell'interesse suo e del suo governo e mi spiace, ma devo prenderne
atto.
Ill.mo Signor Presidente della Corte Costituzionale Augusto Barbera
Ill.mo Capo dello Stato Sergio Mattarella
Ill.mo Presidente del Senato
Ill.mo Presidente della Camera
Ill.ma Presidente del Consiglio
In questi giorni e’ in approvazione l’atto della Camera: n.1515 ,
Senato n.674. - "Interventi a sostegno della competitività dei capitali
e delega al Governo per la riforma organica delle disposizioni in
materia di mercati dei capitali recate dal testo unico di cui al decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e delle disposizioni in materia di
società di capitali contenute nel codice civile applicabili anche agli
emittenti" (approvato dal Senato) (1515) .
L’articolo 11 (Svolgimento delle assemblee delle società per azioni
quotate) modificato al Senato, consente, ove sia contemplato nello
statuto, che le assemblee delle società quotate si svolgano
esclusivamente tramite il rappresentante designato dalla società. In
tale ipotesi, non è consentita la presentazione di proposte di
deliberazione in assemblea e il diritto di porre domande è esercitato
unicamente prima dell’assemblea. Per effetto delle modifiche apportate
al Senato, la predetta facoltà statutaria si applica anche alle società
ammesse alla negoziazione su un sistema multilaterale di negoziazione;
inoltre, sempre per effetto delle predette modifiche, sono prorogate al
31 dicembre 2024 le misure previste per lo svolgimento delle assemblee
societarie disposte con riferimento all’emergenza Covid-19 dal
decreto-legge n. 18 del 2020, in particolare per quanto attiene l’uso di
mezzi telematici. L’articolo 11 introduce un nuovo articolo
135-undecies.1 nel TUF – Testo Unico Finanziario (D. Lgs. n. 58 del
1998) il quale consente, ove sia contemplato nello statuto, che le
assemblee delle società quotate si svolgano esclusivamente tramite il
rappresentante pagato e designato dalla società. Le disposizioni in
commento rendono permanente, nelle sue linee essenziali, e a
condizione che lo statuto preveda tale possibilità, quanto previsto
dall’articolo 106, commi 4 e 5 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18,
che ha introdotto specifiche disposizioni sullo svolgimento delle
assemblee societarie ordinarie e straordinarie, allo scopo di
contemperare il diritto degli azionisti alla partecipazione e al voto in
assemblea con le misure di sicurezza imposte in relazione all’epidemia
da COVID-19. Il Governo, nella Relazione illustrativa, fa presente che
la possibilità di continuare a svolgere l’assemblea esclusivamente
tramite il rappresentante designato tiene conto dell’evoluzione, da
tempo in corso, del modello decisionale dei soci, che si articola,
sostanzialmente, in tre momenti: la presentazione da parte del consiglio
di amministrazione delle proposte di delibera dell’assemblea; la messa a
disposizione del pubblico delle relazioni e della documentazione
pertinente; l’espressione del voto del socio sulle proposte del
consiglio di amministrazione. In questo contesto, viene fatta una
affermazione falsa e priva di ogni fondamento giuridico: che
l’assemblea ha perso la sua funzione informativa, di dibattito e di
confronto essenziale al fine della definizione della decisione di voto
da esprimere. Per cui non e’ vero che la partecipazione
all’assemblea si riduca, in particolar modo, per gli investitori
istituzionali e i gestori di attività, nell’esercizio del diritto di
voto in una direzione definita ben prima dell’evento assembleare,
all’esito delle procedure adottate in attuazione della funzione di
stewardship e tenendo conto delle occasioni di incontro diretto,
chiuse ai risparmiatori, con il management della società in
applicazione delle politiche di engagement.
Per cui in questo contesto, si verrebbe ad applicare una norma di
esclusione dal diritto di partecipazione alle assemblee degli azionisti
da parte di chi viene tutelato, anche attraverso il diritto alla
partecipazione alle assemblee dall’art.47 della Costituzione oltre che
dall’art.3 della stessa per una oggettiva differenza di diritti fra
cittadini azionisti privati investitori che non possso piu’ partecipare
alle assemblee e ed azionisti istituzionali che invece godono di
incontri diretti privati e riservati
con il management della società in applicazione delle politiche di
engagement.
Il che crea una palese ed illegittima asimmetria informativa legalizzata
in Italia rispetto al contesto internazionale in cui questo divieto di
partecipazione non sussiste. Anzi gli orientamenti europei vanno da anni
nella direzione opposta che la 6 commissione presieduta dal
sen.Gravaglia volutamente dimostra di voler ignorare.
Viene da chiedersi perche’ la maggioranza ed il Pd abbiano approvato
questo restringimento dei diritti costituzionali ?
Tutto cio’ mentre Elon Musk ha subito una delle più grandi perdite
legali nella storia degli Stati Uniti questa settimana, quando
l'amministratore delegato di Tesla è stato privato del suo pacchetto
retributivo di 56 miliardi di dollari in una causa intentata da Richard
Tornetta che ha fatto causa a Musk nel 2018, quando il residente della
Pennsylvania possedeva solo nove azioni di Tesla. Il caso è arrivato al
processo alla fine del 2022 e martedì un giudice si è schierato con
Tornetta, annullando l'enorme accordo retributivo perché ingiusto nei
suoi confronti e nei confronti di tutti i suoi colleghi azionisti di
Tesla.
La giurisprudenza societaria del Delaware è piena di casi che portano i
nomi di singoli investitori con partecipazioni minuscole che hanno
finito per plasmare il diritto societario americano.
Molti studi legali che rappresentano gli azionisti hanno una scuderia di
investitori con cui possono lavorare per intentare cause, afferma Eric
Talley, che insegna diritto societario alla Columbia Law School.
Potrebbe trattarsi di fondi pensione con un'ampia gamma di
partecipazioni azionarie, ma spesso si tratta anche di individui come
Tornetta.
Il querelante firma i documenti per intentare la causa e poi
generalmente si toglie di mezzo, dice Talley. Gli investitori non pagano
lo studio legale, che accetta il caso su base contingente, come hanno
fatto gli avvocati nel caso Musk.
Tornetta beneficia della vittoria della causa nello stesso modo in cui
ne beneficiano gli altri azionisti di Tesla: risparmiando all'azienda i
miliardi di dollari che un consiglio di amministrazione asservito pagava
a Musk.
Gli esperti hanno detto che persone come Tornetta sono fondamentali per
controllare i consigli di amministrazione. I legislatori e i giudici
desiderano da tempo che siano le grandi società di investimento a
condurre queste controversie aziendali, poiché sono meglio attrezzate
per tenere d'occhio le tattiche dei loro avvocati. Ma gli esperti
hanno detto che i gestori di fondi non vogliono mettere a repentaglio i
rapporti con Wall Street.
Quindi è toccato a Tornetta affrontare Musk.
"Il suo nome è ora impresso negli annali del diritto societario", ha
detto Talley. "I miei studenti leggeranno Tornetta contro Musk per i
prossimi 10 anni". Questa e’ democrazia e trasparenza vera non quella
votata da maggioranza e Pd.
Infatti da 1 anno avevo chiesto di essere udito dal Senato che mi
ignorato nella totale indifferenza della 6 commissione . Mentre lo
sono stati sia il recordman professionale dei rappresentanti pagati
degli azionisti , l’avv.Trevisan , sia altri ispiratori e
sostenitori della modifica normativa proposta. Per cui mi e’ stata
preclusa ogni osservazione non in linea con la proposta della 6
commissione del Senato che ha esaminato ed emendato il provvedimento e
questo viola i principi di indipendenza e trasparenza delle camera e
senato: dov’e’ interesse pubblico a vietare le assemblee agli azionisti
per ragioni pandemiche nel 2024 ?
La prova più consistente che tale articolo non ha alcuna ragione palese
per essere presentato e’ che sono state di fatto rese permanenti le
misure introdotte in via temporanea per l’emergenza Covid-19 In sintesi,
il menzionato articolo 106, commi 4 e 5 - la cui efficacia è stata
prorogata nel tempo e, da ultimo, fino al 31 luglio 2023 dall’articolo
3, comma 1, del decreto-legge 30 dicembre 2021, n. 228 - prevede che le
società quotate possano designare per le assemblee ordinarie o
straordinarie il rappresentante designato, previsto dall'articolo
135-undecies TUF, anche ove lo statuto preveda diversamente; inoltre, la
medesima disposizione consente alle società di prevedere nell’avviso di
convocazione che l’intervento in assemblea si svolga esclusivamente
tramite il rappresentante designato, al quale potevano essere conferite
deleghe o sub-deleghe ai sensi dell’articolo 135-novies del TUF.
L'articolo 135-undecies del TUF dispone che, salvo diversa previsione
statutaria, le società con azioni quotate in mercati regolamentati
designano per ciascuna assemblea un soggetto al quale i soci possono
conferire, entro la fine del secondo giorno di mercato aperto precedente
la data fissata per l'assemblea, anche in convocazione successiva alla
prima, una delega con istruzioni di voto su tutte o alcune delle
proposte all'ordine del giorno. La delega ha effetto per le sole
proposte in relazione alle quali siano conferite istruzioni di voto, è
sempre revocabile (così come le istruzioni di voto) ed è conferita,
senza spese per il socio, mediante la sottoscrizione di un modulo il cui
contenuto è disciplinato dalla Consob con regolamento. Il conferimento
della delega non comporta spese per il socio. Le azioni per le quali è
stata conferita la delega, anche parziale, sono computate ai fini della
regolare costituzione dell'assemblea mentre con specifico riferimento
alle proposte per le quali non siano state conferite istruzioni di voto,
le azioni non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e
della quota di capitale richiesta per l'approvazione delle delibere. Il
soggetto designato e pagato come rappresentante è tenuto a
comunicare eventuali interessi che, per conto proprio o di terzi, abbia
rispetto alle proposte di delibera all’ordine del giorno. Mantiene
altresì la riservatezza sul contenuto delle istruzioni di voto ricevute
fino all'inizio dello scrutinio, salva la possibilità di comunicare tali
informazioni ai propri dipendenti e ausiliari, i quali sono soggetti al
medesimo dovere di riservatezza. In forza della delega contenuta nei
commi 2 e 5 dell'articolo 135-undecies del TUF la Consob ha disciplinato
con regolamento alcuni elementi attuativi della disciplina appena
descritta. In particolare, l'articolo 134 del regolamento Consob n.
11971/1999 ("regolamento emittenti") stabilisce le informazioni minime
da indicare nel modulo e consente al rappresentante che non si trovi in
alcuna delle condizioni di conflitto di interessi previste nell'articolo
135-decies del TUF, ove espressamente autorizzato dal delegante, di
esprimere un voto difforme da quello indicato nelle istruzioni nel caso
si verifichino circostanze di rilievo, ignote all'atto del rilascio
della delega e che non possono essere comunicate al delegante, tali da
ARTICOLO 11 42 far ragionevolmente ritenere che questi, se le avesse
conosciute, avrebbe dato la sua approvazione, ovvero in caso di
modifiche o integrazioni delle proposte di deliberazione sottoposte
all'assemblea. Più in dettaglio, per effetto del comma 4 dell'articolo
106, le società con azioni quotate in mercati regolamentati possono
designare per le assemblee ordinarie o straordinarie il rappresentante
al quale i soci possono conferire deleghe con istruzioni di voto su
tutte o alcune delle proposte all'ordine del giorno, anche ove lo
statuto disponga diversamente. Le medesime società possono altresì
prevedere, nell’avviso di convocazione, che l’intervento in assemblea si
svolga esclusivamente tramite il rappresentante designato, al quale
possono essere conferite anche deleghe o sub-deleghe ai sensi
dell’articolo 135-novies del TUF, che detta le regole generali (e meno
stringenti) applicabili alla rappresentanza in assemblea, in deroga
all’articolo 135-undecies, comma 4, del TUF che, invece, in ragione
della specifica condizione del rappresentante designato dalla società,
esclude la possibilità di potergli conferire deleghe se non nel rispetto
della più rigorosa disciplina prevista dall'articolo 135-undecies
stesso. Per effetto del comma 5, le disposizioni di cui al comma 4 sono
applicabili anche alle società ammesse alla negoziazione su un sistema
multilaterale di negoziazione e alle società con azioni diffuse fra il
pubblico in misura rilevante. Le disposizioni in materia di assemblea
introdotte dalle norme in esame non sono state approvate dal M5S il cui
presidente , avv.Conte, aveva introdotto tali norme esclusivamente per
il periodo Covid. Per cui l’articolo 11 in esame, come anticipato,
introduce un nuovo articolo 135- undecies.1 nel Testo Unico Finanziario,
ai sensi del quale (comma 1) lo statuto di una società quotata può
prevedere che l’intervento in assemblea e l’esercizio del diritto di
voto avvengano esclusivamente tramite il rappresentante designato dalla
società, ai sensi del già illustrato supra articolo 135-undecies. A tale
rappresentante possono essere conferite anche deleghe o sub-deleghe ai
sensi dell'articolo 135-novies, in deroga all'articolo 135-undecies,
comma 4. La relativa vigilanza è esercitata, secondo le competenze,
dalla Consob (articolo 62, comma 3 TUF e regolamenti attuativi) o
dall’Autorità europea dei mercati finanziari – ESMA.
L’ESMA non e’ stata mai sentita dal sen.Gravaglia su questo articolo
mentre la Consob ha espresso parere contrario che sempre lo stesso ha
ignorato.
Ma i soprusi non finiscono qui : il comma 3 del nuovo articolo
135-undecies.1 chiarisce che, nel caso previsto dalle norme in esame. il
diritto di porre domande (di cui all’articolo 127-ter del TUF) è
esercitato unicamente prima dell’assemblea. La società fornisce almeno
tre giorni prima dell’assemblea le risposte alle domande pervenute. In
sintesi, ai sensi dell’articolo 127-ter, coloro ai quali spetta il
diritto di voto possono porre domande sulle materie all'ordine del
giorno anche prima dell'assemblea. Alle domande pervenute prima
dell'assemblea è data risposta al più tardi durante la stessa. La
società può fornire una risposta unitaria alle domande aventi lo stesso
contenuto. L’avviso di convocazione indica il termine entro il quale le
domande poste prima dell'assemblea devono pervenire alla società. Non è
dovuta una risposta, neppure in assemblea, alle domande poste prima
della stessa, quando le informazioni richieste s
iano già disponibili in formato "domanda e risposta" nella sezione del
sito Internet della società ovvero quando la risposta sia stata
pubblicatma 7, del TUF relativo allo svolgimento delle assemblee di
società ed enti. Per effetto delle norme introdotte, al di là delle
disposizioni contenute nell’articolo in esame che vengono rese
permanenti (v. supra), sono prorogate al 31 dicembre 2024 tutte le altre
misure in materia di svolgimento delle assemblee societarie – dunque non
solo quelle relative alle società quotate – previste nel corso
dell’emergenza Covid-19. Questo che e’ un capolavoro di capziosità di
un emendamento della sen.Cristina Tajani PD , ricercatrice e docente
universitaria, di indifferenziazione parlamentare negli obiettivi
: dal momento che le misure previste dall’art.11 in oggetto prevedono
per essere applicabili il loro recepimento statutario, lo stesso viene
ottenuto nel 2024 per ragioni di Covid, con il rappresentante pagato ,
che ovviamente non porrà alcuna opposizione neppure verbale.
Illustri Presidenti se questa non e’ una negazione degli art.47 e 3
della Costituzione, contro la democrazia e trasparenza societaria
, cos’e ?
Al termine di questa mia riflessione vorrei capire se in questo nostro
paese esiste ancora uno spazio di rispettosa discussione democratica o
di tutela giuridica nei confronti di una decisione arbitraria di una
classe dirigente qui’ palesemente opaca.
Confido in una vs risposta costruttiva di rispetto della libertà
progressista di un paese evoluto ma stabile e garante nei diritti delle
minoranze . Anche perché quello che ho anticipato con Edoardo Agnelli
sul futuro della Fiat dal 1998 in poi si e’ tristemente avverato, e solo
oggi, forse, e’ diventato di coscienza comune , anche se a me e’
costato pesanti ritorsioni personali da parte degli organi di polizia e
giustizia torinese e della Facolta’ di Economia Commercio di Torino . Ed
ad Edoardo Agnelli la morte. Non e’ impedendomi di partecipare alle
assemblee che Fiat & C ritorneranno in Italia, perché nel frattempo non
esistono più a causa anche di chi a Torino e Roma gli ha concesso di
fare tutto quello che di insensato hanno fatto dal 1998 in poi anche
contro se stessi oltre che i suoi lavoratori ed azionisti, calpestando
brutalmente chi osava denunciarlo pubblicamente nel tentativo,
silenziato, di fermare la distruzione di un orgoglio e una risorsa
nazionale. Giugiaro racconta che quando la Volkswagen gli chiese di fare
la Golf gli presento’ la Fiat 128 come esempio inarrivabile. Oggi
Tavares si presenta in Italia come il nuovo Napoleone , legittimato da
Yaky e scortato dalla DIGOS per difenderlo da Marco BAVA che vorrebbe
solo documentargli che l’industria automobilistica italiana ha una
storia che gli errori di 3 persone non debbono poter cancellare. Anche
se la storia finora ha premiato chi ha consentito il restringimento dei
diritti in questo paese la frana del futuro travolgerà tutti.
Basta chiederlo a Montezemolo che tutto questo lo sa e lo ha vissuto
direttamente.
UNA
ATTUALIZZAZIONE DEL:
DISCORSO DEL 30.05.1924
Giacomo Matteotti
Matteotti: «Onorevoli colleghi, se voi volete contrapporci altre
elezioni, ebbene io domando la testimonianza di un uomo che siede al
banco del Governo, se nessuno possa dichiarare che ci sia stato un solo
avversario che non abbia potuto parlare in contraddittorio con me nel
1919».
Voci: «Non è vero! Non è vero! » .
Finzi, sottosegretario di Stato per l'interno: «Michele Bianchi! Proprio
lei ha impedito di parlare a Michele Bianchi! » .
Matteotti: «Lei dice il falso! (Interruzioni, rumori) Il fatto è
semplicemente questo, che l'onorevole Michele Bianchi con altri teneva
un comizio a Badia Polesine. Alla fine del comizio che essi tennero,
sono arrivato io e ho domandato la parola in contraddittorio. Essi
rifiutarono e se ne andarono e io rimasi a parlare. (Rumori,
interruzioni)».
Finzi: «Non è così! » .
Matteotti: «Porterò i giornali vostri che lo attestano».
Finzi: «Lo domandi all'onorevole Merlin che è più vicino a lei!
L'onorevole Merlin cristianamente deporrà».
Matteotti: «L'on. Merlin ha avuto numerosi contraddittori con me, e
nessuno fu impedito e stroncato. Ma lasciamo stare il passato. Non
dovevate voi essere i rinnovatori del costume italiano? Non dovevate voi
essere coloro che avrebbero portato un nuovo costume morale nelle
elezioni? (Rumori) e, signori che mi interrompete, anche qui
nell'assemblea? (Rumori a destra)».
Teruzzi: «È ora di finirla con queste falsità».
Matteotti: «L'inizio della campagna elettorale del 1924 avvenne dunque a
Genova, con una conferenza privata e per inviti da parte dell'onorevole
Gonzales. Orbene, prima ancora che si iniziasse la conferenza, i
fascisti invasero la sala e a furia di bastonate impedirono all'oratore
di aprire nemmeno la bocca. (Rumori, interruzioni, apostrofi)».
Una voce "Non è vero, non fu impedito niente (Rumori)".
Matteotti: «Allora rettifico! Se l'onorevole Gonzales dovette passare 8
giorni a letto, vuol dire che si è ferito da solo, non fu bastonato.
(Rumori, interruzioni) L'onorevole Gonzales, che è uno studioso di San
Francesco, si è forse autoflagellato! (Si ride. Interruzioni) A Napoli
doveva parlare... (Rumori vivissimi, scambio di apostrofi fra alcuni
deputati che siedono all'estrema sinistra)».
Presidente: «Onorevoli colleghi, io deploro quello che accade. Prendano
posto e non turbino la discussione! Onorevole Matteotti, prosegua, sia
breve, e concluda».
Matteotti: «L'Assemblea deve tenere conto che io debbo parlare per
improvvisazione, e che mi limito...».
Voci: «Si vede che improvvisa! E dice che porta dei fatti! » .
Gonzales: «I fatti non sono improvvisati! » .
Matteotti: «Mi limito, dico, alla nuda e cruda esposizione di alcuni
fatti. Ma se per tale forma di esposizione domando il compatimento
dell'Assemblea... (Rumori) non comprendo come i fatti senza aggettivi e
senza ingiurie possano sollevare urla e rumori. Dicevo dunque che ai
candidati non fu lasciata nessuna libertà di esporre liberamente il loro
pensiero in contraddittorio con quello del Governo fascista e accennavo
al fatto dell'onorevole Gonzales, accennavo al fatto dell'onorevole
Bentini a Napoli, alla conferenza che doveva tenere il capo
dell'opposizione costituzionale, l'onorevole Amendola, e che fu
impedita... (Oh, oh! – Rumori)».
Voci da destra: «Ma che costituzionale! Sovversivo come voi! Siete
d'accordo tutti! » .
Matteotti: «Vuol dire dunque che il termine "sovversivo" ha molta
elasticità! » .
Greco: «Chiedo di parlare sulle affermazioni dell'onorevole Matteotti».
Matteotti: «L'onorevole Amendola fu impedito di tenere la sua
conferenza, per la mobilitazione, documentata, da parte di comandanti di
corpi armati, i quali intervennero in città.. .».
Presutti: «Dica bande armate, non corpi armati! » .
Matteotti: «Bande armate, le quali impedirono la pubblica e libera
conferenza. (Rumori) Del resto, noi ci siamo trovati in queste
condizioni: su 100 dei nostri candidati, circa 60 non potevano circolare
liberamente nella loro circoscrizione!» .
Voci di destra: «Per paura! Per paura! (Rumori – Commenti)».
Farinacci: «Vi abbiamo invitati telegraficamente! » .
Matteotti: «Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio
come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche
dell'avversario, che è al Governo e dispone di tutte le forze armate!
(Rumori) Che non fosse paura, poi, lo dimostra il fatto che, per un
contraddittorio, noi chiedemmo che ad esso solo gli avversari fossero
presenti, e nessuno dei nostri; perché, altrimenti, voi sapete come è
vostro costume dire che "qualcuno di noi ha provocato" e come "in
seguito a provocazioni" i fascisti "dovettero" legittimamente ritorcere
l'offesa, picchiando su tutta la linea! (Interruzioni)».
Voci da destra: «L'avete studiato bene! » .
Pedrazzi: «Come siete pratici di queste cose, voi! » .
Presidente: «Onorevole Pedrazzi! » .
Matteotti: «Comunque, ripeto, i candidati erano nella impossibilità di
circolare nelle loro circoscrizioni! » .
Voci a destra: «Avevano paura! » .
Turati Filippo: «Paura! Sì, paura! Come nella Sila, quando c'erano i
briganti, avevano paura (Vivi rumori a destra, approvazioni a
sinistra)».
Una voce: «Lei ha tenuto il contraddittorio con me ed è stato
rispettato».
Turati Filippo: «Ho avuto la vostra protezione a mia vergogna! (Applausi
a sinistra, rumori a destra)».
Presidente: «Concluda, onorevole Matteotti. Non provochi incidenti! » .
Matteotti: «Io protesto! Se ella crede che non gli altri mi impediscano
di parlare, ma che sia io a provocare incidenti, mi seggo e non parlo! »
(Approvazioni a sinistra – Rumori prolungati)
Presidente: «Ha finito? Allora ha facoltà di parlare l'onorevole
Rossi...».
Matteotti: «Ma che maniera è questa! Lei deve tutelare il mio diritto di
parlare! lo non ho offeso nessuno! Riferisco soltanto dei fatti. Ho
diritto di essere rispettato! (Rumori prolungati, Conversazioni)».
Casertano, presidente della Giunta delle elezioni: «Chiedo di parlare».
Presidente: «Ha facoltà di parlare l'onorevole presidente della Giunta
delle elezioni. C'è una proposta di rinvio degli atti alla Giunta».
Matteotti: «Onorevole Presidente! . ..».
Presidente: «Onorevole Matteotti, se ella vuoi parlare, ha facoltà di
continuare, ma prudentemente».
Matteotti: «Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente,
ma parlamentarmente! » .
Presidente: «Parli, parli».
Matteotti: «I candidati non avevano libera circolazione... (Rumori.
Interruzioni)».
Presidente: «Facciano silenzio! Lascino parlare! » .
Matteotti: «Non solo non potevano circolare, ma molti di essi non
potevano neppure risiedere nelle loro stesse abitazioni, nelle loro
stesse città. Alcuno, che rimase al suo posto, ne vide poco dopo le
conseguenze. Molti non accettarono la candidatura, perché sapevano che
accettare la candidatura voleva dire non aver più lavoro l'indomani o
dover abbandonare il proprio paese ed emigrare all'estero (Commenti)».
Una voce "Erano disoccupati! ".
Matteotti: «No, lavorano tutti, e solo non lavorano, quando voi li
boicottate».
Voci da destra: «E quando li boicottate voi? » .
Farinacci: «Lasciatelo parlare! Fate il loro giuoco! » .
Matteotti: «Uno dei candidati, l'onorevole Piccinini, al quale mando a
nome del mio gruppo un saluto... (Rumori)».
Voci: «E Berta? Berta!».
Matteotti: «Conobbe cosa voleva dire obbedire alla consegna del proprio
partito. Fu assassinato nella sua casa, per avere accettata la
candidatura nonostante prevedesse quale sarebbe – stato per essere il
destino suo all'indomani. (Rumori) Ma i candidati – voi avete ragione di
urlarmi, onorevoli colleghi – i candidati devono sopportare la sorte
della battaglia e devono prendere tutto quello che è nella lotta che
oggi imperversa. lo accenno soltanto, non per domandare nulla, ma perché
anche questo è un fatto concorrente a dimostrare come si sono svolte le
elezioni. (Approvazioni all'estrema sinistra) Un'altra delle garanzie
più importanti per lo svolgimento di una libera elezione era quella
della presenza e del controllo dei rappresentanti di ciascuna lista, in
ciascun seggio. Voi sapete che, nella massima parte dei casi, sia per
disposizione di legge, sia per interferenze di autorità, i seggi – anche
in seguito a tutti gli scioglimenti di Consigli comunali imposti dal
Governo e dal partito dominante – risultarono composti quasi totalmente
di aderenti al partito dominante. Quindi l'unica garanzia possibile,
l'ultima garanzia esistente per le minoranze, era quella della presenza
del rappresentante di lista al seggio. Orbene, essa venne a mancare.
Infatti, nel 90 per cento, e credo in qualche regione fino al 100 per
cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della
lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno
in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze
che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il
seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e
constatati i risultati. Per constatare il fatto, non occorre nuovo
reclamo e documento. Basta che la Giunta delle elezioni esamini i
verbali di tutte le circoscrizioni, e controlli i registri. Quasi
dappertutto le operazioni si sono svolte fuori della presenza di alcun
rappresentante di lista. Veniva così a mancare l'unico controllo,
l'unica garanzia, sopra la quale si può dire se le elezioni si sono
svolte nelle dovute forme e colla dovuta legalità. Noi possiamo
riconoscere che, in alcuni luoghi, in alcune poche città e in qualche
provincia, il giorno delle elezioni vi è stata una certa libertà. Ma
questa concessione limitata della libertà nello spazio e nel tempo – e
l'onorevole Farinacci, che è molto aperto, me lo potrebbe ammettere – fu
data ad uno scopo evidente: dimostrare, nei centri più controllati
dall'opinione pubblica e in quei luoghi nei quali una più densa
popolazione avrebbe reagito alla violenza con una evidente astensione
controllabile da parte di tutti, che una certa libertà c'è stata. Ma,
strana coincidenza, proprio in quei luoghi dove fu concessa a scopo
dimostrativo quella libertà, le minoranze raccolsero una tale abbondanza
di suffragi, da superare la maggioranza – con questa conseguenza però,
che la violenza, che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo
le elezioni. E noi ricordiamo quello che è avvenuto specialmente nel
Milanese e nel Genovesato ed in parecchi altri luoghi, dove le elezioni
diedero risultati soddisfacenti in confronto alla lista fascista. Si
ebbero distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle
persone. Distruzioni che hanno portato milioni di danni».
Una voce a destra: «Ricordatevi delle devastazioni dei comunisti! » .
Matteotti: «Onorevoli colleghi, ad un comunista potrebbe essere lecito,
secondo voi, di distruggere la ricchezza nazionale, ma non ai
nazionalisti, né ai fascisti come vi vantate voi! Si sono avuti, dicevo,
danni per parecchi milioni, tanto che persino un alto personaggio, che
ha residenza in Roma, ha dovuto accorgersene, mandando la sua adeguata
protesta e il soccorso economico. In che modo si votava? La votazione
avvenne in tre maniere: l'Italia è una, ma ha ancora diversi costumi.
Nella valle del Po, in Toscana e in altre regioni che furono citate
all'ordine del giorno dal presidente del Consiglio per l'atto di fedeltà
che diedero al Governo fascista, e nelle quali i contadini erano stati
prima organizzati dal partito socialista, o dal partito popolare, gli
elettori votavano sotto controllo del partito fascista con la "regola
del tre". Ciò fu dichiarato e apertamente insegnato persino da un
prefetto, dal prefetto di Bologna: i fascisti consegnavano agli elettori
un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi
(Interruzioni), variamente alternati in maniera che tutte le
combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno,
potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto.
In moltissime provincie, a cominciare dalla mia, dalla provincia di
Rovigo, questo metodo risultò eccellente».
Finzi: «Evidentemente lei non c'era! Questo metodo non fu usato! » .
Matteotti: «Onorevole Finzi, sono lieto che, con la sua negazione, ella
venga implicitamente a deplorare il metodo che è stato usato».
Finzi: «Lo provi».
Matteotti: «In queste regioni tutti gli elettori».
Ciarlantini: «Lei ha un trattato, perché non lo pubblica? » .
Matteotti: «Lo pubblicherò, quando mi si assicurerà che le tipografie
del Regno sono indipendenti e sicure (Vivissimi rumori al centro e a
destra); perché, come tutti sanno, anche durante le elezioni, i nostri
opuscoli furono sequestrati, i giornali invasi, le tipografie devastate
o diffidate di pubblicare le nostre cose. Nella massima parte dei casi
però non vi fu bisogno delle sanzioni, perché i poveri contadini
sapevano inutile ogni resistenza e dovevano subire la legge del più
forte, la legge del padrone, votando, per tranquillità della famiglia,
la terna assegnata a ciascuno dal dirigente locale del Sindacato
fascista o dal fascio (Vivi rumori interruzioni)».
Suardo: «L'onorevole Matteotti non insulta me rappresentante: insulta il
popolo italiano ed io, per la mia dignità, esco dall'Aula. (Rumori –
Commenti) La mia città in ginocchio ha inneggiato al Duce Mussolini,
sfido l'onorevole Matteotti a provare le sue affermazioni. Per la mia
dignità di soldato, abbandono quest'Aula. (Applausi, commenti)».
Teruzzi: «L'onorevole Suardo è medaglia d'oro! Si vergogni, on.
Matteotti». (Rumori all'estrema sinistra).
Presidente: «Facciano silenzio! Onorevole Matteotti, concluda! » .
Matteotti: «lo posso documentare e far nomi. In altri luoghi invece
furono incettati i certificati elettorali, metodo che in realtà era
stato usato in qualche piccola circoscrizione anche nell'Italia
prefascista, ma che dall'Italia fascista ha avuto l'onore di essere
esteso a larghissime zone del meridionale; incetta di certificati, per
la quale, essendosi determinata una larga astensione degli elettori che
non si ritenevano liberi di esprimere il loro pensiero, i certificati
furono raccolti e affidati a gruppi di individui, i quali si recavano
alle sezioni elettorali per votare con diverso nome, fino al punto che
certuni votarono dieci o venti volte e che giovani di venti anni si
presentarono ai seggi e votarono a nome di qualcheduno che aveva
compiuto i 60 anni. (Commenti) Si trovarono solo in qualche seggio
pochi, ma autorevoli magistrati, che, avendo rilevato il fatto,
riuscirono ad impedirlo».
Torre Edoardo: «Basta, la finisca! (Rumori, commenti). Che cosa stiamo a
fare qui? Dobbiamo tollerare che ci insulti? (Rumori – Alcuni deputati
scendono nell'emiciclo). Per voi ci vuole il domicilio coatto e non il
Parlamento! (Commenti – Rumori)».
Voci: «Vada in Russia! »
Presidente: «Facciano silenzio! E lei, onorevole Matteotti, concluda! »
.
Matteotti: «Coloro che ebbero la ventura di votare e di raggiungere le
cabine, ebbero, dentro le cabine, in moltissimi Comuni, specialmente
della campagna, la visita di coloro che erano incaricati di controllare
i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e
verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare
che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla
stessa mano, così come altri voti di lista furono cancellati, o
addirittura letti al contrario. Non voglio dilungarmi a descrivere i
molti altri sistemi impiegati per impedire la libera espressione della
volontà popolare. Il fatto è che solo una piccola minoranza di cittadini
ha potuto esprimere liberamente il suo voto: il più delle volte, quasi
esclusivamente coloro che non potevano essere sospettati di essere
socialisti. I nostri furono impediti dalla violenza; mentre riuscirono
più facilmente a votare per noi persone nuove e indipendenti, le quali,
non essendo credute socialiste, si sono sottratte al controllo e hanno
esercitato il loro diritto liberamente. A queste nuove forze che
manifestano la reazione della nuova Italia contro l'oppressione del
nuovo regime, noi mandiamo il nostro ringraziamento. (Applausi
all'estrema sinistra. Rumori dalle altre parti della Camera). Per tutte
queste ragioni, e per le altre che di fronte alle vostre rumorose
sollecitazioni rinunzio a svolgere, ma che voi ben conoscete perché
ciascuno di voi ne è stato testimonio per lo meno (Rumori)... per queste
ragioni noi domandiamo l'annullamento in blocco della elezione di
maggioranza. Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l'autorità
dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti
voi sì, veramente, rovinate quella che è l'intima essenza, la ragione
morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione
divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la
licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere
errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha
dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. (Interruzioni a
destra) Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il
nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato
con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi,
anche con l'opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi
difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il
più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il
rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle
elezioni».
Terminato così il suo intervento, Matteotti dice ai suoi compagni di
partito: «Io, il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso
funebre per me». —
Ho visto il suo ottimo servizio ben documentato e non di parte .
La storia della targa della Ferrari Testarossa grigia
cabrio di GA che stava nel garage di Frescot entrando sulla
destra e' che io come azionista Ifi l'avevo trovata nelle
immobilizzazioni, chiesi a GA che ci stava a fare e lui la fece
reimatricolare a suo nome con quella targa. Non la usava perche'
mi disse che la trovava scomoda e preferiva le Fiat. L'uso'
Giovanni Alberto Agnelli che ebbe un'incidente sulla
Torino-Milano. Così mi disse Edoardo a cui il padre non la fece
mai guidare. Edoardo aveva le Ferrari in uso direttamente
da Enzo Ferrari.
Chi sta chiudendo la Marelli e' KKR che vorrebbe comprare
la rete Tim pagandola 6 volte il suo valore come Enimont quando
fu venduta da Gardini ad Eni.
A Carlo De Benedetti avevo proposto di acquisire la Fiat prima
che arrivasse Marchionne, mi ha riso al TELEFONO.
Bianca Carretto forse dimentica che prima della Peugeot la Fiat
fu offerta da Jaky a Renault a cui l'ho fatta saltare grazie a
Nissan. Infatti poi i rapporti fra Nissan e Renault sono
cambiati.
Poi Peugeot ha pagato la Fiat 2,9 miliardi rispetto ai 5
richiesti perché non c'era nessuno che volesse comprare FIAT.
Non e' vero che Marchionne ha saputo gestire la Fiat. Non capiva
nulla di auto. Infatti non ha investito su LANCIA , come invece
sta facendo Tavares. Maserati in 5 anni non poteva fare
concorrenza a Porsche che investe da 50 anni !
Marchionne non ha mai saputo scegliere un 'auto nelle
presentazioni, chiedeva di farlo a chi lo avrebbe dovuto
assistere !
La chimera del progetto fabbrica italiana ve la siete
dimenticata tutti ?
Come le condanne per atteggiamento antisindacale a cui è stato
condannato piu' volte Marchionne ?
Come De Benedetti non ne capisce nulla di computer visto che
aveva il padre del Surface con Quaderno e ne' lui ne' Passera lo
hanno capito.
Infatti il progetto della 500 elettrica e' sbagliato e voluto da
Marchionne e realizzato da Jaky investendo tanti soldi .
Proposte d'investimento agli Agnelli e De Benedetti vengono
fatte da sempre da chi guadagna le commissioni, per cui quello
che fa Jaky lo facevano anche Gabetti ed altri a NY con IFINT.
Inoltre i rapporti diretti internazionali sono tantissimo. Io in
un we a Garavicchio a casa di Carlo Caracciolo mi sono trovato
in piscina ed a tavola con il marito di Margherita, Giovanni
Alberto, Edoardo e Carlo Caracciolo che mi ha chiesto come
poteva difendersi da Carlo De Bebedetti. Io gli suggerii di
entrare in Cofide e lui lo fece. 3 mesi dopo GA, dandomi il 5,
mi soprannominò in pubblico Mark Spitz, per comunicarmi che
sapeva tutto .
Il patrimonio di Gianni Agnelli io lo stimo in 100 miliardi ,
con dei parametri approvati da Grande Stevens, per cui a
MARGHERITA hanno dato l'1%.
Il patrimonio di G.A lo gestivano Gabetti e Bormida.
Margherita e' come sua madre , prende tempo per allargarsi .
Edoardo no infatti e' stato ucciso perche' non voleva rinunciare
ai suoi diritto ereditari sulla Dicembre, a cui il Pm di
Mondovi, Bausone non credeva , quando glielo dissi 2 giorni dopo
l'omicidio di Edoardo.
L'ex Bertone finirà come Termoli.
IL RESTO glielo allego come anticipazione di un libro che forse
uscira'.
La proposta del Marocco e' stata fatta ai fornitori gia' a
Torino all'Hotel Ambasciatori nelle stesse ore in cui a 200
metri all'Hotel Concorde c'era il ministro Pichetto, a cui l'ho
detto senza ricevere alcuna risposta, come per la mia proposta
del progetto dell'H2 per autotrazione che rilancerebbe l'intera
economia nazionale, produzione auto compresa che allego.
Tenete conto che dietro ogni persona c'e' un uomo nero, quello
di Jaky per me e' a voi noto :Griva.
Resto a Sua disposizione per ogni chiarimento e documentazione,
Buon lavoro.
Marco BAVA
"L'Avvocato voleva
adottare John Il controllo della Dicembre non cambia"
Jennifer Clark
"
Il libro
Così su La Stampa
Un rapporto difficile, quello dei tre fratelli Elkann con la
madre Margherita, un problema «nato ben prima che lo scontro
arrivasse nelle aule dei tribunali». Jennifer Clark,
giornalista, già caporedattrice per l'Italia di Dow Jones dopo
le esperienze a Bloomberg e Reuters, ha seguito per anni le
vicende degli Agnelli. Recentemente ha pubblicato per Solferino
"L'ultima dinastia" sulla loro saga famigliare.
Clark, in una intervista ad Avvenire John Elkann parla per la
prima volta di "un clima di violenza fisica e psicologica"
subìto da lui e dagli altri due fratelli Elkann da parte della
madre. Da dove nasce, secondo lei, quella tensione?
«Per scrivere il libro ho parlato a lungo con gli esponenti
della famiglia, a partire da John. Il problema dei figli Elkann
con la madre viene da lontano perché, in un certo senso, è la
conseguenza dei problemi di Margherita ed Edoardo con i
genitori, in particolare con il padre, l'Avvocato».
Lei scrive che Gianni Agnelli era un padre poco affettuoso. Che
rapporto c'è tra questo e lo scontro di Margherita con i tre
figli Elkann?
«Lo squilibrio diviene palese quando Margherita divorzia da
Alain Elkann e si risposa con Serge de Phalen. Due mondi quasi
opposti: dallo scrittore parigino bohemien al nobile russo che
sogna il ritorno della grande Russia dei Romanov. Margherita si
converte alla religione ortodossa. Inizia a dipingere icone. E
vorrebbe che diventassero ortodossi anche John, Lapo e Ginevra.
Li costringe a dire le preghiere e a partecipare ai campi estivi
dei nostalgici zaristi in Francia che ogni mattina li fanno
assistere all'alza bandiera con lo stendardo imperiale
dell'aquila a due teste. I figli del secondo matrimonio sono
russi a tutti gli effetti e vivono a loro agio in quel mondo. I
figli Elkann no. A questo punto intervengono i nonni».
In che modo?
«Chiamando sempre più spesso i tre nipoti a trascorrere lunghi
periodi con loro. Per sottrarli a quel mondo estraneo. Per
questo John dice oggi che è stata decisiva per lui e i fratelli
la protezione dei nonni. Ma questo ha finito per rendere i
rapporti tra Margherita e i suoi genitori ancora più difficili».
Il nonno aveva dato ai nipoti l'affetto che era mancato alla
figlia come se l'affettività avesse saltato una generazione?
«Esattamente. Il rapporto tra i nipoti e il nonno è diventato
sempre più stretto al punto che un giorno l'Avvocato accarezzò
l'idea di adottare John. Come si sa poi non se ne fece nulla».
Se i rapporti erano tanto tesi perché allora, alla morte
dell'Avvocato, Margherita accettò di rinunciare alle quote della
Dicembre in cambio di denaro?
«Lei ha sempre sostenuto di averlo fatto nel tentativo di
riportare la pace in famiglia. È anche vero che conosceva l'atto
notarile con cui l'Avvocato, fin dal 1999, consegnava a John la
gestione della Dicembre e quindi deve avere pensato che, persa
la partita per il potere, tanto valeva giocarsi quella del
denaro. Del resto, quell'atto del '99 era stato firmato da tutti
i familiari, anche da lei».
NON E' VERO :
EDOARDO NON LO HA MAI FIRMATO. PER QUESTO LO HANNO UCCISO. Mb
Lei ha poi tentato, e lo sta facendo ancora oggi, di rimettere
in discussione quella scelta…
«Certo e questo è uno dei nodi delle cause legali. Ma la scelta
di non partecipare alla Dicembre ha finito per isolare ancora di
più Margherita. Si diceva che avesse confidato a Lupo Rattazzi
le sue perplessità su futuro della Fiat: "Rischia di fare la
fine della Parmalat". Erano gli anni in cui il fallimento della
Parmalat aveva fatto molto rumore. Come se lei avesse scelto di
scendere dalla nave nel momento di massima difficoltà
dell'azienda. Già nel 2004, al matrimonio di John e Lavinia, la
presenza di Margherita era stata incerta fino all'ultimo».
Da allora in poi la frattura si è andata allargando. Le
battaglie in tribunale contro la madre Marella e ora contro i
figli Elkann hanno aggravato la situazione. Quali conseguenze
potranno avere secondo lei?
«Dal punto di vista della governance della Dicembre, la società
che controlla la Giovanni Agnelli e, per il tramite di questa,
Exor non credo che ci potranno essere conseguenze. L'atto
notarile del 1999 non lascia scampo. Diverso è il discorso se
passiamo dalla governance alle quote. È in teoria possibile che,
se venisse accolta la tesi dei legali di Margherita, si
riconosca il diritto della figlia di Gianni Agnelli ad avere la
sua quota di legittima e dunque un pacchetto di azioni della
Dicembre. Ma non credo proprio che questo impedirebbe a John di
governare come fa oggi».
Si perché
perderebbe il controllo in quanto il 75% passerebbe a Margherita
ed il 25% Jaky 20% . Mb
TAVARES E JAKY NEL 23
Un compenso da 36,5 milioni è adeguato per il
ceo di una società capace di generare 18,6 miliardi di profitti e di
versare ai soci quasi 8 miliardi? Per i proxy advisor […] no. In vista
dell’assemblea del 16 aprile, […] Glass Lewis e Iss hanno raccomandato
agli azionisti di Stellantis di votare contro gli stipendi percepiti […]
dai manager del gruppo.
A loro giudizio, la paga del ceo Carlos Tavares è «eccessiva»: vale 518
volte il salario medio dei dipendenti di Stellantis che, intanto, sta
attuando massicci piani di esuberi […].
[…] Iss ha criticato anche il benefit da 430 mila euro accordato al
presidente John Elkann che ha potuto utilizzare l’aereo aziendale per
scopi personali. I suggerimenti dei proxy sono di norma accolti dai
fondi internazionali. Se al loro si aggiungesse il «no» del governo
francese, socio di Stellantis al 9,9%, la relazione sui compensi
potrebbe incorrere in una sfiducia. Dal valore consultivo, è vero; ma
fortemente simbolico.
IL 10.12.23 PROGRAMMA TELEVISIVO SU
L'OMICIDIO DI EDOARDO AGNELLI SU PIAZZA LIBERTA', il
programma di informazione condotto da Armando Manocchia, su
BYOBLU CANALE 262 DT CANALE
IL GRANDE AMICO DI EDOARDO CON CUI FECE
VIAGGI ERA LUCA GAETANI
EA NON FECE MAI NESSUNA CESSIONE DEI
SUOI DIRITTI EREDITARI
NE' EBBE ALCUN DISSIDIO CON GIOVANNI
ALBERTO AGNELLI, DA CUI SOGGIORNAVA ANDANDO E TORNANDO DA
GARAVICCHIO.
INFATTI QUANDO CI FU L'EPISODIO DEL
KENIA FU GIOVANNI ALBERTO AGNELLI AD ANDARLO A TROVARE.
I LEGAMI CON LA SORELLA MARGHERITA NON
EERANO STRETTI COME QUELLI CON I CUGINI LUPO RATTAZZI ED EDUARDO
TEODORANI FABBRI. INFATTI NON ESISTONO LETTERE FRA EDOARDO E
MARGHERITA .
DEL CAMBIO DELLA SUCCESSIONE DA GIOVANNI
ALBERTO A JAKY EA LO HA SAPUTO DALLA MADRE CHE NE HA CONVITO GIANNI
PER NON PERDERE I PRIVILEGI DELLA PRESIDENZA FIAT,
L'INTERVISTA AL MANIFESTO FU PROPOSTA DA
UN GIORNALISTA DI REPUBBLICA PERCHE' LUI L'AVREBBE VOLUTA FARE MA
NON GLIELO PERMETTEVANO.
NON CI SONO PROVE CHE EA FOSSE DEPRESSO,
LA PATENTE DI EA LA TENEVA LA SCORTA E
NON ERA SUL CRUSCOTTO MA NEL CASSETTO DELLA CROMA EX DELL'AVVOCATO
CON MOTORE VOLVO E CAMBIO AUTOMATICO, NON BLINDATA.
LE INDAGINI SULL'OMICIDIO DI EA SONO
TUTT'ORA APERTE PRESSO LA PROCURA DI CUNEO.
GRIVA QUANDO ENTRA IN SCENA ?
L’IMPERO DI FAMIGLIA: ECCO PERCHÉ ADESSO
RISCHIA DI CROLLARE TUTTO
Estratto dell’articolo di Ettore Boffano per “il Fatto quotidiano”
È l’attacco al cuore di un mito: quello degli Agnelli. E a pagarne le
conseguenze più dure potrebbe essere lui, l’erede che non porta più quel
cognome, John Elkann.
A rischio di veder messo in ballo il ruolo che suo nonno gli aveva
assegnato: la guida dei tesori di famiglia. Tutto passa per la Svizzera,
dove Marella Caracciolo, vedova dell’avvocato, ha sempre dichiarato di
avere la residenza sin dagli anni 70.
E con la cui legge successoria ha poi regolato i conti con la figlia:
per escludere Margherita dalla propria eredità e, soprattutto,
permettere al nipote di diventare il nuovo capo della dinastia.
[…] quella residenza […] ora piomba nell’inchiesta per frode fiscale
della Procura di Torino. E i pm hanno poteri di accertamento rapidi e
quasi immediati […]. Vediamo, punto per punto, che cosa c’è e che cosa
indica quel documento e come potrebbe segnare i clamorosi sviluppi delle
indagini.
1) La residenza svizzera. È decisiva: per stabilire se sono validi sia
l’accordo e il patto firmati da Marella con la figlia a Ginevra nel
2004, sulla successione dell’avvocato e sulla sua, sia il testamento e
le due aggiunte con i quali ha indicato come eredi i nipoti John, Lapo e
Ginevra.
E infine per accertare la possibile evasione fiscale sul suo patrimonio.
Trevisan spiega che la vedova dell’avvocato, dal 2003 sino alla morte
nel 2019, non ha mai vissuto in Svizzera i 180 giorni all’anno necessari
per poter mantenere quel diritto. “Ha trascorso ogni anno, in media,
oltre 189 giorni in Italia, 94 in Marocco e solo circa 68 in Svizzera”.
Se tutto saltasse, Margherita tornerebbe in campo nel controllo
dell’impero Agnelli.
2) Gli “espedienti” sulla residenza. Il legale indica anche le presunte
mosse per mascherare la permanenza di Marella in Italia. […] “Occorreva
non far risultare intestate a Marella Caracciolo le utenze degli
immobili in Italia e i relativi rapporti di lavoro... Un appunto del
commercialista Gianluca Ferrero suggeriva che non fossero a lei
riconducibili né dipendenti né animali, facendo risultare che i
domestici fossero alle dipendenze di Elkann […]”.
3) Il personale delle ville. La ricostruzione di Trevisan […]
sembrerebbe confermare i “consigli” di Ferrero. I magistrati […] stanno
[…] ascoltando le testimonianze di chi gestiva le residenze di famiglia.
Il legale di Margherita ha contato oltre 30 dipendenti […]. I contratti
erano intestati formalmente a Elkann, ma loro erano sempre al servizio
della nonna.
4) I testamenti, veri o falsi. Nell’esposto, Trevisan affida alla
Procura […] il compito di esaminare l’autenticità del testamento di
Marella Caracciolo e delle due “aggiunte”, redatti dal notaio svizzero
Urs von Grunigen. […] il legale aveva già sostenuto che, secondo due
diverse perizie grafiche, almeno nella seconda “aggiunta” la firma della
signora “appare apocrifa, con elevata probabilità”. Giovedì pomeriggio,
la Guardia di Finanza si è presentata alla Fondazione Agnelli, proprio
per acquisire vecchi documenti firmati da Marella e confrontare le
firme.
5) Le fiduciarie di famiglia. Le Fiamme Gialle hanno anche prelevato
migliaia e migliaia di pagine e documenti legati a quattro diverse
fiduciarie, tutte citate nell’esposto di Trevisan. Due di esse, la Simon
Fiduciaria e la Gabriel Fiduciaria facevano riferimento, un tempo,
all’avvocato Franzo Grande Stevens e oggi sono state assorbite nella
Nomen Fiduciaria della famiglia Giubergia e nella banca privata Pictet
di Ginevra.
Che cosa può nascondersi in quegli “scrigni” votati alla riservatezza?
Due cose, entrambe importanti. La prima […] riguarda il fatto se in esse
sia potuto transitare denaro proveniente da 16 società offshore delle
Isole Vergini britanniche, tutte intestate o a Marella Agnelli o a
“membri della famiglia”, come la “Budeena Consulting Inc.” che, da sola,
aveva in cassa 900 milioni dollari.
La seconda riguarda la possibilità che gli inquirenti possano trovare le
tracce degli scambi azionari, tra la nonna e i nipoti, della “Dicembre”,
la società semplice creata dall’avvocato nel 1984 per custodire il
tesoro di famiglia e che oggi consente a John Elkann di gestire, a
cascata, i 25,5 miliardi di patrimonio della holding Exor.
2. INCHIESTA ELKANN: LA GDF A CACCIA DI SOCIETÀ OFFSHORE
Estratto dell’articolo di Marco Grasso per “il Fatto quotidiano”
IL TESTAMENTO DI MARELLA CARACCIOLO CON LE INTEGRAZIONI E LE FIRME
IL TESTAMENTO DI MARELLA CARACCIOLO CON LE INTEGRAZIONI E LE FIRME
Margherita Agnelli […] dà la caccia ai capitali offshore di famiglia,
che le sarebbero stati occultati nell’accordo sull’eredità. La Procura
di Torino cerca i redditi, potenzialmente enormi, che sarebbero stati
occultati al Fisco, attraverso fiduciarie collegate a paradisi fiscali.
Questi due interessi potrebbero convergere se cadesse il baluardo che
finora ha protetto la successione della dinastia più potente d’Italia:
la presunta residenza elvetica di Marella Caracciolo, moglie di Gianni e
madre di Margherita. Se saltasse questo cardine, le autorità italiane
potrebbero contestare reati tributari e sanzioni fiscali agli Elkann, e
questa storia, come una valanga, potrebbe travolgere anche i contenziosi
civili sull ’eredità, aperti in Svizzera e in Italia.
Sono tre gli indagati nell’in chiesta condotta dal procuratore aggiunto
Marco Gianoglio e dai pm Mario Bendoni e Giulia Marchetti: Gianluca
Ferrero, commercialista della famiglia Agnelli e presidente della
Juventus; Robert von Groueningen, amministratore dell’eredità di Marella
Agnelli (morta nel 2019); John Elkann, nipote di Marella, presidente di
Stellantis ed editore del gruppo Gedi.
L’ipotesi è di concorso in frode fiscale e in particolare di
dichiarazione infedele al Fisco per gli anni 2018-2019. In base
all’intesa sulla successione di Gianni Agnelli nel 2004 […] Margherita
accetta l’estromissione dalle società di famiglia in cambio di 1,2
miliardi; ottiene l’usufrutto su vari beni immobiliari e si impegna a
versare alla madre Marella un vitalizio mensile da 500 mila euro. Di
questi soldi non c’è traccia nei 730, da cui mancano in altre parole 8
milioni di euro (3,8 milioni di tasse).
Il perché gli investigatori si concentrino su quel biennio è presto
detto: per chi indaga Marella Caracciolo, malata di Parkinson, era
curata in Italia. La Procura ritiene che passasse gran parte del tempo a
Villa Frescot, a Torino, oltre 183 giorni l’anno, la soglia dopo la
quale il Fisco ritiene probabile che una residenza estera sia fasulla.
Per questo ieri il Nucleo di polizia economico finanziaria di Torino […]
ha sentito sei testimoni vicini alla famiglia: personale che di fatto
lavorava al servizio di Marella, ma che era stato assunto dopo la morte
del nonno da John Elkann o da società a lui riconducibili, un artificio
che avrebbe rafforzato la tesi della residenza estera della nonna.
Questo è l’anello che mette nei guai l’erede della casata. Per i pm il
commercialista Ferrero avrebbe disposto le dichiarazioni dei redditi
infedeli, mentre l’esecutore testamentario svizzero le avrebbe
controfirmate.
Ci sono inoltre le indagini commissionate da Margherita Agnelli
all’investigatore privato Andrea Galli, confluite in un esposto in mano
alla Procura. Lo 007 ha ricostruito le spese nella farmacia di Lauenen,
villaggio nel cantone di Berna in cui sulla carta viveva Marella
Caracciolo: dalle fatture fra il 2015 e il 2018 emergerebbe che le spese
mediche coprivano il solo mese di agosto. […]
GLI INQUIRENTI cercano di ricostruire il flusso di redditi, la
riconducibilità dei patrimoni e documenti originali in grado di
verificare la validità delle firme sui testamenti. Se dovesse essere
rimessa in discussione la residenza di Marella, si aprirebbe un nuovo
scenario: il Fisco potrebbe battere cassa e contestare mancati introiti
milionari per Irpef, Iva, successione e Ivafe (tassa sui beni esteri).
Gli Elkann sono pronti a difendersi dalle accuse, e hanno sempre
contestato la ricostruzione di Margherita.
DOPO 25 ANNI MARGHERITA HA PENSATO AI
FRATELLI DI YAKY, LAPO E GINEVRA , COME GLI AVEVA DETTO EDOARDO:
Margherita Agnelli vuole costringere per via
giudiziaria i suoi tre figli Elkann a restituire i beni delle eredità di
Gianni Agnelli (morto nel 2003) e Marella Caracciolo (2019).
Un’ordinanza della Cassazione pubblicata a gennaio mette in fila,
sintetizzando i «Fatti in causa», le pretese della madre di John Elkann
nella sua offensiva legale. Il punto d’arrivo è molto in alto nel
sistema di potere dei figli: l’assetto della Dicembre, la cassaforte
(60% John e 20% ciascuno Lapo e Ginevra Elkann) azionista di riferimento
dell’impero Exor, Stellantis, Ferrari, Juventus, Cnh ecc. (35 miliardi).
[…] La Corte suprema nella sua ordinanza si occupa di una questione
tecnica laterale, annullando parzialmente […] la decisione del tribunale
di Torino di sospendere i lavori in attesa dei giudici svizzeri. […] la
Cassazione […] sintetizza in modo neutrale le richieste di Margherita e
cioè, innanzitutto, «che sia dichiarata l’invalidità o l’inefficacia del
testamento della madre».
E dunque «che sia aperta la successione legittima, sia accertata in capo
all’attrice (Margherita ndr) la sua qualità di unica erede legittima
della madre, sia accertata la quota della quale la madre poteva disporre
e […] sia accertata la lesione della quota di riserva a essa spettante».
A questo punto ci deve essere «la conseguente reintegra della quota
mediante riduzione delle donazioni, anche dirette e dissimulate, e
condanna dei convenuti (gli Elkann, ndr) alle restituzioni».
Il tema delle donazioni è fondamentale perché potrebbero essere i
«mattoni» con cui si è costruita la governance a trazione John nella
Dicembre. Margherita «in ogni caso ha chiesto la dichiarazione della sua
qualità di erede del padre (...) e la condanna dei convenuti a
restituire i beni dell’eredità del padre».
La manovra legale è dunque tesa ad azzerare tutto, proiettando
Margherita nel ruolo di unica erede legittima della madre. E
nell’eventuale riconteggio dell’eredità materna entrerebbero le
donazioni anche «indirette e dissimulate».
JOHN ELKANN CON LA MADRE MARGHERITA AGNELLI AL SUO MATRIMONIO CON
LAVINIA BORROMEO
JOHN ELKANN CON LA MADRE MARGHERITA AGNELLI AL SUO MATRIMONIO CON
LAVINIA BORROMEO
Nella costruzione dell’attuale assetto della Dicembre con John al
comando sono state decisive alcune transazioni con la nonna Marella dopo
la morte (2003) di Gianni Agnelli. Secondo i figli de Pahlen, […] per il
calcolo della quota legittima, nel perimetro ereditario della nonna
Marella dovrebbe entrare anche il «75% della Dicembre, per il caso in
cui si accertasse la simulazione degli atti di compravendita, il cui
valore è stimato in euro 3 miliardi». Sostengono anzi che la nonna abbia
«effettuato donazioni delle partecipazioni della Dicembre al nipote John
per (...) circa 3 miliardi».
John Elkann e la madre Margherita entrano nella cassaforte come soci nel
1996, con Gianni Agnelli al comando. Nel ’99 l’Avvocato modifica lo
statuto e detta il futuro: «se manco o sono impedito — è il senso —
tutti i poteri vanno a John» che, alla morte del nonno, sale al 58%.
L’anno dopo (2004) Margherita vende per 105 milioni il 33% alla madre ed
esce dalla Dicembre sulla base del patto successorio. Subito dopo la
nonna cede tutto ai nipoti, tenendo l’usufrutto: John si consolida al
60%, una leadership che nel suo entourage giudicano «inattaccabile», a
Lapo e Ginevra il resto. È l’assetto attuale di cui però s’è avuta
notizia ufficiale nel 2021, dopo 17 anni di carte, transazioni e patti
tenuti nascosti. Un bug temporale a dir poco anomalo per una delle più
influenti società in Europa, inspiegabilmente tollerato per anni dalla
Camera di Commercio di Torino. Anche su questo fa leva la strategia di
Margherita per «scalare» il sancta sanctorum degli Elkann.
«La costruzione di una residenza estera
fittizia» in Svizzera di Marella Caracciolo «ha avuto una duplice e
concorrente finalità: da un lato, sotto il profilo fiscale, evitare
l’assoggettamento a tassazione in Italia di ingenti cespiti patrimoniali
e redditi derivanti da tali disponibilità; dall’altro, sotto il profilo
ereditario, sottrarre la successione» della vedova dell’Avvocato
«all’ordinamento italiano»: lo scrivono i magistrati di Torino nel
decreto di sequestro che ha portato al blitz di ieri (7 marzo) della
guardia di finanza, nell’ambito dell’inchiesta sull’eredità Agnelli e
sulle presunte «dichiarazioni fraudolente» dei redditi di Marella
Caracciolo. Per questo, è scattata anche una nuova ipotesi di reato:
«truffa aggravata ai danni dello Stato e di ente pubblico (Agenzia delle
entrate)».
Eredità Agnelli, i 734 milioni di euro lasciati da Marella e l'appunto
sulla residenza svizzera: «Una vita di spostamenti»
CRONACA
Eredità Agnelli, i pm e gli appunti della segretaria di Marella Agnelli:
«Sono la prova che non viveva in Svizzera»
Tra i beni in questione - secondo il Procuratore aggiunto Marco
Gianoglio e i pubblici ministeri Mario Bendoni e Giulia Marchetti - ci
sarebbero 734.190.717 euro, «derivanti dall’eredità di Marella
Caracciolo».
Per la truffa aggravata sono indagati i tre fratelli Elkann, John,
Ginevra e Lapo, lo storico commercialista della famiglia Gianluca
Ferrero e Urs Robert von Gruenigen, il notaio svizzero che curò la
successione testamentaria.
Gli investigatori - emerge dal decreto - hanno messo le mani anche su un
documento di quattro pagine «riepilogante in forma schematica i giorni
di effettiva presenza in Italia di Marella Caracciolo»: morale, nel 2015
la moglie di Gianni Agnelli dimorò «in Svizzera meno di due mesi»,
contro i 298 giorni passati in Italia. Nel 2018 il conto è di 227 giorni
in Italia e 138 all’estero. Significativa anche la denominazione
dell’ultima pagina del documento: «Una vita di spostamenti».
Un secondo "round" si è combattuto ieri
davanti al tribunale del riesame di Torino tra la Procura subalpina e lo
staff di avvocati che difendono i fratelli Elkann, indagati per truffa
ai danni dello Stato per non aver pagato la tassa di successione su una
porzione di eredità della nonna, pari a 734 milioni di euro.
I penalisti hanno impugnato il decreto con cui i pm il 6 marzo hanno
disposto un nuovo sequestro dei documenti […] già acquisiti dai
finanzieri durante le perquisizioni del 7 febbraio. E gli inquirenti
hanno risposto depositando ai giudici materiale investigativo finora
inedito, tra cui delle intercettazioni e soprattutto i tredici verbali
del personale al "servizio" di Marella Caracciolo.
La tesi accusatoria - secondo cui John Elkann avrebbe fatto figurare che
domestici e infermiere lavoravano per lui, «al fine di non compromettere
la possibilità che la defunta nonna fosse effettivamente residente in
Svizzera» - «appare largamente confermato dalle dichiarazioni» degli ex
dipendenti sentiti come testimoni in Procura. In sostanza, quasi tutti
hanno confermato che prestavano assistenza alla signora Agnelli quando
lei risiedeva nelle dimore torinesi, ossia per la maggior parte
dell'anno.
Nel locale caldaie dell'abitazione del pupillo di Gianni Agnelli, […] i
militari del nucleo economico finanziario di Torino hanno trovato una
ventina di faldoni con i documenti di «domestici, cuochi, autisti,
governante, guardarobiera, maggiordomi». Per realizzare quella che i pm
ritengono esser una «strategia evasiva», ossia non pagare le tasse
sull'eredità in Italia, John avrebbe assunto formalmente il personale
delle residenze di Villa Frescot, Villa To e Villar Perosa che
«assisteva di fatto Marella Caracciolo».
A sommarie informazioni è stata sentita anche Carla Cantamessa, che si
occupava della gestione amministrativa delle abitazioni riconducibili
alla famiglia Angelli-Elkann. […] «al momento della perquisizione (del 7
febbraio, ndr) contattava immediatamente Gianluca Ferrero (il
commercialista di famiglia indagato, ndr), avvisandolo dell'arrivo della
Finanza e mostrando timore e preoccupazione per documenti che avrebbe
dovuto "nascondere"».
In quel momento, però, i finanzieri stavano bussando anche alla porta
del commercialista, che quindi ha subito riagganciato il telefono. Tra
il materiale che le è stato sequestrato ci sono anche documenti sui
«giardinieri dismessi dal 2020», ossia successivamente alla morte di
Marella. La "prova del nove" è che quasi tutti i dipendenti assunti da
John sono stati licenziati dopo che sua nonna, il 23 febbraio 2019, è
deceduta.
Secondo i legali degli Elkann non esistono gli estremi del reato di
truffa ai danni dello Stato nel caso di mancato pagamento della tassa di
successione. Avvalendosi anche di un parere del professore Andrea
Perini, docente di diritto penale tributario, hanno specificato […] che
al massimo si tratta di un illecito amministrativo. Per i pm, invece,
gli «artifizi e i raggiri» previsti dal reato di truffa si sono
concretizzati proprio nel trucco della residenza in Svizzera di Marella,
con il quale i tre nipoti avrebbero «indotto in errore» l'Agenzia delle
entrate […], e così facendo avrebbero tratto «l'ingiusto profitto» di
risparmiare tra i 42 e i 63 milioni di euro di tasse.
Tra l'altro, la «strategia evasiva» è esplicitata nel cosiddetto
«vademecum della truffa» redatto da Ferrero, in cui si consiglia a
chiare lettere «di non sovraccaricare la posizione italiana di Marella
Caracciolo», facendo assumere i suoi dipendenti al nipote maggiore.
L'altro punto su cui insistono le difese è il «ne bis in idem», il
principio in base al quale non si può essere giudicati due volte per lo
stesso fatto.
Ma la truffa ai danni dello Stato era già stata ipotizzata dalla Procura
torinese prima che venisse eseguito il secondo sequestro, ora impugnato
dagli Elkann e da Ferrero. I giudici, dopo quasi quattro ore di udienza,
si sono riservati di decidere entro sabato prossimo. […]
EREDITÀ AGNELLI, 'I QUADRI SONO CUSTODITI AL LINGOTTO'
Francesca Brunati e Igor Greganti per l’ANSA
Sarebbero tutte rintracciate e rintracciabili, e donate dalla nonna ai
nipoti Elkann, le 13 opere d'arte, parte del tesoro lasciato da Gianni
Agnelli, e che un tempo arredavano Villa Frescot e Villar Perosa a
Torino e una residenza di famiglia a Roma, e ora reclamate dalla figlia
Margherita, unica erede dei beni immobili dopo la morte della madre e
moglie dell'Avvocato, Marella Caracciolo di Castagneto, la quale ne
aveva l'usufrutto.
E' quanto risulta in sintesi da una relazione depositata alla Procura di
Milano dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Gdf
nell'inchiesta che ha portato il gip Lidia Castellucci ad archiviare la
posizione di un gallerista svizzero e di un suo collaboratore accusati
di ricettazione e a disporre, su suggerimento di Margherita nella sua
opposizione alla richiesta di archiviazione, ulteriori accertamenti.
L'informativa delle Fiamme Gialle è stata redatta in base alle
testimonianze, riportate nell'atto, di Paola Montalto e Tiziana Russi,
persone di fiducia di Marella Caracciolo, le quali si sono occupate
degli inventari dei beni ereditati. Le due donne, sentite come una terza
persona al servizio della moglie dell'Avvocato, hanno ricostruito che
quelle tele di artisti del calibro di Monet, Picasso, Balla e De Chirico
erano alle pareti dell'appartamento romano a Palazzo
Albertini-Carandini, di cui Margherita ha la nuda proprietà, e che
furono poi donate ai tre nipoti John, Lapo e Ginevra dalla nonna.
Dichiarazioni, queste, a cui è stato trovato riscontro: come è emerso
successivamente alle tre deposizioni, quasi tutte le opere d'arte sono
state trovate al Lingotto durante una ispezione della Guardia di
Finanza, delegata dalla Procura torinese nell'indagine principale
sull'eredità. Una invece sarebbe in una casa a St. Moritz e una sua
copia nella pinacoteca di via Nizza.
Dalle consultazioni di una serie di banche dati "competenti", in
particolare quelle del ministero della Cultura e la piattaforma S.u.e.
(Sistema uffici esportazione) è stato appurato che non ci sono state
movimentazioni illecite né esistono particolari vincoli sui quadri e che
il Monet, che si sospettava fosse falso, è stato sottoposto a una
perizia che ne ha acclarato l'autenticità.
Visto gli esiti delle nuove indagini, i pm milanesi coordineranno con i
colleghi di Torino, ai quali, non si esclude potrebbero trasmettere gli
atti per competenza. Sul caso fonti vicine a Margherita chiariscono che
"i quadri oggetto di denuncia nel procedimento di Milano (che prosegue)
non possono essere stati donati, in quanto Marella non ne aveva la
proprietà.
Peraltro, non risulta ad oggi formalizzato alcun documento di donazione.
Comunque, qualora le indiscrezioni fossero confermate, vi sarebbero atti
invalidi e verrebbe richiesta l'immediata restituzione delle opere che
sono e restano di proprietà di Margherita Agnelli". Una questione,
quella della proprietà, che potrà sciogliere solo la magistratura.
FAIDA EREDITÀ AGNELLI: IL GIALLO DEI 13 QUADRI E DEGLI ORIGINALI SPARITI
Estratto dell’articolo di Ettore Boffano e Manuele Bonaccorsi per “il
Fatto quotidiano”
Diventa un giallo milionario […] la verità sulle opere della Collezione
Agnelli finite nell'inchiesta penale sull'eredità della vedova
dell’avvocato, Marella Caracciolo.
Secondo un’annotazione della Guardia di Finanza di Milano, consegnata al
procuratore aggiunto milanese Luca Fusco, 13 di quei quadri non
sarebbero infatti scomparsi dalle dimore italiane della dinastia (come
ha denunciato la figlia di Gianni Agnelli, Margherita), ma sarebbero
state donate dalla nonna Marella ai tre nipoti John, Lapo e Ginevra
Elkann e ora sarebbero “rintracciati e rintracciabili” in un caveau
della Fiat Security al Lingotto e in Svizzera.
Molto diverso, invece, ciò che emergerebbe dalle indagini che stanno
svolgendo la Procura e la Gdf di Torino, dopo un esposto di Margherita
contro i tre figli. Un fascicolo, al quale nei prossimi giorni sarà
allegato quello di Milano, che ha portato i pm torinesi a indagare i tre
Elkann per i “raggiri e gli artifizi” messi in opera per costruire una
“inesistente residenza svizzera” della nonna.
Nei sequestri effettuati lo scorso 8 febbraio, i finanzieri avevano
visitato anche un caveau nella palazzina storica Fiat del Lingotto, dove
erano conservati arredi di valore un tempo presenti nelle residenze
dell’avvocato di Villar Perosa, di Villa Frescot a Torino e
nell’appartamento di Palazzo Albertini davanti al Quirinale.
Il Fatto Quotidiano e Report […] hanno ricostruito però che gli
inquirenti torinesi hanno rinvenuto al Lingotto solo due originali, La
Chambre di Balthus e il Pho Xai di Gérome, e invece tre copie di modesto
valore di altri tre capolavori: il Glacons effect blanc di Monet, La
scala degli addii di Balla e il Mistero e malinconia di una strada di De
Chirico.
Ma dove sono gli originali? Secondo gli Elkann, […] sarebbero sempre
stati a Sankt Moritz, nella villa Chesa Alkyon dell’avvocato. Per il
momento, la Procura torinese sta approfondendo soprattutto le vicende
legate alla residenza svizzera di Marella e agli eventuali resti
fiscali. Ma è probabile che in un secondo tempo, […] i pm ordinino una
perizia per accertare l’esatta datazione delle copie.
Se emergesse, infatti, che esse sono state realizzate dopo il 24 gennaio
2003, giorno della morte di Gianni Agnelli, allora le indagini
potrebbero estendersi a verificare quando e come gli originali hanno
lasciato l’italia per la Svizzera e sostituiti con le copie. Se fosse
mai dimostrato che i tre quadri si trovavano in Italia, allora potrebbe
trattarsi di un reato. E anche piuttosto grave: esportazione illecita di
opere d’arte, punito dal Codice dei beni culturali con una pena dai 2 a
8 anni di reclusione.
Tutto potrebbe essere prescritto: ciò che invece non si prescriverà mai
è il diritto da parte dello Stato di rivendicare il rientro delle opere
in Italia, con un sequestro. A sostegno delle tesi degli Elkann, secondo
la Gdf di Milano, ci sarebbero anche le testimonianze di due segretarie
di Marella, Paola Montaldo e Tiziana Russi, e di un altro domestico che
avrebbero confermato come la nonna avesse donato quei quadri ai nipoti.
Qualcosa che contraddice l’elenco delle opere acquisito dal procuratore
aggiunto Fusco nel 2009, in un’altra inchiesta sull’eredità Agnelli, e
di cui Report e il Fatto Quotidiano sono entrati in possesso. Una lista
ritenuta veritiera da due personaggi chiave: colui che l’ha redatta,
Stuart Thorton, storico maggiordomo inglese di Agnelli, ed Emmanuele
Gamna, ex avvocato di Margherita che trattò la suddivisione delle opere
tra madre e figlia nel 2004.
Il documento riporta quotazione (assai al ribasso) e collocazione delle
opere. Il De Chirico si trovava a Roma: valore 7 milioni. Il Balla
anch’esso era nella Capitale: 2 milioni. C’era infine il Monet che
risultava essere a Villa Frescot: 8 milioni. L’originale non si sa dove
si trovi.
I quadri di Roma […] erano lì almeno fino al 2018, quando un
trasportatore, il torinese Giorgio Ghilardini, li prelevò: la bolla del
trasporto è stata sequestrata dai pm torinesi. Infine, il professor
Lorenzo Canova, direttore scientifico della fondazione De Chirico,
ricorda che il suo maestro, l’insigne storico dell’arte Mauro Calvesi,
aveva visto l’originale di Mistero e melanconia di una strada
nell’appartamento romano dell’avvocato.
“Me lo presterebbe per una mostra”, chiese il critico ad Agnelli.
“Preferirei di no, i quadri a volte voglio scambiarli, questo non voglio
sia notificato al ministero”, avrebbe risposto il “signor Fiat”.
[…] Margherita Agnelli ritiene […]che le opere le siano state sottratte
dall’eredità della madre Marella e, comunque, chiederà la nullità della
presunta donazione ai figli. Ma il punto non è questo. Quelle opere, a
chiunque spettino, devono rimanere in Italia. Così almeno dice la legge
[…]
LA FRAGILITA' UMANA DIMOSTRA LA
FORZA E L'ESISTENZA DI DIO: le stesse variazioni climatiche e
meteriologiche imprevedibili dimostrano l'esistenza di DIO.
Che lo Spirito Santo porti
buon senso e serenita' a tutti gli uomini di buona volonta' !
CRISTO RESUSCITA PER TUTTI GLI
UOMINI DI VOLONTA' NON PER QUELLI DELLO SPRECO PER NUOVI STADI O
SPONSORIZZAZIONI DI 35 MILIONI DI EURO PAGATI DALLE PAUSE NEGATE
AGLI OPERAI ! La storia del ricco epulone non ha insegnato nulla
perché chi e morto non può tornare per avvisare i parenti !
Mb 05.04.12; 29.03.13;
ATTENZIONE IL MIO EX SITO
www.marcobava.tk e' infetto se volete un buon antivirus
gratuito:
Marco Bava ABELE: pennarello di DIO,
abele, perseverante autodidatta con coraggio e fantasia , decisionista
responsabile.
Sono quello che voi pensate io sia
(20.11.13) per questo mi ostacolate.(08.11.16)
La giustizia non esiste se mi mettessero
sotto sulle strisce pedonali, mi condannerebbero a pagare i danni
all'auto.
(12.02.16)
TO.05.03.09
IL DISEGNO DI DIO A VOLTE SI RIVELA
SOLO IN ALCUNI PUNTI. STA' ALLA FEDE CONGIUNGERLI
PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME VENGA IL TUO REGNO, SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ
COME IN CIELO COSI IN TERRA , DAMMI OGGI IL PANE E LA ACQUA
QUOTIDIANI E LA POSSIBILITA' DI NON COMMETTERE ERRORI NEL CERCARE DI
REALIZZARE NEL MIGLIOR MONDO POSSIBILE IL TUO VOLERE, LA PACE NEL MONDO,
IL BENESSERE SOCIALE E LA COMUNIONE DI TUTTI I POPOLI. TU SEI GRANDE ED
IO NON SONO CHE L'ULTIMO DEI TUOI SERVI E FIGLI.
TU SEI GRANDE ED IO NON SONO CHE
L'ULTIMO DEI TUOI SERVI E DEI TUOI FIGLI .
SIGNORE IO NON CONOSCO I TUOI OBIETTIVI PER ME , FIDUCIOSO MI AFFIDO A
TE.
Difendo il BENE contro il MALE che nell'uomo rappresenta la variabile
"d" demonio per cui una decisione razionale puo' diventare irrazionale
per questa ragione (12.02.16)
Non prendo la vita di
punta faccio la volonta' di DIO ! (09.12.18)
La vita e' fatta da
cose che si devono fare, non si possono non fare, anche se non si
vorrebbero fare.(20.01.16)
Il mondo sta
diventando una camera a gas a causa dei popoli che la riempiono per
irresponsabilità politica (16.02.16)
I cervelli possono
viaggiare su un unico livello o contemporaneamente su plurilivelli e'
soggettivo. (19.02.17)
L'auto del futuro non
sara' molto diversa da quella del presente . Ci sono auto che
permarranno nel futuro con l'ennesima versione come : la PORSCHE 911, la
PANDA, la GOLF perche' soddisfano esigenze del mercato che permangono .
Per cui le auto cambieranno sotto la carrozzeria con motori ad idrogeno
, e materiali innovativi. Sara' un auto migliore in termini di
sicurezza, inquinamento , confort ma la forma non cambierà molto.
INFATTI la Modulo di Pininfarina la Scarabeo o la Sibilo di Bertone
possono essere confrontate con i prototipi del prossimo
salone.(18.06.17)
La siccità e le
alluvioni dimostrano l'esistenza di Dio nei confronti di uomini che
invece che utilizzare risorse per cercare inutilmente nuovi
pianeti dove Dio non ha certo replicato l'esperienza negativa dell'uomo,
dovrebbero curare l'unico pianeta che hanno a disposizione ed in cui
rischiano di estinguersi . (31.10.!7)
L'Italia e' una
Repubblica fondata sul calcio di cui la Juve e' il maggiore esponente
con tutta la sua violenta prevaricazione (05.11.17)
La prepotenza della
FIAT non ha limiti . (05.11.17)
I mussulmani ci
comanderanno senza darci spiegazioni ne' liberta'.(09.11.17)
In Italia mancano i
controlli sostanziali . (09.11.17)
Gli alimenti per
animali sono senza controllo, probabilmente dannosi, vengono
utilizzati dai proprietari per comodita', come se l'animale fosse un
oggetto a cui dedicare il tempo che si vuole, quando si vuole senza
alcun rispetto ai loro veri bisogni alimentari. (20.11.17)
Ho conosciuto
l'avv.Guido Rossi e credo che la stampa degli editori suoi clienti lo
abbia mitizzato ingiustificatamente . (20.11.17)
L'elicottero di Jaky
e' targato I-TAIF. (20.11.17)
La Coop ha le
agevolazioni di una cooperativa senza esserlo di fatto in quanto quando
come socio ho partecipato alle assemblee per criticare il basso tasso
d'interesse dato ai soci sono stato o picchiato o imbavagliato.
(20.11.17)
Sono 40 anni che :
1 ) vedo bilanci
diversi da quelli che vedo insegnati a scuola, fusioni e scissioni
diverse da quelle che vengono richieste in un esame e mi vengono a dire
che l'esame di stato da dottore commercilaista e' una cosa seria ?
2) faccio esposti e
solo quello sul falso in bilancio della Fiat presentato da Borghezio al
Parlamento e' andato avanti ?
(21.11.17)
La Fornero ha firmato
una riforma preparata da altri (MONTI-Europa sono i mandanti) (21.11.17)
Si puo' cambiare il
modo di produrre non le fasi di produzione. (21.11,17)
La FIAT-FERRARI-EXOR
si sono spostate in Olanda perche' i suoi amministratori abbiano i loro
compensi direttamente all'estero . In particolare Marchionne ha la
residenza fiscale in Sw (21.11.17)
La prova che e' il
femore che si rompe prima della caduta e' che con altre cadute non si
sono rotte ossa, (21.11.17)
Carlo DE BENEDETTI un
grande finanziere che ha fallito come industriale in quanto nel 1993
aveva il SURFACE con il nome QUADERNO , con Passera non l'ha saputo
produrre , ne' vendere ne' capire , ma siluro' i suoi creatori
CARENA-FIGINI. (21.11.17)
Quando si dira' basta
anche alle bufale finanziarie ? (21.11.17)
Per i consiglieri
indipendenti l'indipendenza e' un premio per tutti gli altri e' un costo
(11.12.17)
La maturita' del
mercato finanziario e' inversamente proporzionale alla sottoscrizione
dei bitcoin (18/12/17)
Chi risponde
civilmente e penalmente se un'auto o un robot impazziscono ? (18/12/17)
Non e' la FIAT
filogovernativa, ma sono i governi che sono filofiat consententogli di
non pagare la exit-tax .(08.02.18) inoltre la FIAT secondo me ha fatto
più danni all'ITALIA che benefici distruggendo la concorrenza della
LANCIA , della Ferrari, che non ha mai capito , e della BUGATTI
(13.02.18).
Infatti quando si
comincia con il raddoppio del capitale senza capitale si finisce nella
scissione
Tesi si laurea
sull'assoluzione del sen.Giovanni Agnelli nel 1912 dal reato di
agiotaggio : come Giovanni Agnelli da segretario della Fiat ne e'
diventato il padrone :
Prima di educare i
figli occorre educare i genitori (13.03.18)
Che senso ha credere
in un profeta come Maometto che e'un profeta quando e' esistito
Gesu' che e' il figlio di DIO come provato per ragioni storiche da
almeno 4 testi che sono gli evangelisti ? Infatti i mussulmani
declassano Gesu' da figlio di DIO a profeta perché riconoscono
implicitamente l'assurdità' di credere in un profeta rispetto al figlio
di DIO. E tutti gli usi mussulmani rappresentano una palese
involuzione sociale basata sulla prevaricazione per esempio sulle donne
(19.03/18)
Il valore aggiunto per
i consulenti finanziari e' solo per loro (23.03.18)
I medici lavorerebbero
gratis ? quante operazioni non sono state fatte a chi non aveva i soldi
per pagarle ? (26.03.18 )
lo sfregio delle auto
di stato ibride con il motore acceso, deve finire con il loro passaggio
alla polizia con i loro autisti (19.03.18)
Se non si tassa il
lavoro dei robot e' per la mancata autonomia in termini di liberta' di
scelta e movimento e responsabilita' penale personale . Per cui le auto
a guida autonoma diventano auto-killer. (26.04.18)
Quanto poco conti
l'istruzione per l'Italia e' dimostrato dalla scelta DEI MINISTRI
GELMINI FEDELI sono esempi drammatici anche se valorizzati dalla
FONDAZIONE AGNELLI. (26.04.18) (27.08.18).
Credo che la lotta
alla corruzione rappresenti sempre di piu' un fattore di coesione
internazionale perche' anche i poteri forti si sono stufati di pagare
tangenti (27/04/2018)
Non riusciamo neppure
piu' a produrre la frutta ad alto valore aggiunto come i
mirtilli....(27/04/2018)
Abbiamo un capitalismo
sempre piu' egoista fatto da managers che pensano solo ad arraffare
soldi pensando che il successo sia solo merito loro invece che di Dio e
degli operai (27.04.18)
Le imprese dell'acqua
e delle telecomunicazioni scaricano le loro inefficienze sull'utente
(29.05.18)
Nel 2004 Umberto
Agnelli, come presidente della FIAT, chiese a Boschetti come
amministratore delegato della FIAT AUTO di affidarmi lo sviluppo della
nuova Stilo a cui chiesi di affiancare lo sviluppo anche del marchio
ABARTH , 500 , A112, 127 . Chiesi a Montezemolo , come presidente
Ferrari se mi lasciava utilizzare il prototipo di Giugiaro della Kubang
che avrebbe dovuto essere costruito con ALFA ROMEO per realizzare
la nuova Stilo . Mi disse di si perche' non aveva i soldi per
svilupparlo. Ma Morchio, amministratore delegato della FIAT, disse che
non era accettabile che uno della Telecom si occupasse di auto in Fiat
perche' non ce ne era bisogno. Peccato che la FIAT aveva fatto il 128
che si incendiava perche' gli ingegneri FIAT non avevano previsto una
fascetta che stringesse il tubo della benzina all'ugello del
carburatore. Infatti pochi mesi dopo MORCHIO venne licenziato da
Gabetti ed al suo posto arrivo' Marchionne a cui rifeci la proposta. Mi
disse di aspettare una risposta entro 1 mese. Sono passati 14 anni ma
nessuna risposta mi e' mai stata data da Marchionne, nel frattempo la
Fiat-Lancia sono morte definitivamente il 01.06.18, e la Nissan Qashai
venne presentata nel 2006 e rilancia la Nissan. Infatti dal 2004 ad oggi
RENAULT-NISSAN sono diventati i primi produttori al mondo. FIAT-FCA NO !
Grazie a Marchionnne nonostante abbia copiato il suo piano industriale
dal mio libro . Le auto Fiat dell'era CANTARELLA bruciavano le teste per
raffredamento insufficente. Quella dell'era Marchionne hanno bruciato la
Fiat. Il risultato del lavoro di MARCHIONNE e' la trasformazione del
prodotto auto in prodotto finanziario, per cui le auto sono diventate
tutte uguali e standardizzate. Ho trovato e trovo , NEI MIEI CONFRONTI,
molta PREPOTENZA cattiveria ed incompetenza in FIAT. (19.12.18)
La differenza fra
ROMITI MARCHIONNE e' che se uno la pensava diversamente da loro Romiti
lo ascoltava, Marchionne lo cacciava anche se gli avesse detto che
aumentando la pressione dei pneumatici si sarebbero ridotti i consumi.
FATTI NON PAROLE E
FUMO BORSISTICO ! ALFA ROMEO 166 un successo nonostante i pochi mezzi
utilizzati ma una richiesta mia precisa e condivisa da FIAT : GUIDA
DIRETTA. Che Marchionne non ha apprezzato come un attila che ha
distrutto la storia automoblistica italiana su mandato di GIANLUIGI
GABETTI (04.06.18).
Piero ANGELA : un
disinformatore scientifico moderno in buona fede su auto
elettrica. auto killer ed inceneritore (29.07.18)
Puoi anche prendere il
potere ma se non lo sai gestire lo perdi come se non lo avessi mai avuto
(01.08.18)
Ho provato la BMW i8
ed ho capito che la Ferrari e le sue concorrenti sono obsolete !
(20.08.18)
LA Philip Morris ha
molti clienti e soci morti tra cui Marchionne che il 9 maggio scorso,
aveva comprato un pacchetto di azioni per una spesa di 180mila dollari.
Briciole, per uno dei manager più ricchi dell’industria automotive (ha
un patrimonio stimato tra i 6-700 milioni di franchi svizzeri, cifra che
lo fa rientrare tra i 300 elvetici più benestanti).E’ stato, però, anche
l’ultimo “filing” depositato dal manager alla Sec, sul cui sito da
sabato pomeriggio è impossible accedere al profilo del manager
italo-canadese e a tutte le sue operazioni finanziarie rilevanti. Ed era
anche un socio: 67mila azioni detenute per un investimento di 5,67
milioni di dollari (alla chiusura di Wall Street di venerdì 20 luglio
2018 ). E PROSSIMAMENTE un'uomo Philip Morris uccidera' anche la
FERRARI . (20.08.18) (25.08.18)
Prodi e' il peccato
originale dell'economia italiana dal 1987 (regalo' l'ALFA ROMEO alla
FIAT) ad oggi (25.08.18)
L'indipendenza della
Magistratura e' un concetto teorico contraddetto dalle correnti anche
politiche espresse nelle lottizzazioni delle associazioni magistrati che
potrebbe influenzarne i comportamenti. (27.08.18)
Ho sempre vissuto solo
con oppositori irresponsabili privi di osservazioni costruttive ed
oggettive. (28.08.18)
Buono e cattivo fuori
dalla scuola hanno un significato diverso e molto piu' grave perche' un
uomo cattivo o buono possono fare il bene o il male con consaprvolezza
che i bambini non hanno (20.10.18)
Ma la TAV serve ai
cittadini che la dovrebbero usare o a chi la costruisce con i nostri
soldi ? PERCHE' ?
Un ruolo presidenziale
divergente da quello di governo potrebbe porre le premesse per una
Repubblica Presidenziale (11.11.2018)
La storia occorre
vederla nella sua interezza la marcia dei 40.000 della Fiat come e'
finita ? Con 40.000 licenziamenti e la Fiat in Olanda ! (19.11.18)
I SITAV dopo la marcia
a Torino faranno quella su ROMA con costi doppi rispetto a quella
francese sullo stesso percorso ? (09.12.18)
La storia politica di
Fassino e' fatta dall'invito al voto positivo per la raduzione dei
diritti dei lavoratori di Mirafiori. Si e' visto il risultato della
lungimiranza di Fassino , (18.12.18)
Perche' sono
investimenti usare risorse per spostare le pietre e rimetterle a posto
per giustificare i salari e non lo sono il reddito di cittadinanza e
quota 100 per le pensioni ? perche' gli 80 euro a chi lavora di Renzi
vanno bene ed i 780 euro di Di Maio a chi non lavora ed e' in pensione
non vanno bene ? (27.12.18)
Le auto si dividono in
auto mozzarella che scadono ed auto vino che invecchiando aumentano di
valore (28.12.18)
Fumare non e' un
diritto ma un atto contro la propria salute ed i doveri verso la propria
famiglia che dovrebbe avere come conseguenza la revoca dell'assistenza
sanitaria nazionale ad personam (29.12.18)
Questo mondo e troppo
cattivo per interessare altri esseri viventi (10.01.19)
Le ONG non hanno altro
da fare che il taxi del mare in associazione per deliquere degli
scafisti ? (11.02.19)
La giunta FASSINO era
inutile, quella APPENDINO e' dannosa (12.07.19)
Quello che l'Appendino
chiama freno a mano tirato e' la DEMOCRAZIA .(18.07.19)
La spesa pubblica
finanzia le tangenti e quella sullo spazio le spese militari
(19.07.19)
AMAZON e FACEBOOK di
fatto svolgono un controllo dei siti e forse delle persone per il
Governo Americano ?
(09.08.19)
LA GRANDE MORIA DI
STARTUP e causato dal mancato abbinamento con realta' solide (10.08.!9)
Il computer nella
progettazione automobilistica ha tolto la personalizzazione ed
innovazione. (17.08.19)
L' uomo deve gestire i
computer non viceversa, per aumentare le sue potenzialita' non
annullarle (18.08.19)
LA FIAT a Torino ha
fatto il babypaking a Mirafiori UNO DEI POSTI PIU' INQUINATI DI TORINO !
Non so se Jaky lo sappia , ma il suo isolamento non gli permette certo
di saperlo ! (13.09.19)
Non potro' mai essere
un buon politico perche' cerco di essere un passo avanti mentre il
politico deve stare un passo indietro rispetto al presente. (04.10.19)
L'arretratezza
produttiva dell'industria automobilistica e' dimostrata dal fatto che da
anni non hanno mai risolto la reversibilità dei comandi di guida a
dx.sx, che costa molto (09.10.19)
IL CSM tutela i
Magistrati dalla legge o dai cittadini visti i casi di Edoardo AGNELLI
e Davide Rossi ? (10.10.19).
Le notizie false
servono per fare sorgere il dubbio su quelle vere discreditandole
(12.10.19)
L'illusione startup
brucia liquidita' per progetti che hanno poco mercato. sottraendoli
all'occupazione ed illude gli investitori di trovare delle scorciatoie
al alto valore aggiunto (15.10.19)
Gli esseri umani
soffrono spesso e volentieri della sindrome del camionista: ti senti
piu' importante perche' sei in alto , ma prima o poi dovrai scendere e
cedere il posto ad altri perche' nessun posto rimane libero (18.10.19)
Non e' logico che
l'industria automobilistica invece di investire nelle propulsione ad
emissione 0 lo faccia sulle auto a guida autonoma che brucia posti di
lavoro. (22.10.19)
L'intelligenza
artificiale non esiste perche' non e' creativa ma applicativa quindi
rischia di essere uno strumento in mano ai dittatori, attraverso la
massificazione pilotata delle idee, che da la sensazione di poter
pensare ad una macchina al nostro posto per il bene nostro e per farci
diventare deficienti come molti percorsi dei navigatori (24.11.19)
Quando ci fanno
domande per sapere la nostra opinione di consumatori ma sono interessati
solo ai commenti positivi , fanno poco per migliorare (25.11.19)
La prova che la
qualità della vita sta peggiorando e' che una volta la cessione del 5^
si faceva per evitare i pignoramenti , oggi lo si fa per vivere
(27.11.19)
Per combattere
l'evasione fiscale basta aumentare l'assistenza nella pre-compilazione e
nel pagamento (29.11.19)
La famiglia e' come
una barca che quando sbaglia rotta porta a sbattere tutti quanti
(25.12.19)
Le tasse
sull'inquinamento verranno scaricate sui consumatori , ma a chi governa
e sa non importa (25.12.19)
Il calcio e l'oppio
dei popoli (25.12.19)
La religione nasce
come richiesta di aiuto da parte dei popoli , viene trasformata in un
tentativo di strumento di controllo dei popoli (03.01.20)
L'auto a guida
autonoma e' un diversivo per vendere auto vecchie ed inquinanoroti , ed
il mercato l'ha capito (03.01.20)ttadini
Il vero potere della
burocrazia e' quello di creare dei problemi ai cittadini anche se il
cittadino paga i dipendente pubblico per risolvere dei problemi non per
crearli. Se per denunciare questi problemi vai fuori dal coro deve
essere annientato. Per cui burocrazia=tangente (03.01.20)
Gli immigrati tengono
fortemente alla loro etnina a cui non rinunciano , piu' saranno forti le
etnie piu' queste divideranno l'Italia sovrastando gli italiani
imponendoci il modello africano . La mafia nigeriana e' solo un esempio.
(05.01.20)
La sinistra e la lotta
alla fame nel mondo sono chimere prima di tutto per chi ci deve credere
come ragione di vita (07.01.20)
Credo di avere la
risposta alla domanda cosa avrebbe fatto Eva se Adamo avesse detto di no
a mangiare la mela ? Si sarebbe arrabbiata. Anche oggi se non fai
quello che vogliono le donne si mettono contro cercando di danneggiarti.
(07.01.20)
Le sardine rappresenta
l'evoluzione del buonismo Democristiano e la sintesi fra Prodi e
Renzi, fuori fa ogni logica e senza una proposta concreta
(08.01.20)
Un cavallo di razza
corre spontaneamente e nessuno puo' fermarlo. (09.01.20)
PD e M5S 2 stampelle
non fanno neppure una gamba sana (22.01.20)
non riconoscere i propri errori significa
sbagliare per sempre (12.04.20)
la vera ricchezza dei ricchi sono i figli
dei poveri, una lotteria che pagano tutta la loro vita i figli ai
genitori che credono di non avere nulla da perdere ! (03.11.21)
GLI YESMEN SERVONO PER
CONSENTIRE IL MANTENIMENTO E LO SVILUPPO E L'OCCULTAMENTO DEGLI
INTERESSI OCCULTI DEL CAPITALISMO DISTRUTTIVO. (22.04.22)
DALL'INTOLLERANZA NASCE LA
GUERRA (30.06.22)
L'ITALIA E' TERRA DI
CONQUISTA PER LE BANDE INTERNE DEI PARTITI. (09.10.22)
La dimostrazione che non
esista più il nazismo e' dimostrato dalla reazione europea contro Puntin
che non ci fu subito contro Hitler (12.10.22)
Cara Meloni nulla giustifica
una alleanza con la Mafia di Berlusconi (26.10.22)
I politici che non
rappresentano nessuno a cosa servono ? (27.10.22)
Di chi sono Ambrosetti e
Mckinsey ? Chi e' stato formato da loro ed ora e' al potere in ITALIA ?
Lo spunto e' la vicenda Macron . Quanti Macron ci sono in Italia ? E chi
li controlla ? Mckinsey e' una P2 mondiale ?
Mb
Piero Angela ha valutato che
lo sbarco sulla LUNA ancora oggi non e' gestibile in sicurezza ?
(30.12.22)
Le leggi razziali = al Green
Pass (30.03.23)
Dopo 60 anni il danno del
Vaiont dimostra il pericolo delle scelte scientifiche come il nucleare,
giustificato solo dalle tangenti (10.10.23)
LA
mia CONTROINFORMAZIONE ECONOMICA e' CONTRO I GIOCHI DI POTERE,
perche' DIO ESISTE, ANCHE SOLO per assurdo.
IL MONDO HA
BISOGNO DI DIO MA NON LO SA, E' TALMENTE CATTIVO CHE IL BENE NON PUO'
CHE ESISTERE FUORI DA QUESTO MONDO E DA QUESTA VITA !
PER QUESTO IL
MIO MESTIERE E' CAMBIARE IL MONDO !
LA VIOLENZA
DELLA DISOCCUPAZIONE CREA LA VIOLENZA DELLA RECESSIONE, con LICIO GELLI
che potrebbe stare dietro a Berlusconi.
IL GOVERNO
DEGLI ANZIANI, com'e' LICIO GELLI, IMPEDISCE IL CAMBIAMENTO
perche' vetusto obsoleto e compromesso !
E' UN GIOCO AL
MASSACRO dell'arroganza !
SE NON CI
FOSSERO I SOLDATI NON CI SAREBBE LA GUERRA !
Sopravvaluta sempre il tuo avversario , per poterlo
vincere .Mb 15.05.13
Torino 08.04.13
Il mio paese l'Italia non crede nella mia teoria
economica del valore che definisce
1) ogni prodotto come composto da energia e lavoro:
Il costo dell'energia può tendere a 0 attraverso il
fotovoltaico sui tetti. Per dare avvio la volano economico del
fotovoltaico basta detassare per almeno 20 anni l'investimento, la
produzione ed il consumo di energia fotovoltaica sui tetti.
2) liberalizzazione dei taxi
collettivi al costo di 1 euro per corsa in modo tale da dare un lavoro a
tutti quelli che hanno un 'auto da mantenere e non lo possono piu fare
per mancanza di un lavoro; ed inoltre dare un servizio a tutti i
cittadini.
3) tre sono gli obiettivi principali
della politica : istruzione, sanita', cultura.
4) per la sanità occorre un centro
acquisti nazionale ed abolizione giorni pre-ricovero.
LA VITA E' : PREGHIERA, LAVORO
E RISPARMIO.(02.02.10)
Se non hai via di uscita,
fermati..e dormici su.
E' PIU' DIFFICILE
SAPER PERDERE CHE VINCERE ....
Ciascun uomo vale in funzione
delle proprie idee... e degli stimoli che trova dentro di se...
Vorrei ricordare gli uomini
piu' per quello che hanno fatto che per quello che avrebbero potuto
fare !
LA VERA UMILTA' NON SI DICHIARA
MA SI DIMOSTRA, AD ESEMPIO CONTINUANDO A STUDIARE....ANCHE SE
PURTROPPO L'UNIVERSITÀ' E' FINE A SE STESSA.
PIU' I MEZZI SONO POVERI X
RAGGIUNGERE L'OBIETTIVO, PIU' E' CAPACE CHI LO RAGGIUNGE.
L'UNICO LIMITE AL PEGGIO E' LA
MORTE.
MEGLIO NON ILLUDERE CHE
DELUDERE.
L'ITALIA , PER COLPA DI
BERLUSCONI STA DIVENTANDO IL PAESE DEI BALOCCHI.
IL PIL CRESCE SE SI RIFA' 3
VOLTE LO STESSO TAPPETINO D'ASFALTO, MA DI FATTO SIAMO TUTTI PIU'
POVERI ALMENO 2 VOLTE.
LA COSTITUZIONE DEI DIRITTI
DELL'UOMO E QUELLA ITALIANA GARANTISCONO GIA' LA LIBERTA',
QUANDO TI DICONO L'OVVIETÀ' CHE SEI LIBERO DI SCEGLIERE
E' PERCHE' TI VOGLIONO IMPORRE LE LORO IDEE. (RIFLESSIONE DEL
10.05.09 ALLA LETTERA DEL CARDINALE POLETTO FATTA LEGGERE NELLE
CHIESE)
la vita eterna non puo' che
esistere in quanto quella terrena non e' che un continuo superamento
di prove finalizzate alla morte per la vita eterna.
SOLO ALLA FINE SI SA DOVE PORTA
VERAMENTE UNA STRADA.
QUANDO NON SI HANNO ARGOMENTI
CONCRETI SI PASSA AI LUOGHI COMUNI.
L'UOMO LA NOTTE CERCA DIO PER
AVERE LA SERENITA' NOTTURNA (22.11.09)
IL PRESENTE E' FIGLIO DEL
PASSATO E GENERA IL FUTURO.(24.12.09)
L'ESERCIZIO DEL POTERE E' PER
DEFINIZIONE ANDARE CONTRO NATURA (07.01.10)
L’AUTO ELETTRICA FA SOLO PERDERE TEMPO E DENARO PER
ARRIVARE ALL’AUTO AD IDROGENO (12.02.10)
BERLUSCONI FA LE PENTOLE MA NON I COPERCHI (17.03.10)
GESU' COME FU' TRADITO DA GIUDA , OGGI LO E' DAI
TUTTI I PEDOFILI (12.04.10)
IL DISASTRO
DELLA PIATTAFORMA PETROLIFERA USA COSA AVREBBE PROVOCATO SE FOSSE
STATA UNA CENTRALE ATOMICA ? (10.05.10)
Quante
testate nucleari da smantellare dovranno essere saranno utilizzate
per l'uranio delle future centrali nucleari italiane ?
I POTERI FORTI DELLE LAUREE HONORIS CAUSA SONO FORTI
PER CHI LI RICONOSCE COME TALI. SE NON LI SI RICONOSCE COME FORTI
SAREBBERO INESISTENTI.(15.05.10)
L'ostensione della Sacra Sindone non puo' essere ne'
temporanea in quanto la presenza di Gesu' non lo e' , ne' riservata
per i ricchi in quanto "e' piu' facile che in cammello passi per la
cruna di un ago ..."
sapere x capire (15.10.11)
la patrimoniale e' una 3^
tassazione (redditi, iva, patrimoniale) (16.10.11)
SE LE FORZE DELL'ORDINE
INTERVENISSERO DI PIU'PER CAUSE APPARENTEMENTE BANALI CI SAREBBE
MENO CONTENZIOSO: CHIAMATO IL 117 PER UN PROBLEMA BANALE MI HA
RISPOSTO : GLI FACCIA CAUSA ! (02.04.17)
GRAN PARTE DEI PROFESSORI
UNIVERSITARI SONO TRA LE MENTI PIU' FRAGILI ED ARROGANTI , NON
ACCETTANO IL CONFRONTO E SI SENTONO SPIAZZATI DIVENTANO ISTERICI (
DOPO INCONTRO CON MARIO DEAGLIO E PIETRO TERNA) (28.02.17)
Spesso chi compera auto FIAT lo
fa solo per gratificarsi con un'auto nuova, e basta (04.11.16)
Gli immigrati per protesta nei
centri di assistenza li bruciano e noi dobbiamo ricostruirglieli
affinché li redistruggono? (18.10.20)
Abbiamo più rispetto per le cose che per le
persone .29.08.21
Le ragioni per cui Caino ha ucciso
Abele permangono nei conflitti umani come le guerre(24.11.2022)
Quelli che vogliono l'intelligenza
artificiale sanno che e' quella delle risposte autmatiche
telefoniche? (24.11.22)
L'ASSURDITÀ' DI QUESTO MONDO , E' LA
PROVA CHE LA NOSTRA VITA E' TEMPORANEA , OLTRE ALLA TESTIMONIANZA DI
GESU'. 15.06.09
DIO CON I PESI CI DA
ANCHE LA FORZA PER SOPPORTALI, ANCHE SE QUALCUNO VORREBBE FARMI FARE LA
FINE DI GIOVANNI IL BATTISTA (24.06.09)
IL BAVAGLIO della Fiat nei miei
confronti:
IN DATA ODIERNA HO
RICEVUTO: Nell'interesse di Fiat spa e delle Societa' del
gruppo, vengo informato che l'avv.Anfora sta monitorando con
attenzione questo sito. Secondo lo stesso sono contenuti in esso
cotenuti offensivi e diffamatori verso Fiat ed i suoi
amministratori. Fatte salve iniziative
autonome anche
davanti all'Autorita' giudiziaria, vengo diffidato dal
proseguire in tale attivita' illegale"
Ho aderito alla richiesta dell'avv.Anfora,
veicolata dal mio hosting, ricordando ad entrambi le mie
tutele costituzionali ex art.21 della Costituzione, per
tutelare le quali mi riservo iniziative
esclusive
dinnanzi alla Autorita' giudiziaria COMPETENTE.
Marco BAVA 10.06.09
TEMI SUL
TAVOLO IN QUESTO MOMENTO:
IL TRIBUNALE DI TORINO E LA CONSOB NON MI GARANTISCONO LA
TUTELA DEL'ART.47 DELLA COSTITUZIONE
Oggi si e' tenuta l'assemblea degli azionisti Seat tante bugie
dagli amministratori, i revisori ed il collegio sindacale, tanto per la
Consob ed il Tribunale di Torino i miei diritti come azionista di
minoranza non sono da salvaguardare e la digos mi puo' impedire il voto
come e quando vuole, basta leggere la sentenza
PERCHE' TORINO
HA PAURA DI CONOSCERE LA VERITA' SULLA MORTE DI EDOARDO AGNELLI ?
Il prof.Mario DE AGLIO alcuni anni fa scrisse un articolo
citando il "suicidio" di EDOARDO AGNELLI. Gli feci presente che
dai documenti ufficiali in mio possesso il suicidio sarebbe stato
incredibile offrendogli di esaminare tali documenti. Quando le feci lui
disconobbe in un modo nervoso ed ingiustificato : era l'intero fascicolo
delle indagini.
A Torino molti hanno avuto la stessa reazione senza
aver visto ciò che ha visto Mario DE AGLIO ma gli altri non parlano del
"suicidio" di Edoardo AGNELLI ma semplicemente della suo morte.
Mb
02.04.17
grazie a
Dio , non certo a Jaky, continua la ricerca della verità sull'omicidio
di Edoardo Agnelli , iniziata con i libri di Puppo e Bernardini, il
servizio de LA 7, e gli articoli di Visto, ora il Corriere e Rai 2 ,
infine OGGI , continuano un percorso che con l'aiuto di Dio
portera' prima di quanti molti pensino alla verita'. Mb -01.10.10
ANTONIO
PARISI -I MISTERI DEGLI AGNELLI - EDIT-ALIBERTI-
CRONACA
| giovedì 10 novembre 2011,
18:00
Continua la saga della famiglia ne "I misteri di Casa Agnelli".
Il
giornalista Antonio Parisi, esce con l'ultimo pamphlet sulla
famiglia più importante d'Italia, proponendo una serie di
curiosità ed informazioni inedite
Per
dieci anni è stato lasciato credere che su Edoardo Agnelli,
precipitato da un cavalcavia di ottanta metri, a Fossano,
sull'Autostrada Torino - Savona, fosse stata svolta una regolare
autopsia.
Anonime
“fonti investigative” tentarono in più occasioni di
screditare il giornalista Antonio Parisi che raccontava
un’altra versione. Eppure non era vero, perché nessuna autopsia
fu mai fatta.
Ora
Parisi, nostro collaboratore, tenta di ricostruire ciò che
accadde quel giorno in un’inchiesta tagliente e inquietante,
pubblicando nel libro “I Misteri di Casa Agnelli”, per la
prima volta documenti ufficiali, verbali e rapporti, ma anche
raccogliendo testimonianze preziose e che Panorama di questa
settimana presenta.
Perché
la verità è che sulla morte, ma anche sulla vita, dell’uomo
destinato a ereditare il più grande capitale industriale
italiano, si intrecciano ancora tanti misteri. Non gli unici
però che riguardano la famiglia Agnelli.
Passando dalla fondazione della Fiat, all’acquisizione
del quotidiano “La Stampa”, dalla scomparsa precoce dei
rampolli al suicidio in una clinica psichiatrica di Giorgio
Agnelli (fratello minore dell’Avvocato), dallo scandalo
di Lapo Elkann, fino alla lite giudiziaria tra gli eredi,
Antonio Parisi sviscera i retroscena di una dinastia che,
nel bene o nel male, ha dominato la scena del Novecento italiano
assai più di politici e governanti.
Il
volume edito per "I Tipi", di Aliberti Editore, presenta
sia nel testo che nelle vastissime note, una miniera di gustose
e di introvabili notizie sulla dinastia industriale più
importante d’Italia.
Mondo AGNELLI :
Cari amici,
Grazie mille per
vostro aiuto con la stesura di mio libro. Sono contenta che questa
storia di Fiat e Chrysler ha visto luce. Il libro e’ uscito la settimana
scorsa, in inglese. Intanto e’ disponibile a Milano nella librerie
Hoepli e EGEA; sto lavorando con la distribuzione per farlo andare in
piu’ librerie possibile. E sto ancora cercando la casa editrice in
Italia. Intanto vi invio dei link, spero per la gioia in particolare dei
torinesi (dov’e’ stato girato il video in You Tube. )
Un libro che riporta palesi falsita'
sulla morte di Edoardo Agnelli come quella su una foto inesistente con
Edoardo su un ponte fatta da non si sa chi recapitata da ignoto ad
ignoti. Se fosse esistita sarebbe stata nel fascicolo dell'inchiesta.
Intanto anche grazie a queste falsita' il prezzo del libro passa da 15 a
19 euro! www.marcobava.it
17.12.23
Il Sole 24 Ore:
La Giovanni Agnelli Bv ha deciso
di rivedere anche il sistema di governance. Le nuove disposizioni, […]
identificano tre interlocutori chiave tra gli azionisti: il Gruppo
Giovanni Agnelli, il Gruppo Agnelli e il Gruppo Nasi. Si tratta di tre
blocchi che raggruppano a loro volta gli undici rami famigliari storici.
Il primo quello della Giovanni Agnelli coincide con la Dicembre e dunque
pesa per il 40%. Segue il gruppo Agnelli con il 30% e il gruppo Nasi a
cui fa capo il 20%. I componenti del cda della GA BV sono espressione
proprio di questi tre “macro” gruppi famigliari della dinastia torinese.
Ognuno di loro esprime due rappresentanti nel board della Giovanni
Agnelli Bv e uno nel board di Exor. Oggi il Gruppo Giovanni Agnelli ha
indicato nel board della società olandese Andrea Agnelli e Alexander
Von Fürstenberg. E questo nonostante Andrea Agnelli, che nel
frattempo vive stabilmente ad Amsterdam, di fatto faccia parte di un
altro blocco, quello del Gruppo Agnelli.
Per quest’ultimo i due membri del board sono Benedetto della Chiesa e
Filippo Scognamiglio. Infine, per il gruppo Nasi Luca Ferrero
Ventimiglia e Niccolò Camerana. I consiglieri del Cda della Bv sono
nominati ogni 3 anni e decadono automaticamente al compimento di 75
anni. Ogni gruppo inoltre esprime un proprio rappresentante nel Cda
di Exor che oggi sono Ginevra Elkann (Gruppo Giovanni Agnelli), Tiberto
Ruy Brandolini D’Adda (Gruppo Agnelli) e Alessandro Nasi (Gruppo Nasi).
Accanto al cda dell Bv resta in vita il Consiglio di famiglia, organo
non deliberativo ma consultivo e formato da 32 membri.
Questa la nuova struttura
societaria della Giovanni Agnelli Bv
per quote di possesso.
Dicembre (John Elkann , Lapo e Ginevra): 39,7%
Ramo Maria Sole Agnelli: 11,2%
Ramo Agnelli (Andrea Agnelli e Anna Agnelli): 8,9%
Ramo Giovanni Nasi: 8,7%
Ramo Laura Nasi-Camerana: 6%
Ramo Cristiana Agnelli: 5,05%
Ramo Susanna Agnelli: 4,7%
Ramo Clara Nasi-Ferrero di Ventimiglia: 3,4%
Ramo Emanuele Nasi: 2,5%
Ramo Clara Agnelli: 0,28%
Azioni proprie: 8,2%
Dovranno andare avanti le
indagini della Procura di Milano con al centro il tesoro di Giovanni
Agnelli, 13 opere d'arte che arredavano Villa
Frescot e Villar Perosa a Torino e una residenza di famiglia a Roma,
sparite anni fa e ora reclamate dalla figlia Margherita unica erede dopo
la morte della madre e moglie dell'Avvocato, Marella Caracciolo di
Castagneto, la quale aveva l'usufrutto dei beni.
Mentre riprenderà a Torino la battaglià giudiziaria sull' eredità
lasciata dall'Avvocato, il gip milanese Lidia Castellucci, accogliendo
in parte
i suggerimenti messi nero su bianco da Margherita nell'opposizione alla
richiesta di archiviazione dell'inchiesta, ha indicato al pm Cristian
Barilli e al procuratore aggiunto Eugenio Fusco di raccogliere le
testimonianze di Paola Montalto e Tiziana Russi, entrambe persone di
fiducia di Marella Caracciolo, le quali si sono occupate degli inventari
dei beni ereditati, e di consultare tutte le banche dati «competenti»
comprese quelle del Ministero della Cultura e la piattaforma S.U.E.
(Sistema Uffici Esportazione).
Secondo il giudice, che invece ha archiviato la posizione di un
gallerista svizzero e di un suo collaboratore indagati per ricettazione
in base
alla deposizione di un investigatore privato a cui non sono stati
trovati riscontri (secondo lo 007 avrebbero custodito in un caveau a
Chiasso il
patrimonio artistico), gli ulteriori accertamenti potrebbero essere
utili per identificare chi avrebbe fatto sparire la collezione composta
da
quadri di Monet, Picasso, Balla, De Chirico, Balthus, Gérome, Sargent,
Indiana e Mathieu.
Collezione di cui Margherita ha denunciato a più riprese la scomparsa,
gettando ombre anche sui tre figli del primo matrimonio: John, Lapo e
Ginevra Elkann, e in particolare sul primogenito.
I quali «della sorte o delle ubicazioni di tali opere», hanno saputo
«riferire alcunché».
E poiché ora lo scopo è recuperarle dopo che, per via dei vari
traslochi, si sono volatilizzate, «appare utile procedere
all'escussione» delle due
donne che «si sono occupate degli inventari degli immobili» e che,
quindi, «potrebbero essere a conoscenza di informazioni rilevanti» in
merito agli spostamenti dei quadri e alla «eventuale presenza di
inventari cartacei da esse redatti».
E poi per «verificare le movimentazioni di tali opere, appare opportuno»
compiere accertamenti sulle banche dati comprese quelle del
ministero.
Infine, per effetto di un provvedimento della Cassazione, torna ad
essere discusso in Tribunale a Torino il procedimento penale, promosso
da
Margherita nei confronti dei figli John, Lapo e Ginevra Elkann per una
questione legata all'; eredità di suo padre.
Il processo era stato sospeso in attesa dell'esito di due cause in
Svizzera, ma ieri la Suprema Corte ha respinto il ricorso degli Elkann,
come
hanno fatto sapere fonti legali vicine alla loro madre, e ha stabilito
essere «pienamente sussistente la giurisdizione italiana», annullando
l'ordinanza torinese.
«Nella verifica che tali giudici saranno chiamati ad effettuare -
sottolineano gli avvocati - si dovrà tener conto anche della residenza
abituale
di Marella Caracciolo», che a loro dire era in Italia, «e della
opponibilità dell'accordo transattivo del 2004 nella successione
Agnelli, con
possibili rilevanti ripercussioni sugli assetti proprietari della
Dicembre», la società che fa capo agli eredi.
Fiat Nuova 500 Cabrio
Briosa e chic en plein air
Piacevole da guidare, la Fiat Nuova 500 Cabrio è una citycar elettrica
dallo stile elegante e ricercato. Comoda solo davanti, ha una discreta
autonomia e molti aiuti alla guida. Ma dietro si vede poco o nulla.
Quando lo dicevo io a Marchionne lui mi sfotteva dicendo che ci avrebbe
fatto un buco. Ecco come ha distrutto l'industria automobilistica
italiana grazie al potentissimo Fassino, grazie ai suoi elettori da 40
anni.
SE VUOI COMPERARE IL
LIBRO SUL SUICIDIO SOSPETTO DI EDOARDO AGNELLI A 10 euro manda email
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contrassegno che pagherai alla consegna.
NON
DIMENTICARE CHE:
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deve
considerarsi responsabile per i rischi dei propri investimenti
e per l'uso che fa di queste di queste informazioni
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come fonte di specifici ed individualizzati consigli sulle
borse o sui mercati finanziari. Le nozioni e le opinioni qui
contenute in sono fornite come un servizio di
pura informazione.
Ognuno di voi puo' essere in grado di valutare quale
livello di
rischio sia personalmente piu' appropriato.
In quel tempo, il Signore disse: «Guai a voi, che costruite i sepolcri
dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi testimoniate e
approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite.
Per questo la sapienza di Dio ha detto: "Manderò loro profeti e apostoli
ed essi li uccideranno e perseguiteranno", perché a questa generazione
sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall'inizio
del mondo: dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccarìa, che fu ucciso
tra l'altare e il santuario. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a
questa generazione.
Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della
conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi
l'avete impedito».
Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo
in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli
insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa
bocca
PUTIN ENTRA DEFINITIVAMENTE ALL'INFERNO E
Alexei Navalny IN PARADISO
In linea con l'omicidio di Gesu' Israele
continua ad uccidere e dal patto con DIO e' passata a quello con satana.
Il termine Palestina venne adoperato per la prima volta da
Erodoto, ma soltanto per riferirsi alle zone costiere dell’antico
insediamento filisteo.
Successivamente, nel 135 d.C., venne nuovamente adottato dall’Imperatore
Adriano con l’obiettivo di cancellare il carattere ebraico della
Terra d’Israele.
A quei tempi l’area abitata dagli ebrei veniva definita Giudea, come
attestano Plutarco, Tacito e Svetonio all’inizio del II secolo.
Il termine “palestinese” non è presente nell’antichità e ancora
Gerolamo, nel V secolo, si dimostra consapevole dell’uso del termine
Giudea,
tanto da scrivere: “Judaea quae nunc appellatur Palaestina”.
La terra d’Israele è stata rappresentata “geograficamente” sin dai tempi
di Rashi, ovvero Rabbi Shlomo Yitzhaki (1040-1105): alcuni suoi
scritti contengono infatti mappe schematiche ispirate ai racconti
biblici.
Sarà tuttavia il sionismo a imprimere una svolta importante agli studi
geografici della Terra d’Israele: tra i primi cartografi che possiamo
far
rientrare in questo filone troviamo Eliezer ben Yehudah.
Nel 1833 scrisse un volume, “Sefer Eretz Israel”, in cui descriveva nei
dettagli gli aspetti naturali, il clima, la flora e la Inoltre, nel 1919
vide
la luce la carta “Repubblica della Terra d’Israele”.
Il 2 novembre di due anni prima aveva visto la luce la “dichiarazione
Balfour”.
Si tratta di un documento ufficiale, anche se sotto forma di lettera,
inviato dal ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord
Rotschild,rappresentante della comunità ebraica e del movimento sionista, con il
quale il governo britannico esprimeva la volontà di creare un
“focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, nel rispetto
dei diritti civili e religiosi di tutti i residenti.
Al termine della Prima guerra mondiale la Gran Bretagna ottiene dalla
Società delle Nazioni il “Mandato sulla Palestina” e subito riconosce
la linea di demarcazione del 1906 quale confine tra la Palestina
britannica e l’Egitto.
Nel 1921 stabilisce una suddivisione tra est e ovest, facendo così
nascere nel 1922 la Transgiordania palestinese a est del fiume Giordano
e
della valle dell’Aravà.
Nonostante ancora nel 1925 la Commissione Permanente per i Mandati della
Società delle Nazioni avesse ribadito che uno dei motivi per cui
era stato conferito il Mandato per la Palestina era quello di “portare
avanti i princìpi essenziali contenuti nel Mandato” e, quindi, anche la
creazione di uno Stato ebraico, gli inglesi negli anni cruciali tra il
1937 e il 1947 imposero notevoli restrizioni all’immigrazione ebraica.
Tuttavia, nonostante la disillusione dovuta al “tradimento” inglese, nel
1947 i leader sionisti furono pronti ad accettare un’ulteriore
spartizione territoriale di ciò che restava della Palestina mandataria:
quella della Risoluzione 181 dell’Assemblea generale dell’Onu.
Mentre i leader ebrei accettano, la Lega araba rifiuta e – dopo iniziali
scontri sul campo tra ebrei e arabi – gli eserciti di Siria, Libano,Transgiordania, Iraq ed Egitto scatenano una vera e propria guerra, a
otto ore dalla nascita d’Israele il 14 maggio 1948.
Guerra con cui verrà di fatto sancita l’abolizione del piano di
spartizione e la nascita di nuovi confini: l’Egitto conquista e occupa
quella
porzione di territorio che verrà successivamente chiamato Striscia di
Gaza e lo mantiene sotto il suo controllo sino al 1967, mentre la
Giordania conquista, occupa e annette la Cisgiordania e la parte
orientale di Gerusalemme, compresa la Città Vecchia e il quartiere
ebraico
che, da quel momento e sempre sino al 1967, diventano luoghi
inaccessibili agli ebrei.
In questi anni né Egitto né Giordania si preoccupano di favorire la
nascita dello Stato palestinese sui territori da loro conquistati.
Le linee armistiziali derivanti dalla fine dei combattimenti vengono
segnate sulla carta da un pennarello verde, da qui il nome di “lineaverde”.
Non si tratta pertanto di confini, ma di linee che demarcano il punto in
cui si trovavano gli eserciti il giorno in cui è stato accettato il
cessate
il fuoco.
Linee che avrebbero dovuto essere temporanee, in attesa dei trattati di
pace che le avrebbero modificate seguendo opportune considerazioni
geografiche e le esigenze delle popolazioni locali.
Così, di guerra in guerra, di armistizio in armistizio, le linee di
demarcazione tra i contendenti sono continuate a mutare nel corso degli
anni.
In tutto ciò come hanno reagito i palestinesi?
Pur senza una forte leadership, gli arabi palestinesi avevano fatto
sentire la loro voce all’interno della Lega araba, quando era stato
deciso il
rifiuto alla spartizione del territorio e, ancor prima del 1967 –
momento a partire dal quale la Striscia di Gaza e la Cisgiordania
passano sotto
amministrazione israeliana – i palestinesi avevano dato vita all’Olp
(Organizzazione per la liberazione della Palestina) sotto la guida di
Yasser Arafat, allo scopo di eliminare la presenza dello Stato d’Israele
dall’area.
Soltanto a partire dal 1967 i palestinesi sembrano ritrovarsi attorno
all’ideale di creare uno Stato palestinese indipendente, secondo le
linee
armistiziali del 1949.
*Queste noterelle sono debitrici di alcuni scritti di Daniela Santus,
docente di Geografia culturale all’Università di Torino, pubblicati sul
Foglio.
PROPOSTA AI PARTITI DI COSTITUIRE IL FRONTE ANTIFASCISTA GIACOMO
MATTEOTTI
PER LA TRIOLOGIA DELLA PACE:
Dongfeng a TORINO : credo
sia bipolare promuovere la produzione cinese a TORINO se si vuole
mantenere anche quella della Fiat che invece appena arriveranno i cinesi
scaricherà su di loro i lavoratori.
Intanto Urso , che e' scappato quando gli ho chiesto
perché dei cinesi , Cirio e Tronzano che da 1 anno non rispondono
alla mia proposta di BMW e Toyota per fare entro
il 2028 l'auto ad H2 e la rete H2, DIMENTICANO LA PRODUZIONE CINESE
DEL COVID SU PROGETTO USA E CHE LA CINA E' ALLEATO DELLA RUSSIA NEI
BRICS.
LA FIAT NON VOLEVA FARE LAVORARE GIUGIARO MA
La Hyundai celebra
il traguardo dei 100 milioni di veicoli prodotti con una cerimonia
presso la fabbrica coreana di Ulsan. La Casa coreana, che solo nel 2013
ha festeggiato le 50 milioni di unità, ha ottenuto questo risultato in
57 anni di carriera, alcuni dei quali trascorsi prima di entrare nei
principali mercati internazionali. La vettura numero 100.000.001 è una Ioniq
5, a testimonianza dell'impegno verso l'elettrificazione.
La Pony del 1975. La fabbrica di Ulsan è uno degli elementi chiave
del successo della Hyundai: inaugurata nel 1968, ha dato il via alla
vera crescita del marchio a partire dal 1975, quando è iniziata la
produzione della prima generazione della Pony disegnata da Giorgetto
Giugiaro. La Pony era la prima auto coreana prodotta in serie, non
derivata da modelli esteri ed è stata celebrata dalla Hyundai nel 2023
con la rinascita della Concept
Coupé del 1974.
19.11.24
Estratto dell’articolo di Francesco Tortora e Milena Gabanelli per
il “Corriere della Sera”
«Abbiamo più oro liquido, petrolio e gas, di qualsiasi altro Paese
al mondo. Più dell’Arabia Saudita. Più della Russia». Con queste
parole Donald Trump ha ribadito che gli Stati Uniti torneranno a
puntare sui combustibili fossili. Mentre gli eventi estremi
diventano sempre più frequenti e devastanti (Valencia e Filippine
sono solo gli ultimi di una lunga serie), crescono le pressioni per
rallentare la transizione energetica.
E crescono anche in Europa, il primo continente ad aver indicato le
tappe per la riduzione delle emissioni di CO2. […] Dall’analisi di
PwC vediamo come sta andando il mercato.
Il processo di decarbonizzazione prevede la messa in campo di tutte
le tecnologie efficaci per raggiungere l’obiettivo: neutralità al
2050. Sul mercato ci sono 3 tipologie di auto elettriche: 1) Le
ibride tradizionali: hanno un doppio motore, ma quello elettrico non
ha la spina perché la batteria si ricarica decelerando e frenando.
In città, viaggiando sotto i 50 km/h, resta in modalità elettrica
(autonomia media di 22-23 km per full hybrid ), quindi si riducono i
consumi e le emissioni di polveri sottili. Nei primi nove mesi
dell’anno le vendite nell’Ue hanno registrato un +20%.
2) Plug-in: doppio motore, ma la batteria di quello elettrico si
ricarica dalle colonnine, e viaggiando in città sotto i 50 km/h ha
un’autonomia di 100 km. Ma anche fuori città il motore elettrico
continua ad alimentare la motricità. A settembre le vendite
sull’anno sono calate dell’8%.
3) Le 100% elettriche hanno un solo motore alimentato da batterie
agli ioni di litio e si ricaricano collegando l’auto a una presa o
una colonnina. […] In via generale un’utilitaria può percorrere
250-300 km con una ricarica completa, mentre un’auto di fascia alta
arriva fino a 500 km. I tempi di ricarica dipendono […] Dopo
un’iniziale crescita delle auto di fascia alta, dove la quota di
mercato è passata in due anni dal 9,1% al 14,6%, quest’anno a fine
settembre siamo al 13,1%. Un calo netto rispetto all’atteso 20%.
Dai dati dell’Associazione Costruttori automobilistici europei, a
parte la Norvegia (fuori dalla Ue), dove il 90,5% delle auto
acquistate quest’anno sono full electric, anche perché avendo molte
rinnovabili il costo dell’energia resta basso, e altri pochi Paesi
come Svezia (33%), Olanda (32%) e Belgio (27%) le cose non vanno
bene.
In Germania, il Paese della Ue dove si vende il maggior numero di
auto 100% elettriche, tre anni fa la quota di mercato era all’11,7%.
In due anni le immatricolazioni hanno raggiunto il 18,4%, ma nel
2024 il governo ha bloccato anticipatamente i sussidi e nei primi
nove mesi si è scesi al 13,1%. Va un po’ meglio la Francia dove la
quota di mercato è passata dall’8,5% del 2021 al 16,8%. Ma da
quest’anno sono stati ridotti gli incentivi e bloccato l’esperimento
del «leasing sociale», programma di sovvenzioni rivolto ai ceti meno
abbienti […]. Ora la quota di mercato è al 17,1%. Il Sud Europa è
indietro.
In Italia le full electric non si muovono dal 4% del totale. Negli
ultimi anni sono stati modificati più volte gli incentivi (che non
sono mai stati mirati solo all’elettrico), e la situazione non
migliorerà visto che per l’anno prossimo sono stati tagliati i 4,6
miliardi del Fondo Automotive.
Ma a cosa è dovuta questa tendenza al calo? La Ue ha fatto le leggi,
ma non ha sviluppato una politica industriale e di sovvenzioni
coordinata per approcciare un cambio epocale, perché ogni Paese ha
preferito andare per conto suo. E ogni Paese ha un problema diverso.
Si è puntato sulla produzione di fascia alta perché la domanda
arriva dai più abbienti, mentre le auto di piccola e media
dimensione restano troppo costose, in media il 20% in più rispetto
agli equivalenti modelli a benzina. Poi è arrivata la crisi
economica e la conseguente incertezza sui tempi della transizione.
IN CINA Nei primi nove mesi del 2024 sono stati messi in commercio
4,2 milioni di veicoli full electric con una quota di mercato del
24,7 %. I prezzi sono ormai più bassi rispetto alle auto a benzina e
tecnologicamente Pechino è una generazione avanti. E così i modelli
cinesi hanno conquistato quote di mercato europeo: erano il 5% nel
2018, l’anno scorso hanno raggiunto il 15%.
Con l’accusa di dumping commerciale Bruxelles a fine ottobre ha
introdotto dazi sui veicoli prodotti in Cina in proporzione alle
sovvenzioni che ogni singola casa automobilistica ha ricevuto dallo
Stato […]
Ma come ha fatto la Cina a diventare leader dei veicoli elettrici?
Lo descrive in modo preciso lo studio del Center for Strategic and
International Studies : a partire dal 2009 il governo comunista ha
finanziato l’intera filiera con 230,8 miliardi di dollari
distribuiti su programmi di ricerca tecnologica, investimenti in
infrastrutture, sconti sull’acquisto di auto ed esenzioni d’imposta.
Oggi le multinazionali CATL e BYD controllano oltre il 50% del
mercato delle batterie elettriche che esportano in tutto il pianeta,
mentre l’Europa ha pochissime gigafactory.
Sebbene resti il Paese che inquina di più (31,2% di emissioni di CO2
globali), nel 2023 è diventato anche il Paese leader per energia
rinnovabile[…]
Cosa fanno gli Usa
Quest’anno sono state vendute 901 mila auto 100% elettriche, con una
quota di mercato di solo il 7,7%. Però negli ultimi due anni
l’amministrazione Biden ha investito 126,3 miliardi nello sviluppo
dell’auto elettrica creando 108 mila posti di lavoro. Inoltre, gli
Usa possono vantare Tesla, l’azienda più innovativa del mondo che
anche quest’anno ha piazzato un suo veicolo, la Model Y, al primo
posto delle vendite nei mercati americano, cinese ed europeo.
Chi si ferma è perduto
Acea, l’associazione dei 15 maggiori produttori automobilistici
europei, a settembre ha invitato le istituzioni Ue a rivedere
l’intero processo di decarbonizzazione che fissa al 2025 un nuovo
limite alle emissioni di CO2 (93,6 grammi per chilometro). Vuol dire
che se le aziende non si adeguano, producendo più auto ibride ed
elettriche per compensare le emissioni della produzione endotermica,
dovranno pagare multe milionarie.
In alternativa è concesso comprare crediti green da Tesla. Secondo
un’indagine di Dataforce solo pochi costruttori sarebbero in grado
di rispettare il parametro, per questo l’associazione chiede di
posticipare il limite al 2027. Insieme ai produttori di fossili, pur
riconoscendo che il mondo ormai sta andando in quella direzione e
non si tornerà indietro, chiedono anche di posticipare lo stop al
motore endotermico «perché è stata una scelta ideologica».
18.11.24
"L'Occidente vive un declino culturale La politica impari da
Mattarella" Gianfranco Ravasi
"
Torino
«Le forze politiche italiane puntano a identità e forza, senza più
dare sostanza al concetto di bene comune». Trump? «Mi preoccupa la
semplificazione dannosa che applica su ogni tema». Il cardinale
Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio Consiglio della
Cultura, parla a La Stampa nel Duomo di Torino, prima di tenere una
lectio magistralis per celebrare il centenario dell'Opera diocesana
Pellegrinaggi.
Lei, fondatore del "Cortile dei Gentili", è considerato un simbolo
del dialogo, in particolare tra credenti e non credenti. Questa
distinzione ha ancora senso oggi, o viviamo in un'epoca in cui tutto
è più sfumato, individualista?
«È la domanda fondamentale. Ed è paradossale per me, che ho dedicato
gran parte della mia vita pubblica al tema del dialogo, inteso nel
senso rigoroso del termine: un incrocio tra due logoi, due discorsi
seri e qualificati. Nel passato - indicativamente prima della caduta
del muro di Berlino - era più semplice e meno aggressivo: due
visioni con valori propri si incontravano e, pur mantenendo le
differenze e affrontandosi talvolta duramente, riuscivano ad
ascoltarsi. Era l'essenza stessa della parola "incontro": da una
parte l'avvicinamento (in-), dall'altra la marcatura delle identità
(contro). Oggi la situazione è diversa».
Come la descrive?
«Citando la sottolineatura di Paul Ricoeur: siamo in un'epoca in cui
alla "bulimia dei mezzi" corrisponde un'"anoressia dei fini".
Abbiamo tecnologie potenti, ma ci mancano le grandi tensioni ideali.
La superficialità e l'omogeneità dominano, avvolgendo tutto in una
sorta di nebbia culturale. Questo fenomeno rende il dialogo vero
sempre più difficile, specialmente nei contesti comuni, dove manca
la profondità necessaria per affrontare temi complessi».
Lei parla di un «grigiore» che sembra permeare ogni ambito. E le
chiese?
«Charles Taylor evidenzia un aspetto cruciale della
secolarizzazione: Cristo stesso, se apparisse oggi proclamando le
beatitudini, non scuoterebbe le coscienze come un tempo. Al massimo,
un poliziotto gli chiederebbe i documenti. Questo è il livello di
appiattimento che viviamo: una società incapace di accogliere
messaggi forti, proprio perché priva di valori radicati. Tutta la
cultura sembra spingerci verso questo grigiore, una sorta di
abbassamento generale degli standard. Anche alcune chiese, in
particolare alcune protestanti, hanno tentato di abbassare il
livello delle loro idee, esigenze etiche e morali per attrarre più
persone. Ma il risultato non è stato il ripopolamento dei luoghi di
culto».
Qual è una via d'uscita?
«Essere una spina nel fianco di questa tendenza, come fa papa
Francesco. La soluzione è tornare a proporre il Vangelo nella sua
forma forte. È questo che può ancora scuotere le coscienze e
suscitare una reazione autentica. E in generale, per il futuro delle
società è essenziale proporre grandi valori culturali».
La politica italiana sembra più interessata al consenso che ai
problemi reali. È d'accordo?
«Purtroppo sì. Manca quella autorevolezza rappresentata dal
presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Le forze politiche
puntano solo a identità e forza, senza più dare sostanza al concetto
di bene comune. Certo, il consenso è sempre stato necessario, ma non
dovrebbe essere l'unico obiettivo. In passato i leader politici si
impegnavano anche a proporre visioni a lungo termine, a costruire.
Oggi, invece, l'azione dei partiti si riduce spesso alla ricerca
immediata del potere, sostenuta da mezzi di comunicazione che
privilegiano la retorica e gli slogan, hanno sostituito i vecchi
comizi e i dibattiti di spessore, riducendo la possibilità di
approfondire questioni importanti».
Quali prospettive intravede negli Stati Uniti dopo la vittoria di
Donald Trump?
«Gli Usa, e non la Cina, rappresentano ancora il modello culturale e
politico fondamentale per l'Occidente. Tuttavia, mi preoccupa la
semplificazione che Trump applica su ogni argomento: questo modo di
agire esclude la complessità della realtà per ottenere risposte
emotive. È un approccio che tende a emarginare questioni rilevanti,
generando polarizzazioni dannose. Anche nel panorama culturale
americano si nota un declino. In passato, scrittori come Philip Roth
o Saul Bellow rappresentavano una cultura capace di guidare e
ispirare. Oggi, pur con qualche eccezione, manca una classe
intellettuale di pari statura. Questo impoverimento culturale
riflette un problema più ampio: la società americana, come molte
altre, sembra avere perso la capacità di elaborare visioni profonde
e condivise».
Lei fuggirà da X, il social network di Elon Musk, l'uomo forte della
prossima amministrazione Usa a firma Tycoon?
«Anche se la tentazione di abbandonare c'è, preferisco fare come
Cristo: stare in cattiva compagnia (sorride, ndr.)»
In un contesto internazionale segnato da guerre e tensioni, ha senso
avere speranza in un futuro migliore?
«Oggi rischiamo di cadere in due estremi: l'utopia illusoria, che
promette senza fondamento, o il realismo cinico, che rinuncia a
sperare. Per affrontare le sfide del nostro tempo dobbiamo ritrovare
un equilibrio, riscoprendo la speranza come forza capace di
alimentare scelte e mosse concrete e ideali più alti. E
concilianti». —
La Russia bombarda città e infrastrutture: almeno 10 morti. "La
notte più infernale", Kiev al buio Il presidente Usa autorizza l'uso
degli Atacms in territorio russo . Zelensky: "Parleranno le armi"
"
Andriy Sybiga
Ucraina, l'attacco più duro E Biden dà il via libera ai missili a
lungo raggio giuseppe agliastro
mosca
Civili uccisi, case danneggiate, gravi blackout in vaste regioni del
Paese: le autorità ucraine accusano le truppe di Putin di aver preso
di mira città e villaggi in una «infernale notte» di bombardamenti.
Uno dei raid più massicci, il più pesante degli ultimi tre mesi,
denuncia Kiev, secondo cui ieri l'esercito del Cremlino ha lanciato
circa 120 missili e 90 droni ancor prima che albeggiasse, uccidendo
almeno dieci civili innocenti e mettendo pericolosamente in
ginocchio la rete elettrica ucraina con l'inverno ormai alle porte.
Fonti di Reuters, Washington Post e New York Times intanto
sostengono che Biden avrebbe dato all'Ucraina l'autorizzazione a
colpire in Russia con i missili a lunga gittata Atacms. Si
tratterebbe – affermano – di una risposta al Cremlino, accusato da
Usa, Ucraina e Corea del Sud di aver dispiegato 10.000 soldati
nordcoreani per farli combattere nella regione russa di Kursk, dove
alcuni territori sono controllati dalle truppe di Kiev dopo
un'offensiva lanciata a sorpresa ad agosto. «Uno dei punti del
Victory Plan - il commento di Zelensky - è la capacità a lungo
raggio per il nostro esercito. Si parla molto sui media del fatto
che riceviamo il permesso per tali azioni. Ma gli attacchi non si
eseguono a parole. Queste cose non vengono annunciate. I missili
parleranno da soli».
Se la notizia dovesse essere confermata, si tratterebbe di una netta
inversione da parte dell'attuale amministrazione americana, che però
tra due mesi dovrà lasciare il posto a un nuovo team guidato da
Trump. I missili, capaci di colpire a 300 chilometri di distanza,
dovrebbero essere utilizzati inizialmente solo nella regione di
Kursk, ma Biden potrebbe poi autorizzarne l'uso anche altrove,
sostengono le stesse fonti, secondo le quali Trump potrebbe però
revocare questa mossa una volta al potere.
Il Cremlino – che ha già più volte agitato il terribile spettro
delle armi atomiche – in passato ha risposto con parole durissime
alla possibilità che gli Usa consentano all'Ucraina di colpire in
territorio russo con le armi a lungo raggio da loro fornite. E
secondo molti esperti, l'annuncio di Putin di voler modificare la
dottrina nucleare russa e considerare come «un attacco congiunto»
alla Russia anche un'eventuale «aggressione da parte di uno Stato
non nucleare ma con il sostegno di uno Stato nucleare», sarebbe
stato di fatto un modo per tentare di impedire questa eventualità.
In Ucraina, gli allarmi antiaerei sono andati avanti per ore e i
raid sembrano non aver risparmiato nessun angolo del Paese: le
autorità denunciano bombe sulla regione di Mykolaiv, nel Sud, come
su quella di Kiev, nel Nord, a Nikopol, nel Sud-Est, come nell'oblast
di Leopoli, nell'Ovest del Paese. Le forze ucraine sostengono di
aver abbattuto 144 ordigni su oltre 210. E secondo Zelensky tra i
razzi lanciati dalle truppe russe ci sarebbero anche missili
ipersonici come i Kinzhal e gli Zirkon. La Polonia per sicurezza ha
fatto decollare i suoi caccia. Mentre Mosca da parte sua accusa Kiev
di raid di droni che avrebbero provocato la morte di un civile
vicino Belgorod e di una reporter nella zona di Kursk.
L'attacco contro l'Ucraina ha provocato interruzioni delle forniture
elettriche in almeno quattro regioni, compresa quella della capitale
Kiev, fa sapere la società energetica Dtek: una situazione che
preoccupa perché, con l'arrivo dell'inverno, si teme che si ripeta
la drammatica situazione degli anni passati, con i soldati russi
accusati di aver lasciato milioni di ucraini al buio, al gelo e
senza acqua nelle case.
«Ancora una volta tentano di intimidirci con il freddo e i
blackout», tuona Zelensky. Secondo il presidente ucraino, in quasi
tre anni di guerra è stata distrutta circa metà della capacità di
produzione elettrica del Paese. Ma altri osservatori danno un quadro
ancora più fosco, e parlano di danni al 65% delle infrastrutture
dell'Ucraina, che intanto annuncia restrizioni energetiche da oggi
ammettendo nuovi danni a una rete elettrica già messa a dura prova.
«Questa è la vera risposta del criminale di guerra Putin a tutti
coloro che gli hanno telefonato e gli hanno fatto visita
recentemente», è stato il commento del ministro degli Esteri
ucraino. «Abbiamo bisogno di una pace attraverso la forza, non di un
appeasement», ha poi dichiarato Andriy Sybiga, di fatto ribadendo il
messaggio lanciato il giorno prima da Zelensky, che ha auspicato il
raggiungimento della pace attraverso la diplomazia ma con un'Ucraina
"forte". Sono parole che arrivano dopo la vittoria di Trump alle
presidenziali Usa e la conseguente incertezza su cosa succederà con
lui alla Casa Bianca. Il tycoon ha promesso di mettere fine alla
guerra "in 24 ore", ma Kiev teme che faccia leva su una possibile
riduzione delle forniture di armi americane per spingere verso un
congelamento del conflitto che consenta di fatto a Mosca di
controllare i territori occupati. «Staremo al fianco dell'Ucraina
fino a quando servirà» ha detto da parte sua la presidente della
Commissione europea, Ursula von der Leyen, mentre il cancelliere
tedesco Scholz – criticato da Zelensky per aver chiamato Putin
venerdì – afferma che Kiev "può contare" sulla Germania e che
"nessuna decisione sarà presa alle spalle dell'Ucraina". Nonostante
alcune aperture al dialogo, la strada verso la pace pare purtroppo
ancora in salita.
Giuseppe Busia
"Sbagliato eliminare l'abuso d'ufficio Così controlli sempre più a
rischio" Inchiesta a Roma
Subappalti a cascata
"
Combattere la corruzione è anche questione di cultura. Ne è convinto
Giuseppe Busia, presidente dell'Anac, Autorità nazionale anti
corruzione. E lo dice chiaramente: la battaglia contro gli illeciti
negli appalti «richiede un clima culturale che ne evidenzi gli
enormi danni». La riflessione su leggi sempre più deboli e indagini
in tutta Italia arriva dopo l'inchiesta della procura di Roma su un
giro di tangenti negli appalti del Giubileo, nata anche dopo alcune
segnalazioni da Anac sulle imprese oggi indagate.
Il governo ha eliminato l'abuso d'ufficio: non certo un aiuto per
limitare la corruzione.
«È stata una decisione sbagliata, che lascia vuoti di tutela
importanti, creando anche disarmonie nell'ordinamento, con
conseguenti dubbi di legittimità costituzionale».
Può farci degli esempi?
«Adesso non è più penalmente rilevante se un commissario di concorso
fa vincere il candidato che gli è simpatico, oppure se un
funzionario affida direttamente un appalto ad un'impresa amica,
omettendo di fare la gara. Ciò, purché questi non ricevano qualcosa
in cambio».
Anche la Corte dei Conti si avvia ad essere profondamente
ridimensionata nel suo ruolo?
«La Corte dei conti svolge un ruolo fondamentale per evitare lo
spreco di risorse pubbliche: può essere utile aumentare i controlli
preventivi e collaborativi, quali quelli che anche noi facciamo, ma
senza snaturarne il ruolo e purché si doti di mezzi adeguati.
Altrimenti si finisce per eliminare i controlli, che invece sono
essenziali».
Quali anticorpi contro la corruzione mancano al nostro Paese?
«In modo totalmente inaspettato, pur dopo un percorso di proficua
collaborazione, l'ultimo disegno di legge ha eliminato dal codice il
rating reputazionale delle imprese. Affidato all'Anac, prevedeva una
valutazione dell'impresa sulla base di dati oggettivi, legati anche
all'esperienza».
Un report sulla qualità?
«Che, ad esempio nel caso di Roma, avrebbe da subito segnalato il
sorgere di tante Srl senza alcuna competenza ed esperienza. Le
stazioni appaltanti devono scegliere chi ha una storia buona ed è
affidabile. Serviva semplificarlo, ma eliminarlo è un errore».
Perché è stato fatto?
«È stato sostituito da un meccanismo parziale e poco efficace,
affidato al Ministero invece che ad un'autorità indipendente. Spero
si torni indietro. Senza chiudere il mercato, bisogna scoraggiare il
proliferare d'imprese che sorgono dal nulla: nel migliore dei casi
serve ad eludere il fisco, nel peggiore a nascondere attività
fraudolente come quelle che abbiamo visto».
Al centro dell'inchiesta sugli appalti nella Capitale c'era un
imprenditore con una galassia di imprese. Come tutelarci?
«Ad esempio, con l'obbligo di indicare il titolare effettivo. Altra
cosa che come Anac abbiamo richiesto ed inspiegabilmente non viene
inserita nel codice. In questo caso, come in molti altri, c'erano
tutte imprese riconducibili ad un'unica persona».
Con i subappalti a cascata le cose si complicano. Ma è la normativa
europea a consentirli.
«Bisogna comunque scoraggiarne l'abuso, in ogni caso sottoponendoli
a controlli e verifiche puntuali. Di fatto, penalizzano tutti: i
subappaltori onesti, che devono devolvere parte del guadagno a chi
li precede nella catena, i lavoratori, esposti a rischi crescenti e
condizioni deteriori, e tutta la comunità, perché inevitabilmente la
qualità delle prestazioni si riduce. C'è poi un altro limite del
codice, sul quale spero si intervenga».
Quale?
«Il conflitto d'interessi. Con il nuovo codice, le regole che lo
riguardano sono state molto ammorbidite».
Altra questione sono gli affidamenti diretti. Cito le sue parole:
«Per compensare all'urgenza, si penalizza la trasparenza». Ci crede
ancora?
«Quando vi è un'urgenza, è giusto che si applichino procedure
acceleratorie, e noi stessi abbiamo in generale proposto
semplificazioni. Ma perché, per i casi ordinari, in cui
l'amministrazione non ha fretta, si prevede che si possano spendere
fino a 140 mila euro di soldi pubblici senza neanche confrontare due
preventivi per servizi, come le consulenze, o per acquistare beni?
Tutto questo, quando oggi bastano pochi minuti sul web per comparare
i costi della maggior parte dei beni e ciascuno di noi lo fa per
cifre ben inferiori».
Il Tfr nei fondi pensione Sei mesi per decidere Anna maria angelone
Per capire come finirà la partita del Tfr nei fondi pensione
bisognerà attendere, probabilmente, mercoledì prossimo quando sarà
definita la lista degli emendamenti alla manovra da votare. Ma,
grazie a tre "correttivi" riammessi dalla commissione Bilancio, la
maggioranza ha riacciuffato in extremis l'idea di un semestre di
silenzio-assenso per destinare il trattamento di fine rapporto dei
lavoratori alla pensione complementare. Il primo ritocco, a firma
della leghista Tiziana Nisini, chiede l'introduzione di una finestra
dal 1° aprile al 30 settembre 2025 mentre Walter Rizzetto (Fratelli
d'Italia) propone di far partire il semestre il 1° gennaio.
Il semestre di silenzio-assenso
Che cosa accadrà, se approvato? Durante questi sei mesi, tutti i
lavoratori saranno chiamati a esplicitare se lasciare in azienda il
proprio Tfr. In caso di "non scelta", scatterà automatico il
versamento del Tfr alle forme di pensione integrativa e non si potrà
più tornare indietro (le norme attuali consentono di cambiare idea
solo a chi lo accantona). Il datore di lavoro, dunque, si troverà
nella condizione di trasferire il Tfr maturando degli assunti ai
fondi pensionistici di categoria dei contratti collettivi o
territoriali o al fondo con le maggiori adesioni dei dipendenti.
Altrimenti, a Cometa (il fondo dei metalmeccanici).
Il primo tentativo nel 2007
Il meccanismo del "silenzio-assenso" fu sperimentato una prima volta
nel 2007. Il numero di iscritti alla previdenza complementare salì
da poco più di 3 milioni a 4,5. Tuttavia, le adesioni coinvolsero
meno del 30% dei lavoratori totali. Il provvedimento odierno,
inizialmente proposto dal ministro del Lavoro Marina Calderone,
aveva sul tavolo due ipotesi. La prima: obbligo di versamento del
25% del Tfr per tutti i lavoratori o solo per i neoassunti. In
alternativa, un sistema su base volontaria con un semestre di
silenzio-assenso (opzione più gradita ai sindacati). Sulla carta,
l'obiettivo è rafforzare la previdenza integrativa soprattutto per i
giovani, i più penalizzati dal sistema contributivo. Se finora un
lavoratore poteva contare su un assegno pensionistico pari all'80%
della sua ultima busta paga, per chi si affaccia al mondo del lavoro
oggi la previsione – a parità di anni lavorati - è un magro 50-60%.
Ma le variabili da valutare sono molte.
Addio alla "buonuscita"?
Tecnicamente, il trattamento di fine rapporto è una retribuzione
differita accantonata dal lavoratore durante la sua carriera. Si
tratta di una sorta di liquidazione percepita in caso di perdita del
posto di lavoro o pensionamento. In modo diverso, esiste in altri
paesi europei (sebbene nella maggioranza dei casi, la cosiddetta "severance
pay" è prevista come compensazione per i licenziamenti di natura
economica). A tutti gli effetti, dunque, il Tfr è una forma di
risparmio "forzoso" che può tornare molto utile se si resta senza
occupazione o si ha bisogno di liquidità immediata per imprevisti o
spese di una certa entità.
17.11.24
La rabbia di Israele sul Papa "Genocidio quello del 7 ottobre" FRANCESCA DEL VECCHIO
MILANO
«Il 7 ottobre è stato un genocidio: Israele ha diritto di
difendersi». Passano diverse ore prima che l'ambasciata di Tel Aviv
presso la Santa Sede prenda posizione – con estrema nettezza – nei
confronti delle parole del Papa che, in un'anticipazione pubblicata
ieri su La Stampa, suggeriva la necessità di «indagare con
attenzione per determinare se (quello che accade a Gaza, ndr)
s'inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e
organismi internazionali» di "genocidio". Francesco lo scrive nelle
pagine del suo libro, La speranza non delude mai. Pellegrini verso
un mondo migliore, che uscirà domani in Italia, Spagna e America
Latina (a seguire negli altri Paesi) in occasione del Giubileo 2025
per Piemme. Ma la dichiarazione è talmente dirompente che in poche
ore fa il giro dei quotidiani di tutto il mondo, dall'agenzia
Reuters al Times of Israel, dai quotidiani statunitensi a quelli
asiatici.
Le parole del Papa arrivano proprio alla vigilia della presentazione
all'Onu dal rapporto del Comitato speciale delle Nazioni Unite che,
per la prima volta, mette nero su bianco le sue accuse: le pratiche
israeliane nella Striscia di Gaza «corrispondono alle
caratteristiche di un genocidio». E ancora, Israele «provoca
intenzionalmente morte, fame e lesioni gravi».
La reazione da parte dell'ambasciata è certamente quella che tutti
si aspettano: contrarietà. Le frasi vengono stigmatizzate dalla
diplomazia israeliana presso la Santa Sede che non solo ricorda come
il «il 7 ottobre c'è stato un massacro genocida» ma sottolinea che
«qualsiasi tentativo di chiamare questa autodifesa con qualsiasi
altro nome significa isolare lo Stato ebraico». Non ci si poteva
aspettare posizione diversa, d'altronde. E così, le due più grandi
comunità ebraiche italiane, Roma e Milano, scegliendo il riserbo,
mostrano di fatto la loro scelta di campo. A partire dai vertici più
alti: i rabbini Riccardo Di Segni e Alfonso Arbib, il presidente
della comunità milanese Walker Meghnagi. Il suo silenzio, invece,
quello della senatrice a vita Liliana Segre, non sorprende: non ha
mai voluto schierarsi in questo dibattito.
A distanza di mesi, furono anticipatrici le dichiarazioni del
rabbino capo di Roma Di Segni dopo lo «Stop al genocidio» chiesto da
Ghali a Sanremo: «Le sue parole passano come un messaggio di pace.
Che invece mescola le carte in tavola, e sovverte la Storia». Parole
ancor più significative se lette ora che a parlare di "genocidio" è
il Papa.
«Trovo le accuse di genocidio "certamente infondate", per citare il
Dipartimento di Stato americano», commenta invece Davide Romano,
direttore del Museo della Brigata Ebraica di Milano. «L'esercito
israeliano – aggiunge – è l'unico ad avvisare i civili palestinesi
prima di bombardare obiettivi militari, il solo a fornire aiuti
umanitari ai civili mentre combatte i terroristi e a vaccinare la
popolazione palestinese contro la poliomelite durante la guerra.
Tutte queste operazioni, insieme a molte altre, rendono le ipotesi
di genocidio infondate».
Tra le reazioni più dure, poi, c'è quella del consigliere comunale
milanese Daniele Nahum, già vice presidente della Comunità ebraica
locale e fuoriuscito dal Pd in protesta proprio per l'uso della
parola "genocidio", che si dice «stupito dal Santo Padre». A suo
dire, «far passare le vittime di ieri come i carnefici di oggi sta
portando a una ondata di antisemitismo». E aggiunge: «Evidentemente
al Papa è sfuggito il rapporto dell'Onu che ridimensiona il numero
di morti a Gaza. Massacro è un termine diverso». Infine, parla di
«accendere gli animi contro Israele e gli ebrei» l'associazione
Setteottobre, fondata tra gli altri da Stefano Parisi (ex numero uno
di Fastweb che nel 2016 si candidò per il centrodestra contro Beppe
Sala al comune di Milano). «Siamo oggi tutti preoccupati per questo
drammatico rigurgito antisemita. L'enorme responsabilità morale del
Papa dovrebbe suggerire una maggiore cautela», scrivono in una nota.
Da parte della comunità palestinese, invece, arriva il
ringraziamento a Jorge Mario Bergoglio «ancora una volta, per il
riconoscimento del diritto del popolo palestinese
all'autodeterminazione e alla creazione del suo stato libero e
indipendente».
D'altronde, non è la prima volta che il Papa usa la parola
"genocidio" per quanto accade nella Striscia. Lo avevano riferito i
familiari dei palestinesi di Gaza incontrati dal Pontefice il 22
novembre 2023. All'epoca, arrivò subito la smentita da parte del
portavoce vaticano Matteo Bruni. All'epoca, si trattava di un
colloquio. Questa volta, "genocidio" è scritto nero su bianco
16.11.24
Critico anche sui decreti omnibus che i governi usano per inserire
norme non omogenee tra loro
Dal decreto anti-rave a quello sull'Albania Ecco le norme finite nel
mirino del Quirinale roma
L'innesco politico arriva dopo le 17 quando il Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella ha già affrontato la platea degli
studenti (e non solo) parlando di informazione digitale, della
minaccia delle fake news e delle sfide che pone l'intelligenza
artificiale. Poi, sul finire, ecco il quarto giovane in fila per le
domande. Si chiama Tommaso Pasquali e frequenta il quinto anno
dell'Istituto don Bosco di Padova. Il giovane per cambiare ritmo
alla giornata chiede con rispetto al Capo dello Stato se in questi
anni si sia mai sentito di parte o se abbiano provato a farlo
sentire tale. Mattarella non si tira indietro. Ricorda i suoi
«venticinque anni in Parlamento» e nella sua analisi, senza citare
particolari e nemmeno i come e i quando, ricorda le volte che
rispetto «a leggi e decreti» ha avuto «opinioni diverse» nel merito
rispetto a quelle che erano state proposte. Aggiunge, non
casualmente, in tutti questi «quasi miei dieci anni» al Quirinale:
come a sottolineare che ciò è accaduto con tutti i governi che in
questa fase si sono succeduti. Non elenca i provvedimenti, ma certo
non occorre per farli riapparire alla memoria. A cominciare dal
primo governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte riguardo ai
provvedimenti sui migranti fino a uno degli ultimi, il decreto
Albania, che Sergio Mattarella ha atteso giorni per promulgare e
solo dopo un'attenta analisi personale e degli uffici. Non sono
mancate segnalazioni, richieste di modifiche, e magari discussioni
tra quirinalizi e palazzi governativi ma niente che trapelasse
ufficialmente, se non la tempistica dilatata, che di per sé è stata
assai più chiara di mille parole.
Nel mezzo, di provvedimenti poco "graditi" al Colle ce ne sono stati
anche altri. Forse troppi, certamente il primo, varato dal governo
Meloni: quello sui rave party. A anche lì, nonostante molti
sostenessero che Mattarella non dovesse firmarlo, il capo dello
Stato lo ha fatto, forse anche come segnale per il decreto varato da
un governo appena eletto. Poi è stata la volta dei decreti omnibus.
E anche in quei casi, il Presidente non ha celato il fastidio per la
disomogeneità di troppi e diversi temi infilati nottetempo nelle
maglie di commi e articoli. E così avanti con la legge
sull'autonomia differenziata. Anche lì, la firma seguendo – come ha
ribadito oggi più in generale – la grammatica costituzionale perché
«non palesemente incostituzionale» forse prevedendo (chissà? ) come
poi è accaduto, che ci avrebbe pensato la Corte Costituzionale a
chiarire la portata e la validità di quella legge. Già, perché per
il Presidente «ciascun potere e organo dello Stato – ha sottolineato
– deve sapere che ha limiti da rispettare perché le funzioni di
ciascuno non sono fortilizi contrapposti per strappare potere l'uno
all'altro ma elementi della Costituzione chiamati a collaborare,
ciascuno con il suo compito e rispettando quello altrui». Insomma,
riaffermando il principio del cosiddetto «check and balance»,
sottolinea Mattarella che attiene al Colle ma anche ai poteri
legislativo ed esecutivo. Una lezione di educazione civica, come
l'ha definita Andrea Ceccherini, presidente dell'Osservatorio
permanente dei Giovani Editori conclusa tra gli applausi, che non ha
rinviato il discorso oltre l'orizzonte dialettico della legge
sull'autonomia differenziata (mai citata peraltro dal Capo dello
Stato). Chissà, forse la volta prossima sarà interessante chiedere
cosa pensa, ad esempio, della legge di riforma costituzionale sul
premierato. Vedremo la risposta. Anche se, forse, è anche inutile
chiederlo.
15.11.24
Castelli, ville, parchi Aperte al pubblico
46 dimore storiche giulietta de luca
Il patrimonio piemontese si fa ancora più ricco e apre al pubblico
le porte di 46 dimore private di grande interesse storico e
culturale, di cui 18 in provincia di Torino.
E' quanto prevede il protocollo firmato ieri dall'Associazione
dimore storiche italiane di Piemonte e Valle d'Aosta (Adsi) e dalla
Federazione italiana associazioni imprese di viaggi e turismo (Favet),
che d'ora in avanti garantirà la messa in mostra di castelli, ville
e dei loro splendidi parchi, che potranno essere visitati su
prenotazione.
La proposta era arrivata dall'Adsi, in sinergia con la Regione
Piemonte e il Consiglio regionale. L'obiettivo è non solo ampliare
l'offerta turistica, ma anche portare avanti un'azione di
restituzione al territorio di quelle che sono le bellezze e le
tradizioni che lo contraddistinguono e lo rendono una tra le mete
più ambite d'Italia.
«Questi luoghi rappresentano la nostra identità profonda, raccontano
la storia delle famiglie che hanno contribuito a rendere più bello
il nostro territorio» dichiara l'assessora regionale alla Cultura,
Marina Chiarelli.
Aggiunge: «Valorizzare queste dimore e i tesori che vi si trovano
all'interno non significa solo promuovere il turismo, ma anche
preservare un patrimonio culturale che appartiene a tutti noi. Ogni
visita diventa un'occasione per riscoprire il legame con le nostre
radici».
Inoltre, come ha ricordato il vicepresidente Adsi Alessandro
Gosztonyi, «sebbene siano spesso ritenute beni di lusso, le dimore
storiche contribuiscono a tenere in vita mestieri e professioni in
via di estinzione».
14.11.24
Le mani
sul GIUBILEO irene famà
roma
Il «cartello dell'asfalto» che prometteva di fare Roma più
accogliente in vista del Giubileo, in realtà lucrava sulla grande
bellezza. Con un imprenditore spregiudicato e funzionari e
poliziotti corrotti. E un giro d'affari di oltre cento milioni di
euro. Parla di questo l'indagine della Guardia di Finanza, con 18
persone finite nei guai e perquisizioni sino in Campidoglio.
Figura centrale è l'imprenditore romano Mirko Pellegrini, classe
'78, nome già noto alla magistratura per una storia, a Reggio
Calabria, di appalti truccati sulle autostrade. Un vero e proprio
«dominus», così lo definiscono gli inquirenti negli atti. Tramite
prestanome di professione, i più con alle spalle reati per evasione
e frode, gestiva una galassia di piccole società. Così poteva
«partecipare a numerose gare per lavori di asfaltatura e rifacimento
del manto stradale». Ai bandi si presentavano società diverse, è
vero. Ma, è scritto nelle carte d'inchiesta, «erano governate da un
unico centro decisionale». Non solo. Il suo «impero», stando ai
primi accertamenti, Mirko Pellegrini lo manteneva con continui
pagamenti di mazzette. Oppure assicurando posti di lavoro ai figli
di chi faceva affari con lui.
Indagati anche quattro funzionari del Comune, un geometra di Astral,
società partecipata al 100% della Regione Lazio, e due agenti della
Polizia stradale. Accusati, a vario titolo, di associazione per
delinquere finalizzata alla corruzione, frode in pubbliche
forniture, turbata libertà d'incanti, riciclaggio ed autoriciclaggio.
E sono proprio i reati contestati a fornire il quadro di questa
vicenda. Dove imprenditori spavaldi cercano di insinuarsi nei
proficui affari della Capitale, interessata da una marea di
cantieri, assieme a funzionari compiacenti. Tirarsi indietro?
Impossibile. Come dimostra una delle tante intercettazioni
telefoniche finite nel fascicolo. Pellegrini è con uno dei «suoi
uomini». Parlano di un funzionario, a loro libro paga: «Vagli a dire
a quello, che se continua a rompere gli chiediamo indietro i
diecimila euro che gli abbiamo dato».
Una volta ottenuto il contratto, poi, si andava al risparmio. In
particolare, sostengono gli inquirenti coordinati dal procuratore
aggiunto Giuseppe Cascini e dal pubblico ministero Lorenzo Del
Giudice, per quanto riguarda «lo spessore del manto di asfalto e le
quantità di materiale impiegato» . Insomma: lo strato di asfalto
veniva realizzato molto più sottile di quanto stabilito nel
capitolato. Grazie ai funzionari «amici», i controlli erano
facilmente raggirabili. Compresi quelli sui camion delle imprese che
superavano i limiti di peso previsti per il trasporto di materiali
edili.
Coinvolto pure un direttore della «Blu Banca spa» di Frascati:
secondo la procura, sapeva che dietro 170 conti correnti c'erano dei
prestanome eppure non avrebbe mai segnalato alcunché. Gli
investigatori del Nucleo di Polizia economico finanziaria della
Guardia di Finanza di Roma hanno eseguito una serie di perquisizioni
e sequestri, alcuni dei quali negli uffici del dipartimento del
Comune di Roma in via Petroselli. Al vaglio una quarantina di
cantieri, tra cui quelli legati ai bandi indetti da Astral (Azienda
strade Lazio spa) in previsione del torneo di golf Ryder Cup. A dare
il via alle indagini, sono state alcune vicissitudini della Fenice
srl. Da lì, gli inquirenti hanno ricostruito «la rete di persone e
società» che pare facessero capo a Pellegrini. Stando agli
accertamenti in corso, «La Fenice srl» è mandante di una serie di
lavori su alcuni dei principali ponti della Capitale, da ponte
Milvio a Testaccio. Perlopiù opere di manutenzione e abbellimento i
cui interventi sono in parte finanziati con i soldi del Giubileo. E
altre società si sarebbero occupate di marciapiedi.
La Città ha avviato un'indagine interna ed è stata costituita una
commissione tecnica. «Dalle prime risultanze sono emersi
affidamenti, tutti effettuati attraverso le procedure di legge,
compresi alcuni interventi giubilari: ogni elemento sarà messo a
disposizione degli inquirenti», si legge in una nota. E il sindaco
Roberto Gualtieri si dice «indignato per la possibilità che qualcuno
abbia commesso irregolarità che non devono sporcare il lavoro per il
rilancio di Roma».
13.11.24
"Dossieraggi, l'Antimafia sapeva dal 2020" La rabbia di De Raho:
"Fango contro di me" irene famà
inviata a perugia
L'atteggiamento del tenente Pasquale Striano non l'aveva «mai
convinto». Si comportava «da super investigatore». Il magistrato
Giovanni Russo, oggi a capo del Dap, quattro anni fa era procuratore
aggiunto alla Direzione nazionale antimafia. E quel finanziere, ora
accusato con il collega Antonio Laudati di aver scaricato e
divulgato informazioni riservate dai sistemi informatici in uso alle
forze dell'ordine e dalla banca dati della Dnaa, lo conosceva bene.
«Svolgeva servizio anche presso il Valutario, cosa che a mio parere
creava problemi di riservatezza». I suoi sospetti, Giovanni Russo li
avrebbe condivisi durante l'audizione in Commissione antimafia. E li
avrebbe ribaditi il 6 novembre, sentito dai magistrati della procura
di Perugia come persona informata sui fatti riguardo al dossieraggio.
Non solo. Delle «anomalie» nell'attività del finanziere Striano pare
avesse informato già nel 2020 i vertici della Procura nazionale
antimafia, guidata in quella fase dal magistrato Cafiero De Raho,
oggi deputato M5S e vicepresidente della Commissione parlamentare
antimafia. Aveva scritto lettere dove faceva notare la libertà con
cui il tenente aveva accesso ad informazioni riservatissime. E la
spavalderia con cui si intrometteva nelle faccende degli altri
gruppi di lavoro. Su quelle «interferenze», Giovanni Russo aveva
pure preparato una relazione che però non sarebbe mai stata né
firmata né ufficializzata. E a quel documento non sarebbe stato dato
seguito. Almeno sino alla ricognizione interna alla Dnaa sulle
attività del tenente Striano voluta dal procuratore nazionale
antimafia Giovanni Melillo.
Il racconto sarebbe racchiuso nella nuova documentazione presentata
dalla procura di Perugia, diretta da Raffaele Cantone, ai giudici
del Riesame. Per i due indagati, i magistrati hanno chiesto gli
arresti domiciliari. Le difese - gli avvocati Massimo Clemente e
Tommaso Fusillo di Roma e Andrea Castaldo di Napoli - hanno
sollevato alcune eccezioni. La prima è sulla competenza
territoriale: «Ad occuparsi della questione dev'essere la procura di
Roma». La seconda riguarda la posizione di Laudati: «La sua
iscrizione nel registro degli indagati è stata tardiva. Ne chiediamo
la retrodatazione». Questioni procedurali, su cui decideranno i
giudici a dicembre.
Sullo sfondo restano attacchi e sospetti di questa vicenda
intricata. «Non ho mai ricevuto relazioni o segnalazioni di Giovanni
Russo riguardanti Pasquale Striano», dichiara Federico Cafiero De
Raho. «In passato, presso la Dna, quando sono stati accertati
comportamenti anomali o irregolari di appartenenti al Gruppo
ricerche si è provveduto all'allontanamento e, in un caso, anche
alla denuncia. Il dossieraggio lo sto subendo io». L'ex magistrato
non nasconde irritazione: «Mi trovo al centro di una macchinazione,
in cui vengono fuori atti inesistenti o comunque mai portati alla
mia attenzione, che tendono a ledere la mia persona». Sceglie il
termine «calunnie. È gravissimo quello che sta avvenendo. Ciascuno
si permette di inventare storie per evitare le proprie
responsabilità».
La polemica esplode in Commissione antimafia. E se dal Movimento 5
Stelle arriva solidarietà a De Raho, i parlamentari di Forza Italia
esprimono «profondo sconcerto».
La vicenda ruota intorno ad accessi abusivi ai sistemi informatici e
alla divulgazione di informazioni riservate. Dossieraggio. Che, con
i dovuti distinguo, ricorda l'inchiesta di Milano, dove i magistrati
hanno scoperto Equalize, agenzia di investigazioni privata che in
realtà illegalmente raccoglieva e vendeva informazioni. Tra gli
spiati anche Leonardo La Russa, figlio del presidente del Senato
accusato di violenza sessuale. Sul suo conto, le ricerche sarebbero
avvenute il giorno successivo il presunto abuso. «La spiegazione
fornita da un indagato su ricerche svolte per un test o per semplice
curiosità non è credibile», dicono fonti vicine al presidente del
Senato. «Ben venga ogni accertamento su questa vicenda».
Amsterdam, inviato del Tg1 aggredito dai pro-Pal
Roma
Il conflitto israelo-palestinese coinvolge anche la Rai con
un'aggressione all'inviato del Tg1 ad Amsterdam da parte di un
gruppo di filopalestinesi e, sul fronte opposto, una mail di minacce
a Report. «Ieri sera un nostro giornalista, Marco Bariletti, ad
Amsterdam è stato circondato e aggredito da personaggi
filopalestinesi», ha raccontato il direttore Gian Marco Chiocci
durante un'audizione in Commissione Segre al Senato. «Gli è stato
sequestrato il telefono, è stato spintonato. Ha vissuto momenti di
grande terrore e alla fine gli è stato chiesto, mentre era filmato
da questi signori, di urlare "free Palestine"». Coinvolto
nell'aggressione anche l'operatore Bartolo Mercadante. Su istruzioni
del ministro degli Esteri Antonio Tajani, l'ambasciatore d'Italia
nei Paesi Bassi Giorgio Novello ha chiesto alle autorità olandesi
informazioni, sottolineando che avviene «nel contesto
particolarmente grave che ha visto aggressioni a tifosi israeliani
in una fase di rigurgito di antisemitismo». Solidarietà al
giornalista è stata espressa dal presidente del Senato Ignazio La
Russa, che ha definito l'aggressione «grave e trova la mia ferma
condanna». Identici i toni da parte del presidente della Camera,
Lorenzo Fontana. Vicinanza dagli esponenti di Fratelli d'Italia in
Vigilanza. La Rai ha assicurato che continuerà a svolgere il suo
ruolo: «Non saranno certo episodi come quello di cui è stato vittima
Bariletti a impedire ai giornalisti del servizio pubblico di
continuare a informare i cittadini con completezza e rigore».
Solidarietà a Bariletti e Mercadante è arrivata anche da Victor
Fadlun, presidente della comunità ebraica di Roma. «Un episodio che
conferma ancora una volta il pesante clima di intimidazione e
violenza antisemita», scrive su Facebook aggiungendo che «è
fondamentale continuare a denunciare l'odio antiebraico, tenere alta
la guardia e non rassegnarsi a una deriva che evoca tempi bui della
nostra storia. Il silenzio è connivenza».
Sul fronte opposto ieri mattina il conduttore di Report Sigfrido
Ranucci aveva denunciato le «agghiaccianti minacce» arrivate alla
redazione dopo il servizio sul conflitto tra Israele e Palestina
realizzato da Giorgio Mottola e andato in onda nella puntata di
domenica scorsa. «Vi dovreste vergognare per l'ignobile servizio
anti Israele della scorsa settimana. Pulizia etnica da parte
dell'esercito israeliano a Gaza!? La meriteresti Voi, stile
redazione di Charlie Hebdo», si legge nella mail, acquisita anche
dalla questura di Roma. A Report è arrivata la solidarietà di
esponenti del centrosinistra, dal Pd a Avs, oltre che da M5s.
«Esprimo piena e totale solidarietà per le inaccettabili e
vergognose minacce subite - afferma Barbara Floridia, presidente
della Commissione Vigilanza.
Aumenti di stipendi ai dirigenti Scontro M5S-Pd sulla "moralità"
giulia ricci
Il Comune dà l'aumento ai dirigenti e scoppia la polemica. Andrea
Russi del M5S: «Immorale che decidere di gravare ancora sulle
finanze pubbliche». Ma da Palazzo Civico si difendono: «Attacco
fuorviante».
Pietra dello scandalo la "determinazione dirigenziale" di lunedì,
che impegna 217 mila euro per tre anni fino al 2026 per 7 dirigenti
a tempo determinato, entrati in Comune con il sindaco e che
scadranno a fine mandato. In realtà l'aumento riguarda anche quelli
a tempo indeterminato, ma il capitolo di spesa è diverso. Nel
documento ci sono quattro tipi di importo corrisposti. I primi tre
("Indennità ed altri compensi, esclusi i rimborsi spesa documentati
per missione", "contributi obbligatori per il personale", "indennità
di fine rapporto") dipendono dal Contratto collettivo nazionale dei
dirigenti, modificato a luglio. Il quarto (le "voci stipendiali")
dipende dal Comune, in seguito alla riorganizzazione del personale
messa in campo dal sindaco Lo Russo. Si parla di Valentina Campana (capa
di Gabinetto), Bruno Digrazia (Protezione civile), Christian Amadeo
(Tributi e Catasto), Luca Giovanni Faccenda (Lavoro), Roberto Crova
(Infrastrutture), Dario Destefanis (Cultura), Claudio Spadon (Pnrr).
Gli aumenti variano da 5.800 a 38mila euro nei tre anni.
A sollevare la polemica il capogruppo M5S Russi: «Se il buon esempio
parte dal vertice, è evidente che in questo caso siamo ben lontani
da un modello di giustizia sociale ed economica. A chi serve un
aumento di stipendio in un Comune che sta diminuendo il proprio
organico? Ai superdirigenti ex art. 110, nominati da Lo Russo,
premiati con lauti aumenti di stipendio. Dopo la direttrice generale
Cimadom (+30mila € l'anno), ora è il turno degli altri, tra i quali
l'ex responsabile della sua campagna elettorale, Campana». Ma il
Comune ribatte: «È del tutto fuorviante l'idea di un rilevante
aumento stipendiale a favore dei dirigenti del Comune. L'aumento di
cui si parla – circa 2500 euro lordi annui in media – è meramente
ragguagliato alla sottoscrizione definitiva del nuovo Contratto
nazionale, mentre nessun incremento che non sia ricollegato a nuove
funzioni associate alla riorganizzazione operativa dal maggio 2024 è
stato riconosciuto ai dirigenti».
"Dai giudici di pace udienze fissate al 2030 Così ai cittadini viene
negata la giustizia"
ludovica lopetti
La paralisi in cui versano gli uffici del Giudice di Pace a Torino
ha fatto registrare un nuovo record: una prima udienza di
trattazione fissata al 2030. Lo ha denunciato pochi giorni fa un
avvocato civilista in una missiva inviata all'Ordine degli avvocati
subalpino, in cui si parla di «contesto tragico e kafkiano» e si
polemizza contro il disinteresse del Pnrr verso la «giustizia di
prossimità». Anche per questo ieri un centinaio di toghe si è
radunata davanti all'ingresso delle ex Carceri Nuove, in corso
Vittorio Emanuele 127, e ha marciato verso l'ingresso del
Palagiustizia per la seconda volta nell'arco di pochi mesi.
L'obiettivo è portare all'attenzione del legislatore nazionale una
situazione che va oltre le proverbiali lungaggini della giustizia.
Torino, è ormai noto, vanta il primato negativo: è la prima città
italiana per carenza di organico dei giudici di pace, con una
scopertura del 94% (13 addetti su una pianta organica di 134). Così
per recuperare un credito sotto i 10mila euro (sopra quella soglia è
competente il Tribunale) possono volerci fino a cinque anni, così
come per ottenere il risarcimento del danno causato da un comune
testacoda.
Claudio Strata, segretario del Consiglio dell'Ordine, ha citato un
caso emblematico registrato in questi giorni: l'udienza di
opposizione a un decreto ingiuntivo depositato nel 2023 è stata
fissata al 2028. «Un fatto simile è inaccettabile, grida vendetta -
ha commentato -. Stiamo curando un dossier con tutte le segnalazioni
che ci arrivano, la situazione è sempre più drammatica. La
competenza del giudice di pace verrà addirittura ampliata e a quel
punto la carenza di organico manderà letteralmente in tilt il
sistema. Dal ministero devono ascoltarci». Gli ha fatto eco il
presidente della Camera penale Roberto Capra: «Questa è denegata
giustizia. Bisogna avviare iniziative forti e prolungate per
sollecitare un intervento. È una battaglia troppo importante per i
diritti delle persone» ha dichiarato. Gli avvocati chiedono di
ripristinare il rito ordinario con citazione (scalzato dal ricorso
introdotto con la riforma Cartabia) e rinforzare gli uffici con
nuove risorse amministrative.
Alla marcia ha partecipato anche una delegazione di carrozzieri che
attendono da anni la definizione delle cause intentate contro le
compagnie assicurative per recuperare crediti da centinaia di
migliaia di euro. «I liquidatori non ci pagano i sinistri contando
sul fatto che la giustizia è lenta, così ci spingono a rinunciare al
credito», spiega Antonino Merendino, carrozziere di 57 anni titolare
di un'officina in via Lera. «Facciamo interventi per una certa somma
e i liquidatori ci propongono di chiudere al ribasso, a meno 300 o
400 euro su ciascuna auto, lesinando anche sulla manodopera. Ma noi
abbiamo costi fissi: operai, materiali. In questo modo io avanzo
200mila euro da una compagnia e devo ancora recuperare crediti da
sinistri del 2017. Facciamo almeno dieci cause all'anno». Il
rapporto costi-benefici suggerirebbe di rinunciare. «Non possiamo
più aspettare, rivogliamo i nostri soldi»
12.11.24
Sono già 25 mila i posti di lavoro a rischio In Italia nel settore
dell’auto e a breve, se non aumentano i livelli produttivi,
diventeranno almeno 50 mila. Questa la cruda analisi di Alix
Partners per il tavolo dell’automotive presso il ministero delle
Imprese.
Il 2024 si chiuderà con meno di 500 mila veicoli prodotti in tutto.
È l’effetto combinato di due fattori: lo stop al motore a scoppio
dal 2035 (deciso dalla maggioranza dei Paesi Ue) e la spietata
concorrenza cinese. Circostanze che però si innestano in un Paese
dove la produzione è in calo dagli anni ‘90 e che quest’anno
registrerà il peggiore risultato dal 1956.
Volenti o nolenti, Stellantis continua ad avere un ruolo chiave
perché in Italia è l’unico grande produttore. E perché è difficile
attirare nuove case in una fase in cui la domanda in Europa sta
drammaticamente scendendo.
Il ministro Adolfo Urso ha cercato di «convincere» Stellantis a
produrre nel nostro Paese un milione di veicoli nel 2024, quota
minima per difendere l’occupazione nella filiera. Ci ha provato con
le buone (950 milioni di incentivi nel 2023) e con le cattive (il
gruppo è stato costretto a cambiare nome alla Alfa Romeo Milano
prodotta in Polonia e a togliere il tricolore dalle carrozzerie
delle Topolino assemblate in Marocco).
Ma non è servito a niente, come a nulla serve chiedere di restituire
almeno in parte quello che il Paese ha dato al gruppo, perché
Stellantis risponde così: «Fiat era un’altra realtà e oggi la
famiglia Agnelli-Elkann è solo uno degli azionisti, la società non è
più italiana, andiamo a produrre dove costa meno, punto».
Intanto mentre in Europa si litigava sul passaggio all’elettrico, la
Cina ha sovvenzionato le sue aziende che ora sono una generazione
più avanti in termini di tecnologia (tempo di ricarica delle
batterie, infrastrutture di ricarica, software, user experience,
tempo di sviluppo dei nuovi prodotti).
La conseguenza è lo sbarco di auto elettriche made in China sul
mercato europeo a costi competitivi (meno 20%). La reazione è stata
quella dei dazi: dal 17 al 35% per i prossimi 5 anni. […]
Secondo i dati del rapporto Draghi, nei prossimi cinque anni la
capacità produttiva dell’automotive europeo rischia di ridursi ogni
anno del 10%. Ma se in Italia la produzione è in calo da trent’anni
un motivo ci sarà. E da lì bisogna ripartire.
Cominciamo a vedere il costo del lavoro nei Paesi europei dove
Stellantis ha gli stabilimenti. Non è vero che l’Italia sia la più
cara: per l’azienda il costo orario di un operaio metalmeccanico è
di 29 euro, in Francia sale a 35 e in Germania a 44. Certo, in
Polonia si scende a 12 euro e in Serbia a 7.
Ma il confronto più interessante è con la Spagna, dove Stellantis ha
già prodotto nel 2023 il milione di veicoli a cui noi aspiravamo.
Qui il costo-azienda è di 25 euro l’ora. Confrontando gli
stabilimenti di Melfi e Mirafiori con quelli di Saragozza e Madrid,
secondo Stellantis, la differenza sul costo del lavoro è del 22% in
più in Italia perché in Spagna c’è un grande utilizzo di personale
interinale, mentre la produttività da noi è del 38% più bassa.
Le ragioni sarebbero imputabili a un maggiore assenteismo rispetto
alla Spagna […] e più personale con ridotte capacità lavorative per
motivi di età o sanitari. A Melfi e Mirafiori, però, la produttività
è più bassa soprattutto perché i due stabilimenti italiani non
viaggiano a pieno regime, e questo non dipende certo dai lavoratori.
Inoltre, la produttività e il suo mantenimento dipende anche dagli
investimenti (fatti o mancati).
Va rimarcato che negli ultimi tre anni Stellantis ha incentivato il
20% del suo personale ad andarsene e a cogliere l’occasione sono
spesso stati i più giovani. Oggi a Mirafiori l’età media dei
dipendenti è di 57 anni. Con questo tipo di politiche del personale
è difficile che la produttività cresca.
[…] È certamente improponibile pensare di recuperare competitività
sulle retribuzioni in un Paese che ha visto
I costi di un assemblatore di automobili sono dovuti circa per il
10% al personale, un altro 12% dipende dall’energia. La comparazione
fra i paesi europei dove Stellantis ha i sui stabilimenti mostra che
l’Italia ha in assoluto il prezzo più alto: 103 euro al MWh, contro
i 49,3 della Francia, i 71,4 della Germania, 92,1 della Polonia,
91,5 della Serbia e i 53,7 della Spagna.
[…] Una strada la mostra il professor Massimo Beccarello, direttore
del Centro di ricerca in economia e regolazione, dei servizi,
dell’industria e del settore pubblico (Cesisp): «Nell’immediato una
leva per rendere competitivi i settori strategici per il Paese
possono essere le energie rinnovabili, vuol dire che innanzitutto il
governo deve accelerare la produzione di eolico e fotovoltaico per
raggiungere gli obiettivi che si è dato entro il 2030,
contemporaneamente va affrontato il problema del prezzo.
I costi di produzione delle rinnovabili sono più bassi, incluso quel
23% di energia prodotta da idroelettrico, ma poi viene tutta venduta
allo stesso prezzo del gas. Bisognerebbe disaccoppiare i prezzi e
destinare una parte di questa energia da rinnovabili ai settori a
rischio delocalizzazione». […]
Secondo i dati forniti dalle imprese della componentistica al
ministero delle Imprese e Made in Italy, il costo della logistica in
Italia è allineato a quello spagnolo, mentre Stellantis segnala che
nei suoi siti produttivi in Italia (come Atessa, Cassino, Melfi e
Pomigliano), i costi sono ancora «significativamente» più elevati
rispetto agli altri Paesi europei.
Un problema legato «a ritardi nei potenziamenti delle reti di
trasporto e intermodalità insufficiente, che aumentano i costi di
spedizione e rallentano il flusso logistico». Per quanto riguarda
[…]
Dall’indagine di Alix Partners emerge poi che le nostre imprese
della componentistica sono troppo piccole per la competizione
globale: hanno un fatturato medio inferiore del 20% rispetto a
quelle francesi e del 50% rispetto alle tedesche. Il settore,
inoltre, dovrebbe investire di più in ricerca e sviluppo, anche in
considerazione del fatto che il costo di un ingegnere in Italia è
addirittura più basso che in Cina.
Tornando al nostro unico maggior produttore: è vero che Fiat ha
ricevuto dal Paese più di quanto ha dato, ma è altrettanto vero che
i governi che si sono succeduti negli ultimi 50 anni non hanno fatto
quello che era necessario per avere un rapporto alla pari. Al gruppo
partecipato dalla famiglia Agnelli è stato concesso di non avere
concorrenti nel Paese (basti pensare alla mancata vendita di Alfa
Romeo a Ford), mentre in Spagna i produttori sono diventati cinque.
Quando era il momento propizio, poi, lo Stato italiano non ha
nemmeno cercato di diventare azionista. Era il 2002 quando Fiat, in
estrema difficoltà, si rivolse al governo. Il ceo, Paolo Fresco, fu
ricevuto dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non a
palazzo Chigi ma ad Arcore. Lo Stato decise di non investire sul
gruppo. E il consiglio di Berlusconi fu quello di fare un restyling
dei modelli Fiat e cambiare il marchio mettendo Ferrari.
Ora dobbiamo scegliere se continuare a lamentarci per le scelte
sbagliate del passato e dell’ingratitudine di Stellantis o se
cambiare passo. Al momento il rapporto con il governo è ai minimi
storici e ad andarci di mezzo sono anche le aziende della
componentistica. L’idea di politica industriale nel nostro Paese sta
nell’ultima legge di Bilancio: i 4,6 miliardi stanziati
dall’esecutivo Draghi per il settore automotive da spendere entro il
2030 sono stati cancellati con un tratto di penna.
11.11.24
Magistrati
nelle correnti
Francesco Grignetti Roma
Ai tempi della Prima Repubblica, quando governava la Dc, ed esisteva
il mitico Manuale Cencelli per la spartizione delle cariche, la
poltrona di procuratore capo di Roma valeva quanto due ministeri.
Questo per dire che il potere politico non ha mai, proprio mai,
perso di vista il potere giudiziario, temendone la forza. Ma
all'epoca i poteri andavano a braccetto. E infatti la suddetta
procura di Roma si era meritata il nomignolo di "Porto delle
nebbie". Un ufficio dove le inchieste che facevano male ai politici
si perdevano fatalmente.
Il peso delle toghe rosse
Altri tempi. Oggi, come durante tutto il ventennio berlusconiano, i
due poteri si guardano in cagnesco. O meglio, il centrodestra si
sente sotto attacco. Per dirla con le parole del ministro Carlo
Nordio, che ha il dente avvelenato con gli ex colleghi, la
magistratura "ha esondato" e sarebbe ora che facesse un passo
indietro. A volte però, le apparenze ingannano. E se si va a ben
guardare il tanto mitizzato peso delle "toghe rosse", ci si
accorgerà che pesano molto meno di un tempo.
Qualche numero dunque, per capire dove batte il cuore della
magistratura italiana. Nel Consiglio superiore della magistratura ci
sono 20 membri togati, eletti dai colleghi. Il gruppo di maggioranza
relativa è Magistratura Indipendente, con 7 rappresentanti. È la
corrente dei conservatori, accusata a mezza bocca dagli altri di
"collateralismo" con il governo di Giorgia Meloni, tanto più che
Alfredo Mantovano, potente sottosegretario alla Presidenza, è un
magistrato prestato alla politica ed è stato un pilastro di MI.
Seguono i progressisti di Area con 6 rappresentanti; i centristi di
Unicost con 4; Magistratura democratica ha 1 solo rappresentante; e
poi ci sono due indipendenti. Tra qualche mese, a gennaio, si voterà
per il rinnovo dei vertici dell'Associazione nazionale magistrati e
si vedrà se ci sono movimenti, ma allo stato il quadro pende per il
conservatorismo in toga.
La componente laica
Sempre al Csm c'è anche una forte maggioranza di membri laici,
quelli eletti dal Parlamento, espressione del centrodestra. Anche il
vicepresidente, l'avvocato Fabio Pinelli, viene da lì. Comunque
Pinelli è un uomo dalle relazioni trasversali: è stato indicato in
particolare dalla Lega, ma aveva buoni rapporti con Matteo Renzi ed
era stimato da Luciano Violante.
Questa geografia politica tra togati e laici nel primo anno di
attività ha causato non poche frizioni perché si è visto spesso un
asse tra i 7 rappresentanti di MI, i laici di centrodestra, Pinelli
che non ha disdegnato di votare in alcune occasioni cruciali, con
ciò rompendo una tradizione di astensioni, e qualche volta anche i
membri di diritto, cioè Primo presidente di Cassazione e procuratore
generale di Cassazione, che sono confluiti su nomi di magistrati
conservatori. Anche la prima presidente di Cassazione Margherita
Cassano è stata una figura di spicco di Magistratura Indipendente.
Il caso Spiezia
È quanto successe nel luglio 2023 per la nomina del procuratore capo
di Firenze, Filippo Spiezia, di rientro dall'esperienza di Eurojust,
che ha superato per un filo il candidato dei progressisti Ettore
Squillace Greco, già procuratore di Livorno. Quella volta, di fronte
a una parità perfetta, il vicepresidente Pinelli scese in campo,
giustificando la decisione per la "importanza" della nomina. Ora,
siccome Matteo Renzi era in rotta con la procura di Firenze, e
Pinelli era stato avvocato per la fondazione renziana Open, la
storia non passò liscia. Da allora, il procuratore Spiezia governa
con pugno di ferro la procura. È nemico innanzitutto delle fughe di
notizie, in senso molto lato. Nei giorni scorsi c'è stata una
protesta dei giornalisti fiorentini perché il procuratore ha
nascosto per tre giorni la notizia di un incidente mortale sul
lavoro occorso a un operaio di origini marocchine, investito sul
cantiere autostradale dove lavorava; ma già qualche settimana prima,
come raccontato dal sito Professionereporter, c'erano stati "una
violenza sessuale, un accoltellamento, un'aggressione, due rapine.
Tutto a Firenze, nel giro di tre notti. Senza nessuna comunicazione
da parte della Procura e delle Forze dell'ordine. Divieto di cronaca
nella città degli Uffizi".
Il ruolo delle procure
È un fatto, comunque, che le maggiori procure italiane siano rette
da magistrati di grande valore, ma anche di conclamata prudenza e
provenienti da correnti conservatrici. Certo non dei "descamisados".
Così è per Roma, dove il procuratore capo è Francesco Lo Voi, già
capo a Palermo per 8 anni, vicino a Magistratura Indipendente, che
si insediò nel gennaio 2022 dopo aspra contesa con il facente
funzioni Giuseppe Prestipino e Marcello Viola, che era procuratore
aggiunto di Firenze.
Lo stesso è per Milano, dove i tempi d'oro e l'armonia tra i
sostituti procuratori sono un lontano ricordo. Dopo la delusione
romana, Marcello Viola è procuratore nel capoluogo lombardo
dall'aprile del 2022 (nomina appena confermata dal Consiglio di
Stato). E anche Viola, come Lo Voi, proviene da Magistratura
Indipendente.
A Napoli, poi, governa il notissimo Nicola Gratteri, già procuratore
capo di Reggio Calabria. L'uomo è vulcanico e sarebbe totalmente
sbagliato collegarlo a una corrente. Però è un fatto che sulla sua
nomina, conservatori e progressisti hanno litigato di brutto e anche
nel suo caso pesò la convergenza tra Magistratura Indipendente e i
laici di centrodestra, cui si aggiunse il vicepresidente Pinelli.
Accadeva nel settembre 2023. Quella volta, i progressisti di Area,
sconfitti, scrissero un comunicato di fuoco.
Le principali procure d'Italia, insomma, sono rette da uomini di
Magistratura Indipendente se si eccettuano Palermo (dove c'è
Maurizio De Lucia) o Catania (il Csm ha scelto Francesco Curcio per
sostituire Carmelo Zuccaro, ma poi il ministro Nordio ha tardato
mesi a controfirmare la nomina). Da ultimo, c'è da dire, il Csm
lavora con meno spaccature. La nomina del nuovo procuratore di
Torino, Giovanni Bombardieri, proposto all'unanimità dalla V
Commissione, vicino alla corrente centrista Unicost, ne è un segno.
E presto ci sarà la nomina per il procuratore capo di Bologna dove
sono in lizza altri pregevoli nomi. —
10.11.24
MATTARELLA IN CINA PER STABILIMENTI CINESI IN ITALIA: UN ERRORE.
l ministro degli Esteri: si va nella direzione giusta perché l'Ue
riveda le tariffe sui veicoli elettrici cinesi L'ipotesi del
compromesso con Bruxelles: trovare un prezzo minimo e uno massimo
sulle importazioni
Tajani ottimista sullo stop ai dazi "Ci sono le basi per un'intesa"
La Cina valuta di investire in Italia
Lorenzo Lamperti
Pechino
«Si va nella direzione giusta». L'Italia accelera verso le auto
elettriche cinesi. Ad ammetterlo Antonio Tajani, che accompagna
Sergio Mattarella nella sua visita in Cina. Sei giorni fitti di
incontri, da cui il nostro Paese sta provando a uscire con qualcosa
di concreto. In particolare, il ministro degli Esteri conferma che
si potrebbe presto arrivare a un accordo di compromesso tra Unione
Europea e governo cinese sui dazi aggiuntivi ai veicoli elettrici di
Pechino. «L'ipotesi potrebbe essere quella di trovare un prezzo
minimo e uno massimo», dice Tajani all'Ansa dopo l'incontro con il
premier cinese Li Qiang. «Sono stati fatti dei passi in avanti,
aspettiamo», rimarca.
Le possibilità di trovare un'intesa parevano quasi nulle solamente
fino a qualche giorno fa, quando Pechino aveva molto criticato la
postura poco malleabile di Bruxelles, presentando ricorso
all'Organizzazione mondiale del commercio. E minacciando poi
ritorsioni sulle importazioni di una serie di prodotti europei, tra
cui le auto a grossa cilindrata. Ora il clima sembra almeno in parte
cambiato. Come mai? Sui media cinesi c'è chi suggerisce un possibile
legame con la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali
negli Stati Uniti. Il concreto scenario di un aggressivo rilancio
delle tariffe, sia contro la Cina sia contro (in misura minore) i
partner del Vecchio Continente, potrebbe convincere l'UE ad adottare
una posizione meno intransigente. «Non si possono permettere due
guerre commerciali con le prime due economie mondiali», si dice a
Pechino, che punta moltissimo sulle sue cosiddette «nuove forze
produttive» per rilanciare l'economia.
L'Italia non si è opposta ai dazi aggiuntivi alle e-car cinesi, come
ha fatto invece la Germania, ma ha sempre auspicato il
raggiungimento di un accordo a metà strada. Il governo Meloni guarda
infatti con estremo interesse all'industria tecnologica verde
cinese. La MingYang Smart Energy, gigante delle turbine eoliche,
costruirà una fabbrica in Italia tramite una newco con la società
Renexia del Gruppo Toto. E già da diversi mesi è in corso una
trattativa con Chery, la più grande casa automobilistica cinese per
esportazioni, e con altre realtà come Dongfeng Motor per potenziali
investimenti. In molti erano convinti che già durante la visita
della premier, lo scorso luglio, potesse essere annunciata l'intesa
per l'apertura in Italia di un impianto di produzione di uno dei
colossi cinesi delle auto elettriche. Così non è stato. Nei mesi
successivi, peraltro, il ministero del Commercio di Pechino avrebbe
chiesto alle case automobilistiche di interrompere i grandi
investimenti nei Paesi europei che sostengono le tariffe aggiuntive,
dunque anche l'Italia. Anche con questo, si spiega la grande
insistenza di Mattarella e Tajani nell'esaltare i «mercati aperti» e
respingere la possibilità di una «nuova stazione di protezionismo».
Serve convincere la Cina che l'Italia non chiude le porte al libero
scambio, aspettandosi però in cambio la rimozione delle barriere su
alcuni prodotti di eccellenza come le carni suine e i salumi, ma
anche un riequilibrio della bilancia commerciale con un aumento
significativo delle esportazioni sul mercato del gigante asiatico.
Tajani è convinto che, se davvero si raggiungesse un compromesso tra
Ue e Italia, i discorsi sull'impianto di produzione di auto
elettriche cinesi potrebbero riprendere rapidamente quota.
«Senz'altro c'è un netto interesse da parte italiana ad attrarre
investimenti cinesi nel settore», dice a La Stampa Lorenzo Riccardi,
presidente della Camera di Commercio Italiana in Cina. «Pechino vede
la possibilità di buon occhio visto che l'Italia ha una filiera più
avanzata rispetto ad altri Paesi europei e competenze molto
specializzate». Dall'altro lato, dice, «è necessario vedere quali
saranno i prossimi passi concreti nelle relazioni politiche. Da qui
scaturiranno le conseguenze economiche. La Cina richiede un'intesa
che sia di medio-lungo periodo per progetti che hanno tempistiche
lunghe di investimento», aggiunge Riccardi. La doppia visita a
stretto giro di Meloni e Mattarella, con il nuovo piano d'azione
triennale di rafforzamento del partenariato strategico firmato a
luglio, sembrano un buon viatico.
09.11.24
Basilicata, Bardi a giudizio Nei guai il senatore Rosa (FdI) Con l'accusa di concorso in induzione a dare o promettere
utilità, il presidente della Giunta regionale della Basilicata, Vito
Bardi (Forza Italia) è stato rinviato a giudizio nell'ambito di
un'inchiesta del 2022 sulla sanità lucana. A processo – la prima
udienza è stata fissata per il 20 gennaio 2025 – anche altri quattro
esponenti politici lucani di primo piano, all'epoca dei fatti
assessori della giunta di centrodestra: si tratta del senatore
Gianni Rosa (Fratelli d'Italia), dell'assessore regionale alle
Attività produttive, Francesco Cupparo (Forza Italia), e dei
consiglieri regionali Francesco Fanelli (Lega) e Rocco Leone
(Fratelli d'Italia). Eletto per la prima volta nel 2019 e poi
riconfermato nell'aprile scorso con il 56,6%, Bardi, fino a ieri
sera, non ha voluto commentare la decisione del gup Francesco
Valente
La svolta sull'omicidio del 2010. I camorristi dicevano: "Questo
porto lo gestiamo noi"
La rabbia nel paese del sindaco Vassallo "Cagnazzo era sospettato
già 14 anni fa" irene famà
inviata a pollica (salerno)
«Cosa c'è di nuovo? Cosa emerge?». Al bar al centro di Acciaroli,
davanti al porto del Cilento, non si parla d'altro. Il sindaco
Angelo Vassallo è stato ammazzato nel 2010. E ora in quattro sono
finiti in carcere su misura cautelare, tra cui il colonnello dei
carabinieri Fabio Cagnazzo. «Emerge quello che noi dicevamo
quattordici anni fa. L'hanno fatto fuori per la droga ed erano
coinvolti tutti». La svolta nelle indagini non coglie di sorpresa
chi da quelle parti vive e lavora. Primo tra tutti il sindaco
Stefano Pisano, che di Vassallo è stato amico e vice e braccio
destro. «La figura di Cagnazzo ci ha sempre lasciati perplessi. Dopo
la morte di Angelo c'era chi parlava, lo tirava in ballo. Ma non è
stato creduto».
Uno tra i tanti? Pierluca Cillo. Agente immobiliare chiacchierato,
questo è vero. Con una vita turbolenta, raccontano, non proprio
specchiata. Nell'ultimo periodo, il sindaco-pescatore trascorreva
con lui molto tempo. «Indagava su chi portava la cocaina in paese.
Era una sorta di sua fonte», dicono i ben informati. Dopo
l'esecuzione, Cillo, che di cose ne sapeva, si era confidato un po'
con tutti. Amministratori, amici, parenti. «Bisogna stare attenti ai
colletti bianchi», diceva. Puntava il dito contro il colonnello
Cagnazzo: «È coinvolto nell'omicidio. Lui e quell'altro carabiniere.
Da queste parti c'è una base per la droga, a Torre Caleo. Stoccano
lo stupefacente. Di mezzo c'è Cagnazzo e altri imprenditori». E il
riferimento era ai fratelli Palladino che lì intorno gestivano
discoteche, residence, lidi.
Acciaroli, quell'estate, era diventata il centro della movida
cilentina. Turisti, molti giovani. «Lo vedi questo porto? Mo lo
gestiamo noi. Mettiamo la pompa di benzina qua. E tutto il resto»,
dicevano esponenti dei clan di camorra. E il resto era la cocaina.
In quel paese, loro immaginavano affari.
Al sindaco Vassallo, però, «non gli stava bene e non era
corruttibile». Anzi, su quei carichi di droga si era messo ad
indagare in prima persona. E secondo gli inquirenti della procura di
Salerno, era riuscito a risalire ai protagonisti del traffico. Così
è stato ucciso.
«Ha organizzato tutto Cagnazzo», si legge nelle testimonianze
raccolte negli atti d'indagine. E dopo l'omicidio, «aveva fatto in
modo che l'altro carabiniere sparisse completamente dalla
circolazione, lasciando a sé il compito di depistare le indagini».
Spietato nel costruirsi un alibi, la sera del delitto, almeno
secondo i Ros di Roma, si era presentato a cena "Da Claudio",
ristorante gestito dal fratello di Vassallo dove lavorava anche la
moglie.
E pure Romolo Ridosso, volto noto della camorra poi collaboratore di
giustizia, era rimasto colpito «dalla professionalità con cui quel
colonnello dei carabinieri aveva organizzato l'omicidio» del sindaco
– pescatore. Era rimasto «strabiliato», così aveva raccontato al
compagno di cella, della cura «dell'esecuzione nei minimi
particolari». —
08.11.24
Il dramma nel Pinerolese, il ragazzino è ora ricoverato in gravi
condizioni al Regina Margherita L'adolescente, che frequenta la
terza media, ha lasciato un biglietto dove spiega il suo gesto
Prende brutti voti a scuola a 13 anni si getta dalla finestra
gianni giacomino Un 13enne residente nella zona del Pinerolese sta lottando
per rimanere aggrappato alla vita in un lettino del reparto di
rianimazione del Regina Margherita. L'altro pomeriggio si è gettato
dal quarto piano del palazzo in cui abita. All'origine del suo gesto
disperato ci sarebbero i brutti voti a scuola.
L'adolescente, che frequenta la terza media, avrebbe lasciato un
biglietto per i genitori sulla scrivania della sua cameretta dove
spiegava, in poche righe, come all'origine della sua decisione ci
sarebbe proprio il rendimento scolastico insufficiente.
Ieri è già stato sottoposto ad un intervento chirurgico durato
diverse ore nel quale gli ortopedici del Regina Margherita hanno
stabilizzato le fratture che l'adolescente ha riportato in diverse
parti del corpo. Al momento resta in prognosi riservata. Il quadro
clinico resta molto complicato anche a causa di un trauma toracico
e, solo nelle prossime ore, verrà rivalutata la situazione. Per
fortuna sembra che il ragazzino non si sia procurato lesioni alla
testa.
L'allarme lo hanno lanciato alcuni passanti che, l'altra sera
intorno alle 17,30, quando era già buio, hanno visto il ragazzino
piombare nel vuoto da una decina di metri. L'impatto al suolo è
stato devastante. «Ho avvertito il rumore di un tonfo - racconta un
commerciante con l'attività proprio davanti alla palazzina dalla
quale si i gettato lo studente - ho capito subito che era successo
qualcosa di grave. Sono uscito e ho visto una scena davvero
straziante. Speriamo che quel ragazzo ce la faccia».
Pochi minuti più tardi lo studente è stato soccorso dai medici e
dagli infermieri del 118 che lo hanno stabilizzato e poi lo hanno
trasportato in ambulanza all'ospedale di Pinerolo. Da dove, qualche
ora dopo, vista la gravità delle sue condizioni a causa dei traumi,
è stato trasferito in elicottero al Regina Margherita.
Sull'ennesimo tentativo di suicidio che vede protagonista un
adolescente ora indagano i carabinieri della Compagnia di Pinerolo
che, l'altro pomeriggio, sono intervenuti con diverse pattuglie del
nucleo radiomobile. In queste ore gli investigatori stanno cercando
di ricostruire cosa sia successo nelle ultime ore, o negli ultimi
giorni, per spingere il ragazzo a un gesto così atroce. Forse il
13enne - che probabilmente era solo in casa - temeva di non arrivare
preparato all'esame, forse un rimprovero di troppo, forse una
pressione scolastica eccessiva.
Militari corrotti, depistaggi, omertà "Il pescatore l'abbiamo
sistemato" Romolo Ridosso Ex capo clan oggi pentito
Annamaria Ferraiolo Giudice indagini preliminari
Grazia Longo
Roma
Dalle 404 pagine dell'ordinanza non emerge l'esecutore materiale per
la morte del sindaco-pescatore Angelo Vassallo. Ma il quadro è
ugualmente inquietante perché si delinea il sospetto di carabinieri
corrotti - in particolare il colonnello Fabio Cagnazzo, 54 anni - al
punto da organizzare un delitto. E cosi se l'imprenditore Giuseppe
Cipriano, 56 anni, è accusato, oltre che di concorso in omicidio, di
aver gestito il traffico di droga ad Acciaroli, zona di movida nel
Cilento, l'alto ufficiale dell'Arma è stato arrestato non solo per
aver coperto quel traffico in cambio di mazzette, ma addirittura per
aver contribuito anch'egli all'omicidio di Vassallo e per aver
depistato le indagini.
Oltre che a Cipriano e Cagnazzo sono finiti in carcere anche l'ex
brigadiere dei carabinieri Lazzaro Cioffi, 62 anni, e Romolo
Ridosso, 63 anni, ritenuto esponente del clan camorristico
Ridosso-Loreto. E scorrendo l'ordinanza della gip del Tribunale di
Salerno Annamaria Ferraiolo si legge come i quattro uomini fossero
legati a doppio filo: «Nel corso dell'interrogatorio dell'8 giugno
2022 Romolo Ridosso riferiva che Giuseppe Cipriano affidava
l'organizzazione dell'omicidio del sindaco Vassallo a Lazzaro Cioffi
e alla "sua squadra", della quale faceva parte anche il colonnello
Cagnazzo il quale, in particolare, avrebbe fornito copertura dopo il
delitto».
Ridosso assicura: «Giuseppe Cipriano è convinto e straconvinto che
tutti i carabinieri che lui conosce, il maggiore Cagnazzo, Lazzaro
Cioffi stavano dalla sua parte. Nel senso che lo coprivano e lo
avrebbero coperto, che erano amici suoi». Alla domanda sul perché
Cagnazzo copriva Cipriano, Ridosso spiega «perché si pigliava i
soldi tramite Lazzaro. Cagnazzo era il primo personaggio, qualsiasi
cosa si faceva si doveva riferire a Cagnazzo».
In merito al delitto si scopre, poi, che Ridosso precisava di avere
appreso direttamente da Giuseppe Cipriano della sua volontà di
uccidere Vassallo. Ridosso a verbale dichiara: «Il 3 settembre 2010
durante l'ultimo viaggio Cipriamo mi disse chiaramente della sua
volontà di uccidere il sindaco Vassallo. Mi disse che con Vassallo
"se la sarebbe vista lui"». Si legge poi che Ridosso, secondo quanto
riferito da Eugenio D'Atri, ex compagno di cella di Ridosso,
aggiungeva «in maniera precisa e dettagliata di aver appreso che
l'omicidio del sindaco era stato organizzato da alcuni carabinieri
in particolare Lorenzo Cioffi e il colonnello Cagnazzo coinvolti in
un'attività di traffico di stupefacenti che il sindaco aveva
scoperto e intendeva denunciare».
D'Atri riferisce che Ridosso sosteneva che «il delitto era stato
organizzato da Cagnazzo nei minimi particolari, dalla fase esecutiva
sino al depistaggio». Ridosso, sempre secondo quanto afferma D'Atri,
definisce Cagnazzo «un dittatore capace di gestire i suoi uomini
fidati. Per Cagnazzo era insopportabile che Vassallo denunciasse il
traffico di droga, non solo nella prospettiva di una carcerazione ma
per la perdita dell'onore».
Molti sono, inoltre, i dettagli sull'attività di depistaggio che
avrebbe messo in campo Cagnazzo: si era anche avvicinato alla
famiglia della vittima che lo definiva «il nostro salvatore». Ma per
gli inquirenti quel rapporto di amicizia instaurato dopo la
tragedia, altro non era, che «un tassello di non trascurabile
rilievo della sua attività di depistaggio». L'ufficiale dell'Arma
avrebbe dirottato le indagini su uno spacciatore della zona, Bruno
Humberto Damiani, incriminato e poi scagionato. Prima del delitto
Ridosso, Cioffi e D'Atri sarebbero andati sul luogo del delitto per
accertarsi che non ci fossero telecamere.
Interessanti, poi, quei 23 minuti di buco nell'alibi del colonnello
Cagnazzo che la sera del delitto si trovava ad Acciaroli. Era
invitato al ristorante da alcuni amici ma si assentò per 23 minuti.
Dai tabulati telefonici si scopre che alcuni dei suoi amici lo
cercarono al cellulare per capire dove fosse. Scrive a proposito la
gip: «A circa 4 metri dall'auto nella quale si trovava il cadavere
di Vassallo veniva rinvenuta una sigaretta con il Dna di Cagnazzo».
Il colonnello disse che in quei 23 minuti forse era andato a
incontrare la figlia. Ma è stato smentito dall'ex moglie : «Quella
sera io e mia figlia eravamo a Napoli».
Sempre dall'ordinanza si evince, infine, la spietatezza in occasione
dell'assassinio di Vassallo, noto come il sindaco-pescatore. «Pure
il pescatore lo abbiamo messo a posto» sono le parole con cui Romolo
Ridosso «salutò» la notizia dell'avvenuta uccisione del sindaco.
Proprio a casa di Ridosso si sarebbe tenuto un incontro successivo
all'omicidio, secondo quanto riferito agli investigatori dall'allora
sua convivente, già testimone di giustizia, considerata attendibile
dagli investigatori della Dda di Salerno che, per oltre un decennio,
hanno cercato di far luce sull'omicidio.
La donna racconta agli investigatori di un incontro tra Cioffi,
Cipriano e Ridosso nell'abitazione di quest'ultimo a Lettere
(Napoli). I due ospiti arrivano sul posto a bordo di un Suv nero e
sono accolti da Ridosso, che intrattiene con loro una conversazione
privata. Al suo rientro in casa, parlando a voce alta da solo,
Ridosso afferma: «Pure il pescatore lo abbiamo messo a posto».
Agenti perquisiti per associazione a delinquere, peculato e truffa:
in orario di lavoro ristrutturavano case private usando i loro mezzi
di servizio
La doppia vita dei poliziotti imbianchini sette indagati al reparto
mobile di via Veglia
giuseppe legato
caterina stamin
Poliziotti sì e anche esperti. Con funzioni di ordine pubblico
perché in forza a un reparto – il V° Mobile - deputato alla
sicurezza dei cittadini nei grandi eventi e nelle manifestazioni. Ma
anche giardinieri, artigiani, muratori e finanche imbianchini.
Magari in orario di lavoro e con mezzi e strumenti che appartengono
alla polizia utilizzati per fini privati. La doppia vita di sette
agenti in forza alla caserma di via Veglia, al confine tra Torino e
Grugliasco, è finita in un'inchiesta del pm Giovanni Caspani e
dall'Aggiunto Enrica Gabetta che coordina il pool che indaga sui
reati contro la pubblica amministrazione. Ieri mattina sono scattate
– e durate fino al pomeriggio - le perquisizioni a casa degli
indagati. Con accuse pesanti formalizzate in un decreto lungo tre
pagine: associazione a delinquere finalizzata al peculato e alla
truffa ai danni dell'amministrazione di appartenenza. E invasioni di
edifici.
Da settembre del 2022 e fino a pochi giorni fa dicevano di essere in
servizio, ma – forse anche per arrotondare lo stipendio - andavano a
lavorare per conto di privati (dietro pagamenti ovviamente non
tracciati). Dopo mesi di articolate indagini gli investigatori della
polizia giudiziaria (Polizia di Stato) in forza alla procura li
hanno incastrati. Con video eloquenti girati durante appostamenti
mentre a bordo di un Ducato e un Turbo Daily scaricavano detriti da
ristrutturazioni edili finanche in locali di competenza del reparto
Mobile come - ad esempio - l'ex falegnameria che non solo erano
utilizzati indebitamente, ma anche chiusi a chiave rendendoli di
fatto indisponibili alla polizia stessa. Erano dunque dei magazzini
si apprende dagli investigatori.
Dentro, erano custodite anche le attrezzature utilizzate per
svolgere i cantieri presso privati procacciati grazie alle
segnalazioni di amici e colleghi. Opere a volte importanti, altre di
piccola manutenzione. Nelle carte dell'inchiesta sono finite così le
foto di elettrodomestici tra cui frigoriferi, macerie da demolizione
di interni, conferiti in diverse discariche per ingombranti e inerti
gestite dall'Amiat in città. Tutto – secondo l'accusa – sarebbe
avvenuto anche in orario di servizio. E da qui la contestazione
degli inquirenti «di un ingiusto profitto - si legge nel titolo di
reato notificato ai sette - pari all'importo lordo corrispondente
allo stipendio e ai contributi pensionistici ottenuto grazie ad
artifici e raggiri». Migliaia di euro secondo i primi conteggi. Al
momento non sono noti eventuali provvedimenti di sospensione dal
servizio che vanno comunque adottati dall'amministrazione di
appartenenza che è comunque individuata dai pm come parte offesa, ma
si apprende che sarebbero state loro ritirate le armi di servizio in
via cautelare. Forse solo un primo passo.
Carabiniera nasconde decine di denunce Il pm chiede un anno e mezzo
di carcere Se si indossa la divisa da carabiniere, è lecito accumulare
in un armadietto decine di denunce senza trasmettere le rispettive
notizie di reato alla Procura? E si può invocare a propria discolpa
la carenza di organico? Sono queste le domande a cui dovrà
rispondere il Tribunale di Torino nel processo a carico di Roberta
D'Ambrosio, carabiniera fino al 2021 in servizio presso la caserma
di Chieri. Il pm Paolo Toso l'accusa di rifiuto di atti d'ufficio
per aver lasciato per anni un plico con decine di verbali di
denuncia dentro un armadietto. A ritrovarli, nel 2022, è stato un
militare che ne ha preso possesso dopo che la collega era andata a
lavorare altrove.
L'imputata (difesa dall'avvocato Roberto Beretta) avrebbe riferito
che quelle custodite nell'armadietto erano pratiche vecchie da
archiviare. In realtà per il pm, che ieri ha chiesto 1 anno e mezzo,
dovevano essere trasmessi «senza ritardo».l.lop
Pene fino a 8 anni per gli imputati che avevano preso il controllo
della cooperativa Liberamensa
'Ndrangheta nel bar del Tribunale Condannati boss e colletti bianchi
ludovica lopetti
Si è concluso con sette condanne e un'assoluzione in primo grado il
filone con rito abbreviato del processo nato dall'inchiesta della
Direzione distrettuale antimafia che ha scoperto gli interessi della
‘ndrangheta nella gestione del bar del Palazzo di Giustizia. I pm
Francesco Saverio Pelosi e Paolo Toso hanno ricostruito la ragnatela
che ha permesso a Rocco Pronestì, Rocco Cambrea e Crescenzo D'Alterio
di acquisire il controllo della cooperativa Liberamensa, che si era
aggiudicata l'appalto del Comune per gestire la caffetteria anche
impiegando detenuti nello staff. Il primo è uno storico appartenente
alla criminalità organizzata del Piemonte e da anni legato ai
maggiori esponenti della 'ndrangheta locale, il secondo è già stato
condannato in via definitiva per 416 bis, il terzo è considerato
uomo molto vicino a Pronestì. Ieri il gup ha inflitto 8 anni e 5
mesi a quest'ultimo, 7 anni a Cambrea e 6 anni e 2 mesi a D'Alterio.
Gli imputati (difesi tra gli altri da Rocco Femia e Stefano
Castrale) rispondevano a vario titolo di usura, estorsione,
associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori e
intestazione fittizia di beni. Silvana Perrone, ex presidente del
cda di Liberamensa, è stata condannata a 10 mesi e 20 giorni per
trasferimento fraudolento di valori, mentre è caduta l'aggravante di
aver agevolato la mafia. Al commercialista Gianmaria Gallarato sono
stati inflitti 13 mesi: per la Procura con la sua expertise ha
aiutato Pronestì, Cambrea e D'Alterio a eludere le misure di
prevenzione che impedivano loro di possedere imprese e quote
societarie. Il gup ha condannato anche due soggetti indicati come
"teste di legno" dagli investigatori: Raffaele Macchia, coinvolto
anche in episodi di estorsione (5 anni e 10 mesi), e Mauro Amoroso
(10 mesi e 20 giorni).
Nelle carte si parla di appalti e colletti bianchi, ma anche di
prestiti a usura ed estorsioni messe a segno con i metodi "classici"
come minacce, pressioni e intimidazioni. Nell'ambito dell'inchiesta,
a luglio 2023, gli investigatori hanno messo i sigilli al bar
interno al Palagiustizia e nel registro degli indagati è finita
anche Silvana Perrone, ex presidente del cda della coop liquidata
dopo il Covid: subentrata nella compagine societaria durante il
pre-dissesto, a settembre 2020 ha concertato con D'Alterio il
subentro di due prestanome nel cda. In seguito, secondo gli
inquirenti, D'Alterio sarebbe rimasto "il regista occulto" e avrebbe
usato la coop per offrire lavoro a persone vicine alle ‘ndrine,
all'occorrenza. Il controllo era talmente saldo da far dire a
Pronestì, intercettato: «È società nostra». Per questo la "signora
dei migranti" doveva rispondere di un aggravante mafiosa non
riconosciuta al momento dai giudici di primo grado.
07.11.24
MUSK IL CAPO DI TRUMP:
Quando Giorgia Meloni arriva nello stadio di Budapest l'operazione
per ricollocare l'Italia dopo la vittoria di Donald Trump è già
ampiamente in atto. La premier non si è schierata apertamente con il
nuovo presidente durante la campagna elettorale e ha chiarissimi i
rischi della transizione dei poteri. Ma con i suoi collaboratori,
arrivando al vertice della Comunità politica europea ospitato dall'eurotrumpiano
Viktor Orban, crede che l'equilibrio mostrato in questi mesi abbia
pagato, come dimostra la telefonata con Trump di mercoledì sera.
Politico, la testata più letta a Bruxelles, lo dice chiaramente:
Meloni e Orban sono i «veri vincitori delle elezioni americane».
Così, ora si tratta di gestire questa fase. Se il leader ungherese
non maschera l'entusiasmo e racconta dei suoi brindisi con la vodka
per festeggiare il trionfo dell'alleato americano, la presidente del
Consiglio italiana resta più coperta, ma con una certa convinzione
di poter aprire una fase nuova. Il paragone con la situazione dei
governi dei principali Paesi Ue giustifica questo ottimismo,
Francia, Germania e Spagna, per motivi diversi vivono momenti
complessi.
Dopodiché, spiegano fonti di governo, l'Italia soprattutto sulle
politiche commerciali, i temutissimi dazi, sarebbe pronta ad aprire
negoziati bilaterali con Washington. Scenari ancora prematuri,
perché l'imprevedibilità di Trump non consente fughe in avanti.
Nella cena al Parlamento ungherese sul Danubio che chiude la
giornata, la premier consegna un messaggio ai partner europei: «Non
bisogna avere paura di Trump». Secondo Meloni, infatti, in questa
fase l'Ue deve pensare alla sua autonomia strategica, senza
aspettare con panico le probabili azioni ostili della nuova
amministrazione Usa. E oggi a Budapest la premier si troverà accanto
il suo predecessore Mario Draghi, che discuterà con i leader dei 27
gli obiettivi del futuro dell'Unione europea, contenuti nel suo
rapporto. Draghi e Meloni oggi parleranno con la stampa praticamente
in contemporanea. La coincidenza ha suscitato qualche malizia: la
prima convocazione arrivata ai giornalisti è quella dell'ex
presidente della Bce, «poco prima delle 10». Passano meno di dieci
minuti e Palazzo Chigi annuncia le dichiarazioni della premier «alle
9.30».
I movimenti post elezioni iniziano quasi all'alba: prima delle otto
del mattino la premier, non senza enfasi, comunica sui propri
profili social di aver avuto una conversazione con Elon Musk. Di per
sé non è una novità, il magnate è un interlocutore ormai fisso della
presidente del Consiglio, ma dopo il 4 novembre, questo colloquio
assume un'altra dimensione. Tanto più che il magnate non tenero con
gli altri europei, e ieri in un tweet ha definito Scholz uno
«stupido». «Sono convinta – scrive la presidente del Consiglio nel
post – che il suo impegno e la sua visione potranno rappresentare
un'importante risorsa per gli Stati Uniti e per l'Italia, in uno
spirito di collaborazione volto ad affrontare le sfide future». Musk,
ormai in maniera plastica è, fra le varie cose, l'azionista di
maggioranza della Casa Bianca e non si può più prescindere da questo
aspetto. Meloni in questa fase è attenta a non mischiare i piani,
c'è l'aspetto tecnologico e degli investimenti e quello direttamente
politico, «la telefonata con Elon non c'entra con la strategia della
politica estera», spiega parlando con i suoi alleati. Eppure è
proprio dal mondo di Musk che si creano delle connessioni: «L'Italia
può e deve ritagliarsi un ruolo da protagonista nei settori del
futuro – dice Andrea Stroppa, il braccio destro del proprietario di
X -. Diventare il partner europeo privilegiato deve essere
l'obiettivo». Parole chiare, che si presentano però a una doppia
lettura. La politica c'è ma resta sullo sfondo. Negli ultimi mesi ci
sono state trattative fra il governo e Tesla per la produzione in
Italia di camion e furgoni elettrici. Nel governo c'è, poi, la
speranza concreta che si concluda presto l'accordo con Starlink, la
costellazione di satelliti di SpaceX per fornire servizi internet a
banda larga nelle aree scarsamente servite da altre reti. Un appalto
finito al centro di un'inchiesta per corruzione in cui è spuntato il
nome dello stesso Stroppa.
A Budapest, è inevitabile, si è parlato anche di migranti. Orban che
si vanta di essere «l'unico leader sopravvissuto» all'ondata di
profughi del 2015 manda un assist a Meloni. Secondo il premier
ungherese per affrontare l'immigrazione irregolare bisogna «uscire
dalla trappola costituita dall'attivismo dei giudici». E
nell'argomentare Orban aggiunge: «È la stessa situazione che si sta
verificando in Italia: i governi prendono decisioni, poi una Corte a
livello europeo decide negativamente». Accanto a lui annuisce Edi
Rama, il capo del governo albanese che ospita i centri per migranti.
Guerra in libano
Quattro soldati dell'Unifil feriti in un raid
Un raid israeliano vicino alla città di Sidone ha colpito un autobus
e ha provocato la morte di tre persone, oltre al ferimento di tre
soldati libanesi e quattro membri del contingente di peacekeeping
delle Nazioni Unite. In una fotografia l'autobus con i contrassegni
dell'Unifil appare con il vetro alla guida crivellato di colpi.
Secondo quanto riferito dall'esercito libanese, l'attacco aereo è
stato compiuto da Israele nei pressi di un posto di blocco
all'altezza del fiume Awwali. I quattro caschi blu feriti sono
malesi. L'Unifil ha precisato che i peacekeeper sono stati curati
sul posto. Nelle scorse settimane gli avamposti dell'Unifil sono
stati colpiti più volte dai raid israeliani e da razzi di Hezbollah
finiti fuori bersaglio. —
06.11.24
critiche da calenda
Maserati, Tavares a Modena. Fiom: il governo ci aiuti
Il ceo di Stellantis, Carlos Tavares, ha visitato ieri la Maserati a
Modena con il nuovo ceo del Tridente, Santo Ficili, il management
team e i sindacati. L'obiettivo dell'incontro, spiega Stellantis, è
sviluppare una crescita redditizia per l'unico marchio di lusso del
gruppo. Davanti ai cancelli si è presentato anche il leader di
Azione Carlo Calenda, che ha polemizzato con Tavares che non ha
potuto incontrarlo. «Siamo spiacenti di non aver potuto accogliere
il senatore a causa di vincoli di agenda» spiega Daniela Poggio (Stellantis
Italia) sottolineando che «saremmo lieti di ospitarlo, trovando
insieme la data migliore». Critici i sindacati. Per la Fiom «non ci
sono risposte, intervenga il governo». E la Fim conclude: «Va
rilanciata con nuovi modelli». —
Poirino, protestano i dipendenti di Denso e Teksid: "È uno scandalo:
paghiamo per un servizio che non ci viene dato"
L'autobus non va a prendere gli operai "Lasciati di notte davanti
alla fabbrica" erika nicchiosini
A piedi dopo il turno di lavoro. Costretti, quando possibile, a
chiedere passaggi a colleghi o colleghe o ricorrere ad un parente
per tornare a casa. Un problema che si è ripetuto in alcune
occasioni nelle ultime settimane per gli operai della Denso di
Poirino e la Teksid di Carmagnola, che utilizano i mezzi pubblici di
«Chiesa Viaggi» per raggiungere il posto di lavoro.
Un drappello di persone - «variamo dai 3 ai 5 agli 11 lavoratori a
turnare al pomeriggio» raccontano - utilizzano il bus che percorre
la tratta Carmagnola-Poirino. «Paghiamo regolarmente un abbonamento
settimanale di 13,50 euro, in parte coperto dall'Agenzia per la
Mobilità, ciò nonostante in alcune occasioni non ci è stato fornito
il mezzo per tornare a casa – sostengono i lavoratori, soprattutto
donne - Succede soprattutto con il turno del pomeriggio che termina
alle 22. La scorsa settimana, mercoledì, quando una collega ha
scoperto di essere rimasta a piedi, abbiamo chiesto agli impiegati
in guardiola e anche provato a telefonare in azienda per chiedere
spiegazioni, ma ci è stato detto che per poche persone il pullman
non si muove».
Il problema è diventato più pressante da quando la Denso di Poirino,
specializzata nella produzione di sistemi di condizionamento per
automobili, ha annunciato la cassa integrazione. «Ma alcuni episodi
si sono verificati già prima delle ferie estive, e in un'occasione
anche al termine del turno del mattino, alle 14 – ripercorrono -.
Per noi avere un mezzo che ci aspetta a fine turno è indispensabile
perché alcuni di noi non hanno l'auto o semplicemente serve ai
familiari. Non viaggiamo in bus per divertimento, ma per andare a
lavorare».
I pullman che servono i lavoratori impiegati nelle aziende, sono
due, spiegano ancora le lavoratrici, «uno messo a disposizione dalla
Denso e che percorre la tratta Carignano, La Loggia e Vinovo e
quella che utilizziamo noi. Purtroppo con la cassa integrazione i
turni di molti sono stati spostati al mattino, ma per esigenze di
lavoro l'azienda può chiedere di fare anche il pomeriggio. Siamo in
pochi. Alcuni hanno rinunciato a prendere il bus e cominciato a
organizzarsi diversamente. Ma chi resta cosa deve fare?». Cosa
chiedete? «Rassicurazioni sul servizio».
La Chiesa Viaggi, a Carmagnola, è un'istituzione e non si occupa
solo di trasporto pubblico locale, ma anche di noleggio autobus e
gran turismo. I titolari, non ci stanno: «Abbiamo avuto un colloquio
con l'Agenzia della mobilità, che contribuisce al servizio, dove
abbiamo rappresentato le difficoltà che come ditta stiamo
affrontando. Chiederemo un incontro alla Denso, per chiedere la
rimodulazione dei turni di cassa integrazione spostandoli
preferibilmente al mattino. Così che sia più semplice anche per noi
garantire un servizio che è costoso. La mia è una ditta con 60 anni
di esperienza, faccio questo tipo di trasporto da 25. Sì, è successo
due volte di aver lasciato la persona a piedi al termine del turno
pomeridiano, ma era comunque stata avvisata per via telefonica, ma
come posso spostare un pullman e un autista, che sono già pochi, per
una sola persona? Viviamo di abbonamenti, siamo in crisi anche noi».
TRUFFA ALLO STATO DI 6,7 MILIONI, GDF IN BANCA PROGETTO
(ANSA) - Per un prestito di 6,7 milioni di fondi garantiti dallo
Stato ottenuti da Banca Progetto tramite documentazione falsa sono
in corso tre misure cautelari, di cui due arresti, in una indagine
della procura di Brescia, parallela ad una della procura di Monza
per la quale anche sono in corso di esecuzione provvedimenti, tra
cui misure cautelari.
Tra le accuse contestate ci sono la truffa aggravata, la bancarotta
e l'autoriciclaggio. Inoltre la Gdf sta effettuando una serie di
perquisizioni, anche nella sede della banca indagata, dove sta
acquisendo i modelli organizzativi in base alle legge sulla
responsabilità amministrativa degli enti.
TRUFFA ALLO STATO, ARRESTATO IL FRATELLO DI UN PM ANTIMAFIA4
(ANSA) - Il promotore finanziario che lavorava per conto di Banca
progetto arrestato a Brescia nell'ambito di un'inchiesta per truffa
è Marco Savio, fratello del magistrato della direzione nazionale
antimafia Paolo Savio. Quest'ultimo è completamente estraneo alle
indagini. Ai domiciliari anche il braccio destro del promotore
finanziario, Diego Galli, 56 anni, mentre è stato disposto l'obbligo
di presentazione alla polizia giudiziaria nei confronti di Federica
Burzio, 34enne ritenuta dagli inquirenti la factotum del gruppo.
BANCA PROGETTO, SIAMO PARTE LESA NELL'INDAGINE PM BRESCIA
ISTITUTO CONFERMA LA VOLONTÀ DI COLLABORARE CON I MAGISTRATI
(ANSA) - Banca Progetto Spa, in relazione a notizie di stampa
diffuse in data odierna relative a indagini della Guardia di Finanza
di Brescia precisa di essere parte lesa nella vicenda" e dunque di
non essere indagata. Lo precisa in una nota l'Istituto in merito
all'indagine della procura di Brescia. "La Banca - prosegue la nota
- conferma la propria volontà di collaborare con la GDF e le
autorità competenti" e "si riserva di assumere ogni più opportuna
iniziativa, anche in relazione alla diffusione di notizie false e
diffamatorie per i danni che potrebbero arrecare all'Istituto
05.11.24
come funziona la macchina elettorale
1
Il voto indiretto per scegliere presidente e vice
2
I grandi elettori e il meccanismo distorsivo
Gli Swing States saranno l'ago della bilancia
3
Gli statunitensi non eleggono direttamente presidente e vice, ma
scelgono i cosiddetti grandi elettori. Nel Paese vige infatti il
sistema del collegio elettorale: gli elettori eleggono a livello
statale i grandi elettori, i quali a loro volta si riuniscono nel
Collegio elettorale che elegge il presidente e il vicepresidente. I
grandi elettori sono eletti su base statale e il loro numero è 538,
pari alla somma dei senatori (100, due per ogni Stato), dei deputati
(435, assegnati proporzionalmente al numero di abitanti) e dei 3
rappresentanti del Distretto di Columbia, in cui si trova la
capitale Washington. Il ticket (presidente e vice) vincente in uno
Stato ottiene tutti i voti di quello Stato, tranne in Maine e in
Nebraska, dove la distribuzione è proporzionale. —
'analisi
L'errore fatale di uno Stato che libera i boss della mafia
palermo Sono trascorsi più di trent'anni dalla terribile stagione
delle stragi di mafia che misero in ginocchio l'Italia e resero
fragile la nostra giovane democrazia. Una ferita profonda, tanto
violenta da far temere addirittura per la tenuta del Paese che,
però, resse l'urto soprattutto grazie alla decisa reazione delle
istituzioni che impiegarono le migliori risorse per fermare lo
strapotere mafioso. Lo Stato si dimostrò all'altezza e, per una
volta, usò la forza necessaria per combattere un nemico mostruoso in
passato galvanizzato da sottovalutazioni e inerzie istituzionali.
Cosa nostra, insomma, fu "normalizzata" fino a diventare debole come
raramente la si era vista. I boss furono strappati alle loro
latitanze dorate, molti beni illegali finirono nelle casse dello
Stato, picciotti e boss impararono a conoscere il carcere senza gli
sconti e la benevolenza in passato riservati ai mammasantissima
abituati a vivere in cella come al Grand'Hotel.
A quel punto magistrati come Falcone e Borsellino avrebbero
consigliato di insistere nel ridimensionare ulteriormente
l'associazione mafiosa, anche per non cadere nel fatale e ricorrente
errore di far riprendere fiato al mostro. La storia passata lo ha
dimostrato: Cosa nostra non muore facilmente ed è capace di una
ripresa rapida e incontrollabile.
E invece il "fatale errore" si ripresenta: una controproducente
ricerca di "ritorno alla normalità" (dopo anni di fruttuosa
emergenza) induce l'apparato repressivo a seguire le sirene di una
politica poco attenta. Così accade quello che in passato si è sempre
dimostrato un "regalo" alla mafia: abbassare la guardia e guardare
alle organizzazioni criminali come a fenomeni "normali".
Ed ecco le recenti scarcerazioni di boss e gregari di Cosa nostra,
alcuni stragisti con condanne definitive, anche ergastolani, oggi
liberi, o semiliberi o gratificati con permessi speciali, per aver
usufruito dei benefici riservati a "detenuti modello". Altri tornati
fuori dalle sbarre per decorrenza dei termini o, comunque, per
"inadempienza della giustizia" qual è, per esempio, il ritardo nel
redigere le motivazioni delle sentenze, senza le quali viene meno
una delle possibilità di ricorso degli imputati.
Ma entrambi i motivi di questo allentamento delle difese
istituzionali sono spie di un atteggiamento pericoloso da parte
della macchina preposta alla repressione mafiosa, perché tradiscono
una sottovalutazione del fenomeno. La presenza di agguerrite
organizzazioni criminali in una vastissima porzione di territorio
nazionale dovrebbe far riflettere sulla scelta di adoperare
strumenti giuridici condivisibili per "normali realtà criminali". Il
recupero del detenuto, per esempio, è obiettivo che nessuna persona
ragionevole potrebbe mettere in dubbio se vivessimo, specialmente al
Sud, una normale dialettica tra bene e male. Ma cosa c'è stato di
normale nella tragica nostra recente storia?
Sappiamo che il carcere è uno dei temi cruciali dell'essenza
mafiosa. Dice un vecchio adagio siciliano che "L'uomo d'onore è nato
per soffrire" e dunque mette nel conto un po' di anni di carcere.
Tre, quattro, anche di più, ma non il carcere vero. Quello no,
quello devono farlo i poveracci, i boss sanno di avere quasi diritto
a un trattamento più docile. Così funzionava prima: Masino Buscetta,
prima di pentirsi, scontava la sua pena nell'infermeria del carcere
dell'Ucciardone. E quando decise di evadere cosa fece? Convinse i
giudici di sorveglianza di essere un "altro uomo" rispetto alla
persona di prima, detenuto modello lo era e dunque ottenne la
semilibertà. Ovviamente dalla semilibertà passò alla libertà totale
in latitanza, in Brasile. I vari Galatolo, Alfano, Pullarà,
assassini e stragisti come quel Formoso condannato per la strage di
Milano e oggi semilibero, sono redenti? Nessuno di loro ha mai dato
prova di conversione visto che durante gli interrogatori non hanno
aperto bocca se non per declinare nome e cognome e basta. Ma sono
detenuti modello. Giusto, sopportano il carcere, proprio come deve
fare ogni uomo d'onore degno di questo nome. Il saper stare agli
arresti non sempre è sintomo di cambiamento, qualche volta
addirittura potrebbe essere affermazione di mafiosità. Chiedetelo a
chi sta rinchiuso da decenni senza mai essere sfiorato dal dubbio di
poter collaborare con lo Stato. —
04.11.24
Caterina Soffici
Iran, la studentessa sfida la polizia morale Protesta senza vestiti
dopo un'aggressione Quando il corpo diventa uno strumento di protesta. E
un'immagine diventa un simbolo di libertà. Per ricordare al mondo
che le giovani donne iraniane lottano ancora ogni giorno per i
propri diritti e vengono picchiate e muoiono in carcere. Nel
silenzio più o meno generale, perché si preferisce parlare di
missili e di guerra, scordandoci spesso che parlare di Iran e di
regime vuol dire anche questo. Infatti è accaduto ancora, a Teheran.
Dove una studentessa dell'Università islamica Azad è rimasta in
mutande e reggiseno dopo essere stata aggredita dalla polizia morale
per aver indossato il velo in modo inappropriato. Lei in biancheria
intima e intorno donne avvolte da vesti e veli neri, un contrasto
poderoso.
La storia si ripete e sembra di essere in un giorno della marmotta,
dove ogni mattina le donne iraniane si svegliano e tutto ricomincia
come il giorno precedente. Abbiamo iniziato a raccontare di Masha
Amini due anni fa, la ragazza uccisa per aver indossato male il velo
che ha dato il via al movimento Donna Vita Libertà. Poi abbiamo
raccontato di donne che bruciavano il velo, di ragazze che cantavano
e ballavano, di donne che mostravano i capelli e che li tagliavano,
sempre in segno di protesta. Mai avremmo pensato di vedere una
ragazza in biancheria intima in un luogo pubblico iraniano.
È accaduto sabato e la notizia sta rimbalzando sui social di tutto
il mondo. Quella immagine è ormai un'icona. Capelli neri lunghi,
scalza, mutande a righe e reggiseno fucsia: questa ragazza mette il
suo corpo al servizio delle sue idee. Come fece quello studente
cinese che da solo, con le borse della spesa, si pose in piedi di
fronte alla colonna dei carri armati in Piazza Tiananmen. Il corpo
come strumento, come la Libertà di Delacroix, che a seno nudo guida
il popolo rivoluzionario. Il corpo nudo, come le Femen ucraine che
si spogliavano per protestare contro ogni tipo di discriminazione
del corpo femminile.
La ragazza è stata subito arrestata. E il direttore delle relazioni
pubbliche dell'università Amir Mahjoub ha scritto su X: «A seguito
di un atto indecente da parte di una studentessa dell'università, la
sicurezza del campus è intervenuta e l'ha consegnata alle autorità
di polizia. Il movente e le ragioni sono attualmente sotto
inchiesta».
Questa la verità ufficiale. Che in Iran non coincide mai con l'altra
verità, quella di chi combatte per la libertà. La prendiamo da Masih
Alinejad, l'attivista iraniana minacciata dal regime che vive in
esilio a New York. Sui social racconta: «Una studentessa molestata
dalla polizia morale della sua università per il suo hijab
"improprio" non si è tirata indietro. Ha trasformato il suo corpo in
una protesta, spogliandosi fino alla biancheria intima e marciando
per il campus, sfidando un regime che controlla costantemente il
corpo delle donne. Il suo gesto è un potente promemoria della lotta
delle donne iraniane per la libertà. Sì, usiamo i nostri corpi come
armi per combattere un regime che uccide le donne per aver mostrato
i capelli. Il fatto è accaduto all'Università di Scienze e Ricerca
di Teheran». In un aggiornamento spiega poi che le autorità iraniane
sostengono che la giovane donna soffre di una malattia psicologica
ed è stata ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Sempre dai social di Alinejad, perseguitata dal 2009, che guida un
movimento per combattere contro l'obbligo del velo: «L'accusa di
instabilità mentale è una tattica familiare della Repubblica
islamica. Nel 2014, quando ho lanciato la campagna My Stealthy
Freedom contro l'hijab obbligatorio, il regime ha usato bugie simili
contro di me, sostenendo che ho avuto un esaurimento mentale, mi
sono spogliata nella metropolitana di Londra e sono stata violentata
da tre uomini. Questo è il modo in cui cercano di indebolire chi si
oppone alla loro oppressione».
Il racconto di una studentessa, che ha assistito all'intero
incidente, contraddice totalmente la narrazione del regime: «Sabato
2 novembre abbiamo visto le forze di sicurezza dell'università e le
milizie morali cercare di trascinare con la forza una studentessa
nella sala di sicurezza, con il pretesto che non indossava un hijab
adeguato. La studentessa ha opposto resistenza e nella colluttazione
le è stata strappata la felpa, lasciandola con solo gli indumenti
intimi. Choccati, gli agenti di sicurezza l'hanno lasciata andare,
dopodiché, in un momento di rabbia, si è tolta i pantaloni e li ha
lanciati contro gli agenti». L'ennesima donna che rischia la vita in
prima persona con un coraggio non misurabile in una scala realmente
comprensibile nel nostro Occidente, dove la democrazia e la libertà
sono date per scontate. —
L'omicidio nella città di Sfax, i testimoni dell'aggressione: "È
stata un'esecuzione. Sarebbe questo un Paese sicuro?"
Mohannad, il giovane attivista ucciso in Tunisia "Punito perché si
batteva per i diritti dei rifugiati" Eleonora Camilli
Mohannad Saad Adam aveva 19 anni e un sogno: arrivare in Europa. Più
volte ci aveva provato, tentando la traversata via mare, prima dalla
Libia poi dalla Tunisia. Ogni volta era stato rimandato indietro, in
quell'inferno da cui scappava e in cui ha trovato la morte. Di lui
restano solo due foto, la prima, in cui accenna un sorriso, è un
selfie spedito alla famiglia, per dire che, anche se con difficoltà,
la sua vita a Sfax stava andando avanti. E che a lasciare il paese
ci avrebbe provato di nuovo, perché quello era l'unico modo per
salvarsi. La seconda, l'ultima, lo ritrae con la stessa maglietta
azzurra del primo scatto, macchiata però dal sangue delle ferite. È
accasciato a terra, gli amici lo scuotono per rianimarlo, ma non c'è
più nulla da fare. Colpito a morte.
«Era un attivista che si batteva per i diritti dei migranti, lo ha
fatto fino alla fine. È morto perché difendeva ciò che è giusto-
sottolinea David Yambio, presidente di Refugees in Libya, che per
primo ha denunciato il caso avvenuto una settimana fa-. Ho
conosciuto Mohannad nel 2021 in Libia, era poco più di un ragazzino.
Insieme abbiamo partecipato alle proteste davanti alla sede dell'Unhcr
in Libia, poi lui è stato arrestato e detenuto nel lager di Ain
Zara». Nel 2023 Mohannad si era poi spostato in Tunisia, dove aveva
continuato a denunciare la mancanza di tutela per migranti e
rifugiati. Le modalità del suo decesso non sono ancora chiare, ma
gli amici che erano con lui raccontano che si è trattato di
un'esecuzione. «Un gruppo di sudanesi si era avvicinato a una
fattoria per lavarsi la faccia - racconta Yambio -. A quel punto un
uomo è uscito di casa urlando frasi razziste e di andarsene, cosa
che hanno fatto, mentre lui sparava prima in aria e poi sulla folla.
Una persona è rimasta gravemente ferita. Così Muhannad è tornato sul
posto a chiedere spiegazioni e lo hanno ucciso a colpi di arma da
fuoco». Ma per il presidente di Refugees in Lybia la sua morte non è
un caso isolato: «La Tunisia è un paese molto pericoloso per i
migranti. Ogni giorno ci sono persone che vengono percosse o
minacciate. Il razzismo è generalizzato, i migranti specialmente i
neri sono tagliati fuori da qualsiasi forma di welfare, perfino
affittare una casa è difficilissimo. Come si fa a considerarlo un
Paese sicuro?».
Anche per l'ong Mediterranea saving humans, Mohannad «aveva sempre
continuato a lottare per la giustizia, a costruire solidarietà con
tutte le altre persone oppresse. Ed è stato assassinato in
circostanze misteriose. In quella Tunisia a cui i nostri governi
vogliono affidare il contenimento dei migranti».
Il caso dell'attivista sudanese ucciso riapre le polemiche sul
governo di Kais Saied, sul trattamento riservato ai subsahariani e
sull'accordo con l'Italia. Anche in vista dei nuovi trasferimenti di
migranti in Albania e di possibili rimpatri. «La Tunisia oggi non è
un Paese sicuro neanche per gli stessi tunisini, Saied ha portato a
una continua erosione dei diritti fondamentali, come la libertà di
espressione. Gli oppositori politici sono oggi in carcere -
sottolinea Sara Prestianni di EuroMed Rights - E poi c'è un clima di
terrore che riguarda anche i migranti subsahariani». Prestianni
ricorda il caso di Sonia Dahamani, avvocata e giornalista reclusa
per aver criticato la gestione dell'immigrazione e il problema del
razzismo diffuso nel paese. «La violenza legittimata dai discorsi
d'odio è solo una delle tante espressioni della deriva democratica
che caratterizza il paese, che non può essere considerato sicuro. Ci
sono anche delle sentenze che lo confermano».
03.11.24
'inchiesta di milano sul dossieraggio di equalize
"Abbiamo clienti top, contatti con i servizi" Giallo sui legami con
gli 007 di Palazzo Chigi Milano
«Noi abbiamo la fortuna di avere clienti Top in Italia... i nostri
clienti importanti... contatti tra i servizi deviati e i servizi
segreti seri ce li abbiamo, di quelli lì ti puoi fidare un po'di
meno... però, li sentiamo, fanno chiacchiere, sono tutte una serie
di informazioni ma dovrebbero diventare prove». A parlare,
intercettato dai carabinieri, è l'esperto informatico Samuele
Calamucci, braccio destro operativo dell'ex poliziotto Carmine
Gallo, entrambi agli arresti domiciliari dal 25 ottobre.
Se siano veritieri o solamente millantati i rapporti dell'agenzia
d'investigazioni Equalize, in cui entrambi lavoravano, con
l'intelligence italiana difficile a dirsi. A suffragare il primo
scenario ci sarebbe, almeno, un incontro avvenuto negli uffici del
gruppo di via Pattari il 4 ottobre 2022.
I carabinieri del nucleo investigativo di Varese intercettano la
conversazione tra Gallo e gli agenti segreti. Il contenuto non
viene, però, trascritto negli atti d'inchiesta depositati alla Dda
di Milano e alla Procura nazione antimafia, ma solo sintetizzato:
«Gallo spiega che tipo di servizi offrono e che tipo di accertamenti
e consultazioni riescono a fare…vanta il fatto che rispetto ai loro
sistemi, lo Sdi non è nulla». Per accreditarsi agli occhi dei
presunti funzionari del Dis della Presidenza del Consiglio –
annotano sempre gli investigatori dell'Arma – «alle ore 17:17 Gallo
mostra con ogni probabilità un telefono agli interlocutori,
spiegando trattarsi di un telefono fuori rete che non utilizza
sistemi di messaggistica quali WhatsApp e Signal in quanto non
sicuri». Per chi indaga si tratterebbe di un «cripto-fonino con
tecnologia israeliana».
SANTO PADRE PAPA FRANCESCO PERCHE' NON PARLA MAI DI :
Ancora un giovane assassinato in
provincia di Napoli: aveva 19 anni, era una promessa del calcio . Il
killer postava foto in cui mimava una pistola
Santo, ucciso in strada da un diciassettenne " Un piede pestato ed è
scoppiata la rissa"
ANTONIO E. PIEDIMONTE
napoli
La mattanza dei giovani. Copioni simili, protagonisti differenti, un
filo conduttore: a sparare e a morire sono sempre ragazzi. Ieri è
toccato a una promessa del calcio, Santo Romano, 19 anni, che ha
pagato con la vita la voglia di trascorrere una serata con gli amici
nella piccola movida di San Sebastiano al Vesuvio. Una storia già
sentita. Nella piazza ancora affollata qualcuno sale
involontariamente sul piede di un altro e gli sporca la scarpa. Le
scuse non servono, anzi. Scoppia la lite. Il giovane accorre per
difendere un amico e compagno di squadra, cerca di separare i
contendenti, stemperare il clima. Mezz'ora dopo lo scontro, da una
minicar con targa polacca scende un ragazzino che spara con una
pistola. Il 19enne, colpito al petto, morirà in ospedale. L'amico è
ferito ma non gravemente. Il resto è paura, sangue, e un attonito
silenzio rotto dallo strazio composto della fidanzata, Simona, che
poi dirà ai cronisti: «È morto per difendere un amico. Santo era un
generoso, e una persona perbene, figlio di persone per bene. Avrebbe
fatto grandi cose…».
Dopo una notte di indagini i carabinieri hanno individuato un 17enne
che vive nel quartiere napoletano di Barra, già noto alle forze
dell'ordine. Le foto sui social ne immortalano i desideri. E non
solo: la Procura per i minori ha annunciato accertamenti su alcuni
post pubblicati subito dopo l'omicidio. Il presunto omicida è
sdraiato assieme a un amico, entrambi fanno il gesto della pistola.
Sotto choc il mondo dello sport. «Un ragazzo buono da esempio per
tutti. È stato un onore averti nella nostra famiglia. Ciao Santino,
continueremo a volerti bene», si legge in una nota della sua
società, l'Asd Micri (di Pomigliano). Parole commosse anche dall'Albanova
calcio, che oggi avrebbe dovuto incontrare la squadra a vesuviana.
Le circostanze che hanno scatenato l'aggressione hanno riportato
alla mente uno degli episodi più sconcertanti del bollettino della
violenza giovanile in Campania: la morte di Francesco Pio Maimone,
pizzaiolo 18enne ucciso nel marzo 2023 tra la folla degli chalet di
Mergellina, colpito da una pallottola vagante sparata al culmine di
una rissa tra due gruppi (a lui estranei) scatenata proprio da una
scarpa sporcata. Qualche mese dopo, il 31 agosto, un'altra
"tarantella" permise a una baby gang dei Quartieri Spagnoli di
aggredire alcuni ragazzi in un pub di piazza Municipio e il capo
banda, un 17enne già noto per aver accoltellato un 13enne, sparò tre
colpi di pistola nella schiena (la vigliaccheria è una
caratteristica delle nuove leve della camorra) di Giovanbattista "Giogiò"
Cutolo, giovane musicista di talento in forza alla Nuova orchestra
"Scarlatti".
Il Far West corre su due ruote: nel dicembre dello scorso anno, a
piazza Carlo III un aspirante baby boss (arrestato nelle scorse
settimane) affianca un'auto e spara dallo scooter contro un giovane
attore del film "La paranza dei bambini", Ciro Vecchione. Il ragazzo
si salva e gli amici del suo quartiere (la Sanità) un mese dopo
arrivano con gli scooter e sparano quasi cento colpi; la paranza
scatena il panico, colpisce un anziano passante ma non riesce a
uccidere il "nemico", un 19enne che rimane solo ferito. Scena
analoga a quella registrata pochi giorni fa, stavolta però il raid è
finito in tragedia. Muore il 15enne Emanuele Tufano, colpito alla
schiena, due i feriti. Ai funerali, l'altro ieri alla Sanità, una
tromba ha intonato il "silenzio" dei funerali militari, non ha
destato sorpresa: che siano vittime o innocenti, per i ragazzi di
Partenope è sempre una guerra. Se l'Italia non è un Paese per
vecchi, Napoli non è una città per giovani.
DEMAGOGIA MELONIANA: La condanna
di
Caivano
caivano (napoli)
«Piove in casa, guarda il muro come si sgretola. Le macchie di
umidità in bagno e in camera da letto? Ogni sera mi addormento e
spero non piova. Se crolla il palazzo?». Parco Verde, Caivano, nord
di Napoli. Un anno dopo lo stupro di gruppo delle due minorenni del
quartiere. Parco Verde è come sempre. Brutto, puzzolente, degradato.
L'unico colore è quello della dignità, delle donne, dei bambini e
dei volontari che resistono. Giorgia Meloni è andata due volte a
Caivano nell'ultimo anno. La prima, subito dopo lo stupro delle
bambine, agosto 2023, per affermare che "lo Stato c'è". La seconda,
il 28 maggio di quest'anno, per inaugurare il centro sportivo
Delphinia, ristrutturato dopo che si è scoperto che all'interno si
sarebbero consumate le violenze sulle due cuginette. Signora perché
ha sigillato il balcone con la rete? «Ci sono i topi. Salgono e
entrano in casa. Guarda qua sotto, ce ne sono diversi morti». L'ha
segnalato ai tecnici del Comune? «Sono venuti, hanno messo delle
trappole. Stop. Inutili. Le fogne sono a cielo aperto. La rete
idraulica è un colabrodo. Che ci siano topi e scarafaggi è il
minimo. Sente la puzza? Butto candeggina ogni mattina».
Le case popolari di Parco Verde dovevano essere alloggi temporanei
per i sopravvissuti al terremoto dell'Irpinia del 1980. E invece
sono diventate rifugi per sempre. Dove nascere e morire. «Dicono che
il degrado del quartiere è colpa degli occupanti che non pagano, ma
sono un'esigua minoranza, mi creda. Siamo quasi tutti regolari e chi
era in arretrato con l'affitto, ha rateizzato i debiti e sta
pagando». Un anno fa si è dimesso il sindaco di Caivano, sfiduciato
dalla giunta di centro sinistra: scioglimento e nomina di tre
commissari straordinari. Non è una novità per questo territorio. Dal
1997 nessun eletto primo cittadino, di qualsiasi colore politico ha
resistito per tutta la legislatura. Ad ottobre poi il governo ha
anche azzerato il consiglio comunale per presunte infiltrazioni
camorristiche e ha nominato un Commissario ad hoc, oltre ai tre
sempre in carica, per l'attuazione del decreto-legge 15 settembre
2023, meglio conosciuto come decreto Caivano, convertito dalla legge
13 novembre 2023 e recante «Misure urgenti di contrasto al disagio
giovanile, alla povertà educativa, e alla criminalità minorile». Una
pioggia di milioni di euro. In gran parte fondi per lo sviluppo e la
coesione, periodo di programmazione 2021-2027.
«È salita sui tetti? Vada a vedere. C'è ovunque amianto». In
effetti. Il colpo d'occhio è impressionante. Si dorme sotto
l'amianto, vecchio e in via di decomposizione, quindi ancora più
pericoloso perché soggetto a sgretolamento e quindi il polverio di
questo cancerogeno lo respirano tutti, grandi e bambini. «Ho
protocollato più volte la richiesta urgente di rimozione
dell'amianto». Mi mostra l'ultimo sollecito fatto, il 2023. «Non è
venuto nessuno». Ora c'è un «Piano straordinario di interventi
infrastrutturali e di riqualificazione del territorio», 76 pagine,
con l'elenco delle zone di intervento e le ipotesi di stanziamento.
Somme potenziali generali di spesa: 54.599.036 euro. Obiettivo
primario: il rilancio finalmente della periferia. Sulla pagina
internet del Commissario straordinario, dottor Fabio Ciciliano, si
può monitorare l'andamento attuativo del piano. Ci sono i decreti
attuativi degli appalti avviati ad oggi tra quelli annunciati. A
parte il centro sportivo Delphinia, tra gli interventi più corposi
partiti c'è il cantiere per alla voce «Azione n. 2, riqualificazione
e realizzazione di spazi socio culturali» ( stanziamento di due
milioni di euro) per "l'Auditorium Caivano Arte". C'è poi il grande
progetto per portare l'università a Caivano. Scienze
infermieristiche, scienze motorie, agraria, scienze della formazione
Primaria, Tecnici del Restauro, Scuola dei mestieri, Green Academy.
Sono i corsi che in futuro potrebbero iniziare. Stanziamento 1
milione di euro. I costi in realtà ora sono lievitati, perché si è
aggiunto il cantiere per «La costruzione di un'aula magna,
3.261.985,56 euro, di cui 2.024.813,49 per lavori e progettazione
esecutiva lavori e 1.174.198, 48 per spese tecniche». La macchina è
in moto, questi cantieri sono partiti. «Si, ok. Ma le nostre case?».
Per la riqualificazione dei palazzi di edilizia popolare di
proprietà pubblica sono previsti circa 12 milioni di euro. «Quindi
monteranno le impalcature prima o poi? Mi pioveva in casa, ho
trovato più volte scarafaggi. Escono dal bagno e dai lavandini. Ho
fatto io i lavori qui dentro. Ho pagato gli operai. Si può vivere
così? Faccio le pulizie. Lavoro in nero, mi spacco la schiena. Siamo
persone per bene».
Anna (nome di fantasia) invece ha ottant'anni, è malata. Ma i figli
non le hanno detto che ha un tumore. Ha perso due figlie, per colpa
di questo male. «Guarda la mia stanza da letto, gli angoli sono
tutti marci e dal soffitto piove quando c'è il temporale. Metto i
secchi e gli stracci. Ma è troppo umido, ho sempre freddo nelle
ossa. D'inverno i termosifoni sempre accesi non bastano. Ho comprato
due stufette». Ma il contatore salta. Anche la rete elettrica è
vecchia e fatiscente. Che spreco è stato non ristrutturare queste
case popolari con il superbonus, che dramma sarebbe se ancora una
volta restassero così. «Ci morirò nel degrado. Lo so. Mi sono
rassegnata. Lo scriva però che siamo lavoratori, onesti». Al primo
piano c'è una signora affacciata. Mi chiama. Cos'è quel tubo bianco
sul suo balcone attaccato al contatore dell'acqua? «L'ho fatto io,
c'è una perdita dal tubo portante del palazzo, che mi finisce in
casa. Si allaga sempre tutto. Con questo accrocchio di plastica
riverso la fuoriuscita in strada. Tocca ingegnarsi». Su circa 250
appartamenti sono in corso verifiche della magistratura, per capire
chi va sgombrato e chi invece ha situazioni di fragilità da prendere
in carico.
Bruno Mazza è cresciuto a Parco Verde. Dieci anni in carcere per
spaccio, un fratello morto di overdose, padre suicida. Quando è
tornato libero ha scelto di cambiare vita radicalmente. Ha sfidato i
clan che sfruttano i ragazzini per farli spacciare, come hanno fatto
con lui. Per questo ha subito minacce. Ha fondato "Un'infanzia da
vivere" che in collaborazione con Fondazione per il Sud organizza il
doposcuola per i bambini di Parco Verde, i corsi gratuiti di
calcetto. «Cerchiamo di evitare che restino in strada senza una
guida. Qui si spara ancora». Oggi è giorno di pulizia delle aiuole.
Mazza raduna i volontari del quartiere, distribuisce guanti e buste
a tutti. «Non lavorano, qualcuno ha un passato di tossicodipendenza.
Impegnandoli riusciamo a tenerli lontani da tentazioni». Perché
tagliate voi l'erba e raccogliete l'immondizia? «Perché non lo fa
nessun altro. Almeno intorno ai campetti e le aree gioco allestite
da noi, cerchiamo di tenerle pulite. Qui poi non c'è raccolta
differenziata e i sacchi non li ritirano con cadenza regolare».
Nel Decreto Caivano c'è: «Ambito di azione n. 3 – riqualificazione e
realizzazione spazi pubblici e verde pubblico», 1 milione di euro.
Villa Andersen, 207 famiglie di Parco Verde, 500 bambini, affacciano
su questo scempio. Le donne sono alla finestra. Hanno voglia di
parlare. «Noi questa villa la chiamiamo il cantiere». Qui prima si
bucavano. «Lei suo figlio lo lascerebbe scendere a giocare? Meglio
chiusi in casa». Ora però c'è il Centro sportivo ex Delphinia. «Più
di 44 discipline sportive differenti praticabili, 20 campi sportivi
oltre a 4 progetti di arte partecipata con oltre 100 ragazzi perché
Sport e Cultura sono le due direttrici su cui ci si è mossi» si
legge sul sito di Sport e Salute che lo gestisce. Perché non ci
porta i suoi figli? «Perché costa». C'è un'area verde esterna
gratuita da poco allestita. «Non abbiamo la macchina, io sono sola
con tre bambini. Mio marito fa il muratore, esce alle 5 e torna per
cena». L'ex Centro Delphinia ora si chiama "Pino Daniele" . E quello
spazio che lo separa dai palazzoni fatiscenti seppur poco è tanto
per Parco Verde. «Non accettano nemmeno i voucher per le famiglie
con Isee basso: quello della Regione Campania per iscrivere gratis i
minori».
Ci vado. Scusi, è vero che non avete convenzioni specifiche per le
famiglie con reddito basso? «Non abbiamo stipulato convenzioni ad
hoc. Però ora il Comune ci ha mandato 100 bambini». E gli altri?
«Non so che dirle». Pazienza, bisogna avere pazienza, e credere che
quelle impalcature per la qualità della vita presto saranno realtà.
GRAVE : La denuncia di una madre di Avigliana: "Dopo l'ospedale
anche il Centro di salute mentale non è intervenuto: dicevano che
non c'erano più fondi"
"Mio figlio cercava un aiuto psichiatrico Non lo ha ottenuto e così
si è tolto la vita"
Francesco Munafò
Elisa Sola
L'ultimo messaggio l'ha mandato alla madre. Alle nove e venti di
mattina di domenica scorsa. «Ciao mamma ti voglio bene». E lei, Lia
Sponton, con la forza di tutte le mamme, di tutti i padri e fratelli
che convivono – e si portano addosso – la malattia psichiatrica di
qualcuno che si ama, gli ha risposto: «Fede ne hai passate tante.
Passerai anche questa». Quel messaggio è rimasto bloccato per
sempre. Erano le 10 e 50. Federico Fedele non lo ha mai letto. Si è
tolto la vita prima. A 27 anni. Nel piccolo alloggio di via Bibiana
dove viveva: il rifugio che la sua famiglia gli aveva comprato per
aiutarlo. Per dargli un supporto nella battaglia contro i tormenti
causati dal suo disturbo di personalità borderline. Orario del
decesso: 1 e 56 del 27 ottobre.
E ora, mentre piange il figlio mamma Lia dice: «Mio figlio è morto
dopo avere chiesto aiuto tante volte. Il suo grido di dolore è
rimasto sempre inascoltato. Provo rabbia perché si poteva salvare.
Nelle due settimane prima di morire ha cercato cure, invano, per due
volte al pronto soccorso. Ha telefonato al Csm. Ho chiamato persino
io. Troppo tardi».
Nella notte tra il 10 e l'11 ottobre Federico, in preda a una «crisi
esistenziale», entra al pronto dell'ospedale Giovanni Bosco. Chiede
di essere ricoverato. «Dopo quattro ore di attesa – racconta la
madre – gli hanno risposto che non aveva niente. Lo hanno mandato a
casa. Eppure lui sapeva che se lo avessero ricoverato sarebbe stato
meglio. Aveva già preparato la borsa. Aveva messo i pigiami e le
dosi di tabacco pronte per un mese. Sarebbe uscito migliorato».
Quando viene congedato Federico tira un pugno a una porta. Arrivano
i carabinieri. Lo arrestano. Dopo poche ore la pm Elisa Pazé chiede
che venga liberato. «Non c'erano i presupposti per una misura
restrittiva, lui in fondo è un buono» spiega l'avvocata Valentina
Tricoli.
«Pochi giorni dopo - ricorda la madre - il 21 ottobre, ha telefonato
al Csm: ha chiesto che lo ricoverassero. Ha risposto un operatore,
dicendo che la dottoressa non c'era fino a lunedì. E ha aggiunto una
frase che fa male: Non possiamo ricoverare perché fino a fine
dicembre non abbiamo i fondi».
La procura ha aperto un fascicolo senza indagati e senza ipotesi di
reato. E il Giovanni Bosco chiarisce: «Non c'è correlazione tra
l'accesso al pronto soccorso e l'evento anticonservativo. È'
arrivato in stato di alterazione alcolica. Era in carico ad un'altra
Asl».
Restano i dati. Il Piemonte (fonte Sism, Sistema informativo della
salute mentale) destina 64 euro annui a persona per la salute
mentale, sei euro in meno rispetto alla media nazionale. Il
personale del Dipartimento di salute mentale piemontese conta 39
professionisti ogni 100 mila abitanti a fronte dei 60 ogni 100mila
della media nazionale.
Dopo quella telefonata del 21 ottobre, Federico ha avuto un'altra
crisi. Spiega la madre: «È intervenuta l'ambulanza. Lo hanno portato
di nuovo al Giovanni Bosco. Ma c'era troppo da aspettare. Ha
abbandonato la sala». Il 22 mamma Lia chiama il Centro di salute
mentale. Parla con un operatore. La richiamano tre giorni dopo. «Mi
hanno detto che fino alla fine di dicembre i soldi per i ricoveri
erano finiti. Il giorno dopo mio figlio è morto. E io provo rabbia
perché Federico ce l'ha messa tutta. Non appena i sintomi della sua
malattia sono emersi nel 2017, si è fatto curare. È stato in in
gruppo appartamento. Poi in due comunità. Ma nessuna struttura
andava bene. Perché c'erano pazienti gravissimi, non autonomi, e lui
si annoiava. Voleva lavorare. In Italia sono fermi ai matti da
manicomio. Federico è stato abbandonato. Era solo un peso. Ecco
perché provo rabbia»
02.11.24
Nonostante le sanzioni imposte dall’Unione europea, i prodotti di
decine di aziende italiane hanno contribuito, sicuramente fino alla
fine di marzo di quest’anno, alla realizzazione di Arctic Lng 2, il
progetto che la russa Novatek sta sviluppando in Siberia con
l’obiettivo di trasformare in liquido il gas estratto nell’Artico ed
esportarlo nel mondo. Alcune di queste aziende registrate in Italia sono
controllate dallo stato, altre sono di proprietà straniera. In quasi
tutti i casi, la fornitura di merce non è avvenuta in modo diretto,
ma attraverso società intermediarie basate perlopiù in Cina, Emirati
Arabi Uniti e Turchia. Paesi che non hanno imposto sanzioni contro
Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina.
Registrate negli Emirati e al centro di molte triangolazioni, due di
queste società intermediarie hanno collegamenti diretti con la
Russia. Sono questi i risultati principali che emergono da
un’inchiesta realizzata da Domani insieme ad Arctida, ong
specializzata in ricerche sull’Artico russo.
Arctic Lng 2 è un progetto strategico per Mosca. Secondo l’annuncio
fatto nel 2019, la capacità produttiva annuale dell’impianto – che
si trova sulla penisola di Gyda – a regime sarà di 19,8 milioni di
tonnellate di gnl (gas naturale liquido). Visto che l’anno scorso la
Federazione ha prodotto 32,9 milioni di tonnellate di gnl, l’aumento
sarebbe dunque del 60 per cento, e permetterebbe di compensare il
crollo delle esportazioni via gasdotto verso l’Ue.
Nel progetto ha un interesse personale uno dei più importanti
alleati di Vladimir Putin, Gennady Timchenko. Azionista principale
della società Arctic Lng 2 è infatti Novatek, partecipata dal suo
amministratore delegato, Leonid Michelson, dall’azienda statale
Gazprom, dalla francese TotalEnergies (che nel frattempo, pur non
avendola ceduta, ha deconsolidato dal bilancio la partecipazione) e,
appunto, da Timchenko.
[…] Bruxelles ha messo fin da subito nel mirino il progetto
sviluppato nell’Artico russo. L’8 aprile del 2022 il Consiglio
dell’Ue ha pubblicato il quinto pacchetto di sanzioni contro Mosca,
che vieta di «esportare, direttamente o indirettamente, beni o
tecnologie idonei...all’uso nella liquefazione del gas». Grazie a
dati doganali e documenti societari analizzati da Domani, è
possibile raccontare quello che è successo fino alla fine di marzo
del 2024.
Dal 9 aprile 2022 – data di entrata in vigore delle sanzioni sul gnl
– i componenti di decine di aziende registrate in Italia sono finiti
ad Arctic Lng 2, per un valore complessivo di 134 milioni di euro.
Se il calcolo si fa a partire dal 24 febbraio del 2022, due giorni
dopo l’entrata dei carri armati russi in Ucraina, il totale arriva a
194 milioni di euro.
Limitiamoci però a quanto successo a partire dal 9 aprile 2022. La
maggior parte delle forniture italiane è di Nuovo Pignone, società
fiorentina del gruppo americano Baker Hughes, famosa in tutto il
mondo per la produzione di turbine. Totale del valore fatturato da
Arctic Lng 2: 19,6 milioni di euro.
Con valori inferiori ma comunque rilevanti ci sono poi, solo per
citarne alcuni, i gruppi Tenaris e Marcegaglia, entrambi produttori
di tubi d’acciaio, la multinazionale dei cavi Prysmian, Cortem,
azienda friulana che produce apparecchiature elettriche, Honeywell,
filiale italiana dell’omonimo colosso americano, Erresse, produttore
di valvole della provincia di Novara.
[…] Tra le aziende nostrane che stanno di fatto permettendo la
realizzazione di Arctic Lng 2, i dati doganali elencano anche due
imprese controllate dallo stato italiano. Lo stesso che sta
imponendo le sanzioni. Si tratta di Valvitalia e Ansaldo Energia. La
prima è specializzata in valvole e raccordi, la seconda realizza
turbine.
I loro prodotti risultano essere finiti ad Arctic Lng anche dopo il
9 aprile. Ci sono state ad esempio 30 consegne di materiale
proveniente da Valvitalia, per un valore complessivo di 4,9 milioni.
La merce della partecipata di stato è finita alla Arctic Lng 2
attraverso diverse società intermediarie, ma la più utilizzata è
stata l’emiratina Nova Engineering and Construction, una delle
società collegate alla Russia.
Forniture che non sono quasi mai avvenute in modo diretto, ma
attraverso triangolazioni. In altre parole, le aziende italiane
hanno venduto a società non registrate in Russia, le quali poi a
loro volta hanno trasferito la merce in Siberia. Formalmente,
quindi, tutto regolare.
Nella lista delle intermediarie più gettonate dalle imprese italiane
ci sono: le cinesi Penglai Jutal Offshore Engineering Heavy
Industries, Gac, Bomesc Offshore Engineering Company, Qingdao
McDermott Wuchuan; i gruppi turchi Maritsa e Modmer Trading; due
società emiratine, Nova Engineering and Construction e Waterfall
Engineering. Sono queste ultime le intermediarie di cui abbiamo
individuato collegamenti con la Russia. La Waterfall Engineering Ltd
è stata fondata nel 2023 ad Abu Dhabi. A dire che è collegata al
regime di Vladimir Putin, nello specifico al progetto Arctic Lng 2,
è l’Office of Foreign Assets Control, l’autorità che applica le
sanzioni per conto del governo degli Stati Uniti.
Ma Waterfall Engineering non è solo elencata tra le imprese
sanzionate dagli Usa. Ha sede presso l’Abu Dhabi Global Market,
centro finanziario che si trova all’interno di una torre, sull’isola
Al Maryah. Nello stesso posto c’è un ufficio di rappresentanza della
Gydan Lng. Sicuramente fino a giugno del 2022, questa società era
una joint venture, con cliente unico Arctic Lng 2, partecipata
dall’italiana Saipem (20 per cento, controllata a sua volta dallo
stato italiano), dalla francese Technip Energies (70 per cento) e
dalla russa Nipigas (10 per cento), mentre oggi l’unico proprietario
è Nipigas.
Tra gli azionisti principali di Nipigas (tramite il colosso
petrolchimico Sibur) c’è Gennady Timchenko, considerato uno degli
alleati più importanti di Putin. Con questa motivazione l’Ue lo ha
sanzionato a partire da febbraio 2022.
Come detto, Timchenko è anche azionista di Novatek. Dunque, l’emiratina
Waterfall Engineering ha sede allo stesso indirizzo di Abu Dhabi
della società controllata dalla Nipigas di Timchenko. Anche la Nova
Engineering and Construction, l’altra emiratina che ha intermediato
più volte le forniture italiane ad Arctic Lng 2, è collegata a
Mosca, sebbene in modo meno diretto. Condivide la sede e l’azionista
di controllo, l’uzbeko Ulugbek Kamolov, con un’altra impresa
emiratina, la Smart Solutions Ltd.
Nel consiglio d’amministrazione di quest’ultima siedono due uomini
di nazionalità russa: Denis Mishchenko ed Egor Zubarev. […] Secondo
il governo degli Usa, Smart Solutions è stata usata dalla Russia per
«aggirare le sanzioni statunitensi e rivitalizzare il progetto
Arctic Lng 2»: con questi motivi, proprio ieri, è stata messa sotto
sanzioni da Washington.
KKR ed Energy Capital Partners hanno deciso di investire
complessivamente 50 miliardi di dollari in progetti di data center e
di generazione di energia per sostenere lo sviluppo
dell'intelligenza artificiale.
L'investimento è una scommessa sull'enorme fabbisogno energetico
dell'intelligenza artificiale e sul crescente stress che sta
esercitando sulla rete elettrica statunitense. Le società hanno
dichiarato che gran parte dell'investimento sarà effettuato nei
prossimi quattro anni.
KKR, una delle più grandi società di investimento al mondo, ed
Energy Capital Partners, una società di private equity, hanno
investito molto nelle infrastrutture alla base del boom dell'IA. Le
società hanno dichiarato che ora stanno collaborando con le grandi
aziende tecnologiche per accelerare il loro accesso all'elettricità,
che è diventato limitato in alcune parti degli Stati Uniti, in
quanto gli sviluppatori di data center competono per le fonti di
energia e l'accesso alla rete.
“Il fabbisogno di capitale è enorme e uno dei grandi colli di
bottiglia, forse il collo di bottiglia, è la disponibilità di
elettricità”, ha dichiarato Doug Kimmelman, fondatore e socio senior
di ECP.
ECP possiede società che gestiscono centrali elettriche
convenzionali e rinnovabili, tra cui Calpine, uno dei maggiori
produttori di energia elettrica del Paese. Di recente ECP ha
ampliato il suo portafoglio di impianti a gas naturale, che secondo
Kimmelman saranno fondamentali per fornire energia 24 ore su 24 ai
data center. Kimmelman ha dichiarato che prevede di effettuare
ulteriori investimenti nel gas, esplorando al contempo modi per
ridurre le emissioni di carbonio con le energie rinnovabili o
sviluppando tecnologie come la cattura e il sequestro del carbonio.
Le aziende tecnologiche si sono affidate pesantemente ai
combustibili fossili per alimentare i loro centri dati, il che rende
difficile per loro onorare gli impegni presi per ridurre le
emissioni di carbonio e al tempo stesso spingere per accelerare lo
sviluppo dell'IA.
Ogni azienda tecnologica sta ora cercando di accelerare lo sviluppo
di fonti di elettricità più pulite.
Microsoft, Google e Amazon.com hanno dichiarato di voler investire
miliardi di dollari per mettere online più energia nucleare. Alcuni
dei progetti dipendono da una tecnologia di nuova generazione non
ancora collaudata e ciascuno di essi richiederà anni per essere
completato, in parte a causa delle sfide finanziarie e tecnologiche
che hanno limitato la crescita dell'industria nucleare statunitense
per decenni.
Secondo la società di consulenza McKinsey, per ora gli impegni in
materia di sostenibilità passano in secondo piano rispetto al
desiderio delle aziende tecnologiche di costruire rapidamente centri
dati.
Waldemar Szlezak, che dirige gli investimenti di KKR nelle
infrastrutture digitali, ha dichiarato che la partnership
dell'azienda con ECP è finalizzata a soluzioni a breve termine per
espandere l'accesso all'energia e alleggerire gli ostacoli che le
aziende tecnologiche devono affrontare nella costruzione di centri
dati. Ad oggi, KKR ha investito più di 29 miliardi di dollari in
società di infrastrutture digitali.
Nelle intercettazioni l'hacker Calamucci fa riferimento anche all'ex
007 Mancini . Il suo legale: "Fantasie senza fondamento"
Da Milano alla Squadra Fiore la rete degli spioni porta a Roma irene famà
monica serra
roma-milano
«Mancini è un componente. Doppio Mike, l'ho chiamato doppio Mike. È
un componente della squadra Fiore, un traditore». È Nunzio Samuele
Calamucci a dirlo, intercettato dai carabinieri di Varese. E nel bel
mezzo di una "guerra" tra hacker che lo ha portato a denunciare ai
giornalisti l'esistenza a Roma di una centrale di spionaggio che,
per quel che sta emergendo, aveva molti punti in comune con quella
milanese, di cui Calamucci faceva parte. Anche la «Squadra Fiore»
sarebbe infatti composta da militari ed ex militari legati a
comparti dell'intelligence che accedono alle banche dati, da quelle
della Banca d'Italia allo Sdi. Raccolgono notizie riservatissime su
vip e grandi società e poi le rivendono.
Dai primi accertamenti, le basi logistiche sarebbero due: una in
Italia, nella Capitale, in un appartamento di piazza Bologna, tra
studi di avvocati e medici. Tra quelle mura si poteva parlare
liberamente: a proteggere le conversazioni ci sarebbe stato un
disturbatore di frequenze. La seconda pare sia a New York, nella
Lower Manhattan.
Della Squadra Fiore si inizia a parlare a marzo, dopo gli articoli
di Fabrizio Gatti di Today. it. A contattarlo, sarebbe stato proprio
l'hacker Calamucci. L'obiettivo? "Bruciare" il gruppo rivale, almeno
in apparenza perché stava dossierando un cliente della sua
organizzazione: Leonardo Maria Del Vecchio, figlio prediletto del
patron di Luxottica, che ha pagato almeno 361 mila euro alla società
Neis, dell'ex Ros Vincenzo Di Marzio, per varie attività di
investigazione nel bel mezzo della faida per l'eredità del padre.
Per conto di Del Vecchio, secondo il pm Francesco De Tommasi, la
banda spia la fidanzata ma anche i fratelli, soprattutto Claudio Del
Vecchio, che nel frattempo ha depositato la nomina di un avvocato.
Quando scopre che la squadra Fiore sta spiando Del Vecchio Jr,
Calamucci cerca dei giornalisti a cui racconta una storia tutta da
verificare. Dice di essere stato contattato da un amico militare che
lavora all'Agenzia di Cybersicurezza nazionale e per "Fiore". Dice
che gli avrebbe inoltrato una fotografia mentre era sotto casa
dell'imprenditore. La procura di Roma inizia a indagare sulla
presunta rete clandestina per accesso abusivo a sistema informatico,
violazione delle norme sulla privacy ed esercizio abusivo della
professione. Per ora, la Postale avrebbe individuato cinque presunti
appartenenti al gruppo.
Nelle quasi 5 mila pagine di informative depositate a Milano, solo
Calamucci accenna intercettato alla Squadra Fiore, sostenendo che ne
farebbe parte l'ex dirigente del Dis Marco Mancini ("Doppio Mike"
per via delle iniziali è sempre stato il suo nickname) che ha
terminato la carriera nei Servizi dopo le foto con l'ex premier
Matteo Renzi in autogrill a dicembre del 2020. Ma tramite l'avvocato
Luca Lauri, Mancini fa sapere che la sua appartenenza a Fiore
sarebbe «pura fantasia», che non conosce Calamucci né l'ex
poliziotto Carmine Gallo, a capo del gruppo milanese. Sostiene il
legale: «Gli indagati intercettati riferiscono un coacervo di
notizie confuse, partendo da spunti di vecchi atti di indagine, e
senza fondamento, con l'obiettivo di accreditarsi».
Più volte nelle intercettazioni si nomina Mancini. L'ex Ros Di
Marzio, che ha lavorato nel Sismi, parla di presunti contrasti con
lui: «Mi ha promesso che mi avrebbe fatto ammazzare… Alla fine ho
dato i documenti al notaio, poi ho detto, siccome le prove ce le ho,
se mi investono c'è qualcuno che farà uscire questi documenti». Al
netto di Mancini (non coinvolto nelle indagini), i presunti rapporti
con l'intelligence ricorrono spesso. I carabinieri annotano
misteriosi accessi in Sdi compiuti dall'utente fittizio «Lanza» col
nome «Foga415» identificato come «appartenente all'Aisi».
Anche Gallo sostiene di aver lavorato nei Servizi con Mancini e
Giuliano Tavaroli: «È tutta gente che ho conosciuto quando eravamo
ai Servizi, tutti insieme…». Con queste parole, per i carabinieri,
Gallo spiega «la ragione della sua ragnatela di contatti ovvero
l'aver fatto parte dei servizi segreti». Una dichiarazione, è
scritto, «che non appare frutto di una millanteria. Si tratterebbe
di una situazione che a prima vista può sembrare incredibile poiché
Gallo non ha mai abbandonato i contatti con la polizia e la sua
funzione d'intelligence sembrerebbe essere legata proprio al ruolo
"interno" agli uffici giudiziari della procura di Milano».
Per ora una suggestione, ma il pensiero va subito alle parole del
socio di Calamucci, Massimiliano Camponovo, davanti al gip: «Ho
percepito la presenza di una mano oscura che muoveva il sistema.
Temevo per me e per la mia famiglia»
Pegoraro: "Ho lavorato per il mio Paese"
«Ho lavorato cercando di sviluppare qualcosa di buono, nel mio
piccolo, nel mio Paese e per il mio Paese». Per la prima volta, l'informatico 48enne Gabriele Edmondo
Pegoraro si difende dal «fango» e dalle «falsità che ho letto in
questi giorni». È indagato dal pm Francesco De Tommasi perché
avrebbe collaborato con la presunta banda degli spioni di via
Pattari ed è anche coinvolto in un'inchiesta della procura di
Torino. Ma quello di Francesco Pegoraro, «uno dei più abili hacker
ed esperti informatici "disponibili" sulla scena italiana», è un
nome molto noto anche nelle procure con cui ha collaborato – si
legge negli atti – in «importanti operazioni di polizia e
antiterrorismo». Un esempio su tutti: la cattura dopo 37 anni di
latitanza dell'ex leader dei Proletari armati per il comunismo,
Cesare Battisti, condannato in Italia all'ergastolo per quattro
omicidi.
Da diverse ore circolava la notizia falsa secondo cui sarebbe stato
«introvabile», subito smentita dal suo avvocato Massimo Dal Ben.
«Sono residente a Luino e lavoro spesso a Milano – spiega Pegoraro
–. Poiché ogni anno in questo periodo ricorre l'anniversario della
morte di mio padre, torno dalla mia famiglia. Il mio lavoro, anche
per le tante situazioni di stress vissute, purtroppo negli anni ha
reso sempre più precarie le mie condizioni di salute. Per questa
ragione sono stato ricoverato per un lungo periodo. Probabilmente
sarà necessario ancora ricorrere ad ulteriori cure, dunque anche in
futuro potrò essere molto facilmente raggiunto dalle autorità che
necessitassero di me».
Riguardo alle accuse, Pegoraro sostiene: «Con la quasi totalità
degli altri indagati non ho praticamente mai avuto rapporti e con
quelle pochissime persone che conosco non ho rapporti di lavoro da
più di quattro anni». Al centro delle parole del 48enne soprattutto
il suo lavoro («sviluppare tecnologie, non fare dossier»,
sottolinea), al quale «ho sacrificato una vita con dedizione e
passione. Chi mi conosce bene sa quanto mi sono dedicato, non avendo
figli, a sviluppare qualcosa di mio che rimanesse e che fosse
qualcosa di cui andare fiero»
Il riscaldamento a ggrava le crisi umanitarie. La Banca mondiale:
entro il 2050 emergenza globale. Guterres: con Trump accordi di
Parigi a rischio
Senza terra per colpa del clima, allarme Onu
parigi A suonare il campanello d'allarme ci ha pensato la Banca
mondiale nel 2021: circa 216 milioni di persone diventeranno
migranti climatici all'interno del loro Paese entro il 2050. Uno dei
principali effetti del riscaldamento globale, che obbliga milioni di
persone a lasciare le proprie terre martoriate dai cataclismi
ambientali come inondazioni, tempeste, siccità o eruzioni
vulcaniche. In alcuni casi si tratta di territori che rischiano
addirittura di scomparire. Un esempio sono le isole di Tuvalu
situate nell'Oceano Pacifico, i cui abitanti sono stati accolti
dall'Australia.
Ma nella maggior parte dei casi il risultato di simili fenomeni si
traduce in una vera e propria crisi umanitaria, le cui vittime però
non vengono riconosciute come tali perché il diritto internazionale
non prevede lo status di «rifugiato climatico». Migranti invisibili
e senza nessun tipo di tutela, quindi, a differenza di chi scappa da
guerre o da situazioni di estrema povertà (anche se spesso queste
situazioni possono sovrapporsi). Ogni anno se ne contano 20 milioni
in tutto il mondo secondo le stime dell'Unhcr. Tra le zone più
interessate c'è l'Africa, ma anche il Medio Oriente e il Sudest
asiatico. In questi ultimi anni, però, il moltiplicarsi di
cataclismi ambientali in tutto il mondo ha dimostrato le
vulnerabilità dell'Europa e di tutto l'Occidente, ormai costretto a
guardare in faccia il problema. Mentre il dibattito sulla creazione
dello statuto va avanti, seppur senza particolari segnali di
avanzamento, l'Agenzia dell'Onu per i rifugiati ad aprile ha
lanciato il Fondo per la resilienza climatica, che punta a
raccogliere 100 milioni di dollari entro il 2025 per sostenere i
migranti, i Paesi d'origine e quelli d'accoglienza interessati.
Il fenomeno dimostra chiaramente come i cambiamenti climatici
colpiscano in tutto il mondo avendo però effetti diversi. Per questo
è necessaria una risposta omogenea. Ma il destino degli Stati Uniti
preoccupa la comunità mondiale. Un eventuale ritorno di Donald Trump
alla Casa Bianca con le prossime elezioni dovrebbe portare ad una
nuova uscita di Washington dagli Accordi di Parigi sul clima. Uno
scenario già visto nel 2019 e ri-annunciato dallo staff del tycoon.
Il trattato «può sopravvivere, ma a volte le persone possono perdere
organi importanti o perdere le gambe e sopravvivere», ha avvertito
dalle colonne del Guardian il segretario generale dell'Onu Antonio
Guterres, evocando il rischio di avere un accordo «paralizzato».
Un'eventualità che di certo non gioverebbe alla soluzione del
problema.
Dopo i furti, le frodi informatiche sono i crimini con più denunce:
274 mila in un anno. Cresce il trading fraudolento su criptovalute e
azioni
Finti consulenti e telefonate automatizzate le truffe online tra i
reati più comuni in Italia Arcangelo Rociola
Non una questione di ceto. Né di età. Ma solo una questione di
soldi. Di soldi e avidità. Una combinazione in grado di vincere ogni
resistenza. Di annichilire ogni prudenza. Chi ne è vittima scopre il
fianco. E lì chi è disposto a approfittarne affonda il colpo.
Migliaia, forse centinaia di migliaia le vittime ogni anno in
Italia. L'enorme, in larga parte sommerso, popolo dei truffati
online. Nel 2023 la Polizia postale ha ricevuto 3.400 denunce di
truffe legate a proposte di investimento online. Ma il numero dei
casi potrebbe essere molto più alto. Diversi report raccontano che
solo uno ogni venti denuncia. Spesso si sta zitti per vergogna. Il
numero dei casi aumenta del 12% l'anno. Mentre di per certo i soldi
spariti sono 111 milioni solo nel 2023. Ma è una cifra arrotondata
per difetto. Con il non emerso si arriverebbe facile a oltre un
miliardo. Mentre il trading fraudolento, insieme alle altre frodi
informatiche, è il secondo reato denunciato in Italia. Solo nel 2022
274 mila.
Le truffe su azioni e criptovalute sono esplose durante gli anni
della pandemia. Oggi con l'Intelligenza artificiale le tecniche si
sono raffinate: chatbot, telefonate automatizzate, finti consulenti
solerti nell'offrire opportunità di guadagno sui social, spesso
nelle vesti di ragazze avvenenti. Anche loro finte, non meno degli
investimenti. Di vero ci sono solo le vittime. Uomini e donne, di
ogni ceto e ogni età. Con pochi denominatori comuni: la solitudine,
il troppo tempo passato online e la voglia di fare soldi facili.
Elementi ideali per questi raggiri. Fluorescenze sul terreno fertile
dei social. Dove la ricchezza prima è diventata una condizione
essenziale, da ostentare. Poi un obiettivo facile da raggiungere
giocando a fare i Gordon Gekko. Ma nessuno ci riesce davvero.
Nessuno è Gordon Gekko.
Il mondo delle truffe online è variegato. C'è un sito in Italia lo
racconta. Si chiama Decripto. Giovedì ha raccontato quello che
sembra essere l'ultimo fenomeno. Riguarda alcune piattaforme che
chiedono dai 5 ai 35 mila euro per trasformare il proprio computer
personale in una macchina per creare Bitcoin. Uno ogni sei mesi. Per
un controvalore di circa 150 mila euro l'anno. Al momento nei
confronti di queste piattaforme non ci sono provvedimenti ufficiali.
Ma di provvedimenti ce ne sono centinaia. Basta fare un giro sul
sito della Consob.
L'autorità il 25 settembre scorso ha oscurato l'accesso di 2139
Exchange. Una piattaforma di trading che prometteva il 5% di
rendimenti al giorno. Tutti i giorni. Un ‘salario' lo chiamavano -
quasi a far sognare una fonte di reddito alternativa al lavoro vero.
E il salario all'inizio arriva davvero. Ma non dal trading. Ma da
altre persone che arrivano e mettono altri soldi. E così
garantiscono le proprie e le altrui cedole. Fino a quando lo schema
non diventa troppo grosso. E allora si chiudono i battenti.
Finiscono i prelievi e tutto sparisce. Sarebbero 200 mila i
coinvolti. Alcuni di loro si sono organizzati su Telegram. Sperano
in una class action. Parlano dietro anonimato. Ma parlano. La voce è
quella di un ragazzo, Xdsk si fa chiamare, foto da palestrato in
canottiera grigia: "Ci ho messo 500 e all'inizio mi davano 5 euro al
giorno, è andata avanti un po'. Poi ho sbloccato il livello
successivo e sono arrivato a 1.000. All'inizio era un gioco. Ma da
due settimane i soldi non arrivano più". Avvicinato dice da una
ragazza su Telegram. Bionda in body nero. Probabilmente un Bot. È
lei che lo invita a entrare nel circuito. E a scalare i livelli di
ricchezza. Livelli. Come nei giochi. Perché è così che queste truffe
vengono organizzate. Si parte da un investimento base. Poi si sale.
Più aumentano i soldi dati più aumentano i premi. A quel punto
iniziano le sfide: coinvolgere amici, parenti, aumentare il cerchio.
Si scalano nuovi livelli. Intanto i soldi arrivano e si diventa
promotori. Ecco, in sintesi, come avvengono queste truffe. Ecco il
meccanismo base, antico ma attuale, di uno ‘Schema Ponzi'.
Tutto nasce spesso sui social, ma nessuna delle grandi piattaforme
frena le pubblicità. Difficile anche colpire i colpevoli. Spesso
vivono all'estero e i soldi in cripto sono difficili da tracciare.
Impossibile riprendere i soldi persi. Anzi, spesso nelle chat di
Telegram dove parlano e si confrontano i truffati, si inseriscono
altri truffatori che promettono di recuperarli, pagando. Un
meccanismo di raggiro senza fine. Che si perpetua. Che prende nuove
forme. Di base però sempre lo stesso schema. Sempre lo stesso
Charles Ponzi. Capace di sfidare e vincere da secoli la sfida con la
psiche e l'avidità umana
Anziani maltrattati nella Rsa dopo sette anni nessun colpevole elisa sola
Dopo sette anni dai fatti, arriva il responso. Non ci sono
responsabili per i presunti maltrattamenti che avrebbero subito
alcuni anziani all'interno della rsa Il Porto nel 2017 e 2018. Le
testimonianze raccolte sono, per il tribunale, troppo «confuse e
discordanti». E anche il reato di lesioni - riguardo alla caduta di
un degente - non sarebbe configurabile perché mancherebbe la querela
di parte. Le due imputate, una oss e un'infermiera, sono state
quindi assolte. In attesa del processo di primo grado, due delle tre
presunte vittime sono morte. Per l'età avanzata e per l'aggravarsi
delle malattie degenerative per le quali erano in cura.
La prima indagata, una oss, era accusata di maltrattare i degenti.
Urlando frasi come: «Scema». «Ti puzza l'alito». «Stronzo».
«Deficiente». Non solo. Avrebbe acceso tutte le luci di notte per
disturbare chi dormiva. E sarebbe stata spesso ubriaca. Le bottiglie
di vino erano state viste, nel suo armadietto, da più di un
testimone. Ma, secondo il giudice, un conto è avere l'alcol in un
armadio, un conto è essere colta in flagranza mentre lo si beve in
servizio. E riguardo a questa seconda ipotesi non ci sarebbero
prove. La oss, infine, avrebbe strattonato i pazienti, «effettuando
manovre in maniera brusca e in assenza di condizioni di sicurezza».
La seconda imputata, infermiera, era accusata di non avere
rispettato il protocollo perché avrebbe manovrato da sola almeno tre
anziani, facendoli cadere. La prima vittima si era rotta l'omero.
Era il 31 ottobre del 2017. La seconda, sei giorni dopo, si era
fratturata il malleolo e la tibia. La terza anziana era finita in
ospedale con un trauma cranico, la frattura di una mano e di un
dito. Per lei la prognosi era di oltre 40 giorni. L'inchiesta era
nata proprio da questa serie di strani "incidenti". Gli agenti del
commissariato Barriera di Milano avevano raccolto testimonianze,
lettere di richiamo e sanzioni erogate dalla direzione sanitaria ad
alcune dipendenti, in particolare alla oss. Ma un conto sono i
richiami, un altro i reati, che secondo il tribunale non sarebbero
sussistenti. L'ex direttrice amministrativa aveva testimoniato: «Il
personale è troppo scarso rispetto agli ospiti presenti. Facciamo
quello che possiamo». Ma sui presunti maltrattamenti, i colleghi
sentiti in merito al comportamento delle indagate avrebbero reso
«versioni spesso confuse e discordanti, quindi non credibili, anche
sull'assunzione di alcol». Era stata la stessa procura, riguardo ai
comportamenti della oss, a chiedere l'assoluzione. Al processo era
costituita parte civile la Fondazione promozione sociale onlus,
rappresentata da Maria Grazia Breda. All'epoca dei fatti la rsa era
gestita da una società diversa dall'attuale, che aveva a sua volta
affidato il servizio sanitario a una cooperativa, responsabile
civile
01.11.24
RAUL=MARCHIONNE: solo che a Raul e' andata male per incompetenza
finanziaria totale che non mancava a MARCHIONNE
Estratto da “La caduta di un impero” di
Carlo Sama, Rizzoli
Nella sua scalata alla Montedison, che io vissi al suo fianco
momento dopo momento, telefonata dopo telefonata, acquisti di
pacchetti di azioni uno dopo l’altro, Gardini aveva speso una
montagna di soldi, indebitando pesantemente la Ferruzzi.
Raul non aveva badato minimamente al prezzo quando diede ordine al
telefono al nostro agente Umberto Maiocchi di acquistare tutte le
azioni Montedison che poteva trovare; poi strapagò le azioni che
Carlo De Benedetti aveva precedentemente rastrellato in Borsa;
infine, non si fece particolari patemi d’animo nell’acquistare a
peso d’oro il pacchetto detenuto dall’industriale milanese delle
vernici Gianni Varasi, il più importante pilastro di quel drappello
di azionisti di media taglia, che comprendeva anche la Inghirami e
la Maltauro, di cui Schimberni si era circondato per fare di
Montedison una public company indipendente e accrescere e difendere
il suo potere personale.
Gardini aveva comprato la Montedison senza pensarci due volte. Ma
anche senza avere una idea precisa di che cosa fosse e come
esattamente funzionasse, in realtà, quell’oggetto del desiderio che
aveva fortemente voluto e fatto suo. Ovviamente, Raul conosceva bene
la storia di Montedison ed era consapevole dell’importanza
strategica di quella società nel panorama industriale italiano.
Così come era consapevole dell’enormità del passo che aveva appena
compiuto, scalando Foro Buonaparte. Ma, adesso, effettuato il blitz,
tutt’altra cosa era dover gestire di fatto la Montedison, capirne il
complesso funzionamento interno, decidere che tipo di impronta dare
alla sua conduzione, se operare in continuità oppure apportando dei
cambiamenti alla linea che Schimberni aveva fin lì seguito.
Per non parlare della nostra scarsa conoscenza e della diversità dei
nuovi settori della chimica con cui stavamo entrando in contatto
(plastiche, fertilizzanti, fibre, farmaci ecc.) rispetto ai nostri
tradizionali ambiti di attività come lo zucchero o i semi oleosi.
Passata l’euforia per la scalata e per il successo personale e di
immagine del suo riuscito colpo di mano su Montedison, che aveva
sorpreso e stupito tutti, Gardini si rese subito conto di quanto
fosse complessa e intricata quella galassia che, dagli inizi degli
anni Ottanta, Schimberni aveva rivoltato come un calzino,
riorganizzandola, riportandola al profitto e spingendola anche nel
campo immobiliare e dei servizi con la Iniziativa Meta (acronimo di
Montedison Terziario Avanzato).
E fu sufficiente poco tempo perché il sorriso beffardo che Raul
aveva sfoderato quel mattino, varcando il portone di Foro Buonaparte,
gli si spegnesse sul volto, nella consapevolezza di essersi
inoltrato in acque profonde e sconosciute.
In sostanza, fu anche per la paura di non essere da subito
all’altezza della sfida manageriale che Montedison richiedeva, e
quindi non solo per una specie di ammirazione strisciante nei
confronti di Schimberni, che Gardini lo lasciò operare quasi
indisturbato per un lungo periodo.
Da parte sua, Schimberni, pur ammaccato dal ridimensionamento della
«sua» public company, che ormai non era più tale avendo ora un
azionista di controllo, approfittò di quel momento di incertezza di
Gardini e per un bel po’ non gli fece letteralmente toccare palla.
Schimberni affidò Raul, togliendoselo così di torno, alle «cure» dei
suoi due amministratori delegati, Giorgio Porta e Lino Cardarelli,
che di fatto «narcotizzarono» Gardini, blandendolo e intrattenendolo
amabilmente per settimane sui settori industriali di Montedison,
sulla sua strategia, sul suo funzionamento, sulle sue società
controllate, su quella macchina così complessa che sembrava poter
essere guidata solo da chi ne conosceva pienamente tutte le
sfaccettature. Con ciò confondendo Raul e rendendolo, se possibile,
ancora più timoroso e titubante sul da farsi di quanto già non lo
fosse.
Spietato, forse anche per quella impressione di smarrimento che Raul
diede loro in quei giorni, fu il giudizio su Gardini che Cardarelli
espresse in seguito, nel suo libro biografico Dalla Montedison a
Baghdad, edito da Guerini e Associati e curato da Gianfranco Fabi.
In un paragrafo intitolato Gardini: né cultura industriale, né
visione, l’ex manager Montedison, infatti, lo bollò di
«provincialismo» e «scarsa cultura industriale».
In effetti, in quell’ormai lontano 1987, era come se Gardini,
oltrepassando il portone della Montedison, fosse entrato in una
fitta giungla e avesse perso l’orientamento. Gli furono presentati
uno dopo l’altro anche i manager delle numerose società operative di
Montedison, da Andrea Mattiussi a Roberto Bencini, da Giancarlo
Cimoli a molti altri, tra cui anche Giuseppe Garofano, che era a
capo di Iniziativa Meta.
Sembrava che Gardini si smarrisse sempre di più nell’intrico di
quegli organigrammi, società e settori, sballottato un giorno tra la
Montedipe e la Montefibre, un altro tra la Agrimont e la
Erbamont-Farmitalia Carlo Erba, impegnato in una serie infinita di
colloqui con i manager delle diverse compagnie, dai quali usciva con
le idee più confuse di prima.
Infatti, ciascuno di essi gli raccontava una storia diversa,
prospettandogli anche le strategie più improbabili, perorando ognuno
la propria causa e spiegandogli come il proprio settore di attività
fosse il più valido e quello su cui puntare di più. Raul era
frastornato, non sembrava nemmeno più lui. Mentre Schimberni, nel
frattempo, continuava a fare il suo gioco e a tessere le sue trame.
In particolare, Schimberni con diverse operazioni stava indebitando
viepiù la Montedison. Emblematico fu l’acquisto dagli spagnoli Mario
Conde e Juan Abelló, per la stratosferica cifra di 450 milioni di
dollari dell’epoca, del 100% della Antibióticos. Ma alcuni giornali
scrissero che il prezzo fu ancora più alto.
La strategia di Schimberni era chiara: più la Montedison era
indebitata e più essa sarebbe stata difficile da gestire anche da
parte di quel nuovo azionista ingombrante che aveva avuto l’ardire
di scalare il «suo» giocattolo. A fine 1987 i debiti di Montedison
erano ormai saliti a poco meno di 8000 miliardi di lire.
Di tanto in tanto Schimberni si intratteneva furbescamente con
Gardini, esprimendo un finto interesse per la chimica verde che Raul
vagheggiava. In una occasione, per dimostrare la sua completa
sintonia di idee con lui e per solleticarne la vanità, arrivò
perfino a promettere a Raul che avrebbe potuto mettere un cip sul
nostro fallimentare stabilimento di etanolo in Louisiana, la
Missalco (Mississippi River Alcohol), che non riusciva a decollare
per problemi tecnici in quanto Raul si era fatto mal consigliare da
Vernes sulla tecnologia produttiva da adottare.
Schimberni poi effettivamente mise un cip sulla Missalco. Ma si
trattò soltanto di un cip, appunto, niente di più.
Il cul-de-sac in cui, come Ferruzzi, ci trovavamo era evidente. Ci
eravamo indebitati moltissimo per comprare una società che, a sua
volta, si stava indebitando sempre di più. E non potevamo nemmeno
comandarla.
Inoltre, quella esperienza senza costrutto in Montedison stava
modificando geneticamente il Gardini che io avevo conosciuto,
rendendolo incerto e pavido. Ogni giorno che passava, cresceva la
preoccupazione mia, di Cusani e di Sergio Cragnotti, un altro dei
top manager di Gardini, prima impegnato nelle attività del Gruppo in
Brasile e in Francia e, in seguito, amministratore delegato di
Enimont e vicepresidente di Montedison.
Che la realtà di Montedison fosse una macchina complessa, e che per
gestirla andava presa per le corna e non subita passivamente, me ne
ero reso conto io stesso nel mio ristretto ambito di attività.
Infatti, Schimberni aveva costruito attorno a sé non solo una fitta
rete di prime e seconde linee di manager fedeli, ma anche un
apparato ben oliato che lo supportava nelle sue strategie di
comunicazione.
Abilissimo nelle relazioni con gli investitori e in quelle
istituzionali, necessarie per mantenere i contatti con la politica,
con una forte e articolata organizzazione ad hoc che lo supportava,
Schimberni aveva a disposizione anche una potente squadra di
Relazioni esterne guidata da un professionista capace come Carlo
Bruno.
L’ufficio Stampa di Carlo Bruno fu molto abile in quei mesi a far
fluire continuamente verso i media − in modo diplomatico ma duro
nella sostanza − la narrazione secondo cui Gardini era diventato,
sì, l’azionista di riferimento, ma la Montedison continuava a
comandarla Schimberni. Punto e basta. Uno stato di cose per noi
intollerabile.
Un giorno, anche per scuotere Raul dal suo immobilismo, gli dissi
chiaramente che, visto che la Montedison era ormai diventata il suo
mondo ed era una realtà molto più complessa della nostra, cioè
quella della vecchia Ferruzzi, io avrei potuto dimettermi da
responsabile delle Relazioni esterne della Ferruzzi stessa e che il
mio incarico avrebbe potuto essere affidato a Bruno.
Non so se Gardini fosse già arrivato intimamente, lui medesimo, alla
convinzione che non si poteva più continuare così. Con ogni
probabilità, si era finalmente reso conto che Schimberni lo stava
prendendo per i fondelli. Sta di fatto che quel giorno mi rispose
secco: «No! Tu devi continuare a dirigere le Relazioni esterne della
Ferruzzi e devi prendere il comando anche di quelle della
Montedison!».
Fu una svolta, anche perché così Schimberni venne privato del suo
giocattolo comunicazionale. Nel giro di poco tempo lo scenario di
Foro Buonaparte cambiò completamente. Finalmente Gardini affrontò
Schimberni che, messo alle strette, diede le dimissioni. E con lui
se ne andarono poco dopo anche diversi dei suoi uomini più vicini,
come Porta e Cardarelli.
Ma il Gruppo Ferruzzi-Montedison necessitava urgentemente di una
rapida ed efficace cura per non crollare sotto il peso dei debiti.
Ci si dovette perciò rivolgere a Mediobanca, che ideò l’operazione
di fusione tra la Ferruzzi Finanziaria e Iniziativa Meta, holding
che aveva già incorporato Bi-Invest, deteneva quote di Fondiaria e
nella cui pancia stavano società come Standa, Datamont, Tecnimont,
Tre I, Cagisa e Sefimeta. Grazie a vantaggiosi concambi, fu una
operazione decisamente vincente per la Ferruzzi, pur scontentando
gli azionisti di Montedison che si sentirono depauperati di un loro
pezzo pregiato come la Meta.
La Ferruzzi, con la scalata di Montedison, aveva rischiato come
Napoleone di finire in una disastrosa campagna di Russia, che alla
fine fu evitata grazie alla operazione Ferruzzi-Meta e alla nascita
della Ferfin. Gardini e i Ferruzzi, a quel punto, avevano ancora in
mano il loro destino. Con alcune dismissioni mirate, il Gruppo
Ferruzzi-Montedison avrebbe potuto ridurre ulteriormente
l’indebitamento e rifocalizzarsi sui settori più redditizi
mantenendo e rafforzando le più importanti leadership produttive
mondiali, europee e italiane in suo possesso.
Avevamo ritrovato la carica e ricominciammo a spingere con successo
anche sulla nostra comunicazione. Una mattina Gardini entrò in
ufficio e scarabocchiò con una stilografica per alcuni minuti su un
foglietto appena più grande di un biglietto da visita. Poi me lo
mostrò e disse: «Voglio che mi metti tutto il Gruppo
Ferruzzi-Montedison su una sola paginetta, fammene anche una
versione in inglese, una in francese e una in tedesco, così me la
infilo in tasca e quando vado in giro per il mondo la tiro fuori e
la mostro ai miei interlocutori per fargli capire chi siamo e che
cosa facciamo».
«Una paginetta?» gli obiettai. «Impossibile, non ci sta tutto su una
paginetta.» Dopo qualche minuto di discussione, trovammo un
compromesso. Avremmo fatto un piccolo pieghevole con poche facciate.
Con tutta la squadra ci mettemmo subito al lavoro. Studiammo il da
farsi facendo mille prove sulla mia grande lavagna di carta:
schizzi, grafici, decine di fogli scartati, strappati dalla lavagna
e buttati nel cestino.
Smontammo idealmente il Gruppo e le sue società rimontandolo una
infinità di volte in modo diverso e finalmente trovammo la quadra.
Ricomponemmo i pezzi della Ferruzzi-Montedison in cinque macroaree −
alimentazione, ambiente, energia, salute e nuovi materiali – e venne
fuori così anche il nostro nuovo messaggio: «Una strategia
industriale per la qualità della vita».
Gardini e Fortis, poi, scrissero a quattro mani il discorso che Raul
avrebbe dovuto tenere all’Assemblea della Ferfin di inizio settembre
1988, tutto impostato su quel messaggio.
In realtà, cinque macrosettori erano perfino troppi e sarebbe stato
logico portarne avanti solo due, l’agroindustria e l’energia.
Però le cinque sfide funzionavano molto come idea ed erano coerenti
anche con la tradizionale filosofia del Gruppo Ferruzzi di
impegnarsi per l’innovazione e lo sviluppo umano. Tant’è che in
seguito, nel 1989 mi pare, la nostra strategia per la qualità della
vita finì anche in quel famoso case study della Harvard Business
School, promosso dal professor Ray Goldberg: Gruppo Ferruzzi. A New
Global Company. Fu davvero un enorme successo di immagine, per noi.
Avevamo dato a Goldberg e ai suoi ricercatori informazioni, dati,
tabelle e grafici per settimane, durante l’estate.
Purtroppo, però, invece di imboccare alla massima velocità le
autostrade spianate davanti a noi, alimentazione ed energia, anche
sviluppando le nostre nuove plastiche biodegradabili, i
biocombustibili e così via, e dismettendo le attività non
strategiche, ci siamo subito di nuovo impantanati nella chimica più
banale.
Ci fu dapprima il momento magico di quel giovane responsabile della
finanza, di cui Raul si «innamorò» per qualche settimana. Gardini lo
reputava un genio e ce lo vendette come tale. In realtà, era del
tutto inadeguato. Un tipo che ebbe anche una tresca con una collega
e che venne preso per i capelli dalla moglie sul portone di
Montedison. Poi fu la volta di Alexander Giacco, il deus ex machina
della Himont, il suo nuovo guru. Così Gardini, sempre più infatuato
del suo nuovo giocattolo, la Montedison, continuò a voler fare
soprattutto il «chimico» a tutto campo.
Dapprima si perse per mesi nell’illusione di poter diventare il re
mondiale delle materie plastiche, soggiogato dal carisma e
dall’influenza di Giacco, che gli montò la testa. L’esatto opposto
della chimica verde, cioè quello che era stato il mantra suo e
nostro fino a quel momento. La nuova parola d’ordine di Raul,
invece, divenne «polimerizzare».
Sembrava che al mondo ci fossero solo le poliolefine, il
polipropilene, tutto il resto passò in second’ordine. Una vera e
propria esaltazione; fuori tempo massimo, peraltro, perché il
polipropilene, pur con nuove tecnologie come lo Spheripol, non era
altro che il vecchio Moplen che Gino Bramieri già pubblicizzava
negli anni Sessanta a Carosello.
Poi fu la volta dell’epopea tragica di Enimont, su cui però, non
spenderò in questo libro una sola parola, essendo già stato scritto
a proposito di questa vicenda e del suo infelice epilogo tutto e il
contrario di tutto.
Enimont fu l’ossessione finale di Gardini, la sua più grande
sconfitta. Fu un lungo calvario per tutti noi, vissuto in un clima
di crescente incertezza. Solo lui, Raul, restò convinto
ostinatamente fino alla fine di poter vincere la partita con l’Eni,
coinvolgendo Vernes e i suoi amici francesi, scalando la joint
venture guidata da Necci e Cragnotti a dispetto dell’Eni, facendo
infuriare, compattandola, tutta la politica italiana.
E in un clima surreale, nel pieno della palude gestionale di Enimont,
delle ripercussioni finanziarie e industriali negative per
Ferruzzi-Montedison che Enimont determinò, ci fu anche il fastoso e
miliardario varo del Moro di Venezia, che Raul organizzò in modo
faraonico: l’ultima illusione di una onnipotenza che ormai gli stava
lentamente sfuggendo come sabbia tra le dita.
Gardini fece perfino realizzare da Franco Zeffirelli un film sulla
cerimonia del varo, con musiche di Ennio Morricone. La laguna
affollata di barche e motoscafi davanti alla Punta della Salute,
l’11 marzo 1990, fu il palcoscenico per la sua definitiva
incoronazione a nuovo doge della città, tra squilli di trombe e
sfilate di personaggi in costume. Furono invitati a Venezia ad
assistere al varo del Moro decine di ospiti illustri, tra cui Gianni
Agnelli, che venne accompagnato da Jas Gawronski. E furono
distribuiti agli ospiti gadget sfarzosi, tra cui costose coperte in
cachemire rosso carminio con lo stemma in oro del leone di Venezia.
Quante volte, con Alessandra, abbiamo ripensato a quell’ennesima
occasione perduta di Raul! Se, invece di infilarsi nel tunnel senza
sbocco di Enimont e di voler fare il chimico a tutti i costi, si
fosse concentrato sulla vecchia Ferruzzi e su ciò che più sapeva
fare, cioè l’armatore e il velista, forse il suo e i nostri destini
sarebbero stati diversi.
Se, anziché tentare di trasformare il Gruppo Ferruzzi in un
improbabile Gruppo Gardini a danno delle nostre famiglie, avesse
investito di più il suo tempo sulla Coppa America e sulla popolarità
che la sfida velica gli avrebbe portato, forse Raul oggi sarebbe
ancora con noi.
Con il trionfo nel campionato mondiale Iacc del 1991, la successiva
vittoria nella Louis Vuitton Cup e la finale perduta di San Diego
del 1992, trasmesse in diretta da Telemontecarlo, Gardini divenne
l’uomo del momento: tutta l’Italia era praticamente ai suoi piedi!
Invece la vicenda Enimont lo distrusse fisicamente e
psicologicamente. La stessa disastrosa speculazione sulla soia al
mercato di Chicago, che Gardini tentò assieme a un ristretto numero
di trader suoi collaboratori, a nostra insaputa, fu forse dettata
dalla disperata volontà di Raul di guadagnare del denaro da
investire poi nella scalata alla joint venture chimica.
Il fallimento di quella speculazione costò alla Ferruzzi una cifra
imponente e mai precisata, oltre alla vergogna di essere multati e
ripudiati da quel tempio del trading e della finanza mondiale che
era solito accogliere Serafino Ferruzzi come un re.
Quella speculazione sulla soia fu per la Ferruzzi un tremendo bagno
di sangue finanziario. Lo stesso Roberto Michetti, poi braccio
destro di Gardini dopo la nostra separazione, ha stimato una perdita
per il nostro Gruppo assai superiore ai 100 milioni di dollari
inizialmente indicati in via ufficiale; «Forbes» arrivò a parlare di
un buco definitivo di addirittura 400 milioni di dollari.
Forse, quella bottiglia che la figlia Maria Speranza, detta Cochi,
non riuscì a rompere al primo tentativo durante la cerimonia del
varo del Moro era stato veramente un sinistro presagio. E Raul era
molto superstizioso... Tanto che fece anche togliere dal film di
Zeffirelli la scena di quel colpo di bottiglia non riuscito,
lasciando solo il secondo, andato a buon fine.
Chissà, il destino probabilmente era già tracciato. La fortuna di
Raul, in gran parte per colpa sua, da qualche tempo lo stava a poco
a poco abbandonando. Ma Gardini, il mio vecchio amico ormai
geneticamente modificato dalla chimica, non se ne accorse.
Con la scalata di Montedison avevamo sfiorato la Beresina.
Piantedosi: "Avversari politici nel mirino" Gallo: "Lavoravo ai
servizi con Mancini"
monica serra
andrea siravo
milano
Al settimo piano del palazzo di giustizia, il superpoliziotto in
pensione Carmine Gallo è stato il primo ad arrivare. Non ha risposto
alle domande del giudice che lo ha messo ai domiciliari. Si è
limitato a qualche dichiarazione: «Per quarant'anni ho servito le
istituzioni. Ho sempre collaborato con le istituzioni, lo farò anche
questa volta e chiarirò tutto». Appena fuori, a chi gli ha chiesto
come si sente nella veste di indagato si è limitato a tre parole: «È
la vita».
Per il pm Francesco De Tommasi, è lui il «capo indiscusso» della
centrale dei dossieraggi di via Pattari. Per i carabinieri, «a oggi
non sono emersi rapporti di natura stabile tra apparati dello Stato
italiano e il gruppo». E non stabile? Intercettato, è Gallo a
sostenere di aver lavorato per i servizi, con Giuliano Tavaroli e
Marco Mancini: «Con Tavaroli eravamo amici una volta, quando lui era
nell'Arma, mi ha fatto un sacco di favori quando era alla Tim. Poi
ci siamo persi. Pure con Mancini eravamo amici. È tutta gente che ho
conosciuto quando eravamo ai servizi, tutti insieme eravamo…in
procura…Ovviamente gli ho fatto pure dei favori a lui, lui me ne ha
fatti a me, parecchi eh…».
Al netto dell'agente del commissariato di Rho interdetto, che ha
ammesso di aver effettuato Sdi abusivi per conto di Gallo («Era
stato il mio capo»), nessuno dei quattro arrestati ieri ha voluto
rispondere alle domande del gip Fabrizio Filice. Ma Massimiliano
Camponovo, socio dell'hacker Nunzio Calamucci, si è limitato a poche
inquietanti dichiarazioni: «Ho percepito la presenza di una mano
oscura che muoveva il sistema, per questo non facevo domande. Temevo
per la sicurezza mia e della mia famiglia».
Anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, tra le presunte
vittime di Enrico Pazzali, presidente autosospeso della Fondazione
Fiera – che avrebbe addirittura desiderato «un ufficio
nell'Arcivescovado» – si è chiesto in questi giorni chi siano stati
i mandanti: «A chi Pazzali non ha potuto dire di no? » . Se lo
chiedono pure gli investigatori che stanno indagando su un possibile
«secondo livello».
Sarebbero state almeno 767 le vittime conteggiate dai carabinieri
nelle ultime informative, da cui emergono nuovi dettagli. Come la
conversazione intercettata sulla eventuale nomina di Beniamino Lo
Presti come ad di Trenord. Il governatore lombardo Attilio Fontana
avrebbe detto: «Nel caso, mi dimetto». O ancora, parlando delle
consulenze effettuate per Eni – uno dei clienti del gruppo, che ha
spiegato di non essere mai stato al corrente degli illeciti –
Calamucci sosteneva: «Montiamo tutta la pantomima, non lo sapeva
nessuno, solo Descalzi e Speroni…». Sono parole dell'hacker ma, a
differenza del capo degli affari legali, l'ad della compagnia,
Claudio Descalzi non è indagato.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci e
undici! Poi rimetti anche gli elastici! » , diceva ancora Calamucci
intercettato, mentre contava «mazzette di contanti», per un totale
di 50 mila euro. È parte dei soldi cash che Leonardo Maria Del
Vecchio avrebbe pagato alla banda per spiare familiari e fidanzata.
Il fratello, Claudio, vittima di un finto dossier su un incontro con
una transessuale a New York, ha depositato la nomina del suo
avvocato in procura. C'è anche lui nella decina di vittime che si
sono già rivolte ai magistrati.
«Queste indagini pongono il tema della gravità di comportamenti di
chi potrebbe utilizzare dati illecitamente acquisiti – ha detto al
Senato il ministro Matteo Piantedosi – anche per attaccare gli
avversari politici alterando le regole della democrazia».
Umbria, la presidente era indagata per l'uso di fondi Ue
Inchiesta su Tesei archiviata l'abuso d'uffcio non esiste più
Troppi interessi in gioco. La governatrice dell'Umbria Donatella
Tesei, quota Lega e ricandidata alle prossime regionali, e l'assessora
alla programmazione europea, al bilancio e al turismo Paola Urbani
Agabiti avrebbero dovuto astenersi dalla votazione sullo
stanziamento di fondi europei per lo sviluppo rurale. Almeno questa
era la tesi dei magistrati di Perugia che le avevano indagate per
abuso d'ufficio. Ma il reato è stato abrogato e la procura ha
chiesto l'archiviazione. Accolta dal giudice. La vicenda risale al
2021, quando la Regione predispone un bando dopo la pandemia per lo
sviluppo di filiere agricole e circa tre milioni di fondi vanno
all'azienda Urbani Tartufi. Un vero e proprio impero, con 14 sedi, 5
marchi e 300 dipendenti. La sede principale è a Sant'Anatolia di
Narco, paesino di 564 abitanti. Urbani Tartufi ne è il fiore
all'occhiello. Qui l'intreccio di conoscenze. L'azienda è gestita
dal marito dell'assessora regionale. E lì lavora il figlio della
presidente Tesei. In procura a Perugia arriva un esposto anonimo. E
le indagini del nucleo di polizia economico-finanziaria della
Guardia di finanza prendono il via. Gli accertamenti hanno
riguardato due delibere di programmazione economica della Regione.
Per i bandi si sono costituite associazioni temporanee di scopi e
per quella del settore tartufo si sono messe insieme un centinaio di
aziende tra cui quella del marito dell'assessora.
«L'indagine era iniziata da tempo e già questo dimostra ancora una
volta la correttezza dell'operato della mia amministrazione»,
dichiara la presidente, mentre la Lega alza il tiro e parla di
«macchina del fango a orologeria» alla vigilia del voto. L'avvocato
Nicola Di Mario, che assiste l'assessora Agabiti, aggiunge: «Anche
se non fosse stata disposta l'abrogazione dell'abuso d'ufficio, la
contestazione sarebbe risultata del tutto infondata».
Il Pd attacca, M5s chiede chiarimenti. Il ministro Giorgetti, ieri
ad Assisi per inaugurare la sede della Lega, commenta: «Penso che
gli umbri sapranno valutare il lavoro fatto da Tesei». Caso
archiviato. Non la querelle politica, a pochi giorni dal voto per il
rinnovo di giunta e consiglio regionale.
31.10.24
Uragano Mario Tozzi
Mediterraneo
Probabilmente si è trattato di un effetto "goccia fredda", una massa
d'aria che si è separata dal flusso globale delle correnti che si
muovono da Ovest verso Est e, questa volta, è atterrata in Spagna.
Una prossima volta potrebbe investire l'Italia, un'altra la Turchia.
Quello che è certo è che si tratta di una perturbazione
meteorologica a elevatissima energia, come quelle che dobbiamo
aspettarci nel prossimo futuro, segnati come siamo da una crisi
climatica senza precedenti. Il maggior contenuto energetico rispetto
alle perturbazioni del passato spiega il fatto che in sole otto ore
sia caduta, a Valencia, la stessa quantità d'acqua che, normalmente,
cadeva in dodici mesi. Ma è l'avverbio "normalmente" che deve ormai
essere abbandonato, in un contesto in cui non c'è più nulla di
normale, se inteso come la regolarità di un certo tipo di clima a
certe latitudini, il regolare alternarsi delle stagioni come le
conoscevamo un tempo. Per questo ha pochissimo senso continuare a
confrontarsi con il passato più lontano e si deve, invece, prendere
come riferimento cosa è accaduto negli ultimi venti o trent'anni. La
ricorrenza secolare dell'energia di certi eventi è spazzata via da
quanto sta accadendo negli ultimi anni, un'accelerazione senza
precedenti nel riscaldamento globale.
Non siamo più di fronte ai fiumi ingrossati che esondano in
pochissimo tempo (flash flood), che pure ci erano diventati
famigliari, ma di fronte a una impressionante distesa di fango in
movimento che ammanta ogni lembo di territorio e si scatena dove
trova intoppi o infrastrutture chiaramente commisurate in altri
tempi per altri climi. Anche in Spagna si è costruito molto e spesso
in aree di pericolosità idraulica, ma le immagini dall'alto
dell'Andalusia, specialmente se comparate con quelle delle isole
Baleari dell'estate appena trascorsa, permettono di indicare
chiaramente che qui caditoie e tombini, pulizia dei fiumi e nutrie
c'entrano poco, qui l'unico territorio che c'entra è quello
inesplorato in cui ci stiamo addentrando da un punto di vista
climatico. Come conferma ciò che sta avvenendo lungo il margine
settentrionale del Sahara e nella penisola arabica: alluvioni
dovunque, con punte di 200 mm di pioggia in 48 ore per luoghi che ne
registravano appena due in mesi.
Decine di morti, danni che possiamo già stimare, globalmente, in
miliardi di euro che hanno un solo responsabile, le attività
economiche dei sapiens che hanno portato al record di concentrazione
di CO2 in atmosfera e al record negativo di copertura glaciale sul
pianeta Terra. Le notizie terribili che provengono dal clima che
cambia violentemente dovrebbero spingere verso un'azione immediata e
decisa l'umanità che, invece, continua a cullarsi nell'illusione che
sarà il libero mercato a proporre soluzioni, quando è chiaro che è
il problema. Il clima non ha confini, a prescindere da chi abbia
contribuito di più (e, nel tempo, noi europei siamo senz'altro al
primo posto), e necessita accordi internazionali obbligatori, non
liberi, con organismi terzi di controllo, non basati sulla fiducia.
Non c'è spazio per le vecchie soluzioni di adattamento, perché il
clima cambia così velocemente che rischiano di diventare obsolete
prima di essere messe in opera. Bisogna agire sulle cause, azzerare
le emissioni clima alteranti, ma oggi, non nel 2050, perché non
sappiamo come ci arriveremo.
E in questa situazione catastrofica dobbiamo ancora perdere tempo
con economisti senza scrupoli, pennivendoli della peggior risma,
briganti e malfattori, mercanti di dubbi a un tanto al chilo che ci
raccontano che, invece, le cose vanno bene e tutto dipende dal Sole
o dai cicli di Milankovitch e dunque noi sapiens non possiamo farci
un granché. E che Annibale aveva attraversato le Alpi e la
Groenlandia era verde: un campionario di sciocchezze smentite
dall'intera comunità scientifica di specialisti sul clima. Sulle
cause dell'attuale crisi climatica la discussione fra gli scienziati
si è chiusa da tempo con l'attribuzione delle responsabilità
all'uomo, e si riaprirà solo con nuovi dati. Che al momento non ci
sono. Ma restano i negazionisti, quelli che hanno come unico
obiettivo prendere tempo per accumulare ancora profitti (questa
l'unica ragione). Quando non sono ignoranti sono in malafede, ma
comunque sono tutti correi, e a loro vanno assommate le enormi
perdite di tempo, i tentennamenti, le incertezze, le politiche di
contrasto deboli o inesistenti, così come i danni e le vittime.
Almeno avessero, ora, il pudore di tacere. —
Nei primi nove mesi capacità a 64,6 GW
Enel, sempre più energie rinnovabili nel 2024 In Italia la
produzione è in aumento del 19% Sempre più energia verde, in Italia e nel mondo. A spiegarlo
è Enel, che ha pubblicato i risultati operativi di gruppo al 30
settembre 2024. Si conferma l'impegno verso la decarbonizzazione: a
livello globale la capacità rinnovabile di Enel arriva a 64,6 GW -
in aumento rispetto ai 58,5 GW dei 9 mesi del 2023 - e la produzione
di energia da fonti rinnovabili sale del 13% a parità di perimetro.
La produzione di energia elettrica ad emissioni zero del gruppo ha
raggiunto l'84% del totale, in crescita rispetto al 73% dei nove
mesi del 2023. Analoga la traiettoria di sostenibilità che emerge
dai dati specifici sull'Italia, dove la produzione di energia
elettrica da rinnovabili è in aumento del 19,8% rispetto ai primi
nove mesi dello scorso anno. L'impegno per la decarbonizzazione del
Paese si riflette anche nel peso crescente delle rinnovabili nel mix
energetico. L'elettricità proveniente da fonti verdi è arrivata a
coprire il 73,4% della produzione complessiva di Enel in Italia,
anche in tal caso in incremento se paragonato al 49,5% dello stesso
periodo del 2023.
Le indagini, nessuna "clonazione" della mail di Mattarella
L'ipotesi: la banda dei dossier aveva una talpa nel Cnaip
Il pm: "A rischio interessi vitali di istituzioni e collettività"
Oggi al via gli interrogatori
monica serra
milano
Lo scrive il pm Francesco De Tommasi: «Le azioni commesse dal gruppo
di via Pattari 6 mettono in pericolo interessi vitali delle
istituzioni e della collettività».
Per giustificare la necessità di fermare la presunta centrale di
spionaggio con sede dietro al Duomo, aggiunge: «Significative sono
le operazioni poste in essere per schermare le attività delittuose e
allargare gli ambiti in cui condurre i traffici illegali di dati
riservati, con il rischio che gli stessi possano finire senza
autorizzazione "nelle mani" di agenzie straniere – agli atti
l'incontro con due presunti 007 israeliani, ndr. – e che all'estero
possa essere creata e detenuta una banca dati destinata a conservare
le informazioni di volta in volta esfiltrate abusivamente». Tant'è
che è stata creata una società "clone", la «Equalize Ltd a Londra»
proprio dove, per l'accusa, «attraverso un gruppo di «ragazzi»
coordinati da «Monica», il sodalizio avrebbe gestito gli accessi
diretti al Ced Interforze e quindi alla banca dati Sdi»
Ma c'è di più. Perché secondo quanto emerge dall'informativa dei
carabinieri, la banda avrebbe avuto anche una talpa che girava
«informazioni» drenate dal Cnaip, il Centro nazionale anticrimine
informatico per la protezione delle infrastrutture della polizia
postale. «Ti faccio un esempio – diceva l'hacker Nunzio Calamucci –
qua c'è il server del Ced… I miei ragazzi sono quelli che hanno
fatto l'infrastruttura e fanno la manutenzione! È quello il trucco!
La piattaforma attinge facendo il giro... perché il server ce
l'abbiamo a Londra?... Perché se lo fai Italia su Italia, ci mettono
le manette...».
Grazie a tecnologie di altissimo livello, nella Equalize di Enrico
Pazzali, il presidente autosospeso di Fondazione Fiera Milano e solo
indagato, sarebbero riusciti a inoculare trojan sui cellulari delle
vittime, a intercettare conversazioni, a schedare manager,
imprenditori e politici. E tra gli strumenti a disposizione spunta
anche «l'Usb Killer» pronta all'uso in caso di indagini e
perquisizioni. All'apparenza una normale chiavetta che, inserita in
un pc, sarebbe in grado di generare «sovraccarichi ad alta tensione
danneggiandone irrimediabilmente i componenti e rendendo impossibile
il recupero dei dati».
Sempre grazie all'informativa, è possibile chiarire che non c'è
stata alcuna «clonazione» della mail del presidente della Repubblica
Sergio Mattarella, come si legge nella richiesta di misura. I nuovi
atti permettono di spiegare che in realtà si sarebbe semplicemente
trattato di un'operazione del gruppo per far dimettere l'ad di una
società, la Linea Verde. Operazione che sarebbe passata anche
dall'invio a «vari indirizzi», da un «account di posta interno
all'azienda», di una serie di mail, che apparivano inviate da un
«dipendente anonimo» che voleva denunciare delle «irregolarità»
all'organismo di vigilanza. Mail inviate, tra gli altri, anche
all'indirizzo di Mattarella».
Oggi la parola passa agli indagati ai domiciliari col braccialetto
elettronico. Il gip Fabrizio Filice interrogherà il superpoliziotto
in pensione Carmine Gallo e l'hacker Nunzio Calamucci, legato ad
Anonymous. Entrambi sono ritenuti «capi dell'organizzazione» con
Giulio "John" Cornelli. Ma saranno sentiti anche Massimiliano
Camponovo, «principale addetto all'esfiltrazione dei dati», e i due
appartenenti alle forze dell'ordine «infedeli» interdetti dal gip:
un poliziotto del commissariato di Rho e un finanziere in servizio
alla Dia di Lecce. —
Il direttore dell'ospedale nel Nord della Striscia: "Una
catastrofe". Primo discorso di Qassem, nuovo capo di Hezbollah: "La
resa, mai"
L'urlo dei disperati a Beit Lahia "Ho sepolto mio figlio nel
cortile" Hussam Abu Safiyeh
Nello Del Gatto
Gerusalemme
«Siamo sotto pressione e abbiamo chiesto a tutti di condividere con
noi che c'è una guerra di sterminio in corso ora contro i cittadini
nel Nord di Gaza e contro il sistema sanitario». Non usa mezzi
termini il dottor Hussam Abu Safiyeh, direttore dell'ospedale Kamal
Adwan a Beit Lahia, nel Nord della Striscia di Gaza. L'area è da
oltre tre settimane assediata dall'esercito. Dei 400 mila rifugiati
che qui avevano trovato riparo, oltre 50 mila sono già scappati.
Secondo le autorità locali, sono più di mille le vittime
dell'assedio. Tra queste anche il figlio del direttore
dell'ospedale. E lui rincara la dose: «l'ho dovuto seppellire nel
cortile dell'ospedale. È una guerra ingiusta, una guerra di
sterminio contro i nostri figli, la nostra gente e i nostri bambini
nel Nord di Gaza. Abbiamo bisogno di delegazioni mediche urgenti,
soprattutto chirurghi. Non ne abbiamo nessuno. Abbiamo anche bisogno
di ambulanze per raccogliere i feriti che sono sparsi in giro, sotto
le macerie. Molti moriranno. Siamo talmente in difficoltà in
ospedale che, chiunque lo raggiunga, muore». Il Kamal Adwan è stato
anch'esso sotto assedio. L'esercito lo ha occupato per diversi
giorni e tutta l'area della cittadina del Nord di Gaza è stata
dichiarata zona disastrata. Solo qui sono state uccise 350 persone
secondo il municipio locale.
Il dottore parla di situazione catastrofica, dove non arriva nulla
neanche cibo, acqua o altro tipo di aiuto. «L'ospedale – continua –
è pieno di cadaveri. E quelli che non lo sono lo saranno presto. Non
abbiamo nulla. Sono rimasti solo due pediatri. Ci arrivano
continuamente pazienti feriti e non sappiamo come gestirli». Una
situazione, questa, denunciata anche dal capo dell'organizzazione
Mondiale della Sanità, Ghebreyesus che ha spiegato anche che
l'ospedale è stato pesantemente danneggiato negli ultimi attacchi.
Situazione difficile anche sull'altro fronte di guerra, in Libano.
Dopo aver emanato un ordine di evacuazione, l'esercito israeliano ha
colpito ripetutamente la città orientale di Baalbek. Decine di
migliaia quelli che hanno lasciato la storica città libanese,
patrimonio Unesco. Ore dopo l'avviso, un raid ha colpito una
raffineria a Douris, nei pressi di Baalbek che, secondo i militari
israeliani, si trovava in un compound militare dell'Unità 4400 di
Hezbollah. Altri attacchi israeliani sempre nella valle della Bekaa,
hanno provocato 26 vittime secondo il ministero della salute. I raid
si sono verificati a Sohomor, Bednayel e Mazraat Beit Salibi.
Dal Paese dei Cedri, per tutto il giorno, sono piovuti su Israele
razzi e droni. Secondo i media locali, Netanyahu in una riunione
avrebbe detto che gli obiettivi in Libano sarebbero stati raggiunti
e si dovrebbe ora cercare di tradurli in un accordo per porre fine
ai combattimenti. Domani gli inviati della Casa Bianca, Brett McGurk
e Amos Hochstein, saranno in Israele per discutere dei due fronti.
Ieri si è anche registrato il primo discorso di Naim Qassem come
segretario generale di Hezbollah. Il nuovo leader del gruppo sciita
ha promesso di seguire i «piani di guerra» del predecessore Hassan
Nasrallah. «Vogliono che ci arrendiamo, ma non accadrà, anche se lo
scontro è doloroso» ha detto. «Se Israele decide di fermare la
guerra, acconsentiremo alle condizioni che vanno bene a noi. Finora,
nessuna proposta accettabile è stata messa in discussione» ha
spiegato Qassem. E a proposito dell'attacco alla residenza del
premier israeliano, il segretario generale di Hezbollah ha
minacciato che, dopo aver colpito la casa di Netanyahu, «questa
volta è sopravvissuto ma potrebbe ancora essere ucciso. Magari da un
israeliano mentre tiene un discorso».
30.10.24
Tra i presunti clienti dell'agenzia anche Eni e Ilva: le
informazioni usate come merce di scambio Il patto con gli 007
israeliani: "Dobbiamo fermare il finanziamento degli oligarchi russi
alla Wagner"
"Quegli incontri con il Mossad e il report per la Chiesa" Gli
spioni: i pc sono dei servizi
Il summit con gli israeliani
Gli affari internazionali monica serra
milano
Sono le 8,48 dell'8 febbraio del 2023 e l'ex carabiniere del Ros con
un passato anche al Sismi, Vincenzo De Marzio, entra nella centrale
dei dossieraggi di via Pattari 6. Con lui ci sono due 007
israeliani. O meglio, come si legge nella maxi informativa dei
carabinieri, «due uomini non identificati che rappresenterebbero
un'articolazione dell'intelligence dello Stato di Israele».
In ufficio è presente anche il presidente di Fondazione Fiera Milano
Enrico Pazzali. Lui però non partecipa all'incontro che dura tutta
la mattina per discutere di una possibile «partnership», un «do ut
des», con l'accesso alle rispettive «fonti dati» ma anche la
possibilità di ottenere un incarico per operazioni «cyber»: il
monitoraggio degli attacchi di hacker russi, il contrasto ai
mercenari del «Wagner Group», l'intercettazione dei movimenti
bancari: «Dobbiamo fermare il finanziamento degli oligarchi russi
all'armata Wagner! » .
In cambio, propongono alla banda informazioni per Eni e sull'ex
legale esterno Piero Amara (quello dei verbali sulla fantomatica
loggia Ungheria). La compagnia petrolifera è uno dei «clienti più
importanti» di Equalize per il pm che indaga su Stefano Speroni, il
capo degli affari legali della società che, però, sottolinea di non
essere mai stata al corrente delle attività illecite condotte dal
gruppo dall'ex superpoliziotto Carmine Gallo. Nel suo archivio ci
sarebbero anche «atti riservati di Eni».
Ad annunciare i due ospiti l'hacker Nunzio Calamucci: «Ci hanno dato
quaranta kappa fino a oggi, attraverso Enzo.. .mi hanno proposto un
lavoretto da un milione! Metà dei dati li hanno dati al Vaticano,
l'altra metà gli servono per combattere Wagner! » . Il contatto con
loro è De Marzio: «Ho chiesto a Enzo: ma dove ca… li hai conosciuti
questi? Mi fa... e sai quando ero giù mi fa, ho fatto due anni a Tel
Aviv in Ambasciata... e loro lavoravano con me! ». Sempre loro - a
detta di Calamucci - lo avrebbero «introdotto nell'Opus Dei».
Quando si mette al lavoro è Calamucci a spiegare che si starebbe
occupando di un report commissionato dalla Chiesa: «I dati mi
servono per andare contro l'oligarca… il braccio destro di Putin, la
Chiesa chiede quello. La aiutiamo la Chiesa contro la Russia o no? »
. Gallo risponde: «Se ci paga… è stato sempre gratis». Scherzano:
«Pro bono per il Papa?». Un lavoro che, sempre stando alle
intercettazioni, sarebbe stato concluso: «Gli ho ricostruito tutto,
compresi gli asset, le proprietà, le banche e tutti i documenti
originali che ci hanno chiesto, perché si vede che li devono
sanzionare o qualche cag…ta del genere…».
Grazie alla «rete di contatti di primissimo livello» che «funge da
schermo, da ombrello», «l'Insospettabile» Pazzali si muove con
disinvoltura in ogni ambiente istituzionale. Addirittura viene
notato aggirarsi nel corridoio della Dda di Milano, mentre è in
corso un incontro degli investigatori con il pm Francesco De Tommasi
sull'indagine in corso sulla banda.
E ancora, più volte vengono annotati dai carabinieri
nell'informativa presunti legami tra i componenti del gruppo e i
servizi segreti. Non solo si ipotizza che Gallo abbia lavorato per
un loro «gruppo di intelligence». Ma, è sempre un'intercettazione di
Calamucci a spiegare: «Guarda che l'Aise è stata trasferita… tutti
nostri computer sono i computer usati che hanno lì…tutti i computer
che usano li quei ragazzi sono i Lenovo che danno a noi usati».
Tra l'Iron app israeliana e la piattaforma Beyond, sono di
«altissimo livello» tecnologie e sistemi informatici usati dal
gruppo di via Pattari che avrebbe avuto tra i suoi clienti anche
Ilva in amministrazione straordinaria e il gruppo di lottomatica
Gamenet. Quando era iniziata a circolare la voce di una possibile
indagine su Pazzali, quasi un anno prima dell'operazione della Dda
di Milano, un sms anonimo è arrivato sul cellulare del manager:
«Domani arriva avviso garanzia» da un cellulare che apparteneva a un
«marocchino inesistente». Lui ha iniziato a preoccuparsi: «Avrà
perso tre chili ieri sera... non ha dormito un ca…, ha vomitato
tutta la notte, è andato in Guardia di Finanza... la Finanza gli ha
detto... se fosse vero è peggio ancora…». Alla fine si è scoperto
che l'autore era Calamucci «per rendere ancora più necessario il
ruolo della sua Mercury in Equalize» mentre Pazzali voleva ridurne
gli utili.
Negli enormi archivi della banda c'era di tutto. Anche un elenco con
i nomi dei magistrati italiani: «Quindi i prefetti li abbiamo
caricati, i magistrati te li ho mandati ora, prova a guardare se ti
è arrivata la mail». Gli investigatori ritengono che il gruppo «sia
in grado di rilevare i dati presenti in specifici file Excel», un
sistema a «pesca» che permette le ricerche su tutti i nominativi.
Intercettato mentre osservava l'elenco, l'hacker Calamucci «nomina i
pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari e ancora l'ex procuratore
Francesco Greco». —
Le manovre politiche di Pazzali "Schedate i fedelissimi di Moratti" Milano
«C'è un sacco di gente, guarda se conosci qualcuno. Se c'é qualcuno
d'interessante da verificare». «Sì, sì, li guardo tutti». È il 27
ottobre del 2022 ed Enrico Pazzali, presidente da lunedì
auto-sospeso di Fondazione Fiera Milano (estranea ai fatti), figura
chiave nell'inchiesta sugli spioni milanesi, chiede al suo socio,
l'ex superpoliziotto Carmine Gallo di fare uno screening del
consiglio direttivo della lista Lombardia Migliore di Letizia
Moratti. Il motivo? L'ex assessore alla Sanità si è candidata a
presidente della Lombardia contro il governatore leghista Attilio
Fontana, ovvero il politico che insieme al sindaco di Milano Beppe
Sala ha nominato Pazzali ai vertici di Fondazione Fiera.
Il manager, secondo quanto contenuto nelle oltre tremila pagine di
informativa del nucleo investigativo dei carabinieri di Varese,
sarebbe affamato di informazioni da usare nella battaglia
politico-elettorale. Nei mesi precedenti al voto del febbraio 2023
le ricerche si concentrano sugli uomini più vicini a Moratti. Si
fanno accertamenti alla banche dati di polizia ma il finanziere
Giuliano S. (in servizio alla Dia di Lecce e interdetto dal gip),
che lavora per Equalize, fa anche una interrogazione Sdi generando
una «ricerca globale» sul Tiziano Mariani, grande consigliere di
Moratti. Qual è l'obiettivo? «Anche grazie alle informazioni
ottenute nell'agosto 2022 su Mariani - si legge nell'informativa -,
Pazzali approccia quest'ultimo per ottenere informazioni sulla
campagna elettorale della Moratti e ne discute con Paolo Sensale (il
portavoce di Attilio Fontana, non indagato) che sta curando le
rilevazioni statistiche delle intenzioni di voto per le regionali».
In un altro colloquio registrato dagli investigatori Pazzali fa
anche valutazioni politiche. «Adesso non si può negare che la Meloni
stia facendo bene…il tema vero è quello che ci sta intorno». Pazzali,
poi, critica l'ipotesi (che forse avrebbe fatto desistere Moratti
dal candidarsi) di farla ad delle Olimpiadi Milano Cortina. Anche
sulla scelta di sfidare Fontana, però, è tranchant. «Letizia non
doveva abbassarsi a questa roba qua» dice parlando proprio con
Mariani.
Ma questa è solo una delle tante pagine in cui la politica milanese,
lombarda e nazionale incrocia le attività di Equalize. Pazzali
avrebbe utilizzato le notizie raccolte dagli hacker che lavorano per
lui come olio per le sue relazioni. C'è la ricerca di informazioni
su Simona Gelpi - «mi arriva dalla Ronzulli, mi fa un po' paura»
dice Pazzali a Gallo - e ci sono le ricerche su Ignazio La Russa e
sui suoi figli, sul cui mandante si sta interrogando lo stesso
presidente del Senato. Idem su Matteo Renzi. Pazzali fa
un'interrogazione alla piattaforma Beyond che fa infuriare i
collaboratori perché mette a rischio la sicurezza del gruppo. «Metti
caso che io gli do rosso a Matteo Renzi, che ancora è in fase di
trattativa della condanna...quello...» si lamentano.
L'attività è trasversale agli schieramenti. Del resto, come spiega
il capo degli hacker Samuele Calamucci al suo collaboratore Giulio
Cornelli, «Lo Zio (uno dei nickname di Pazzali, ndr) anche se
palesemente non lo dimostrerà mai….è sponsorizzato da Ignazio La
Russa, Santanchè, Fontana, da tutta la parte, cioè da Silvio
Berlusconi... Avendo lo sponsor di centrodestra i contatti sono
settanta per cento centrodestra, trenta il resto». Le informazioni
poi, come testimonierebbe una telefonata fra Pazzali e il ministro
del Turismo Daniela Santanchè, avrebbero anche scopi molto concreti
come cercare di bloccare le nomine dei «rivali».
La politica, anche se non direttamente collegata alla raccolta
informazioni, è sempre al centro dei discorsi degli indagati.
Francesco Barletta, ex socio della Equalize, ma soprattutto ex
consigliere di Leonardo e oggi vice presidente di Sea (anche lui
autosospeso), credendo di essere in un luogo sicuro confida a un
amico che la nomina di Matteo Salvini al Viminale nell'esecutivo
Meloni sarebbe stata stoppata dagli 007 americani «in quanto
sarebbero potuti emergere dossier sui finanziamenti della
Federazione Russa alle organizzazioni politiche italiane». Storia
che in queste ore, a Palazzo Chigi, avrebbe suscitato più di una
risata.
Oltre alle «spiate» politiche, naturalmente, ci sono poi quelle
fatte esclusivamente per «fare il grano». Una delle vicende
ricostruite nei dettagli dagli investigatori riguarda il banchiere
Matteo Arpe che, insieme al fratello Fabio, si sarebbe rivolto a
Equalize per scoprire a quanto ammonta il patrimonio dell'ultima
moglie del padre. Notizie «da usare in sede di negoziazione
extragiudiziale sull'eredità». Durante una videocall Calamucci
spiega come Equalize sia in grado di arrivare ad acquisire dati
bancari degli ultimi trent'anni.
Nel mirino degli hacker, poi, c'è il mondo dello sport. Pochi giorni
dopo aver conquistato l'oro olimpico a Tokyo tocca al velocista
Marcell Jacobs. «Le analisi forensi», scrivono i carabinieri, «hanno
permesso di accertare l'interessamento in intercettazioni illecite a
carico di Jacobs e del suo staff» da parte di due indagati, Lorenzo
Di Iulio e Gabriele Pegoraro. A commissionare le intercettazioni,
per conto di un avvocato padovano in corso di identificazione, è
Carmine Gallo. Ed è sempre Gallo che, parlando al telefono con
Calamucci, racconta anche del possibile incarico per una bonifica.
«Sono andato con Andrea De Donno (altro collaboratore esterno di
Equalize, anche lui indagatio), perché…questo qua è il security
manager della Roma Calcio». m. ser.
I giovani scappano, a votare vanno i vecchi La mia Liguria non sa
guardare al domani
Visto che sono un incallito sinistrorso e un fiero erede
dell'irriducibile gente Apua, ho diverse buone ragioni per non
essere contento di come sono andate le elezioni in Liguria, ma più
cogente è senz'altro lo smacco di un'orrida certezza, vedranno
ancora i popoli d'Europa galleggiare, a pagamento, sui loro sacri
fiumi la plastica rappresentazione del macchiettistico indecoro a
cui si è ridotta l'idea stessa di Liguria, il mortaio gonfiabile, il
più grande del mondo, e questo è un record che nessuno oserà
contrastare, che già ha solcato il Tamigi al grido di "Pesto Master
Piece o f Liguria". Era un'idea di Toti naturalmente, il
presidente re dell'avanspettacolo, ma a Bucci piaceva un sacco, lui
per il pesto ci va matto, e così quell'affare galleggerà a tempo
indeterminato sulla nostra vergogna, finché alla fine dei tempi si
sgonfierà e non si troveranno i soldi per mandare qualcuno a
ridargli una gassata. E pensare che a me Marco Bucci mi è davvero
simpatico; questo texano prestato all'inflessione genovese, questo
cowboy del fare che fa il John Wayne al galoppo del ponte Morandi,
come il grande John onesto ma onesto per davvero, e come il grande
condottiero di mandrie di manzi e carovane di pionieri coltiva la
sua onestà nel mezzo di saloon affollati da fuorilegge, salutando,
se necessario, con un distaccato cenno e giocando una mano di poker
solo se c'è da incastrare il baro. E comunque lui i saloon non li
bazzica, lui ha da fare.
Eppure non credo che Marco Bucci abbia vinto le elezioni essendo
l'uomo del fare; infatti nella città dove sta ancora esercitando il
suo secondo mandato di sindaco, e dove ha fatto e ha garantito che
molto farà, ha perso, nettamente perso. Forse perché va bene il
fare, a me compreso piace moltissimo fare e veder fatto, ma forse al
verbo fare va aggiunto qualche straccio di complemento, cosa fare,
come farlo e perché farlo, e quello scampolo di cittadini che ha
avuto ancora voglia di esercitare la sua sovranità nell'urna, ha
molto da ridire sui complementi. Intorno al fare un inciso sul
metodo Morandi. Che si regge su tre pilastri. Il primo, è che il
crollo del ponte ha subito assunto, e giustamente, lo status di
tragedia nazionale, e la nazione intera, il governo e lo stato e
l'opinione pubblica, se ne è presa carico, Genova non è mai stata
lasciata da sola alla propria tragedia. Secondo, due giorni dopo il
crollo il titolare di uno dei più grandi studi di architettura del
mondo, Renzo Piano, se ne stava curvo su un blocco di carta a
disegnare e disegnare e disegnare il ponte che sarebbe stato, non
richiesto e non convocato se non dall'imperativo morale che alberga
nel suo cuore; in tempi non immaginabili in una normale e non
kantiana temperie, del suo lavoro ne ha fatto dono alla nazione.
Terzo, il ponte San Giorgio è stato costruito in tempi record grazie
alla deroga da praticamente tutti i lacci, laccioli e lacciacci di
carattere normativo e burocratico. L'eccezione dalla norma può mai
diventare la norma? Sarebbe bello allora che il metodo Genova fosse
stato applicato, ad esempio, alle tre alluvioni di Emilia Romagna;
non che non fosse richiesto dalle comunità, ma evidentemente la
nazione, almeno nella parte di governo e stato, ha pensato che no,
che le regole, andavano rispettate e meglio ancora complicate,
aggiungendo non lacci ma nodi scorsoi che hanno dato i loro perversi
frutti ben descritti anche da questo giornale.
Almeno tecnicamente la vittoria a Marco Bucci gli è stata consegnata
dal principato di Imperia. La ridente città di Imperia è
sommariamente e impropriamente allegata alla regione, in realtà è
proprietà della nobile e vetusta dinastia Scajola, quello della
meravigliosa attestazione di insindacabilità nel «a mia insaputa».
Imperia è dedita senz'altro al fare, propriamente al fare i propri
interessi, di qualsivoglia natura, ed è sempre stato così,
connaturato alla casata che presto, si vocifera, si unirà in
federazione alla casata Grimaldi di Monaco in una nuova e stimolante
prova di europeismo dei principati. Sia chiaro, in nome dei propri
interessi il principato si è proficuamente concubinato con partner
di vario colore senza star lì a spaccare il capello in quattro su
questioni ideologiche o etiche; gli affari sono affari, e come non è
stato Toti il primo a salire sulla ben salda passerella della barca
di Spinelli, così con la casata hanno a suo tempo intessuto buone
relazioni anche i passati regimi vetero comunisti. E qui c'è una
ragione, una delle ragioni, per quello che conta pur onorevole,
della sconfitta di Andrea Orlando. Troppi vecchi elettori di
sinistra, e i loro nipoti a cui si sono dedicati nella pratica
memoriale, ricordano con dolore, con astio, con disincanto, come la
sinistra che per decenni ha retto la regione e le sue città, abbia
presto dimenticato di governare per dedicarsi al potere. Potere non
è sinonimo di governo, nella fattispecie ligure, è gestione delle
rendite di posizione, è infine immobilismo, ostracismo verso i non
sodali, malgoverno in nome degli interessi particolari avverso
all'interesse generale. Ricordano la disinvoltura con cui la
sinistra non ha governato, non ha voluto governare, gli appetiti che
hanno consunto e disfatto l'incalcolabile patrimonio naturale
riducendo la regione a un mostruoso anfiteatro di cemento, a un
forsennato e suicida estrattivismo turistico coronato nella gestione
Toti, cinica fino all'insensatezza. Ricordano l'abbandono delle
periferie al degrado persino umano, l'incapacità anche solo di
immaginare una soluzione progressiva alla grande crisi dell'economia
industriale, il mai contrastato avvilimento della dignità di una
lunga storia di aristocrazia operaia e artigiana. La supponenza, la
strafottenza di coloro che si ritenevano il potere un diritto
acquisito ab aeternum. Andrea Orlando non era dei loro, se no altro
per anagrafe, ma non è abbastanza diverso per chi sarebbe stato
attratto da un radicale mutamento fisiognomico, da una voce davvero
nuova, mai ancora ascoltata ma persistente in ciò che rimane di una
qualche attrattiva per i potenziali elettori di sinistra, quelli che
si astengono per sfinimento, avvilimento, incredulità, l'idea,
l'ideale, il disegno, il progetto. Che paesaggio intendi ricreare
perché io trovi il mio posto per viverci con dignità e promettenza?
In verità questo non è un problema di Orlando, ma di tutto il
personale che si riterrebbe pensante nel campo progressista. Ci sono
le parole d'ordine, anche ossessive, ma il grande disegno
affascinante, convincente, coinvolgente, aggregante al suono di
progressisti d'Italia unitevi, l'avete mai sentito, mai visto? Non
basta il fare e nemmeno il dire, ci vogliono i complementi.
Ma c'è una ragione che si impone sulle altre, e lascio perdere le
solite divisioni, bisticci eccetera. La Liguria è vecchia, è la
regione più vecchia d'Italia e magari del mondo. I pochi giovani
sono invitati a sloggiare, o invitati a restare con il miraggio di
abboffarsi delle opportunità di un'economia d'accatto, c'è un gran
bisogno di camerieri, di guardaporta per gli affitti brevi,
aiutocuochi e lavandai, frullatori di pesto, roba così. Restano i
vecchi e i vecchi non hanno un domani, hanno solo l'oggi, arrivare a
sera sani è salvi è già un progetto. Per questo non mi ha stupito il
risultato elettorale, sono loro che vanno a votare e votano per
arrivare a sera senza troppe noie e inciampi. Votano loro e chi ha
degli interessi per farlo, non interesse, dico interessi. Interessi
che in Liguria sono di norma piuttosto meschini. I balneari, tanto
per dire, i detentori di ciò che resta delle rendite di posizione,
tutta roba che ha a che fare con la vecchiezza morale e mentale se
non fisica. Faccio solo un esempio, ed è esempio luminoso.
Monterosso al Mare, la perla delle Cinque Terre, ha rifiutato un
finanziamento milionario per la realizzazione di uno scolmatore del
torrente che attraversa il paese e ha scatenato l'alluvione
micidiale dell'11. La ragione del rifiuto sta negli interessi
altrimenti lesi e compromessi dell'industria del turismo che avrebbe
avuto per un paio di anni lo scomodo dei movimenti di macchinari
ingombranti, e rumorosi e sporcaccioni, oltre, ci mancherebbe, gli
interessi dei confinanti lo scolmatore che verrebbero infastiditi o
addirittura alienati di preziosissimi metri quadri di proprietà. Per
i bravi cittadini di Monterosso il domani non esiste, fatta
eccezione per quello che si troveranno in tasca domani. E questi del
grande disegno non sanno proprio che farsene. Concludo con
un'invocazione per il nuovo presidente Marco Bucci. La scorsa
settimana l'ho ascoltata alla trasmissione radiofonica Un Giorno da
Pecora rispondere alla domanda se tifa per la Harris o Trump, «io
sto con Trump»; mi permetta presidente di farle notare come l'idea
del fare di Trump sia un filo difforme dai principi sanciti in
questo Paese riguardo alla costituzionalità, alla legalità, alla
fedeltà e all'onore nell'agire di una carica pubblica. Mi rassicuri
pertanto che nella disgraziatissima mancata elezione al suo secondo
mandato non intenda scatenare la prima guerra civile di Liguria. —el
feudo degli Scajola "Abbiamo
fatto vincere il candidato migliore" Marco Sodano
imperia
Se di Scajola bisogna parlare, dal punto di vista politico, si deve
tornare a Ferdinando. Nato a Frascati nel 1906. Riassumiamo:
iscritto al Partito Popolare, amico di Alcide De Gasperi. Il regime
fascista lo inserì nella lista dei sorvegliati. Nel 1936, dopo la
laurea in Economia, si stabilì a Costarainera (Imperia). Quattro i
figli: Alessandro, Maurizio, Maria Teresa e Claudio. Ebbe un ruolo
nella lotta di Liberazione in Liguria e poi fu eletto primo
segretario provinciale Dc. Nel 1946 entrò nel consiglio comunale di
Imperia. Fu nominato sindaco (1951) e rieletto in consiglio
comunale. Morì il primo giugno 1962. Tra i figli di Ferdinando
merita una menzione anche il più anziano, Alessandro, (1939,
Frascati), sindaco di Imperia e deputato Dc tra il 1979 e il 1987.
Inquadriamo adesso Marco, figlio di Alessandro e nipote di Claudio
(è suo zio), oggi cinquantacinquenne e attuale assessore della
Regione Liguria. «Mi sono dedicato molto alla vita politica, è il
mio modo per mettermi al servizio degli altri». Lo ha fatto spesso:
militante di Fi, in consiglio comunale poi ancora capogruppo (Fi),
assessore e vicesindaco a Imperia. «Ho fatto la gavetta tra gli
Azzurri, a partire dal basso». Eletto per in Regione Liguria nel
2010, è stato consigliere regionale d'opposizione. Nelle giunte Toti
è stato invece assessore regionale all'Urbanistica della Liguria.
«Ferdinando – spiega Marco –, va ricordato come capostipite
politico. I modi, la passione, gli intenti, il desiderio di mettersi
al servizio degli altri e la determinazione, nel senso di crederci e
di impegnarsi sempre al massimo per gli altri». Dicono di Marco: la
sua forza è l'empatia, la capacità di ascoltare gli altri, di
mettersi nei loro panni e di spendere un sorriso per tutti. Gran
lavoratore, serio e preparato.
C'è poi Claudio, nato nel 1948 e oggi sindaco di Imperia, lo è stato
quattro volte. Ministro della Repubblica, amico di Silvio
Berlusconi, nei suoi ruoli di governo lo stesso Berlusconi lo ha
nominato ministro in diverse occasioni: dello sviluppo economico,
delle attività produttive, del programma, dell'Interno in diversi
governi Berlusconi. Più volte chiamato a rispondere in Tribunale in
quanto politico: è stato assolto per la famosa vicenda della casa
romana vista Colosseo (quella dell' "a sua insaputa") e altre tre
volte. Sei volte archiviato, tre prescritto, chiamato a testimoniare
sul Mose. Ad oggi condannato per procurata inosservanza nel Caso
Matacena, due anni, primo grado.
«Mio zio Claudio è un grande politico», dice Marco. «Da lui e da mio
padre ho imparato molto, per esempio la capacità di dare il massimo
sempre con determinazione e coraggio. Mi piace lavorare, studio le
cose nei dettagli, voglio essere concreto». Marco è anche psicologo
clinico e psicoterapeuta, ha compiuto i suoi studi tra Torino e
Siena.
È anche, a buon diritto, uno dei protagonisti della vita politica
della Liguria dell'ultima tornata elettorale: alle Regionali di
domenica e lunedì è risultato primo eletto di Forza Italia con 6308
voti che lo proiettano verso un altro ruolo importante. Primo eletto
di Forza Italia e di tutto il centrodestra. Confermando praticamente
gli stessi voti presi quattro anni prima con una lista civica e
dimostrando che le persone votano lui, la persona, non tanto i
simboli. D'altra parte ha intercettato milioni di fondi per
l'entroterra e non solo, interpretando la pancia della gente ed
essendo costantemente presente. «Ho contribuito a scegliere il
candidato migliore e poi lavorato molto per e con lui», ha detto
Claudio lunedì sera. Lo direbbe anche Marco. Ultimo dettaglio: A 14
anni, da "primino", fu in consiglio d'Istituto al liceo. —
La strage
bambini
dei Fabiana Magrì
Senza cibo e cure, la sopravvivenza di 100 mila persone è a rischio,
nel Nord di Gaza. È la denuncia della protezione civile palestinese
a cui si aggiunge l'allarme del Programma Alimentare Mondiale delle
Nazioni Unite. La mancanza di scorte alimentari e mediche, con
l'avvicinarsi dell'inverno, può portare con sé «conseguenze
catastrofiche» per oltre il 90% della popolazione, mette in guardia
il Wfp.
«Come sopravviveremo senza farina?», si chiede Om Sohay, un
palestinese nella Striscia in contatto con la Bbc Arabic,
all'indomani della decisione della Knesset, il parlamento di
Gerusalemme, di mettere al bando l'Unrwa dalle aree sotto il
controllo di Israele. La maggior parte dei rifugiati e degli
sfollati «dipende» dall'agenzia delle Nazioni Unite, racconta Ghada
Oudah al programma Newsday di Bbc World Service.
È un diluvio di preoccupazioni, moniti e accuse durissime, quello
piovuto su Israele, mentre da tre settimane i raid di Tsahal stanno
rivoltando ogni angolo di Jabalya, Beit Lahia e Beit Hanun, per
«reprimere i tentativi di Hamas di riorganizzarsi», ribadiscono i
portavoce militari. Nella notte tra lunedì e martedì un attacco
aereo ha centrato una palazzina di cinque piani a Beit Lahia. Hamas
conta i morti, «almeno 93» e centinaia di feriti. Che non hanno
potuto ricevere cure – denuncia il ministero della Salute di Gaza –
poiché i dottori sono stati costretti a evacuare l'ospedale Kamal
Adwan: «i casi critici, senza intervento, soccomberanno al loro
destino e moriranno». Il direttore della struttura, Hussam Abu
Safiya, ha aggiunto che «quasi tutto il personale medico è stato
arrestato. Sono rimasti pochi infermieri e un paio di dottori che
devono prendersi cura di 150 pazienti». A fine giornata, fonti
mediche citate dalla testata qatariota Al-Jazeera contano 132 morti
nel Nord dell'enclave palestinese. L'esercito israeliano si dissocia
dal bilancio «impreciso» e insiste che i dati forniti dalle fonti
della fazione palestinese siano gonfiati, «come è stato dimostrato
in diversi eventi precedenti». E il Cogat (l'ente israeliano di
coordinamento con i territori palestinesi) precisa che «88 pazienti,
per lo più bambini, oltre a operatori sanitari e personale, sono
stati trasferiti in altri ospedali attivi nella Striscia» e che «il
trasferimento è stato effettuato su richiesta di Tsahal, in
coordinamento con la comunità internazionale e i funzionari del
ministero della Salute» di Gaza.
Ci prova la Bbc a fare chiarezza. Incrociando le immagini girate sul
campo, individua la posizione del raid israeliano. Tuttavia non
arriva a identificare quale edificio sia stato colpito. Sono troppe
le macerie per raggiungere la certezza. Dall'indagine, la testata
britannica riesce a determinare che «due video mostrano quelli che
sembrano essere 13 corpi avvolti in coperte».
Sui minori, vittime a Beit Lahia, si inserisce l'Unicef: ci
sarebbero «anche 20 bambini» morti. Per la direttrice generale
dell'agenzia Onu, Catherine Russell, sono loro che a Gaza «stanno
pagando con le loro vite e il loro futuro» e «colpirli è diventato
una scandalosa normalità nella Striscia».
L'Unicef si spinge a dire che la decisione di Israele di bloccare l'Unrwa
potrebbe causare la morte di un numero maggiore di bambini e
rappresentare una forma di punizione collettiva. Anche gli Stati
Uniti sono «profondamente turbati». Il portavoce del Dipartimento di
Stato, Matthew Miller assicura che le autorità statunitensi
parleranno con il governo israeliano per approfondire il «come»
intendano attuare la legge. Una norma che «pone rischi per milioni
di palestinesi». Om Yousef, un palestinese di Gaza, ha espresso a
Bbc Arabic la sua preoccupazione e parla di «decisione sbagliata
perché veniamo curati tramite l'Unrwa e i nostri figli vengono
istruiti nelle loro scuole».
Gli Stati Uniti pretendono da Israele che si faccia carico della
crisi umanitaria a Gaza. «Respingiamo qualsiasi tentativo di far
morire di fame i palestinesi», ha ribadito l'ambasciatrice americana
all'Onu, Linda Thomas-Greenfield in sede di Consiglio di Sicurezza.
E quindi deve consentire l'ingresso di cibo, medicine e altri aiuti
in tutta la Striscia e «in particolare nel Nord».
29.10.24
PER CHI LAVORA VERAMENTE LA SOGEI ?
un archivio da 800mila dati ottenuti
introducendosi illecitamente all’interno di una serie di banche dati
nazionali, anche su commissione. A fare luce su una rete articolata
di professionisti dello “spionaggio digitale” è la procura di
Milano, che ha indagato 60 persone tra hacker, consulenti
informatici, agenzie private di intelligence ed esponenti delle
forze dell’ordine. Quello che si è aperto di fronte agli inquirenti,
stando alle parole del procuratore nazionale antimafia e
antiterrorismo, Giovanni Melillo, che ha partecipato alla conferenza
stampa del Procuratore generale di Milano, Marcello Viola, è “un
gigantesco mercato delle informazioni riservate”. L’inchiesta della
Procura di Milano arriva a pochi giorni di distanza dal caso di
presunta corruzione che ha riguardato i vertici di Sogei, società
controllata dal Mef, che a catena ha impattato anche su Tim ed Ntt
Data.
L’inchiesta di Milano
A eseguire l’ordinanza del Gip Fabrizio Felice sono stati i militari
del Nucleo investigativo dei carabinieri di Varese: agli arresti
domiciliari sono finiti l’ex poliziotto Carmine Gallo e altre tre
persone, mentre sono stati interdetti per sei mesi dalla professione
un maresciallo della guardia di finanza in forza alla Dia di Lecce e
un agente di polizia del commissariato di Rho. L’inchiesta ha
inoltre portato al sequestro di tre società di investigazioni
private.
Le accuse su cui gli inquirenti procedono sono di associazione a
delinquere dedita all’accesso abusivo a sistema informatico,
intercettazioni illegali, falsificazione di comunicazioni
informatiche, rivelazione di segreto, favoreggiamento ed estorsione.
Le indagini hanno portato anche al sequestro dell’archivio dell’ex
poliziotto Carmine Gallo, sopratutto cartaceo, di cui si sente
parlare nelle nelle intercettazioni e che sarebbe stato custodito un
un garage.
Le richieste dei clienti
L’organizzazione individuata nel corso delle indagini si metteva a
disposizione di clienti che erano disposti a pagare per ottenere
informazioni riservate che gli indagati potevano ottenere “forzando”
l’accesso a banche dati private.
Tra i soggetti che si sarebbero messi in contatto con
l’’organizzazione per chiederne i servizi le indagini hanno
individuato tra gli altri Leonardo Maria Delvecchio, figlio del
fondatore di Luxottica, il banchiere Matteo Arpe e un manager di
Barilla.
Tra le richieste che venivano indirizzate all’organizzazione c’erano
ad esempio l’ottenimento di informazioni o il “monitoraggio”
dell’attività di persone specifiche, anche per motivi sentimentali,
la richiesta di dati che avrebbero potuto rivelarsi utili per la
risoluzione di controversie o ancora la necessità di capire quali
fossero stati i canali informativa che avessero consentito a un
giornalista di arrivare a pubblicare uno scoop. Ma più in generale a
rivolgersi al gruppo sono studi legali o imprese che vogliono
perseguire tramite l’accesso a informazioni riservate un vantaggio
per la propria attività.
Le modalità d’azione
Secondo la ricostruzione del pubblico ministero della Dda Francesco
De Tommasi e del sostituto della Dna Antonio Ardituro al centro
della vicenda ci sarebbe la società Equalize srl, fondata proprio da
Carmine Gallo, passato alla sfera delle investigazioni private dopo
40 arri di carriera in polizia. La società di business intelligence,
risulta dalle indagini, arrivava a fatturare quasi 2 milioni di
euro, con utili da 648mila euro, che l’ex poliziotto avrebbe
spartito con un’altra figura chiave dell’inchiesta, Enrico Pazzali,
presidente di Fondazione Fiera Milano, già manager di Eur, Vodafone,
Regione Lombardia, Sogei e Poste Italiane.
Secondo quanto emerso dall’inchiesta Pazzali, identificato come il
“numero uno” di Equalizer, avrebbe utilizzato la società per
“danneggiare l’immagine dei competitors” o “avversari politici” suoi
e di “persone a lui legate”. Tra i bersagli dell’attività illecita
ci sarebbero stati, secondo quanto appurato dagli inquirenti, figure
di primo piano del mondo economico e imprenditoriale italiano, come
ad esempio Giovanni Gorno Tempini, presidente di Cassa Depositi e
Prestiti. Nelle 518 pagine della procura compaiono inoltre tra le
vittime il presidente del Milan Paolo Scaroni, io giornalisti
Giovanni Dragoni e Giovanni Pons, in forze rispettivamente al
Sole24ore e a Repubblica.
Dagli atti dell’inchiesta emergono inoltre presunti dossier su
cittadini russi. Samuele Calamucci, hacker del gruppo, intercettato
parla di un “report” su un “famoso oligarca russo” e in altri
passaggi i pm scrivono che si è cercato di accertare l’identità del
russo e l’unico elemento è “una vicenda che vede coinvolti dei
cittadini russi-kazaki (Victor Kharitonin e Alexandrovich Toporov)”
e “la costruzione di un hotel a Cortina d’Ampezzo e la gestione di
svariati resort di lusso”. Un accesso abusivo, poi, avrebbe
riguardato Vladimir Tsyganov e Oxana Bondarenko, attivi nel settore
moda.
I passaggi dell’indagine
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti negli ultimi giorni del
2023 gli indagati avrebbero iniziato a sospettare di essere finiti
nel mirino di un’inchiesta. Il 26 dicembre, infatti, Carmine Gallo e
l’hacker Nunzio Samuele Calamucci vengono a conoscenza del fatto che
la vigilanza attiva sulla rete informativa di Heineken Italia “si è
accorta dell’installazione del ‘tools’ d’intercettazione sulla
propria rete informatica, rilevandola come un attacco alla sicurezza
dell’infrastruttura”.
Da quel momento inizia un’attività che gli inquirenti definiscono
“frenetica” di distruzione di tracce e prove: chat di telegram e
altri servizi di messaggistica, documenti cartacei, informazioni
riservate ottenute hackerando alcune delle principali banche dati
nazionali, pari a “Ottocentomila Sdi”, almeno “15 terabyte”.
I prossimi passi
Dopo i dettagli resi noti nel fine settimana, le indagini della
procura di Milano proseguono e si indirizzano ad accertare se siano
avvenute vendite di dati al di fuori dei confini nazionali, dal
momento che gli indagati, secondo la ricostruzione degli
investigatori, avevano rapporti che spaziavano dalla criminalità
organizzata ai servizi segreti, anche all’estero.
Sono intanto in programma nei prossimi giorni, a partire da giovedì
31 ottobre, gli interrogatori di garanzia, davanti al gip di Milano
Fabrizio Filice, delle persone destinatarie di una misura cautelare,
di cui quattro agli arresti domiciliari: tra loro Carmine Gallo in
qualità di ad di Equalize e i tecnici della sua squadra, Nunzio
Calamucci, Massimiliano Camponovo e Giulio Cornelli.
Butti: “Istituire l’Agenzia del dato“
Sul caso dei dossier illegali è interviene Alessio Butti,
sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega
all’innovazione tecnoliogica: “In Italia scontiamo un ritardo di
consapevolezza su quella che è la cultura del dato – afferma a
margine di un evento a Milano – E lo stiamo scoprendo ora,
ovviamente constatando questi danni. Quindi io penso che la cosa
migliore sia costituire una sorta di agenzia del dato, che
sovrintenda ovviamente tutto ciò che riguarda la qualità del dato ma
anche al fatto che questo dato non possa essere sottratto o non
possa essere indagato da soggetti che non hanno alcuna competenza”.
“Allora anche in questo caso la tecnologia ci viene in aiuto. Io
penso che il riconoscimento biometrico facciale, ad esempio per i
soggetti che devono accedere a determinate banche dati sia
fondamentale – ha concluso – così come sia fondamentale garantire un
controllo rispetto al flusso dei dati. Cioè bisogna capire chi entra
in un sistema e poi che cosa ne fa”. “Su questo stiamo lavorando –
conclude – e non escludo che nelle prossime settimane, nei prossimi
mesi ci sia già una risposta tecnica e legislativa”.
Il caso Sogei
E’ della scorsa settimana il “caso Sogei”, emerso dall’ indagine
della Procura di Roma avviata da alcuni pm capitolini, tra cui Paolo
Ielo, per corruzione e turbativa d’asta, che ha portato all’arresto,
tra gli altri, di Paolino Iorio, ex dg di Sogei, braccio informatico
del Tesoro, e dell’imprenditore Massimo Rossi.
Secondo l’ipotesi accusatoria formulata dai pm capitolini Gianfranco
Gallo e Alessandro Picchi, il procuratore speciale di Tim avrebbe
ricevuto “in due occasioni” denaro “non dovuto” dall’altro indagato
“per compiere atti in violazione degli obblighi inerenti al suo
ufficio e comunque in violazione degli obblighi di fedeltà”.
In particolare, il procuratore di Tim avrebbe ricevuto 50 mila euro
il 22 febbraio 2024 e una somma non quantificata il 15 maggio 2024.
I due procuratori sono emersi come “soggetti di interesse
investigativo” durante un atto di indagine della guardia di finanza
con riferimento all’imprenditore Massimo Rossi, arrestato in una
diversa inchiesta giudiziaria assieme all’ex Dg Business di Sogei,
Paolino Iorio.
Un segmento dell’inchiesta ha inoltre riguardato “due soggetti,
rispettivamente procuratori delle società quotate Tim e Ntt Data
Italia, per l’ipotesi di corruzione tra privati”, si legge in una
nota delle Procura. “Le perquisizioni sono eseguite presso i
domicili dei soggetti nonché taluni uffici delle menzionate società
– prosegue la nota – Il provvedimento in questione è stato emesso
nell’ambito della fase delle indagini preliminari allo stato delle
attuali acquisizioni probatorie ed è doveroso sottolineare che sino
a un giudizio definitivo vale la presunzione di non colpevolezza
degli indagati”. A finire nel registro degli indagati, in questo
caso, Simone De Rose, dirigente di Tim, ed Emilio Graziano,
procuratore di Ntt Data Italia.
De Rose in Tim è responsabile dal 2019 nell’ambito della funzione
Procurement per gli acquisti It e Ict Business. Nel dicembre 2021
era stato nominato ad interim responsabile della funzione
Procurement.
L’inchiesta è un segmento di quella, avviata da alcuni pm capitolini
tra cui Paolo Ielo, per corruzione e turbativa d’asta che ha portato
all’arresto, tra gli altri, di Paolino Iorio, ex dg di Sogei,
braccio informatico del Tesoro, e dell’imprenditore Massimo Rossi.
Secondo l’ipotesi accusatoria formulata dai pm capitolini Gianfranco
Gallo e Alessandro Picchi, il procuratore speciale di Tim avrebbe
ricevuto “in due occasioni” denaro “non dovuto” dall’altro indagato
“per compiere atti in violazione degli obblighi inerenti al suo
ufficio e comunque in violazione degli obblighi di fedelta’”. In
particolare, il procuratore di Tim avrebbe ricevuto 50 mila euro il
22 febbraio 2024 e una somma non quantificata il 15 maggio 2024. I
due procuratori sono emersi come “soggetti di interesse
investigativo” durante un atto di indagine della guardia di finanza
con riferimento all’imprenditore Massimo Rossi, arrestato in una
diversa inchiesta giudiziaria assieme all’ex Dg Business di Sogei,
Paolino Iorio.
Gli indagati hanno cercato di far sparire i documenti, ma in un
garage sono state trovate "migliaia di cartelle" Adesso si segue la
pista estera: il gruppo aveva appoggi anche in Inghilterra,
sequestrato un server in Lituania
Trovato l'archivio delle spie "Con il cellulare criptato Gallo
parlava ai Servizi "
milano
In un cassetto della scrivania del superpoliziotto in pensione
Carmine Gallo, per anni colonna portante dell'Antimafia milanese,
era custodito anche un cellulare criptato. Ne è convinto il pm
Francesco De Tommasi. E ancora lo cercano i carabinieri del Nucleo
investigativo di Varese che, nel pomeriggio di venerdì, quando sono
scattati arresti e perquisizioni non lo hanno trovato. Si legge,
infatti, nella richiesta di misura cautelare che «il capo
indiscusso» della presunta organizzazione, finito ai domiciliari col
braccialetto elettronico, «ha anche la disponibilità di un
telefonino criptato, che usa per le comunicazioni più riservate
relative alle attività criminose del gruppo».
Viene annotata in particolare la sintesi di una conversazione del 4
ottobre del 2022 «con agenti dei Servizi segreti», sottolinea il pm.
È Gallo a spiegare al telefono «che tipo di servizi offrono e che
tipo di accertamenti e consultazioni riescono a fare» alla Equalize.
Si vanta che «rispetto ai loro sistemi, lo Sdi non è nulla». Poi, si
legge ancora negli atti, Gallo «mostra con ogni probabilità il
cellulare agli interlocutori» presenti in ufficio, spiegando che si
tratta di «un telefono fuori rete» che non utilizza sistemi di
messaggistica come WhatsApp e Signal «in quanto non sicuri».
«La complessità delle contestazioni richiede l'adozione delle più
opportune cautele nel primario interesse dell'amministrazione della
giustizia. Gallo chiarirà la sua posizione non appena ci sarà la
piena discovery di tutti gli atti d'indagine, a oggi depositati»,
annunciano i suoi avvocati Antonia Augimeri e Paolo Simonetti,
sottolineando che l'ex superpoliziotto ripone «piena fiducia nel
percorso processuale che vedrà riconfermata la sua storia di onore e
impegno verso le istituzioni».
Giovedì, sarà interrogato dal gip Fabrizio Filice con gli altri
indagati, mentre da tempo il pm Francesco De Tommasi ha presentato
l'appello al Riesame contro il rigetto delle misure cautelari che
aveva richiesto. In tutto sedici: il carcere, tra gli altri, per
Gallo e il braccio destro Nunzio Camillucci, i domiciliari per «lo
zio bello» Enrico Pazzali, presidente di Fondazione Fiera.
Nonostante la pulizia fatta negli uffici della centrale dello
spionaggio quando la banda capisce di essere a rischio, «così siamo
a posto, non dobbiamo avere nulla qua», parte dell'archivio è stato
sequestrato nel garage della segretaria di Gallo. «Quasi quindici,
sedicimila schede personali di soggetti, ma non solo soggetti
mafiosi, anche non mafiosi» e «la mappa delle famiglie calabresi in
Germania, che me la sono presa dai tedeschi quando sono andato li
per Duisburg, un attimo che si sono distratti». «Tantissimo
materiale» come un «database che non ce l'ha nessuno... tutti i
sequestri di persona, i tentati sequestri di persona dal Sessanta ad
oggi».Montagne di atti e documenti che saranno analizzati assieme ai
dispositivi informatici del gruppo, da un pool di tecnici dei
carabinieri del Ros che dovrà scandagliare ogni singolo dato
ritenuto illecito.
Non basta. Tanto materiale si trova anche in Inghilterra e in
Lituania. Nel Regno Unito c'era una società «gemella» mentre la
scelta di un Paese dell'Est era nata per aggirare eventuali
inchieste giudiziarie. La piattaforma Beyond, a disposizione della
banda «è collegata a due server centrali, uno situato a Londra e uno
in Lituania». In un'intercettazione, è Calamucci a svelare: «Noi
abbiamo un server fisico che è qua... E poi il data center. Ho fatto
delle unità di backup, una nella sede di Londra e un altro in
Lituania, ti dico la verità perché era il posto più economico per
comprare i server».
Calamucci spiega a Pazzali che «la collocazione di server all'estero
è finalizzata a rendere più difficili eventuali indagini da parte
degli inquirenti italiani» si legge negli atti. «La Guardia di
Finanza cosa mi chiederà se viene qua a rompermi i co…ni? Una copia
del server italiano, una copia del server in UK e una copia del
server in Lituania. Noi, poi noi qui con questo di Milano, gli UK e
in Lituania diciamo che è un peccato che non lo troviamo...».
Chiarisce Calamucci: «Prendi e fai una rogatoria, vai a vedere,
quando arrivi in Lituania...». Gallo è lapidario: «Poi nessuno andrà
in Lituania a vedere...».
Non è così. La procura diretta da Marcello Viola ha infatti
sequestrato il server in Lituania e sta valutando l'ipotesi di una
rogatoria in Inghilterra
Il presidente cede alle pressioni interne. Al suo posto deleghe a
Corritore, già dg del Comune
Pazzali si autosospende da Fiera Milano l'imbarazzo di Fontana che
lo aveva difeso
Francesca Del Vecchio
Milano
Enrico Pazzali si autosospende dalla presidenza della Fondazione
Fiera Milano. Dopo l'inchiesta sui dossier illegali fabbricati dalla
società Equalize di cui era azionista al 95% e su pressione di più
parti politiche - «Mi sarei aspettato un passo indietro», dice il
capogruppo al Senato Pd Francesco Boccia - lo ha comunicato al
comitato esecutivo della Fondazione ieri sera, in una seduta
anticipata di 12 ore rispetto a quanto atteso. Il board era stato
convocato straordinariamente già ieri mattina da remoto per una
informativa da parte dello stesso Pazzali (durata 4 ore) che,
assistito dai suoi legali, aveva illustrato la situazione
giudiziaria. Nella riunione il manager aveva di fatto preso tempo,
senza tentare di minimizzare la portata dell'inchiesta e pur non
essendoci stata una formale richiesta di dimissioni. Ma il comitato
era stato chiaro: «Va tutelata l'immagine dell'Ente». Che il clima
dalle parti di Largo Domodossola fosse teso, comunque, lo si intuiva
già dai cancelli insolitamente sbarrati e dalla circospezione di
vigilanti e addetti all'ingresso.
In serata, poi, dopo 12 ore di «approfondimenti», l'accelerazione:
così, intorno alle 21, Pazzali ha formalizzato davanti al comitato
quello che nell'ambiente vicino ai vertici era dato come l'unico
esito possibile, precisando di «volersi concentrare sulla sua
difesa». A prendere le sue deleghe, per il momento, sarà il
vicepresidente vicario Davide Corritore, un passato da presidente
della partecipata del Comune di Milano MM, da vice in Sea (compagnia
che gestisce il traffico aeroportuale milanese) e da direttore
generale del Comune con Giuliano Pisapia.
Quanto all'ormai ex presidente, la rete di protezione nei suoi
confronti aveva cercato di reggere il più possibile, a partire dal
presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana - che di Pazzali
aveva voluto la nomina - e che nell'unica dichiarazione a 48 ore
dalla scoperta dell'indagine aveva ribadito «stima» nei confronti
del manager e di essere «all'oscuro» delle attività che svolgeva.
Massimo riserbo, invece, dalle parti di Palazzo Marino, dove il
sindaco Beppe Sala - che concorda la nomina del presidente della
Fondazione Fiera insieme al governatore - non si è espresso. Pare,
comunque, che tra Fontana e Sala ci sia stato qualche contatto ma
che la situazione resti sospesa. Anche perché, il Tribunale del
Riesame dovrà decidere se accogliere o meno la richiesta della Dda
di predisporre una misura cautelare anche per Pazzali, inizialmente
ritenuta non necessaria. E se la posizione del manager fino a ieri
alla guida della Fondazione è fin troppo complessa, delicata è anche
quella politica di Attilio Fontana: il governatore leghista, pur
essendo estraneo all'indagine, ha sponsorizzato una figura invisa al
suo partito. Dalle parti di via Bellerio, già sabato mattina si era
registrata una certa freddezza non senza imbarazzi. Da Matteo
Salvini, invece, nessun commento. Solo la stringata nota del partito
che ribadisce l'intenzione di una proposta in Parlamento «di
incremento delle pene per gli spioni».
Quanto agli altri nel centrodestra - milieu a cui Pazzali era più
vicino - solo generiche richieste di accertamenti da parte della
magistratura. Lo chiede esplicitamente, invece, il presidente del
Senato Ignazio La Russa: «Pazzali dica chi gli ha chiesto un dossier
su di me. Me lo deve
Ros, Sismi e Palazzo Chigi I curriculum di lusso degli spioni
monica serra
milano
Nome in codice «Tela», originario di Salandra, in provincia di
Matera, Vincenzo De Marzio è un carabiniere in pensione. Anche lui,
per l'accusa, fa parte della banda che dalla centrale dietro al
Duomo, per «clienti top», ha spiato migliaia di persone, tra
politici e imprenditori. De Marzio non è un carabiniere qualsiasi.
Nell'Arma dal 1984, al Ros milanese dalla sua nascita, con una breve
pausa tra il settembre del 2002 e il settembre del 2003, quando ha
prestato servizio al Sismi, i servizi segreti italiani, a Roma, alla
Presidenza del consiglio dei ministri. Super esperto di terrorismo
internazionale, «uno dei primissimi a occuparsene in Italia», come
ha sottolineato Armando Spataro, all'epoca procuratore aggiunto
milanese, in aula, quando lo ha citato come testimone al processo
sul rapimento dell'imam Abu Omar. Nella vecchia registrazione ancora
nell'archivio di Radio Radicale il magistrato e gli avvocati gli
pongono poche domande, soprattutto sui suoi rapporti con l'allora
capocentro della Cia a Milano, Bob Lady: «Solo qualche caffè e
scambio di informazioni», «Ho partecipato all'open house a casa sua
con il resto dell'ufficio a Natale del 2002». Tutte le risposte sono
brevi e concise: «Si», «No», «Non so, non ero a Milano in quel
periodo».
Parla poco Tela, anche nelle intercettazioni che i carabinieri di
Varese hanno raccolto negli uffici dell'Equalize sequestrati su
richiesta della Dda nell'inchiesta per associazione per delinquere,
accesso abusivo ai sistemi informatici, rivelazione del segreto
d'ufficio, e intercettazione abusiva. Con la sua società di
investigazione privata Neis Agency, De Marzio è solo indagato, il
gip per lui ha respinto la misura in carcere richiesta dal pm
Francesco De Tommasi, che invece lo ritiene «estremamente
pericoloso». Non solo perché «fornisce al gruppo di via Pattari 6
un'enorme mole di dati e informazioni fondamentali (Sdi, verbali,
ordinanze, foto...) che ha acquisito e detenuto illecitamente in
violazione delle autorizzazioni di cui può aver goduto durante gli
anni trascorsi nell'Arma». Ma anche perché, si legge negli atti,
sarebbe «comprovata la sua spregiudicatezza nel porre in essere
gravi e abusive intromissioni nelle sfere private e più intime delle
persone, anche ricorrendo all'esecuzione di intercettazioni»
illecite. Come avrebbe fatto ai danni della fidanzata di Del Vecchio
Jr, Jessica Ann Sarfaty: «Sto aspettando perché forse devo portare
dei registratori a Mario... Sì perché lì da mettere a casa, perché
lei non se ne vuole uscire», diceva intercettato.
Tra ex e attuali appartenenti delle forze dell'ordine – un
finanziere della Dia di Lecce e un poliziotto del commissariato di
Rho sono stati interdetti – erano in molti a lavorare per l'ex
superpoliziotto Carmine Gallo, per l'accusa «capo indiscusso»
dell'organizzazione costituita nella società di Enrico Pazzali, l'ammanicatissimo
presidente della Fondazione Fiera che, pur non ricoprendo un ruolo
diretto «nella materiale esfiltrazione» dei dati usati per i
dossieraggi – anche di politici come il presidente del Senato
Ignazio La Russa, di Matteo Renzi o di Letizia Moratti – è
considerato una delle «colonne portanti» dell'associazione che «per
finalità personali» avrebbe sfruttato «le capacità del gruppo». Era
lui a dire a Gallo: «Carmine, Attilio mi chie… Fontana (il
governatore della Lombardia, totalmente estraneo ai fatti, ndr.) mi
chiede se Scaroni ha dei prece… ha delle cose ni corso. Ha fretta di
ricevere le informazioni sul conto di Scaroni», il presidente del
Milan e dell'Enel.
Il braccio destro di Gallo era lo «spregiudicato» hacker Nunzio
Samuele Calamucci, che per l'accusa è «coinvolto nella rete
Anonymous», in grado di violare anche il sistema informatico del
Pentagono: «Con loro, che sono più o meno 3 mila persone,
condividiamo – diceva – se c'è qualche rottura di palle...oppure
dice ci sono dati, li volete? Per dire...questo dice abbiamo trovato
30 account violati a chi interessano?». Geometra con una ditta edile
aperta nel 2015, ma anche esperto informatico «in contatto coi
servizi», per l'accusa sarebbe stato lui a ideare la piattaforma
Beyond e a trovare il modo per bucare le banche dati del Viminale:
«I miei ragazzi sono quelli che hanno fatto l'infrastruttura e fanno
la manutenzione!» . Racconta Fabrizio Gatti su Today.it di essere
stato contattato proprio da Calamucci a gennaio, per la vicenda
della squadra Fiore, una rete clandestina con sede in piazza Bologna
a Roma, molto simile a quella milanese, che accedeva alle banche
dati dello Stato per estrarre notizie riservate su imprese italiane
e vip, come del Vecchio Jr. È sempre Calamucci, negli atti, a
raccontare che la rete che aveva costruito la banda è vastissima:
«La politica la abbracciamo più o meno tutta perché Enrico (Pazzali,
ndr.) è destra, Barletta è tutto ambientale di sinistra». Indagato
anche lui, Pierfrancesco Barletta, è un ex dirigente di
Leonardo-Finmeccanica, oggi vicepresidente del gestore aeroportuale
milanese Sea, autosospeso dalla società che gestisce gli scali
milanesi con rinuncia ai compensi. Era stato proprio lui a vendere
la società a Gallo e Pazzali ma, almeno all'inizio, per l'accusa
continuava a lavorare negli uffici dell'Equalize. Vicinissimo all'ex
ministro della Difesa Lorenzo Guerini, avrebbe commissionato alla
banda un dossier su una donna e su un chirurgo plastico del
Policlinico di Milano, per ragioni private, chiedendo se fosse
possibile un'intrusione da remoto nei telefoni, conoscendo solo i
numeri: «Mi serve urgentemente, devo fare delle scelte». Alla fine,
però, anche lui sarebbe stato spiato dal gruppo.
29.10.24
Il capo della società finita nel mirino cercava informazioni sui
figli del presidente del Senato La replica: "Disgustato, conosco
Pazzali da anni e l'ho sempre ritenuto una persona per bene"
Ignazio La Russa
Report sui La Russa e Renzi Tirata in ballo anche la Lega
"Vendiamogli la piattaforma" monica serra
andrea siravo
milano
Il presidente di Fondazione Fiera Milano Enrico Pazzali e Ignazio La
Russa sono «amici di vecchia data». Ma, per l'accusa, anche sul
conto del presidente del Senato il manager avrebbe chiesto un report
alla banda degli spioni della sua società dietro il Duomo,
attraverso la piattaforma Beyond.
«Esatto, va bene. Fammi un'altra nel frattempo! Ignazio La Russa. E
metti anche un altro, come si chiama l'altro figlio? Come si chiama?
Eh. .. Geronimo, come si chiama Geronimo La Russa? Eh... prova
Geronimo La Russa, ma non si chiama Geronimo... come si chiama?
Antonino? Metti Antonino La Russa. Lui è dell'ottanta... infatti
c'è», chiede Pazzali intercettato negli uffici della Equalize di via
Pattari 6. È il 19 maggio del 2023 e la data, casualità o no, non è
indifferente alla famiglia La Russa. È suggestivo il fatto che nella
notte appena trascorsa, dopo una serata all'esclusivo club Apophis,
si sarebbe consumata la presunta violenza sessuale della ventunenne
che ha poi accusato il terzogenito del parlamentare di Fratelli
d'Italia, Leonardo Apache, con un suo amico.
Solo quaranta giorni dopo, la ragazza ha deciso di denunciare e la
notizia dell'inchiesta in procura è finita sui giornali. Eppure, nel
dialogo con uno dei tecnici informatici, intercettato dai
carabinieri del nucleo investigativo di Varese, spunta anche il nome
del più piccolo dei figli di Ignazio. È sempre Pazzali a farlo: «Ok.
Leonardo sull'intelligence non ha niente?». Dopo il controllo
illecito in banca dati, la risposta è negativa.
«Sono disgustato dal fatto che ancora una volta i miei figli,
Geronimo e Leonardo, debbano pagare la "colpa" di chiamarsi La
Russa, se risulterà confermato che anche loro sono stati spiati»,
commenta il presidente dell'aula di Palazzo Madama. Che si dice
sorpreso: «Conosco Pazzali da anni e l'ho sempre ritenuto una
persona perbene, e vorrei poter considerare, fino a prova contraria,
un amico di vecchia data. Attendo di avere altri elementi prima di
un giudizio definitivo assai diverso su di lui. È noto che i suoi
attuali ruoli in Fiera non dipendano da FdI e sono stupito più che
allarmato dalle notizie di una sua azione di dossieraggio nei miei
riguardi».
Nel gigantesco calderone degli spiati ci sono finiti politici in
vita e anche oramai defunti. Un accesso allo Sdi è stato fatto per
Filippo Penati, ex presidente della provincia di Milano scomparso
nel 2019. A gennaio 2023, invece, è il nominativo di Matteo Renzi a
essere «interrogato». Come nel caso precedente, al gruppo non serve
più ricorrere all'aiuto di poliziotti e finanzieri infedeli (due
sono stati interdetti dal gip). Il controllo viene fatto
direttamente dai pc dell'azienda: «Minchia, quello (Pazzali, ndr.)
va a fare Matteo Renzi, ca… però». È l'hacker Nunzio Calamucci a
spiegare che c'è il rischio di essere scoperti e che Renzi possa
reagire: «Ci manda qua la finanza, i servizi, i contro servizi!». E
il superpoliziotto Carmine Gallo, annota il pm Francesco De Tommasi,
«riprende un vecchio concetto in relazione agli "alert" dello Sdi»
sui soggetti in vista: «Noi i deputati, i senatori e i consiglieri
regionali, non possiamo farli perché c'è l'alert». Lo tranquillizza
Calamucci: «No, nel nostro caso non c'è l'alert! Le mie
interrogazioni non le fa un poliziotto, le fa direttamente... I miei
ragazzi sono quelli che hanno fatto l'infrastruttura (del Viminale,
ndr.) e fanno la manutenzione! È quello il trucco».
Anche il leader di Italia Viva è intervenuto: «Forse oggi bisogna
fare una riflessione in più, anche oltre l'aggressione che io sto
subendo: in un mondo in cui i dati sono il nuovo petrolio, dobbiamo
avere il coraggio di affermare che la violazione dei telefonini o
dei computer è un reato gravissimo. E che la pubblicazione di dati
illegittimi è un crimine».
Per l'accusa, tra i potenziali clienti della Equalize ha rischiato
di esserci anche la Lega, con la possibilità di accedere alla
piattaforma Beyond. «Allora, ascolta una cosa... io come cliente ho
la Lega... l'hai già proposto? », domanda Andrea De Donno, un
collaboratore esterno, a Gallo. Quest'ultimo subito lo ferma: «No,
alla Lega non l'ho proposto perché, per la semplice ragione che c'è
Pazzali, che è collegatissimo a Fontana». La vicinanza di Pazzali
con il governatore – sottolineano gli inquirenti – potrebbe
«generare una serie di problemi reputazionali legati a un possibile
conflitto d'interessi». De Donno prova ad aggirare l'ostacolo,
offrendosi di fare da schermo: «Lo fornisco io, lo compro da te e lo
vendo a lui! ». Da Gallo arriva un nuovo e definitivo stop
all'operazione: «Tu non puoi venderlo! Tu lo puoi solo tenere a
noleggio da noi... tu puoi essere un agente». —
L'esperto elettronico di BitCorp, ha eseguito intercettazioni
telematiche sia per i clienti che per gli inquirenti
Indagato come spia e perito delle procure Il doppio ruolo
dell'ingegnere Pegoraro Giuseppe legato
Sul sito della società per cui lavorava come apprezzatissimo
ingegnere informatico prima di finire nelle maglie della procura di
Milano e prima ancora di quella di Torino, Gabriele Pegoraro, nato a
Vicenza 48 anni fa, è presentato regalmente: «L'anima creativa del
team tra genio e sregolatezza. Ingegnere elettronico "old school",
ha operato trasversalmente nel corso degli anni spaziando dal
settore bancario a quello delle telecomunicazioni. Ha invertito la
notte per il giorno ed è appassionato di missioni impossibili».
Sulle sue competenze nulla quaestio, of course. E però nelle pieghe
dell'inchiesta della Dda di Milano si affaccia «una luce sinistra»
su di lui «e anche sulla società».
Perché per i magistrati è Pegoraro, già amministratore unico della
ML Multiservices Srl, ma soprattutto Chief innovation officer della
società d'intercettazioni BitCorp «a eseguire intercettazioni
telematiche per diversi clienti in riferimento ed effettuare copie
di dispositivi telefonici in favore del gruppo di Equalize (che per
inciso si autoaccusa nelle intercettazioni di aver scaricato 350
mila Sdi, banche dati in uso esclusivo alle forze dell'ordine)». Il
problema è che «esegue le stesse operazioni per conto di diverse
procure della Repubblica». Da qui la profonda inquietudine dei
magistrati di Milano. Lo sa bene uno dei principali indagati Nunzio
Samuele Calamucci, informatico di Equalize (società sotto
sequestro): «Tanto lui (Pegoraro ndr) è uno che le fa pure per la
procura».
Bitcorp, non indagata, ha lavorato più volte per i magistrati
milanesi. E tra la corposa mole di fatture elettroniche emesse dal
2019 al 2023 dalla Bitcorp (3,3 milioni di euro) ne figurano diverse
a beneficio del «ministero dell'Interno dipartimento di pubblica
sicurezza, del Comando delle forze speciali, della procura della
Repubblica di Genova, dell'ufficio giudiziario di Milano (importi
per prestazioni offerte rispettivamente di 891 mila euro e 57 mila
euro), di Torino (24.750 e 36.750) e della Direzione investigativa
antimafia (Dia) con tre fatture per un totale di 35 mila euro».
Nota a margine, ma nemmeno tanto: Pegoraro, stavolta in prestito a
un'altra delle società perquisite, la Skp di Milano, era già finito
nei guai a Torino (a giorni inizia il processo) per aver ricevuto
incarichi di spionaggio sulla multinazionale della malta e del
cemento Kerakoll. Un manager della ditta aveva commissionato
indagini a un altro degli attuali indagati a Milano, Fabio Rovini
(anche lui indagato a Miano nel procedimento odierno e
contemporaneamente imputato a Torino). E Rovini risponde al cliente
che «colui che si sta occupando dell'indagine invasiva indicata è
l'ingegner Pegoraro». Negli atti è riportata la sua mail.
«Attenzione – ammoniscono gli inquirenti torinesi – perché Pegoraro
è lo stesso che questa polizia giudiziaria ha nominato ausiliario di
polizia giudiziaria (nell'indagine su Arciere, ndr) e lo ha
incaricato il 31 maggio 2021 di svolgere le attività di ingegneria
sociale rivolte alla realizzazione del cosiddetto "Trojan" da
iniettare nel telefono di un ex carabiniere oggetto di indagine».
Tentativi richiesti dalla procura con parere favorevole del gip,
andati avanti (senza successo) per mesi fino a ottobre 2021. Di
nuovo la doppia faccia, di nuovo spione e consulente della procura.
Almeno in ipotesi d'accusa. —
il sistema
i nomi finiti nell'inchiesta
"La rete ha legami con clan e 007 a rischio la sicurezza nazionale" monica serra
milano
Nell'enorme archivio della banda degli spioni c'erano anche «dati
classificati», top secret. Come un documento di 43 pagine
riconducibile all'Aisi, il servizio segreto italiano interno
«riservato» e risalente al 2008-2009 sulle «reti del Jihad globale».
I carabinieri del Ros, con i colleghi di Varese, lo hanno trovato
quando l'hacker Nunzio Calamucci ha collegato una sua chiavetta a un
pc della società di via Pattari 6 controllato da un Trojan della
procura. Dentro c'erano anche 52.811 interrogazioni Sdi del Ced
interforze del Viminale. Molte erano «riconducibili» a un ex
carabiniere indagato. «Con i report che abbiamo noi in mano possiamo
sputtanare tutta l'Italia», diceva Calamucci intercettato.
Per il pm Francesco De Tommasi, «il principale punto di forza
dell'organizzazione criminale è proprio la rete relazionale di
altissimo livello» su cui possono contare «lo zio bello» Enrico
Pazzali, presidente di Fondazione Fiera Milano a capo della società
di intelligence, e il socio Carmelo Gallo, ex colonna portante
dell'Antimafia milanese. Non solo con persone «appartenenti ai più
elevati ranghi delle istituzioni pubbliche, estranee ai fatti e
all'oscuro delle dinamiche criminose interne a Equalize». Ma anche
in altri ambienti come «quello della criminalità mafiosa e quello
dei servizi segreti, pure stranieri, che spesso promettono e si
vantano di poter intervenire su indagini e processi, per bloccare
iniziative giudiziarie».
Non è un caso che Calamucci – legato anche ad Anonymous («Con loro
condividiamo...), che è stato in grado di violare il sistema
informatico del Pentagono – si vantava: «I cialtroni saltano, noi
abbiamo la fortuna di avere clienti Top in Italia (per l'accusa,
come Barilla, Erg, il banchiere Matteo Arpe, Del Vecchio Jr, la
giudice Carla Romana Raineri, ex capa di gabinetto di Raggi)». Ma
anche «contatti tra i servizi deviati e i servizi segreti seri, di
quelli lì ti puoi fidare un po' di meno, però, il sentiamo, fanno
chiacchiere, sono tutte una serie di informazioni…». Dati sensibili
e riservati che, ipotizza la procura diretta da Marcello Viola,
potrebbero essere finiti anche all'estero.
E non è un caso neanche che, quando il gruppo discuteva di
effettuare autonomamente i «positioning» cioè la localizzazione dei
cellulari delle vittime, lo stesso Calamucci proponeva: «Allora,
domani mattina prima di venire qua passo in Regione a chiedere! Vedo
cosa... cosa c'è in sconto e te lo faccio sapere!» . Per il pm, un
chiaro «riferimento agli uffici dei servizi segreti che sono nello
stesso palazzo, dove evidentemente l'hacker vuole verificare la
possibilità di acquistare a prezzo ribassato l'apparecchiatura».
Per l'accusa, la banda che aveva bucato anche i database del
ministero dell'Interno, che sosteneva di aver «clonato» un account
email del presidente Sergio Mattarella, e che era in grado di
«tenere in pugno» cittadini e istituzioni, di «condizionare in modo
pregiudizievole dinamiche imprenditoriali e procedure pubbliche,
anche giudiziarie» e di «mettere a rischio la sicurezza nazionale»,
rappresenta «un pericolo per la democrazia di questo paese». I
Il suo «capo indiscusso», l'ex superpoliziotto Gallo, viene definito
una persona «tentacolare, spregiudicata e senza scrupoli», con «le
mani in pasta ovunque» che «intrattiene rapporti con diverse
personalità di rilievo, oltre che con diversi pregiudicati, anche
per associazione mafiosa».
Per l'accusa, infatti, l'ispettore in pensione è «pronto a scendere
a patti con esponenti della criminalità milanese». Tant'è che «per
ottenere la disponibilità di un posto auto a San Siro per ragioni di
rappresentanza» era intenzionato «a contattare il capo ultrà
dell'Inter Vittorio Boiocchi», poi freddato a colpi di pistola e con
26 anni di carcere alle spalle.
Ma la rete che aveva costruito la banda è vastissima: «La politica –
dicevano – la abbracciamo più o meno tutta perché Enrico (Pazzali,
ndr.) è destra, tutto ambientale di destra, (l'ex socio, ndr.)
Barletta è tutto ambiente di sinistra, quindi bene o male...il
centro è quello...». Il gruppo intratteneva rapporti anche «con ex
vertici delle forze dell'ordine e dell'amministrazione degli
Interni, divenuti poi security manager o membri dei cda di aziende
private». Diceva Calamucci: «Adesso c'è il nuovo... il vice... l'ex
prefetto di Como! Che è entrato come security manager... perché
tutte le ex cariche di un certo livello entrano nel Cda di qualcosa,
e noi… spaziando dai carabinieri alla polizia all'esercito… abbiamo
un ventaglio di ex cariche che diventano nostri clienti... l'ex
questore di Como fa morir dal ridere, è entrato come security
manager in Bennet». Era stato proprio lui, per l'accusa, a mettere
in contatto Equalize con Barilla.
Ma il gruppo poteva contare anche su contatti nei giornali per
spifferare qualche notizia che gli faceva comodo: «Chiamiamo
Roberto, Dagospia… lui sa davvero che ci sono queste foto … quando
tu gli dai una notizia, lui la pubblica ed è una delle testate più
temute dalla gente… lo rispettano tutti come un dio...». —
Il procuratore di perugia e le indagini sul furto di email
Cantone: "I processi non sono sicuri" «Ci siamo lanciati in questo mondo del processo penale
telematico o comunque di tutta una serie di meccanismi che
riguardano via internet le attività giudiziarie senza però metterle
in sicurezza. Noi ormai tante attività le facciamo direttamente a
distanza e poi scopriamo che i meccanismi non sono affatto sicuri.
Io, per esempio, ho letto che le mie email sarebbero state in
qualche modo violate da questo hacker di cui si occupa la procura di
Napoli». Lo ha detto il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone.
«Noi con la posta colloquiamo, parliamo di vicende giudiziarie. I
nostri sistemi dovrebbero essere garantiti al cento per cento. Forse
noi abbiamo buttato troppo il cuore oltre l'ostacolo, senza renderci
conto prima di quali potevano essere i problemi», ha aggiunto
Cantone. «Si tratta di due indagini che per quello che io so non
hanno alcuna attinenza fra di loro», sono ancora parole del
magistrato. Non ci sono collegamenti, almeno che mi risultino».
Gli effetti delle riforme che riguardano la giustizia - ha infine
spiegato Cantone a margine degli incontri di CasaCorriere in corso a
Napoli - poi finiscono per riverberarsi sui cittadini, per cui è
evidente che parlando di democrazia e potere non si possa non
parlare di giustizia». «Questo - ha concluso - è un momento
particolare nel quale ci sono tantissime riforme in corso, forse
anche troppe. Io concordo con quello che ha detto il presidente
della Cassazione, forse su questi temi ci sarebbe stato bisogno di
un fermo biologico».
"Bibi e Khamenei usano la guerra per nascondere la crisi del potere"
Azar Nafisi
Francesca Paci
Roma
La notizia del raid israeliano sull'Iran raggiunge Azar Nafisi
insieme a quella del duplice premio ricevuto a Roma dalla versione
cinematografica del suo bestseller "Leggere Lolita a Teheran", un
film diretto dal regista israeliano Eran Riklis e interpretato da
attori iraniani. La domanda è quale delle due immagini rappresenti
meglio il presente, se la guerra o la letteratura. La risposta,
ammette la grande scrittrice iraniana in esilio, è tanto
esistenziale quanto irreversibile.
Da oltre un anno si evoca la guerra incombente. Il raid israeliano
sull'Iran chiude la partita pareggiando i conti o sposta la palla in
un campo nuovo, più estremo?
«Sia il premier israeliano Netanyahu che la Guida suprema Khamenei
usano la guerra per nascondere i rispettivi problemi interni e le
piazze che, a Tel Aviv come a Teheran, rifiutano la loro leadership.
L'attacco di venerdì notte fotografa la situazione: nessuno dei due
governi è in posizione di forza, entrambi hanno paura del passo
successivo ma non possono arretrare. Gli ayatollah sono certamente
più in difficoltà, da una parte devono mostrare i muscoli contro il
nemico di sempre ma dall'altra sono terrorizzati dall'escalation
perché la popolazione, stanca e disillusa, non reggerebbe. Netanyahu
digrigna i denti perché se finisse la guerra dovrebbe affrontare la
giustizia e magari la prigione ma anche lui ha una serie limitata di
mosse, rivendica le vittorie militari per non fare i conti con la
frustrazione della sua gente. È uno stallo molto pericoloso».
Il mese scorso il premier israeliano si è rivolto agli iraniani
invitandoli a sollevarsi e offrendo il suo aiuto. Come l'hanno presa
e come hanno preso l'attacco?
«Dipende dall'interlocutore, c'è chi accetterebbe tutto pur di
voltare pagina. La maggior parte degli iraniani però, non si fida:
siamo stati traditi troppe volte. Se qualcuno come Netanyahu si
propone, io, prima di considerarlo, mi chiedo come si comporti a
casa propria, come governi. E viste le manifestazioni oceaniche
degli israeliani contro di lui, visto il trattamento riservato ai
palestinesi... credo che non ci sia davvero nulla da accettare. No,
gli iraniani devono contare solamente su loro stessi».
Da vent'anni "Leggere Lolita a Teheran" è la chiave di volta per
capire l'altro Iran, quello delle persone. Cosa aggiunge oggi a
quella missione la sua versione cinematografica diretta da un
regista israeliano e interpretata da attori iraniani?
«La mia protesta è da sempre contro il governo che ignora il proprio
popolo. Per questo parlo degli iraniani che chiedono una vita
dignitosa e non degli ayatollah che cercano la guerra. Iran e
Israele sono due Paesi in cui i politici vogliono combattere mentre
le persone ambiscono a stare in pace. Ho scelto Eran Riklis dopo
aver visto il suo film "Il giardino dei limoni", dove una donna
palestinese sfida il ministro degli esteri israeliano che vuole
distruggerle gli alberi per ragioni di sicurezza. Eran è contro la
guerra, sostiene la soluzione due popoli per due Stati, condivide
con me la convinzione che la cultura debba oltrepassare i limiti che
spesso la politica impone alle nostre vite».
Com'è cambiato l'Iran da quando a Teheran leggeva Lolita alle sue
studentesse?
«Vorrei che il film funzionasse da sprone come allora funzionò il
libro. La situazione è molto peggiorata, le iraniane e gli iraniani
hanno votato a più riprese confidando nel riformismo e hanno avuto
in cambio più repressione, più violenza, più dolore. Di vivo c'è
oggi solo il movimento delle donne, quelle che dopo l'assassinio di
Mahsa Amini hanno bruciato le illusioni e non si sono più voltate
indietro. Sono le ragazze che leggevano Lolita nelle cantine e sono
uscite alla luce del sole togliendosi l'hijab. Il movimento "donna
vita libertà" è la più letale spina nel fianco del regime ma non è
l'unica, anche i sostenitori della teocrazia sono stanchi e il film
racconta bene questa zona grigia. I regimi totalitari divorano tutti
i loro figli, tutti».
Gli iraniani gioiscono suoi social delle umiliazioni ricevute dal
regime ma ripetono di non voler essere liberati da forze esterne.
Cosa può fare per loro l'occidente?
«La maggioranza degli iraniani non vuole invasioni straniere né
esportazione di democrazia. Vogliamo una transizione pacifica come
pacifica è l'opposizione delle donne: il regime spara e noi
balliamo. L'occidente, a parte selezionare sanzioni che non
colpiscano il popolo, può ascoltarci. Quando emigrai mia madre mi
raccomandò di parlarvi di noi, di spiegarvi che se ci aveste
lasciati soli il regime avrebbe vinto. Ascoltateci. Sosteneteci con
la musica, la cultura, i sit-in come faceste con Mandela».
Quelle piazze ci sono in realtà, ma sono riservate alla causa
palestinese, al massimo alla pace in Ucraina a costo della resa di
Kiyv.
«Lo so purtroppo, nessuna manifestazione per le donne iraniane. Alle
mie conferenze c'è sempre qualcuno che mi accusa di essere
occidentalizzata e di non rispettare la cultura che poi sarebbe la
mia. Dovrei rispettare la lapidazione delle adultere, le spose di 9
anni, lo stupro della libertà? La libertà non è né occidentale né
orientale, gridavano le mie compagne già all'indomani della
rivoluzione khomeinista. E forse l'occidente dovrebbe ascoltarci un
po' di più per ricordarsi chi è. A Teheran Hannah Arendt e Vaclav
Havel sono vere e proprie star mentre voi sembrate aver dimenticato:
non è il momento di trascurare i valori fondativi della democrazia
con le nubi che si addensano sul voto americano».
Vincerà Donald Trump?
«Nessuno lo sa ed è una prospettiva terrea. Ma anche se vincesse
Kamala Harris dovremmo interrogarci su come siamo arrivati a questo
punto, come una delle principali democrazie si sia affidata così
tanto a quell'uomo».
Pare che ci siano divisioni nel regime iraniano e che l'ala
razionale avrebbe eletto il presidente Massoud Pezeshkian. Eppure da
quando è in carica ci sono state oltre 250 esecuzioni. Non c'è
alcuna possibilità di riformare la Repubblica islamica?
«Aprirsi alle riforme per il regime iraniano significherebbe
concedere un po' di libertà, ma non funziona così. Avere un po' di
libertà è come dire di essere un po' incinta: o aspetti un bambino o
non lo aspetti. Il modello per noi è il crollo dell'Urss nei Paesi
dell'est Europa, inghiottiti nel proprio vuoto di radici».
Israele ha decapitato molti proxy iraniani, da Hamas a Hezbollah.
Quante divisioni ha ancora l'Iran?
«Gli iraniani irridono il regime a suon di barzellette che
raccontano l'humor nero con cui si sopravvive all'angoscia. La
teocrazia crollerà, ma come siamo arrivati a questo? In Iran, nella
Russia di Putin, nell'America che spera in Trump. Come abbiamo fatto
a bypassare tutte le lezioni della Storia? » .
fischi
alla cerimonia del 7 ottobre secondo il calendario ebraico. A Doha
riprendono i negoziati per il rilascio degli ostaggi
Netanyahu contestato dai parenti delle vittime "Vergognati".
L'offerta di Al Sisi per la tregua
Fabiana Magrì
Due parole. «Mishpachot iacharot» («famiglie care»). Poi i fischi e
le proteste di quei parenti arrivati al colmo del lutto e della
rabbia, gelano Benjamin Netanyahu sull'incipit del suo intervento
alla commemorazione (secondo il calendario ebraico) per le vittime
del massacro di Hamas del 7 ottobre dell'anno scorso. «Vergogna!».
Per lunghi minuti il premier resta muto (imbarazzato? infastidito?),
in piedi dietro al leggio, a prendersi gli insulti di chi gli grida
addosso di aver avuto il «padre assassinato» e il «figlio
abbandonato» da 388 giorni, ostaggio di Hamas. Quello che passa per
la testa di Bibi (il diminutivo con cui è noto il premier) sotto lo
sguardo di sua moglie Sara, della coppia presidenziale, gli Herzog,
e dei massimi vertici militari, non si legge sul suo volto. Dopo che
i provocatori vengono allontanati dalle forze dell'ordine, il primo
ministro più longevo della storia di Israele, che sta guidando il
Paese nella sua campagna militare più lunga di sempre, riprende
confidenza e il discorso. Ringrazia e si congratula con «tutti i
nostri soldati e comandanti di Tsahal e delle forze di sicurezza»
che hanno collaborato all'operazione "Giorni del pentimento" contro
l'Iran. Li elenca uno per uno, il capo di Stato Maggiore, il
comandante dell'aeronautica, i piloti. Perfino i «meccanici e tutto
il personale di terra» e tutto il sistema di intelligence, «il capo,
gli uomini e le donne del Mossad». Esprime gratitudine anche agli
Stati Uniti, «per lo stretto coordinamento e supporto». Netanyahu dà
"kavod" (onore e rispetto, in ebraico) a tutti. Tranne a uno. Il
ministro della Difesa, la sua spina nel fianco Yoav Gallant, il
ribelle, la voce controcorrente nel suo esecutivo, l'illicenziabile.
L'unico rappresentante del governo attuale con cui l'amministrazione
Biden sente di parlare la stessa lingua. E quando tocca a Gallant
intervenire alla cerimonia di Stato, la distanza tra i due si
manifesta ancora una volta. Certo, anche il capo della Kirya
conferma che, con il suo attacco «preciso, letale e sorprendente»
all'Iran, lo Stato ebraico ha inviato il messaggio chiaro che «il
lungo braccio di Israele raggiungerà chiunque tenti di farci del
male». E sostiene, a testa alta davanti alla platea, che Hamas ed
Hezbollah sono stati scossi nelle fondamenta e non rappresentano più
«uno strumento efficace nelle mani dell'Iran». Tuttavia, in funzione
anti Bibi, sottolinea che non tutti gli obiettivi possono essere
raggiunti tramite la forza militare. «Riportare gli ostaggi alle
loro case richiede dolorosi compromessi», sancisce Gallant. E lo
dice nel mezzo degli sforzi compiuti da Usa, Egitto e Qatar per
ricomporre i pezzi dei colloqui tra Israele e Hamas e raggiungere
un'intesa per un cessate il fuoco, più o meno temporaneo, e per la
liberazione degli ostaggi israeliani. Il Cairo ha proposto una
tregua di due giorni per consentire lo scambio di quattro rapiti per
alcuni palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. Ma una
fonte di Hamas, parlando con il canale saudita Asharq News,
preannuncia una proposta di accordo "all in": fine della guerra,
ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia, scarcerazione di un
certo numero di detenuti palestinesi, rilascio di tutti gli ostaggi
israeliani in una volta sola. Di fatto, nessuna novità. Il che fa
presagire che anche l'esito della trattativa non sarà diverso, con
queste premesse. A nulla ha portato il tentativo di Israele, la
scorsa settimana, di offrire un cessate il fuoco di due settimane
per riportare a casa cinque ostaggi, presumibilmente vivi. Se la
dovranno vedere, in queste ore a Doha, il capo del Mossad, David
Barnea, il direttore della Cia, Bill Burns, e il padrone di casa, il
primo ministro qatariota, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani.
Mentre si deposita la polvere sull'attacco di Israele all'Iran, a
sollevarsi sono le prime dichiarazioni che offrono un'indicazione di
dove il conflitto nella regione allargata potrebbe andare. Nei suoi
primi commenti pubblici dalla notte tra venerdì e sabato, la Guida
suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, tramite l'agenzia di stampa
statale Irna, giudica quello di Israele «un errore di calcolo» e
suggerisce che gli attacchi «non dovrebbero essere né minimizzati né
esagerati». La deterrenza è un potere che non si ripristina
facilmente, soprattutto dopo una batosta come quella del 7 ottobre e
dopo una guerra di logoramento che va avanti da oltre un anno. Il
presidente Masoud Pezeshkian promette una «risposta appropriata». Il
segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, mette in guardia Teheran e
invita il regime a «non dovrebbe commettere l'errore di rispondere
agli attacchi di Israele». Gli fa eco la vicepresidente e candidata
alla casa Bianca, Kamala Harris.
28.10.24
Azionista al 95% di Equalize, Pazzali avrebbe fatto "accertamenti su
persone legate a Letizia Moratti"
Il patron di Fiera Milano vicino a Fontana Lega in imbarazzo:
"Dimissioni? È adulto" FRANCESCA DEL VECCHIO
MILANO
Chi lo conosce da sempre giura di averlo visto raramente senza
giacca e cravatta: Enrico Pazzali, finito al centro dell'inchiesta
sui dossieraggi milanesi, è uno dei personaggi più influenti della
politica e dell'imprenditoria milanese, lui che aveva "teorizzato"
il ruolo della Fiera come «strumento di politica industriale del
Paese». Ha sempre goduto di apprezzamento bipartisan «per il suo
decisionismo e il profilo istituzionale», ma storicamente è più
vicino al mondo della destra lombarda. In più occasioni è stato
fatto il suo nome per il dopo Beppe Sala (c'è chi dice solo per
fargli un torto: pare che i suoi rapporti con la Lega e in
particolare con Matteo Salvini non fossero idilliaci). Vicino alla
ministra del Turismo Daniela Santanché e al presidente di Regione
Lombardia Attilio Fontana, non ha mai nascosto la sua stima per
Silvio Berlusconi, tra i primi ad appoggiare un'intitolazione al Cav,
dopo la morte.
Classe ‘64, milanese e bocconiano, un passato da manager in grandi
aziende tra Roma e Milano come Poste, Omnitel, Compaq, Shell e Bull,
dal 2015 è stato per alcuni anni ad di Eur spa (società di cui è
azionista al 90% il ministero dell'Economia e delle Finanze). Dal
2019, nominato dalla giunta di Fontana ed eletto dal Pirellone
d'intesa con il Comune di Milano, è il patron della Fondazione Fiera
dopo essere stato amministratore delegato di Fiera spa dal 2009 al
2015. È anche consigliere di amministrazione dell'Università Bocconi
e presidente del Comitato Bergamo-Brescia 2023. Nel 2020, durante la
pandemia, fu uno dei principali sponsor dell'Ospedale in Fiera, la
terapia intensiva allestita nei padiglioni del polo fieristico
grazie alle donazioni di imprenditori e società civile. Ma è la sua
posizione di azionista di maggioranza (al 95%) della Equalize ad
essere sotto la lente dei magistrati di Milano. Per i suoi soci è
«Zio bello» o «capo» e, stando a quanto emerso dalle carte
dell'indagine avrebbe - tra le altre cose - chiesto «accertamenti»
su persone «vicine politicamente» a Letizia Moratti, quando era
candidata alle Regionali lombarde del 2023 proprio «per favorire
Attilio Fontana». Motivo per cui, è proprio il centrodestra ad
essere in forte imbarazzo: «Leggeremo le carte», dice il
sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio Alessandro
Morelli. Quanto alle dimissioni, «mi sembra abbastanza adulto per
fare le proprie valutazioni». Le dichiarazioni sanno già di presa di
distanze e, a ben guardare, sono il chiaro segnale di un "doppio
standard" dopo che la Lega, su altre inchieste per dossieraggio,
aveva urlato allo scandalo. Nessun commento neanche da Forza Italia,
né tantomeno dal partito della premier. L'unica tra i Fratelli è
Santanchè, che però non si sbilancia nei giudizi: «Non è mia
abitudine commentare le accuse». Di dimissioni dalla presidenza
della Fondazione, comunque, ancora non vuole parlare nessuno. Bocche
cucite sia al Pirellone sia tra gli esponenti della destra
cittadina. Quanto al centrosinistra, si registra solo la nota di
Pierfrancesco Majorino (capogruppo Pd in Regione) che si augura che
Pazzali «possa dimostrare tutta la sua estraneità a una vicenda dai
contorni esplosivi».
POTERE SENZA LIMITI : le carte
Da Scaroni a Moratti e Bonomi "Abbiamo fatto migliaia di report" ANDREA SIRAVO
MILANO
«Mi arriva, mi arriva dalla Ronzulli, mi fa un po' paura». Tra i
committenti della Equalize, la società al centro dell'inchiesta
della Dda e della Dna su presunte attività di dossieraggio illegali,
ci sarebbe stata anche la senatrice di Forza Italia, Licia Ronzulli
(non indagata, ndr). A fare il suo nome è il presidente dell'agenzia
di investigazioni Enrico Pazzali quando, nel luglio del 2022, è al
telefono con il suo amministratore delegato ed ex poliziotto Carmine
Gallo. «Non lo so... no no avrà una quarantina d'anni non lo so… e
comunque lavora in Autogrill... guarda che non ci sia mai qualche
roba con Berlusconi... qualcosa del genere…», prosegue Pazzali sul
nominativo indicatogli da Ronzulli. «Non vorrei che fosse da giovane
una delle letterine, quelle robe lì», riflette il presidente di
Equalize. Lo blocca subito Gallo che, avendo già un dossier sulle
cosiddette "Olgettine", lo assicura che la persona su cui fare il
controllo non è di quello «staff lì». L'ulteriore conferma arriverà
quando quel nome, pochi giorni dopo, viene inserito nella banca dati
Sdi dalla Dia di Lecce, dove opera uno gli appartenenti alle forze
dell'ordine infedele.
Appare «inquietante» – per gli inquirenti – invece una conversazione
intercettata in cui Calamucci lascia intendere a Gallo di aver
intercettato un indirizzo email assegnato al presidente della
Repubblica Sergio Mattarella. Un aspetto che le indagini devono
ancora riscontrare. A rivolgersi a Gallo e ai suoi esperti
informatici, oltre che politici, ci sono avvocati, giudici,
imprenditori e manager di grandi aziende come Barilla, Eni, Egr e
Heineken. Ognuno con il proprio tornaconto. Chi per screditare e
rovinare l'immagine di un proprio avversario, in campo familiare o
professionale. Chi per controllare in modo opaco cosa succede sotto
il tetto della propria azienda. C'è Fulvio Pravadelli, direttore
generale della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, che dà
mandato a Equalize di cercare informazioni contro Alex Britti da
usare nella causa di separazione tra la figlia e il cantautore. Un
accesso allo Sdi viene fatto pure su Giuseppe Bivona, grande
accusatore dei vertici di Mps. Il più attivo di tutti – come emerge
dagli atti d'indagine – sembra essere comunque Pazzali. «Se ti
faccio vedere i report di Enrico, ne ho fatti a migliaia di report a
Enrico», dice Nunzio Samuele Calamucci, braccio destro di Gallo,
anche lui agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.
La mole di richieste senza che ci sia un ritorno economico fa
storcere il naso nel gruppo. «Report gratis non ne escono più a
nessuno», ammonisce Calamucci. «Neanche per il presidente», annuisce
Gallo. Tra gli obiettivi individuati da Pazzali c'è Paolo Scaroni.
Il suo profilo come quello di Pazzali ad agosto 2022 è tra quelli
papabili per il ruolo di amministratore delegato di "Milano –
Cortina 2026". La competizione sulla carta vede in vantaggio
l'attuale presidente del Milan e del cda di Enel. Da qui la
richiesta di Pazzali a Gallo di fare una verifica sullo Sdi alla
ricerca di informazioni compromettenti che possano escludere Scaroni
dalla "corsa". Il successivo ottobre, il presidente di Equalize si
muove anche per «mettere in cattiva luce l'immagine di Letizia
Moratti», candidata alla presidenza di Regione Lombardia. «Comunque
c'è un sacco di gente, guarda se conosci qualcuno! Se c'è qualcuno
d'interessante da verificare!», afferma riferendosi ai componenti
del consiglio direttivo di Lombardia Migliore, lista che promuoveva
la candidatura dell'ex sindaca ed ex ministra.
Tra le centinaia di informazioni procacciate illegalmente, di cui
veniva a conoscenza, Pazzali alcune le utilizza con amici e
conoscenti per portare avanti i suoi interessi. Lo fa, ad esempio,
con Daniela Santanché, ignara delle attività illecite, quando cerca
di screditare Guido Rivolta, uomo di fiducia di Giovanni Gorno
Tempini, vicino ad entrare nello staff della premier Giorgia Meloni.
Dell'attuale presidente di Cdp la banda era riuscita a bucare il
cellulare per spiare le sue chat Whatsapp. Tra le parole chiave
viene inserito anche l'ex presidente di Confindustria Carlo Bonomi.
Non da Pazzali, ma direttamente da Gallo e Calamucci, si approccia
una giudice di Corte d'appello di Milano per far fare degli
accertamenti bancari sul marito. «Lei praticamente sta per
allontanare il marito... quindi gli sta depredando tutte le imprese,
tutti gli immobili e poi lo farà mettere con l'amministratore di
sostegno». La sua posizione è stata trasmessa alla Procura di
Brescia, competente sulle toghe milanesi. A livello aziendale
sarebbero state, tra le altre, le multinazionali Barilla ed Erg ad
andare alla Equalize per controllare in modo illecito alcuni
rispettivi dipendenti. «C'è la possibilità a ritroso di avere
conferma di questo sospetto», chiede un security manager
dell'azienda alimentare di Parma. L'obiettivo era sapere chi avesse
fatto trapelare notizie sull'avvicendamento del ceo. Nel caso di Egr,
a Gallo e ai suoi, viene chiesto di installare un software per
monitorare l'attività sui pc di lavoro per scoperchiare «una
presunta attività di "insider trading"» da parte di alcuni
dipendenti. Quando parlano della pratica Egr spunta anche un
presunto problematico report fatto per Eni. «Quella di Eni tra
l'altro è neanche dipesa da noi, perché son loro che l'hanno
depositata lì in un altro modo, cioè è andata proprio nel modo
sbagliato da parte del cliente», si giustifica Calamucci.
L'imprenditore, figlio 29enne del patron di Luxottica, è indagato
per le richieste alla Equalize L'accusa: utilizzati trojan e
informazioni riservate per controllare i famigliari e la fidanzata
"Un finto dossier sul sesso per Del Vecchio junior contro il
fratello Claudio"
Calamucci su Del Vecchio
La risposta degli hacker
monica serra
milano
Il 24 maggio del 2023, negli uffici dell'Equalize di via Pattari,
arrivano i "tuttofare" di Leonardo Maria Del Vecchio, il figlio
ventinovenne del patron di Luxottica, perquisito e indagato in
concorso con l'associazione. Nell'agenzia di intelligence di Pazzali
e del superpoliziotto in pensione Gallo lo conoscono già, è un
cliente «fidato» e abituale, anche se trovano il modo di evitare che
fatturi direttamente alla società perché «se questo mi finisce sul
giornale ca… ci viene fuori il mal di testa che sai».
Marco Talarico, «addetto alla gestione patrimoniale» del manager,
alle spalle qualche guaio giudiziario, e Mario Cella, capo della
Security, hanno bisogno di alcuni lavori che – subito gli viene
chiarito – sono «illegali». L'obiettivo è trovare gli «scheletri
nell'armadio» della fidanzata dell'imprenditore, «questa benedetta
Jessica, era anche innamorato di questa ragazza qua… che è
innamorata di quell'altro» ma anche e soprattutto dei suoi fratelli:
«una questione molto, molto più delicata». Dopo la morte del padre,
il 27 giugno del 2022, Del Vecchio Jr, che ha ereditato le quote
della cassaforte di famiglia, «si sente ricattato dai fratelli». Per
questo si rivolge agli hacker professionisti. «Leonardo – spiegano –
ha ereditato le quote della cassaforte di famiglia… diciamo che è
già la seconda assemblea che fanno e Leonardo si ritrova
praticamente ricattato ai fini di governance dell'azienda, dove ci
sono ogni membro della famiglia che vuole una cosa diversa... ognuno
per ottenerla sta tra virgolette ricattando qualcun altro… Per
esempio uno può essere un po' più sensibile a un dividendo più
importante, l'altro invece vuole mettere nel board un uomo di sua
fiducia... e parlando con Leonardo m'ha detto che lui vorrebbe... ci
sono due persone che vorrebbe monitorare, la prima è suo fratello
maggiore che è Claudio Del Vecchio e la seconda è un consulente che
sta vicino a una delle sue sorelle, Paola Del Vecchio».
Non è la prima volta che alla Equalize viene commissionato un lavoro
di questo tipo. Dice infatti Nunzio Calamucci, uno dei presunti capi
della banda: «Vi parlo in tutta franchezza... noi abbiamo già fatto
un'operazione simile in Luxottica… era un responsabile dell'ufficio
acquisti... abbiamo guardato per mesi il telefono e non abbiamo
trovato nulla... abbiamo fatto un accertamento patrimoniale su lui e
abbiamo scoperto come intascava le retrocessioni... è stato poi
allontanato penso con una lauta buonuscita, per non esplodere sui
giornali!».
Così gli viene chiesto di «inoculare un trojan sui cellulari». La
risposta: «Il trojan è illegale in Italia però con voi lo facciamo
perché abbiamo un rapporto particolare. Non lo faremmo con un altro
cliente che potrebbe rappresentare un pericolo». Così, dalla banda
fermata ieri dalla Dda di Milano, il manager ottiene molte
informazioni su tutti i fratelli, illecitamente "esfiltrate" dalle
banche dati dello Sdi, del Punto Fisco, dell'Inps. Dove però non
arrivavano le sofisticate tecnologie usate dalla banda, arrivano i
report fasulli costruiti ad arte per accontentare il cliente. Come
quello sul fratello Claudio Del Vecchio: dopo numerose ricerche sui
suoi spostamenti a New York incrociate ai locali gay della città, il
gruppo fabbrica un finto rapporto redatto nel 2018 dalla polizia
americana in cui «si dava atto di un controllo eseguito in quella
città nei confronti di Claudio Del Vecchio mentre era in compagnia
di un "travestito", Ralph A Thompson, registrato sul National sex
offender website del Dipartimento di Giustizia americano».
Anche sul cellulare della promessa moglie, la modella Jessica Ann
Serfaty, Del Vecchio vorrebbe inoculare un trojan. Calamucci non
riesce ad accontentarlo. Così gli invia dei report falsi con «chat e
altri contenuti di conversazioni telematiche e informatiche». Ne
simula addirittura «l'intercettazione mediante captatore informatico
di conversazioni apparentemente intercorrenti» tra lei «e David
Blaine, illusionista di fama mondiale». Spiegava Calamucci
intercettato «a me Del Vecchio non piace ma può essere un affare
della vita... perché questo mi ha detto non ho limiti di budget pago
faccio disfo… ci ha dato anche un altro lavoro da 20 kappa da fare
così "d'emblèe" che era un lavoro da 5». Stando alle imputazioni,
Del Vecchio Jr, per la sua avvocata Maria Emanuela Mascalchi,
«sembrerebbe essere piuttosto persona offesa». Per questo il manager
«attende serenamente lo svolgimento delle indagini in modo da
dimostrare la propria totale estraneità ai fatti e l'infondatezza
delle accuse ipotizzate contro di lui».
Dopo la morte del fondatore l'azienda macina record in Borsa ma i
rampolli litigano sull'eredità
Quella feroce dinasty degli occhiali per spartirsi un tesoro da 40
miliardi
Francesco Spini
Milano
Liti, veti incrociati, cause legali. La storia di spionaggi e
dossier scoperchiata nelle ultime ore, e che chiama in causa uno
degli eredi Del Vecchio, Leonardo Maria, complica la Dinasty di
Agordo. Mentre il capolavoro di Leonardo Del Vecchio, il colosso
dell'occhialeria EssilorLuxottica, macina record arrivando a
tagliare il traguardo, agognato dal patron scomparso due anni fa,
dei 100 miliardi di capitalizzazione in Borsa, la faccenda
dell'eredità si avviluppa. Tra i sei eredi del Cavaliere di Agordo
l'accordo resta lontano e i veleni delle ultime ore rischiano di
intorbidire ulteriormente le acque.
Per capire questa storia fatta di miliardi e potere, occorre tornare
ai giorni dell'apertura del testamento di Leonardo. Il fulcro di un
impero da circa 40 miliardi è la Delfin, cassaforte lussemburghese
che custodisce gli interessi finanziari della famiglia, a partire
dal 32% di EssilorLuxottica, ma anche partecipazioni importanti e
"pesanti" come quelle in Mediobanca, Generali, Unicredit. La finanza
che conta. Le quote di Delfin sono suddivise tra i sei figli –
Claudio, Marisa e Paola Del Vecchio (figli della prima moglie di
Leonardo, Luciana Nervo), Leonardo Maria (figlio di Nicoletta
Zampillo), Luca e Clemente (la cui mamma è Sabina Grossi) –, la
vedova Nicoletta Zampillo e l'altro suo figlio Rocco Basilico.
Ciascuno ha il 12,5% che suppergiù significa avere in mano 4-5
miliardi di euro.
Ma nelle quattro pagine del testamento pubblico accompagnato da tre
postille olografe Leonardo Del Vecchio fa di più. Destina le
proprietà immobiliari (case, ville, i relativi oggetti d'arte) alla
moglie. Non si dimentica nemmeno di destinare la sua riconoscenza ai
suoi più stretti collaboratori, in primis al "delfino" Francesco
Milleri, oggi numero uno di Essilux e presidente di Delfin, quindi
al fidato ad della stessa finanziaria, Romolo Bardin. A quest'ultimo
sono state indirizzate 22.222 azioni, a Milleri, oggi numero uno di
EssilorLuxottica – sono destinate 2.148.148 azioni, più o meno lo
0,5% del capitale.
Il punto, però, è che quattro eredi di Leonardo – Luca, Clemente,
Paola e Claudio – hanno accettato con beneficio di inventario, e di
fatto hanno bloccato l'esecuzione del testamento. Gli ingranaggi si
sono bloccati su diversi aspetti. L'inventario ha rilevato circa 460
milioni di passivo a fronte di un attivo patrimoniale di circa 200
milioni, tra crediti vantati verso Delfin, conti correnti, la
maxi-barca che fu del patron e altro. La differenza avrebbe dovuto
essere stata pagata dagli eredi ma questi non sono ancora riusciti a
trovare un accordo, in particolare sul versamento delle tasse sul
passaggio delle quote di Essilux a Milleri e Bardin. A Milleri è già
stata versata una quota di azioni, pari a 400 mila. Il resto deve
ancora arrivare.
Il tempo però è passato, gli affari sono andati bene, a Essilux
guarda ora con interesse anche Mark Zuckerberg di Meta, e da 340
milioni il pacchetto destinato al top manager vale ora 500 milioni,
ben di più. Ergo: gli eredi devono metterci più soldi per
riconoscere i titoli. L'impasse è inoltre determinata dal fatto che
alcuni figli, di cui si sono create cordate trasversali, vorrebbero
legare l'accordo anche a una modifica del sistema di governo di
Delfin. Del Vecchio, per esempio, ha stabilito che nessun componente
della famiglia (forse conoscendone il grado di litigiosità) debba
far parte del consiglio di amministrazione di holding, retto da 5
consiglieri guidati dal presidente Milleri e dall'ad Bardin. Sono in
carica a tempo indeterminato e, pur dovendo tenere informati i soci,
gestiscono partite delicate come la gestione delle quote in Generali
e Mediobanca, dove sono secondi e primi azionisti. Cambiare le
regole si può, ma serve un voto all'unanimità. E di unanimità tra
tali eredi finora se ne è vista poca. Non sono neppure riusciti a
votare sulla distribuzione dei dividendi, per cui servono due terzi
di voti a favore, altrimenti viene corrisposto il minimo statutario
del 10% dei profitti. Per cambiare anche queste norme bisogna
trovare una sintesi. Che oggi è una chimera. L'un contro l'altro
schierati fratelli ed eredi corrono divisi alla meta. In fondo al
tunnel c'è anche la decisione del giudice, chiamato da Milleri a
dirimere la questione relativa allo stato di graduazione
sull'inventario stabilito da alcuni eredi. Un guazzabuglio, in cui
esplode la bomba Leonardo Maria Del Vecchio.
Bezos ferma l'endorsement per Harris critiche e sospetti sul
Washington Post
inviata a washington
Che una cosa del genere possa accadere al Washington Post, uno dei
quotidiani con la migliore reputazione del mondo, è insieme una
sorpresa e uno scandalo. Perché sotto la sua testata ha il motto: "Democracy
dies in darkness", la democrazia muore nell'oscurità. Perché a metà
degli anni '70 ha portato alla resa della presidenza corrotta di
Richard Nixon grazie al Watergate, riuscendo a resistere alla
pressione del potere (lo ha fatto l'allora editrice Katherine
Graham, per capire con quanta forza basta rivedere The Post di
Steven Spielberg). Perché in quella redazione, ieri in subbuglio
come non accadeva da molto tempo, nessuno si sarebbe mai aspettato
che il proprietario Jeff Bezos, uno degli uomini più ricchi del
mondo, potesse decidere di impedire all'editorial board del giornale
di pubblicare l'endorsement già scritto per Kamala Harris a pochi
giorni dalle presidenziali americane. Dimostrando così la fragilità
di quelle che ci ostiniamo a considerare inossidabili democrazie. La
permeabilità agli interessi degli oligarchi: Bezos come Musk. La
pervasività del messaggio che Donald Trump sta diffondendo in tutti
gli Stati Uniti: o siete con me, o siete «the enemy within», il
nemico interno che una volta presidente io schiaccerò con ogni mezzo
(ha evocato anche l'esercito. E no, non era una battuta).
Non solo più fonti confermano che lo stop è arrivato dall'editore in
persona causando un'accesa discussione all'interno dell'editorial
board. E portando all'annuncio del mancato endorsement non da parte
del direttore editoriale, ma dell'amministratore delegato, William
Lewis. Oltre a questo, nello stesso giorno, cioè venerdì, i
dirigenti di Blue Origin, la compagnia aerospaziale di Bezos, hanno
incontrato Donald Trump dopo il suo discorso a Austin, in Texas. Lo
ha rivelato l'Associated Press. Facendo aumentare a dismisura i
sospetti su una scelta interessata e tutt'altro che indipendente.
Robert Kagan, storico, politologo, importante editorialista del
Post, conservatore ma da sempre ostile alla politica di Trump, si è
dimesso parlando di «una sorta di inchino preventivo davanti a chi
pensano sia il probabile vincitore delle elezioni. Chiunque faccia
parte dell'economia americana quanto Bezos vuole avere un buon
rapporto con chiunque sia al potere». E poi, alla Cnn: «Possono dare
mille ragioni per cui stanno facendo una cosa del genere, ma penso
che dovremmo vederla chiaramente per quel che è: l'inizio del modo
in cui Trump controllerà i media, in particolare quelli in mano alle
grandi aziende. Perché tutta l'America delle multinazionali si sta
inginocchiando davanti a lui».
Si difende, Lewis, dicendo che questo è per il Washington Post un
modo per tornare alle origini. Non aveva appoggiato alcun presidente
prima del 1976, questo dimostra la fiducia che ha nei suoi elettori
e nella loro capacità di capire da soli cosa fare. Dimentica però di
dire, Lewis, perché le cose nel 1976 erano cambiate. Dopo la
scoperta del Watergate e e dopo quegli anni di battaglia col potere,
il giornale decise di dire da che parte stava: la prima volta,
inevitabilmente, con Jimmy Carter. Le ultime due, contro Donald
Trump.
Così oggi 16 editorialisti scrivono un articolo per prendere le
distanze parlando di un «terribile errore» che «rappresenta un
abbandono delle convinzioni editoriali fondamentali del giornale che
amiamo. Questo è il momento in cui l'istituzione deve rendere chiaro
il suo impegno nei confronti dei valori democratici, dello Stato di
diritto e delle alleanze internazionali, e della minaccia che Trump
rappresenta per loro. Non c'è contraddizione tra l'importante ruolo
del Post come giornale indipendente e la sua pratica di fornire
endorsement politici, sia per orientare i lettori che per dichiarare
i principi in cui crede». Per poi concludere: «Un giornale
indipendente potrebbe un giorno scegliere di tirarsi indietro dal
dare l'appoggio presidenziale. Ma questo non è il momento giusto,
quando un candidato sostiene posizioni che minacciano direttamente
la libertà di stampa e i valori della Costituzione».
Ma soprattutto – in mezzo a una pioggia di abbonamenti disdetti da
intellettuali e celebrities (c'è anche Mark Hamil, il Luke Skywalker
di Star Wars) – parlano proprio gli autori del Watergate, Bob
Woodward e Carl Bernstein: «Rispettiamo la tradizionale indipendenza
della pagina editoriale, ma questa decisione a 9 giorni dalle
elezioni presidenziali del 2024 ignora le schiaccianti prove
giornalistiche del Washington Post sulla minaccia che Trump
rappresenta per la democrazia. Sotto la proprietà di Jeff Bezos,
l'attività di informazione del Washington Post ha utilizzato le sue
abbondanti risorse per indagare rigorosamente sul pericolo e il
danno che una seconda presidenza Trump potrebbe causare al futuro
della democrazia americana e ciò rende questa decisione ancora più
sorprendente e deludente». Se la democrazia muore nell'oscurità, non
bisogna lasciare agli oligarchi - a nessuno di loro - il potere di
spegnere la luce.
FINALMENTE Il wsj: ipotesi di riciclaggio. Il fondatore: voci senza
fondamento
Indagine su Tether, criptovalute in subbuglio
Tether è sotto indagine negli Stati Uniti per presunta violazione
delle norme anti riciclaggio. Lo rivela il Wall Street Journal che
cita fonti vicine alla procura distrettuale di Manhattan, che sta
valutando che la criptovaluta sia stata utilizzata per finanziare
attività illegali come traffico di droga, terrorismo e cyber
attacchi. Inoltre il Dipartimento del Tesoro, aggiungono le fonti,
starebbe pensando di imporre sanzioni contro Tether a causa dell'uso
diffuso della sua criptovaluta da parte di «individui e gruppi
sottoposti a sanzioni da parte degli Stati Uniti», tra cui Hamas e
alcune aziende russe, tra cui diversi commercianti di armi.
Tether è una criptovaluta stabile. È ancorata al dollaro americano,
il che vuol dire che ogni Tether vale un dollaro. Fondata da due
italiani, Tether oggi fa girare più di 190 miliardi di dollari al
giorno, con una capitalizzazione al momento intorno ai 120 miliardi.
È un architrave fondamentale dell'ecosistema cripto. Il fondatore di
Tether, Paolo Ardoino, savonese, 40 anni, smentisce la ricostruzione
del quotidiano. «È assolutamente irresponsabile che il Wsj scriva
articoli con affermazioni avventate ma con tanta sicurezza quando
nessuna autorità è intervenuta per confermare queste voci », ha
detto Ardoino.
«L'articolo - prosegue il fondatore - sorvola anche sui ben
documentati ed estesi rapporti di Tether con le forze dell'ordine
per reprimere i cattivi attori che cercano di abusare di Tether e di
altre criptovalute»
27.10.24
MAFIA PADRONA :
Misure cautelari personali e sequestri emessi dal gip del Tribunale
di Frosinone sono in corso di esecuzione nei confronti di un gruppo
di persone gravemente indiziate di associazione per delinquere
finalizzata alla corruzione per l'aggiudicazione di appalti di
lavori pubblici finanziati col Pnrr e per l'accoglienza dei
migranti.
E' l''esito di un'attività di indagine diretta dall'ufficio di Roma
della Procura europea. A eseguire i provvedimenti investigatori
della Polizia di Stato della Squadra Mobile di Frosinone e del
Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine di
Roma .
Fra gli indagati appartenenti all'organizzazione criminale,
destinatari di arresti domiciliari e di misure interdittive, come il
divieto di concludere contratti di collaborazione con la pubblica
amministrazione., figurano imprenditori e professionisti delle
province di Frosinone e Napoli, nonché funzionari e dipendenti di un
Comune del frusinate. L'inchiesta rappresenta uno dei primi
risultati delle attività investigative coordinate dalla Procura
europea sul reato di corruzione legato a fondi Pnrr.
Indagine della Dda, sei misure cautelari : "Rubavano informazioni
riservate da banche dati strategiche" . Nella banda poliziotti, un
finanziere e un giudice
Arrestati gli hacker di Stato: "Spiati politici"
Giuseppe Legato
Monica Serra
C'è anche un ex poliziotto, Carmine Gallo, con una società che si
occupava di investigazione privata, tra i quattro arrestati finiti
ai domiciliari col braccialetto elettronico. Interdittive sono state
emesse invece nei confronti di un poliziotto in servizio e un
finanziere. Tutti sono accusati a vario titolo di associazione per
delinquere finalizzata all'accesso abusivo ai sistemi informatici e
corruzione. Informazioni delicatissime che avrebbero riguardato
anche politici, dati segreti e oggetto di indagini conservate nelle
banche dati strategiche nazionali, come Sdi, Serpico, Inps, Anpr,
Siva.
Informazioni investigative ma anche fiscali e sanitarie "esfiltrate"
con l'aiuto di hacker e consulenti, poi rivendute – sembrerebbe
anche ai media – o usate per scambi di favori. Tra le persone
coinvolte dalle indagini ci sarebbe anche un giudice milanese. La
sua posizione, per competenza territoriale, è stata stralciata e
inviata a Brescia.
Per tutta la giornata di ieri la Direzione distrettuale antimafia di
Milano, guidata dal procuratore Marcello Viola e la Direzione
nazionale antimafia, diretta dal collega Giovanni Melillo, hanno
coordinato perquisizioni e sequestri condotti dai carabinieri del
nucleo investigativo di Varese in Italia e all'estero.
Le indagini sarebbero nate da un filone di un'inchiesta antimafia
anche se agli indagati non sarebbe contestata l'agevolazione
mafiosa.
Da quel che emerge, sono diverse le società di investigazione finite
al centro delle indagini. Alcune sarebbero state anche sequestrate.
Nell'inchiesta sarebbero coinvolti anche alcuni "esperti"
informatici in forza a due società di consulenza lombarda utilizzata
da più procure italiane in indagini tecnologicamente complesse
incaricati da più uffici giudiziari di inoculare virus informatici
(i cosiddetti "Trojan") nei cellulari di alcuni indagati. Almeno
fino a poco tempo fa uno di questi lavorava per la Skp di Milano
(ieri perquisita), ed era finito sotto la lente dei magistrati di
Torino in un'inchiesta su presunti spionaggi industriali (tra i
quali alcuni dipendenti della Kerakoll il colosso emiliano leader
nella produzione di malte e collanti per l'edilizia) insieme ad
altri due "procacciatori di affari" legati in qualche modo al
gruppo.
Un'indagine dai retroscena inquietanti. Perché quando i magistrati
piemontesi danno incarico di inoculare un trojan sul cellulare di un
indagato (un ex appartenente alle forze dell'ordine), l'operazione
non va a buon fine. I riscontri dell'informatico ritardano ad
arrivare ed è lì che gli inquirenti si insospettiscono. Riusciranno
a ritroso a ricostruire – o almeno ad ipotizzare – che lo stesso
"esperto" all'epoca in forza alla Skp avrebbe ricevuto la richiesta
di "spiare" un colonnello dei carabinieri in forza alla procura del
capoluogo e un brigadiere accedendo «abusivamente ai loro profili
WhatsApp». Non due persone qualunque. Ma gli investigatori che
avevano nominato l'informatico come "ausiliario di polizia
giudiziaria" per poter contare sulle sue competenze in tema di
«captatori informatici su smartphone».
Medici senza frontiere
Strage di bimbi a Khan Younis l'Onu: "Crimini atroci al Nord" No di
Hamas alla tregua breve
"
Fabiana Magrì
Elenchi, appunti, versetti coranici e conteggi. Sui fogli vergati a
mano, strappati da un block notes con il logo dell'azienda
palestinese Al Arqam Trading for Printing, Yahya Sinwar ha lasciato
istruzioni ai suoi uomini sulla gestione degli ostaggi israeliani
catturati il 7 ottobre del 2023.
Il quotidiano palestinese Al-Quds ha pubblicato ieri le fotografie
di tre pagine di carta attribuite al capo dei capi di Hamas. Li ha
presentati come «le volontà del martire Sinwar ai combattenti e i
dettagli scritti di suo pugno sui detenuti». Negli appunti, il
regista del massacro nei kibbutz, nelle basi militari e al festival
Nova – 1200 vittime israeliane e 251 persone rapite – si raccomanda
di «prendersi cura della vita dei prigionieri nemici e tenerli al
sicuro, poiché sono un'importante merce di scambio» per liberare i
prigionieri palestinesi. Uno dei fogli svela la posizione – il
centro di Gaza, la City e Rafah – di alcuni gruppi di ostaggi, senza
farne i nomi ma con accuratezza di compilazione e dettagli sulle
età, il sesso, le parentele di ciascuno. E con la suddivisione tra
civili e soldati e tra persone di nazionalità straniera o con una
seconda cittadinanza. Ci sono anche, sui fogli ritrovati, i nomi di
11 donne che furono rilasciate nella tregua di novembre.
Dopo l'uccisione, lo scorso 16 ottobre, del leader assoluto di
Hamas, sono ripresi i voli da un capo all'altro del Medio Oriente da
parte dei capi delegazione di Israele e dei mediatori. Da un lato,
riferisce Afp citando una fonte del gruppo, la fazione palestinese
«ha espresso la sua disponibilità» e ha discusso con gli egiziani
«idee e proposte» per un cessate il fuoco purché Israele si ritiri
dalla Striscia, consenta il ritorno degli sfollati e consentire
l'ingresso di aiuti umanitari a Gaza. Ma è presto – se così si può
dire a un anno dalla prima e unica tregua di questo conflitto – per
essere ottimisti. Perché un'altra fonte di Hamas, Osama Hamdan, ha
dichiarato al notiziario Al-Mayadeen che non c'è stato alcun
ammorbidimento. Anche il Canale 12 israeliano ha registrato la
stessa rigidità da parte di Khalil al-Hiya, negoziatore per Hamas,
che ha escluso di accettare una nuova proposta israeliana di un
breve cessate il fuoco (10-12 giorni) in cambio del rilascio di 5
ostaggi e del lasciapassare per i suoi leader.
Sebbene gli ingranaggi della diplomazia cerchino di rimettersi in
movimento, non senza difficoltà, la guerra procede a ritmo
incalzante. Tanto nella Striscia – dove il bilancio di Hamas dei
morti ha raggiunto quota 42.800 – quanto in Libano – qui i morti
sono oltre 2.500 –, con l'incognita dell'annunciato attacco
israeliano all'Iran e le voci di una possibile azione preventiva
iraniana. Teheran si sta preparando a una guerra con Israele, ma
allo stesso tempo cerca di evitarla, secondo funzionari iraniani
citati dal New York Times.
Il Nord dell'enclave palestinese sta vivendo «il momento più buio»,
ha avvertito l'Onu, accusando Israele di «crimini atroci». Tsahal ha
circondato l'ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia perché ritiene che
vi si nascondano «terroristi e infrastrutture con armi». Uno
sviluppo che il capo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità,
Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha definito «profondamente inquietante».
Negli scontri armati tra forze israeliane e miliziani palestinesi a
Jabalia, l'esercito ha riportato la perdita di tre soldati.
Medici Senza Frontiere ha invece denunciato l'uccisione di un membro
del suo staff, Hasan Suboh, durante le operazioni militari notturne
israeliane a Khan Younis, nel Sud di Gaza. Qui, secondo il ministero
della Sanità di Hamas, l'attacco di Tsahal ha causato almeno 33
morti (la tv qatariota Al Jazeera ne riporta 38, citando fonti
mediche locali), tra cui 14 bambini.
Altrettanto violento è il confronto bellico tra Israele ed Hezbollah
in Libano. Due morti e venti feriti è il bilancio dei soccorritori
nell'attacco con razzi sul centro commerciale della cittadina araba
di Majd al-Khorum, nel Nord dello Stato ebraico, rivendicato dal
Partito di Dio. L'uccisione di 3 giornalisti in un attacco aereo
israeliano su Hasbaya, nell'Est del Libano vicino al confine con la
Siria è un «crimine di guerra» per il ministro dell'Informazione
libanese.
occupazione silenziosa
Georgia
Inviata a Khurvaleti
Una mattina come tante la contadina georgiana Valia Vanishvili si è
svegliata prima del solito con una strana sensazione. Ha aperto la
porta di casa, nel villaggio di Khurvaleti, e ha scoperto che nella
notte era stata inghiottita dalla Russia. Lei, il marito, le
galline, l'orto, il frutteto, l'albero di melograno, la cuccia del
cane, tutto era diventato russo. Nella notte i soldati avevano
spostato il confine che divide l'Ossezia del Sud occupata e la
Georgia, mangiandosi altra terra e innalzando una barriera di filo
spinato con un cartello: «Confine di Stato, passaggio vietato». Dal
2020 Valia, che ha da poco compiuto 89 anni, vive grazie ai pacchi
di cibo e medicinali che la guardia di frontiera georgiana e la
figlia Nana, che vive a Tbilisi, le lanciano oltre il muro. Lei
ormai esce poco, parla con un filo di voce dalla finestra, perché,
dice «i russi sono nervosi». È vero: basta avvicinarsi troppo alla
barriera che dal nulla spuntano soldati in mimetica, passamontagna e
mostrine russe, il fucile puntato direttamente alla faccia.
Nei 26 villaggi georgiani lungo la linea di demarcazione, tra cui
Khurvaleti, l'occupazione russa avanza di qualche metro alla volta,
nel cuore della notte, sempre in silenzio. Spesso inizia con una
linea tracciata attraverso un campo, nastri sugli alberi che
stabiliscono il confine, poi si scavano i fossati, i fossati
diventano recinti, i recinti barriere di filo spinato. Quindi si
materializza un cartello che sancisce il nuovo "confine" e torrette
di guardia. I georgiani la chiamano «occupazione strisciante» e non
in senso metaforico.
Khurvaleti si trova al limite meridionale dell'Ossezia del Sud,
regione separatista occupata dalle truppe russe dopo la "guerra dei
cinque giorni" con la Georgia nel 2008, in quella che si è rivelata
una prova generale per l'Ucraina. Da allora, quando i carri armati
di Vladimir Putin entrarono nel Paese, i soldati russi hanno
lentamente e silenziosamente invaso i territori dei loro vicini,
spostando le linee di demarcazione militarizzate sempre più in
profondità nel territorio georgiano. Valia Vanishvili, è una delle
poche persone che continuano a vivere qui. Suo marito, Data, è morto
nel 2021 e le ha lasciato un testamento in cui le chiedeva di non
lasciare la casa. Valia resiste anche per lui: «Non possono
uccidermi, e allora aspettano che muoia per prendersi la mia terra».
Ogni tanto qualche georgiano sparisce nel nulla, qualcuno viene
ucciso, come Tamaz Ginturi, del villaggio di Kirbali, che voleva
solo pregare nella sua chiesa, poco fuori il villaggio, assorbita
anche lei dall'occupazione in una notte come tante altre. Il 6
novembre le truppe russe lo hanno arrestato e poi gli hanno sparato.
«Queste sono le persone più coraggiose della Georgia», ha detto ieri
la presidente filoeuropeista Salome Zourabichvili, riferendosi a
tutti i georgiani che si rifiutano di abbandonare terra e case per
resistere all'avanzata russa. La vita, per loro e per Valia, è
sempre più difficile: il punto di attraversamento più vicino è a 50
chilometri, ed è aperto 10 giorni al mese o secondo il capriccio
degli occupanti. Una visita a un parente dall'altra parte della
linea di demarcazione è un viaggio di andata e ritorno di 200
chilometri.
Un tempo un villaggio densamente popolato, Khurvaleti è ora quasi
deserto. La maggior parte delle case sono abbandonate, le finestre
murate, le porte oscillano appese a cardini precari. Chi poteva se
n'è andato: «Questo posto era pieno di gente», dice il poliziotto
della guardia di frontiera, senza togliere gli occhi da un gabbiotto
azzurro a 10 metri dalla casa di Valia: «Lì stanno i soldati russi e
quelli dell'Fsb». Avverte di non stare troppo vicino alla barriera,
e chiede a Valia di non uscire di casa: non potrebbe comunque,
perché senza forze e malata: «Dopo l'invasione dell'Ucraina, Mosca
ha spostato truppe ed equipaggiamento al fronte, ma quelli rimasti
sono più nervosi». Ci sono pochi soldati nelle due basi militari
costruite sulle colline su entrambi i lati di Khurvaleti, ma i
georgiani temono che se la Russia dovesse vincere in Ucraina, le
forze di Putin torneranno per dare un altro morso alla Georgia,
forse per inghiottire l'intero Paese. «La Russia è già qui – dice
l'agente –, controlla Ossezia del Sud e Abkhazia, un quinto del
nostro territorio».
Per questo, e per l'atmosfera incandescente e violenta del Paese, le
elezioni in programma oggi, rappresentano una scelta che non prevede
scale di grigi tra il governo in carica che tira verso Mosca e le
opposizioni, che provano a orientare la barra verso l'Unione
europea, in linea con il desiderio dell'80% dei georgiani. «Quelli
rimasti sulla linea di demarcazione – spiega Ketevan, vicina di casa
di Valia, ma ancora dalla parte georgiana del filo spinato – sono
ormai vecchissimi come noi. Non resisteremo a lungo». Ricorda ancora
i separatisti, i carri russi nel 2008, il periodo sovietico, la
fame: «Siamo nelle mani dei giovani, della loro forza nuova: noi
cosa possiamo fare se non continuare a coltivare la terra e
aspettare?».
Gli analisti militari hanno stimato che se i russi attaccassero
dall'Ossezia del Sud, potrebbero tagliare la principale autostrada
della Georgia in pochi minuti e raggiungere Tbilisi in un paio
d'ore. Con le truppe di Mosca impantanate in Ucraina, tuttavia, la
comparsa di carri armati russi nelle strade della capitale non è una
minaccia immediata: «Il punto è che la Russia stia già prendendo il
controllo del nostro Paese di nascosto – dice un militare georgiano
– rubandoci la terra e la democrazia da sotto il naso senza nemmeno
bisogno di carri armati».
La
rabbia degli operai "Nessuna fatalità ignorati gli allarmi"
Niccolò Zancan
inviato a Bologna
«Adesso basta», dice il sindaco Matteo Lepore. «Questo è un giorno
di lutto e di sciopero. Noi staremo vicini alle famiglie dei
lavoratori. Ma vorremmo che il mondo delle imprese rispondesse a
questa ennesima tragedia sul posto di lavoro con qualcosa di diverso
dalle solite pacche sulle spalle».
Piove. Piove ancora. Continua a piovere su questi operai e su questi
fiori al cancello della fabbrica. Bologna sta vivendo giorni
tremendi. Non aveva ancora finito la conta dei danni della quarta
alluvione negli ultimi due anni, quando tutti hanno sentito
l'esplosione che ha ucciso due lavoratori e ne ha feriti undici
nello stabilimento della Toyota Handling alla periferia di Borgo
Panigale. La pioggia è una costante. C'è un nuovo allarme meteo.
Qualcuno parla della partita del Bologna contro il Milan allo stadio
Dall'Ara che dovrà essere rimandata per ragioni di prudenza, e
qualcun altro invece parla della pioggia che è caduta sulla fabbrica
nei giorni scorsi. C'è tantissima gente fuori dai cancelli. Sono
venuti senza bandiere e senza striscioni. Sciopero. E lutto. «È
successo anche qui, è successo anche a noi», dice un'operaia in
lacrime. E mentre lo dice, viene giù ancora.
Lavoravano a ritmo continuo. Producevano carrelli elevatori. La
fabbrica non ha mai chiuso, nemmeno in quei giorni. L'inchiesta
sull'esplosione che ha ucciso Fabio Tosi e Lorenzo Cubello, entrambi
operai nel settore della logistica, si concentra su un punto preciso
dello stabilimento. È la zona dei compressori. Sono come dei
giganteschi boiler che alimentano l'impianto di climatizzazione
della fabbrica. Sono piazzati fuori, ma molto vicini al capannone
della logistica. Da lì è partita l'esplosione. Erano le 17.20 di
mercoledì 23 ottobre. Proprio in quel momento, secondo diversi
testimoni, è stato acceso per la prima volta l'impianto di
riscaldamento.
«Le cose da capire sono tante», dice il delegato per la sicurezza e
sindacalista delegato Uilm Pino Sicilia. Lui ha perso due amici
l'altro giorno, due compagni di lavoro. Ha tenuto la mano di Lorenzo
Cubello mentre moriva. «La prima cosa che vorremmo sapere è questa.
C'entra l'alluvione con l'esplosione? Intendo dire, c'entra tutta
l'acqua caduta fra sabato e domenica con un possibile cortocircuito
che ha fatto saltare il compressore?».
Tutti ricordano che i locali sotterranei si erano allagati. E le
tute, poi. «Molte tute da lavoro lunedì sono state portate al
lavaggio perché erano fradicie di pioggia. La fabbrica continuava a
produrre. È vero, non è stata questa la zona più colpita
dall'alluvione. Ma ci chiediamo se tutta quella pioggia possa avere
causato l'incidente».
Mentre gli operai circondano i cancelli come per un ultimo abbraccio
ai due compagni morti nell'esplosione, all'ingresso principale si
presenta l'amministratore delegato Michele Candiani: «La nostra
squadra di primo soccorso è entrata in azione immediatamente. Sono
stati dei leoni, così coraggiosi. Hanno prestato subito soccorso e
ho saputo che una persona si è salvata proprio grazie a loro, al
loro intervento. Quindi, quello che vi dico, è che dopo l'esplosione
ho visto un'evacuazione dello stabilimento molto ordinata, fatta da
lavoratori addestrati. Ho visto la comunità Toyota, perché noi siamo
una comunità, stringersi e sorreggersi l'un con l'altro». Gli
domandano quando riaprirà la fabbrica: «Noi vorremmo farlo il prima
possibile, ma deciderà la magistratura». Arrivano altre domande,
l'amministratore delegato dice: «Oggi è la giornata del rispetto
verso questi due poveri ragazzi che sono finiti così».
Prima del disastro. Alla Toyota era in corso una vertenza sindacale
sul tema della sicurezza. Discutevano di numeri di lavoratori
necessari per tempi di produzione, discutevano di attrezzature
antinfortunistiche e di ergonomia nella linea produttiva. Quello che
è successo è stato qualcosa di totalmente diverso. All'esterno un
gigantesco generatore è scoppiato per qualche ragione non chiara.
Come una bomba, ha devastato il reparto più vicino, quello della
logistica. «Non possiamo accettare l'idea della fatalità», dice
Massimo Mazzeo di Fim Cisl. «Perché era proprio lì? Era segnalato
nella mappa dei rischi aziendali? E ancora: la pioggia
dell'alluvione può avere avuto un ruolo?», si domanda il
sindacalista Pino Sicilia.
Fra gli operai, ce n'è uno che un tempo aveva suonato con Lucio
Dalla e scritto canzoni per Gianni Morandi. Si chiama Bracco Di
Graci, da 25 anni lavora alla Toyota. Era lì dentro, fino a quindici
minuti prima dell'esplosione. Dice questa frase senza appello, in
quanto a esattezza: «Un'azienda si ripara, la vita no».
SI TROVANO I SOLDI PUBBLICI PER TUTTO INACCETTABILE RITARDO Piano da
5 milioni per l'edilizia popolare, si tratta di appartamenti che
erano inagibili. Gli ultimi lavori finiranno nel 2026
Ristrutturazioni in 440 alloggi Atc Prime assegnazioni in lista
d'attesa
Pierfrancesco caracciolo
Sono 440 nell'area metropolitana di Torino, di cui 250 nel
capoluogo. È il numero degli alloggi popolari sfitti che Atc, nei
prossimi mesi, metterà a disposizione delle famiglie in lista
d'attesa. Si tratta di appartamenti vuoti perché alle prese con
problemi strutturali e, di conseguenza, dichiarati inagibili.
L'agenzia per la casa, a partire dal 2021, ha iniziato a
ristrutturarli, operazione che chiuderà alla fine del prossimo anno.
Gli interventi di restyling sono finanziati con 5 milioni, risorse
in arrivo da tre fonti: il Pnrr, il fondo Cipess (comitato
interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo
sostenibile) e quello ex Gescal. Le prime assegnazioni sono partite
nei giorni scorsi, quando sono state ultimate le ristrutturazioni.
Andranno avanti fino al 2026, dopo la fine degli ultimi lavori e il
rilascio degli attestati di agibilità.
L'operazione permetterà ad Atc di coprire il 5% del fabbisogno di
appartamenti nell'area metropolitana di Torino. Sono infatti 8.559,
a oggi, le famiglie che hanno fatto domanda per una casa popolare
salvo non essere state ancora accontentate (di queste, 6.038 nel
capoluogo piemontese). I 440 di cui sopra non sono gli unici alloggi
popolari sfitti perché in condizioni strutturali precarie. A questi,
nell'area metropolitana, se ne aggiungono 1.182, la metà a Torino.
Resteranno vuoti ancora per un po' perché Atc, al momento, non ha le
risorse per ristrutturarli. Il tutto, su un patrimonio immobiliare
di edilizia sociale che a Torino e provincia conta 28.422
appartamenti, di cui 17.869 nel capoluogo.
Il piano straordinario di ristrutturazione rientra in una più
profonda operazione e di riqualificazione dell'edilizia sociale di
Torino e provincia, a cura di Atc. Si tratta di un maxi progetto da
500 milioni di euro, avviato nel 2021, che si chiuderà il prossimo
anno. Con queste risorse, in gran parte in arrivo dal bonus al 110,
è in corso la ristrutturazione di 200 stabili Atc, per un totale di
7 mila alloggi. Si tratta di lavori di diversi tipi, che coinvolgono
infissi interni ed esterni, caldaie, cappotti termici, ascensori e
barriere architettoniche.
Il piano è stato presentato ieri in corso Dante. Sono intervenuti
Luigi Brossa, direttore generale Atc, Emilio Bolla, presidente
dell'ente, il vicepresidente Fabio Tassone e l'assessore regionale
alle politiche della Casa Maurizio Marrone. I lavori di
riqualificazione, negli stabili coinvolti, produrranno un risparmio
energetico del 50%, che si tradurrà in un dimezzamento dei costi in
bolletta per gli inquilini. All'atto pratico, ogni famiglia
risparmierà circa 500 euro all'annoa donna:
"senza lavoro, non so dove
andare"
L'odissea di Caterina "Bassa in graduatoria ora dormo per strada"
Da un rifugio di fortuna all'altro. Spesso per strada, qualche volta
nei dormitori, più raramente a casa di amici. Sono scandite dalla
ricerca di un posto in cui dormire le giornate di Caterina P. , 49
anni, e del figlio di 21. È così dal dicembre 2023, data in cui
entrambi erano stati allontanati dal loro alloggio in via Stradella,
quartiere Madonna di Campagna. Lo scorso agosto madre e figlio
avevano presentato domanda per fare ingresso in una casa popolare,
salvo scoprire di aver imboccato una strada in salita. Entrambi
maggiorenni, sono stati inseriti in graduatoria, ma con un punteggio
basso. Per il momento, è stato spiegato loro, dovranno aspettare.
Un'attesa che, ragionevolmente, sarà tutt'altro che breve.
Caterina, separata da oltre un decennio, fino al 2020 aveva lavorato
al Golden Palace hotel. Era addetta alle pulizie delle camere, con
contratto a gettone. Poi era arrivato il Covid. Le attività
dell'albergo dei vip si erano fermate. E lei era rimasta senza
lavoro. Dopo aver ricevuto i primi ristori del governo, era andata a
caccia di un nuovo impiego, senza trovarne uno stabile. Una buona
fetta del denaro familiare, inoltre, veniva giocoforza destinato al
figlio, che nel frattempo si stava diplomando. Per diverso tempo, in
queste condizioni, per loro era stato impossibile pagare le spese
condominiali. Così era arrivato il pignoramento dell'alloggio, su
input dell'amministratore di condominio. E per loro, dieci mesi fa,
la strada.
Il figlio, dopo di allora, è stato costretto a interrompere gli
studi. «Di tanto in tanto va a dormire dal padre, altre dagli amici
o dalla ragazza» racconta Caterina. Per la mamma è più complicato.
Per tre mesi si è rifugiata nel dormitorio del Cottolengo. Poi,
quando le temperature si sono alzate, ha scelto i portici del
centro. «Perché ho atteso otto mesi prima di fare domanda per un
alloggio popolare? Mi avevano assicurato – spiega – che sarei
rientrata tra gli aventi diritto a un appartamento nell'ambito del
piano per le persone in emergenza abitativa». Ma le cose non erano
andate così. E ora? «Piove quasi tutti i giorni, le giornate sono
sempre più fredde. E io non so dove andare.
26.10.24
UN GOVERNO CHE NON RAPPRESENTA PIU' IL PAESE : Il ministro e l'uomo
di Fazzolari
una faida tra nomine e parenti
ilario lombardo roma
Bisogna prendere un bel respiro per entrare in questo ennesimo
racconto familiare dentro il partito monolite di Giorgia Meloni.
Bisogna intrecciare i nomi e tenerli a mente per ricostruire una
vicenda che ha assunto i contorni di una faida. La famiglia è la
matrice della gestione del potere della premier, della scelta della
sua classe dirigente e della rete di fedelissimi. Il ministero della
Cultura è un osservatorio perfetto di questa mescolanza di sangue e
cosa pubblica, di appartenenza e finanziamenti, di cognomi che si
ripetono e consulenze che si sommano.
Partiamo da uno di questi cognomi: Merlino. Emanuele Merlino è il
figlio di Mario, militante Avanguardia Nazionale, coinvolto e
indagato – poi assolto - nell'inchiesta su Piazza Fontana. Emanuele
– che nella sua biografia risulta essere attore, sceneggiatore e
scrittore - è stato il coordinatore del dipartimento Cultura di
Fratelli d'Italia nel Lazio, poi promosso a capo della segreteria
tecnica di Gennaro Sangiuliano. È l'uomo di collegamento tra il Mic
e Palazzo Chigi. Quando Giovanbattista Fazzolari, il risolvi-grane
che Meloni ha voluto in una stanza accanto alla sua, deve chiamare
per capire cosa sta succedendo al ministero è il numero di Merlino
che digita. Ad Alessandro Giuli è bastato varcare la porta del suo
nuovo ufficio, appena preso il posto di Sangiuliano, per capirlo.
Per capire che non avrebbe avuto vita facile, che sarebbe stato
controllato, indebolito, commissariato. È questo il senso di quel
«lasciatemi lavorare» pronunciato l'altro ieri di fronte al
sottosegretario Alfredo Mantovano. A Palazzo Chigi, Giuli non
incontra né Fazzolari, né Meloni. Ma parla con il referente dei
Pro-Vita, i crociati anti-gay che hanno infiammato il partito contro
Giuli dopo la scelta di Francesco Spano come capo di gabinetto.
Merlino riferisce ogni cosa a Fazzolari, come faceva durante il
feuilleton estivo tra Sangiuliano e la sua amante, Maria Rosaria
Boccia. Ma fa anche altro. Gestisce da ministro-ombra le stanze del
MiC, cerca di imporre nomi e si fa artefice di un repulisti che
Giuli, in gran parte, subisce. Sono due fonti che raccontano alla
Stampa quanto segue. Una è del ministero, un'altra è del partito.
Giuli non sceglie Spano a caso. Ha lavorato con lui al Maxxi, si è
trovato bene e, nonostante le radici politiche opposte, si fida. Ma
sa perfettamente che cosa provocherà la sua nomina, e come torcerà
le budella di Fazzolari e di gran parte di FdI che, a partire da
Meloni, lo aveva combattuto quando sotto il governo Renzi fu
costretto a dimettersi da presidente dell'Ufficio nazionale contro
le discriminazioni. Giuli porta con sé due persone dal Maxxi. Uno è
Spano, l'altra è Chiara Sbocchia, dal primo ottobre capo della
segreteria al posto di Narda Frisoni, che rimarrà fino a dicembre
come consigliere per le pubbliche relazioni. Così Giuli aveva
costruito il suo fortino, mentre la paranoia da spie che attanaglia
Palazzo Chigi dopo il pasticcio di Sangiuliano travolgeva funzionari
e dirigenti. Vengono fatti fuori, trasferiti o ridimensionati
Antonio Di Maio (ex segretario particolare), Gianluca Lopes (del
cerimoniale), Renato Narciso, Dario Sigfrido Renzullo, Maria
Veronica Izzo, Carla Costante.
La purga ministeriale è affidata a Merlino e a Stefano Lanna, un
dirigente del gabinetto che Sangiuliano stimava molto, al punto da
volerlo promuovere direttore generale degli Archivi italiani, un
tentativo che frana di fronte al no della Corte dei Conti. Giuli
vede che Merlino e Lanna si muovono in asse, con un'autonomia
lasciata in eredità dal predecessore. I sospetti diventano
quotidiani. Le ragioni dei dissidi vanno ricercati nelle nuove
nomine. A dicembre scade il mandato di Andrea Petrella, portavoce di
Sangiuliano. Per sostituirlo, Giuli si orienta su Fabio Tatafiore,
direttore della comunicazione di Utopia, società con cui ha lavorato
al Maxxi. Merlino, invece, insiste su un'altra formula: vorrebbe far
salire di grado all'ufficio stampa Salvatore Falco, giornalista già
in forza allo staff, e affidare la comunicazione a Michele
Bertocchi, il social media manager autore dello scivolone su Napoli
«fondata due secoli e mezzo fa» pubblicato sul profilo di
Sangiuliano. Come testimoniano le chat che abbiamo potuto vedere,
Bertocchi ha continuato a lavorare sui social, nonostante il
ministro ne avesse annunciato le dimissioni.
Sta di fatto che a Giuli non va giù di non avere il controllo sul
proprio ministero. Chi sopravvive al reset è automaticamente
considerato manovrato da Palazzo Chigi. E così Giuli cerca di
limitare Merlino e Lanna, per inviare un messaggio a Fazzolari.
Lanna è il fratello di Luciano, giornalista in varie testate di
destra, ex Secolo d'Italia, nominato da Sangiuliano direttore del
Centro per il libro il 21 dicembre del 2023. Ma la rete familiare
del clan Meloni è molto più estesa. Al MiC c'è anche Claudia
Ianniello, anche lei intoccabile per volontà di Meloni: è la sorella
di Giovanna, portavoce storica della presidente del Consiglio, ed è
pure la moglie di Paolo Quadrozzi, altro storico collaboratore
dell'ufficio stampa, finito alle dipendenze di Mantovano a Palazzo
Chigi.
Tutti si conoscono da tempo, tutti in qualche modo incrociano le
loro biografie di militanti della destra romana, cresciuti assieme
fino alla conquista del governo. La parentopoli è ampia e
trasversale, perché lo stesso Giuli ha una sorella, Antonella, che
con la famiglia Meloni lavora da tempo. Prima come portavoce di
Francesco Lollobrigida, ormai ex cognato della premier, poi come
assistente di Arianna, sorella di Meloni ed ex moglie di
Lollobrigida, mansione di partito che Giuli (sorella) svolge mentre
è inquadrata come dipendente dell'ufficio stampa istituzionale della
Camera dei Deputati. Due giorni fa è stata beccata dai cronisti in
Transatlantico a urlare contro Federico Mollicone, deputato di FdI,
presidente della commissione Cultura, un altro che non ama Giuli
(fratello) . La faida è una degenerazione del familismo. E qui
nessuno ne sembra immune.
LA MELONI NON E' PIU UNA CALAMITA DI VOTI :
Ranucci di Report: "Mostreremo come ha
gestito il museo, ma la fonte non è Sangiuliano" Nel dossier la
milit anza in organizzazioni neonaziste e gli incarichi a gente di
famiglia
"Curatori cacciati su due piedi e nomine vicine ai vertici Fdi Un
altro caso Boccia al Maxxi"
irene famà
roma
Militanza in organizzazioni neonaziste e saluti romani, incarichi ai
familiari, sgambetti per favorire gli amici degli amici. «La vicenda
Spano è una piccola parte di quello che racconteremo domenica a
Report». Il giornalista Sigfrido Ranucci a "Un Giorno da Pecora" lo
dice chiaro: «C'è un altro caso che riguarda il ministro Giuli». E
in vista della trasmissione su RaiTre annuncia un'inchiesta a 360
gradi sul ministero della Cultura. Questioni di eleganza, di
opportunità politica. E non solo.
Proprio la gestione del Maxxi, il Museo nazionale delle arti del XXI
secolo, sembra essere al centro della puntata che stila un bilancio
dei due anni di presidenza di Alessandro Giuli. «Il problema è: in
base a quali requisiti è stato nominato ministro della Cultura?
Mostreremo alcune cose che ha fatto in passato e come ha gestito il
Maxxi», annuncia Ranucci. Si parlerà del crollo dei biglietti delle
sponsorizzazioni, della gestione dei progetti lasciati in eredità
dalla precedente amministrazione, di un finanziamento da due milioni
e mezzo di euro per un progetto di rigenerazione urbana con la Sony
rimandato indietro per organizzare una mostra sul Vittoriale degli
Italiani. Evento, dicono i ben informati, finanziato dal ministero
delle Imprese con due milioni di euro ed esposto al Maxxi per cinque
giorni.
«Sveleremo un nuovo caso Boccia», dice il conduttore. Che aggiunge:
«Sangiuliano non c'entra, non è una nostra fonte». E ancora. «Forse
chi non ama Giuli in Fratelli d'Italia, ora lo amerà ancora meno. ..
Mostreremo alcuni episodi in cui ha avuto anche un certo ruolo
all'interno di questo secondo caso Boccia». E c'è un altro evento,
in cui il ministro Giuli sembra aver ricoperto una posizione
centrale. Si tratta della mostra sul Futurismo, in programma a
dicembre alla Galleria nazionale d'arte moderna (Gnam) di Roma e al
centro delle polemiche da più di un mese. Avrebbe dovuto essere il
più grande evento culturale del governo Meloni, per ora pare
caratterizzato da rivalità e interessi interni. C'era un curatore,
Gabriele Simongini, a cui nel 2022 diede l'incarico l'allora
ministro Gennaro Sangiuliano. Insieme al co-curatore Alberto
Dambruoso e al comitato scientifico, si mise subito al lavoro. Poi
venne esautorato. Perché? Il suo curriculum, pare, non era
considerato all'altezza. Secondo l'inchiesta di Report, dietro
questa scelta ci sarebbero in realtà forti pressioni da parte di
alti dirigenti di Fratelli d'Italia che avrebbero favorito un famoso
gallerista molto vicino al partito. Visto in alcune occasioni, così
raccontano, a fare il saluto romano.
L'attuale ministro della Cultura ha sempre difeso il suo «pedigree
di destra, con nonno monarchico che andò a Salò». Parole sue. E la
puntata di Report ricostruisce anche la sua militanza giovanile
nell'organizzazione neonazista Meridiano zero con un'intervista al
fondatore Rainaldo Graziani, figlio dell'esponente di Ordine Nuovo
Clemente Graziani.
Al centro dell'inchiesta, poi, l'ormai nota vicenda di Francesco
Spano, avvocato pisano di 47 anni, sino all'altro ieri capo di
gabinetto del Mic. Dopo solo dieci giorni, è stato costretto alle
dimissioni: mentre era segretario generale del Maxxi, suo marito,
l'avvocato Carnabuci, sposato pochi mesi fa, fu riconfermato tra i
collaboratori retribuiti. Non è la prima volta che Spano finisce al
centro della bufera. E pure nel 2017, per una vicenda di
finanziamenti svelata da Le Iene (la Corte dei conti sancì
successivamente la legittimità degli atti), era stato costretto alle
dimissioni. Faccende passate: così deve aver pensato Giuli. Che, sin
dal suo insediamento, l'ha voluto al suo fianco. Nonostante le
critiche.
Ed è in questo contesto che si inserisce un'altra querelle. Il
senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto attacca la trasmissione di
RaiTre: «Ha pompato il presunto scandalo "al maschile" utilizzando
in modo deliberato una unica leva: la morbosità omofoba». Immediata
la risposta di Ranucci: «Non sa di cosa sta parlando». —
MODELLO ITALIANO PER LA TOYOTA: L'esplosione dal climatizzatore "Un
solo boato ed è saltato tutto"
I punti chiave
monica serra
inviata a bologna
«È stata una bomba, è successo tutto in quattro minuti»: Pino
Sicilia, responsabile per la sicurezza della Uilm, è stato tra i
primi operai a soccorrere i colleghi. Trattiene le lacrime mentre
racconta: «È stato il finimondo. È saltato tutto: pareti, uffici,
reti». Non ci sono state fiamme, non c'è stato alcun preavviso in
questo capannone devastato della Toyota Material Handling di Borgo
Panigale, alle porte di Bologna, che da una vita produce carrelli
elevatori. Alle 17,20 di mercoledì pomeriggio, solo uno scoppio
tremendo che non ha lasciato scampo.
In base ai primi accertamenti, tutto sarebbe partito da una
componente del grande impianto di climatizzazione all'esterno del
capannone. Era collegato a un grosso tubo, uno scambiatore che ora
non c'è più: si sarebbe disintegrato nello scoppio. Secondo una
prima ipotesi, quel tubo si sarebbe caricato di energia al punto da
saltare in aria. In un istante. L'onda d'urto ha divelto il cemento
e distrutto quello che ha incontrato. La parete del capannone
davanti è precipitata addosso agli operai del secondo turno. Pezzi
di muro, vetri e altri detriti sono stati trovati anche a decine di
metri di distanza.
All'arrivo dei vigili del fuoco per l'operaio trentasette Lorenzo
Cubello non c'era più nulla da fare. Il suo corpo senza vita è stato
estratto dalle macerie, mentre fuori continuavano ad arrivare i
colleghi. Quelli del «turno giornaliero» erano usciti mezz'ora
prima. «Quelli che abitano qui vicino hanno sentito lo scoppio da
casa e si sono precipitati qui» racconta un operaio davanti ai
cancelli della multinazionale vicino ai mazzi di fiori in fila, uno
accanto all'altro. In fin di vita è stato trasportato in ospedale
Fabio Tosi di 34 anni, ma i medici non hanno potuto fare nulla per
lui: è morto poco più tardi. Entrambe le vittime lavoravano nel
settore della logistica, con la mansione di «asservitori delle linee
di produzione», in pratica trasportavano i pezzi da assemblare fino
alle linee. Degli undici feriti più gravi, quattro sono ancora
ricoverati: uno di loro è in Rianimazione.
Con i carabinieri, i vigili del fuoco e la Asl, si è tenuto ieri
mattina un sopralluogo della procuratrice aggiunta Morena Plazzi e
della pm Francesca Rago che hanno aperto un fascicolo d'inchiesta
per omicidio e lesioni colpose per ora contro ignoti. «Il primo
passo – spiega il procuratore facente funzioni Francesco Caleca –
sarà l'autopsia sui corpi delle vittime. Dopo disporremo tutte le
consulenze tecniche necessarie». Qualche testimone ha raccontato che
i riscaldamenti erano stati attivati per la prima volta proprio
mercoledì, ma gli investigatori stanno cercando ulteriori conferme e
verificando se la manutenzione fosse in regola. Subito sono state
acquisite le immagini delle telecamere di sorveglianza e raccolte le
testimonianze degli operai e degli impiegati presenti negli uffici
che pure sono stati danneggiati dallo scoppio. Tutta l'area è stata
messa sotto sequestro.
«Mai avuto un sentore, mai un problema così serio. Lo sciopero di
due ore a fine turno che avevamo indetto prima della tragedia
riguardava altre questioni relative all'organizzazione del lavoro.
Questo è uno stabilimento con un alto livello di contrattazione
interna e con strutturate relazioni sindacali» spiega Giovanni Verla
della Fiom Cgil al termine dell'incontro con l'azienda che si è
tenuto nel pomeriggio. I responsabili hanno fatto sapere di avere
già attivato la cassa integrazione per tutti e 900 i dipendenti:
«Abbiamo chiesto per tutti la continuità salariale con una
integrazione del cento per cento dello stipendio. Si sono riservati
e ci sarà un nuovo incontro martedì. Al momento ovviamente non sono
prevedibili tempi di ripresa».
Nel frattempo, oggi è stato indetto uno sciopero e non solo davanti
alla Toyota Material Handling: «Metalmeccaniche e metalmeccanici
della regione incroceranno le braccia, per dire basta alla strage
quotidiana di donne e uomini che escono di casa per lavorare e non
vi fanno ritorno. La dimensione di questa tragedia ci sconvolge
tutti», si legge in una nota congiunta dei sindacati. «Vorrei
ricordare che 20-30-40 anni fa il metodo Toyota nel mondo era stato
considerato uno dei metodi centrali perché era una delle imprese
all'avanguardia con zero infortuni e zero morti. È evidente che
occorre un nuovo modello per fare impresa», è il commento segretario
della Cgil Maurizio Landini. —
GOVERNO ASSENTE . A QUANDO LA SFIDUCIA ? "La patente a punti non
salva i lavoratori È solo burocrazia"
claudia luise
«Con la patente a crediti si fa solo sicurezza di carta». Bruno
Giordano è un magistrato di lunga esperienza, oggi lavora alla Corte
di Cassazione. Ha insegnato Diritto della sicurezza del lavoro
all'Università di Milano e ha ricoperto la carica di direttore
dell'Ispettorato nazionale del lavoro. Analizza criticamente il
provvedimento entrato in vigore a inizio mese ricordando la scia di
morti sul lavoro da inizio anno: come certifica l'Inail «le denunce
di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate nei primi otto
mesi del 2024 sono state 680, 23 in più rispetto al pari periodo del
2023». L'edilizia resta uno dei settori più colpiti.
Quali sono gli aspetti critici della patente a credito per le
imprese?
«Non è una misura di prevenzione in materia di sicurezza. È solo
un'autocertificazione che devono fare le imprese per lavorare in
cantiere. Ribadisco, una mera certificazione di essere in regola con
il Durc e con tre obblighi: formazione, documento di valutazione del
rischio e nomina del responsabile del servizio di prevenzione».
Nessun obbligo aggiuntivo?
«Questi obblighi non sono nuovi, risalgono al provvedimento del 19
settembre del 1994. È una norma che esiste da 30 anni. Non c'è
nessun adempimento materiale o organizzativo aggiuntivo, ma solo
burocratico. Un'autocertificazione del genere non aggiunge nulla al
tema della sicurezza: l'azienda, inoltre, riceve in automatico la
patente».
Non ci sono controlli?
«I contenuti del certificato dovrebbero essere verificati
dall'ispettorato ma si attendono 830 mila domande e per controllarle
tutte andando in azienda ci vorrebbero circa 12 anni. È ovvio che si
tratta solo di un ping pong di pec. Inoltre il decreto ministeriale
di Calderone è stato emesso il 18 settembre e la circolare
dell'ispettorato il 24 settembre, quindi cinque giorni prima di
entrare in vigore. Un periodo troppo breve per le pmi che devono
provvedere all'autocertificazione. Alle imprese, che sono
soprattutto piccole o micro, sta costando circa 160 milioni in
consulenze».
Le pene previste per le imprese non in regola sono congrue?
«Il decreto ministeriale ha aumentato il punteggio da 30 a 100. La
morte di un lavoratore porta alla decurtazione di 20 punti. Inoltre
la decurtazione avviene solo sulla base di una sentenza definitiva e
a volte ci vogliono anche otto anni. È chiaro che così non ha
nessuna efficacia deterrente, nemmeno nei confronti delle peggiori
aziende che possono aggirare la norma cambiando ragione sociale. E
poi tra i requisiti stabiliti non è previsto nulla che riguardi gli
appalti e così non si tocca il punto dolente: più si scende nella
catena dei subappalti più la sicurezza è precaria. C'è anche un
ultimo punto».
Quale?
«L'attualità degli obblighi. L'impresa dichiara oggi di avere
requisiti ma domani potrebbe non averli più».
Cosa servirebbe?
«Una verifica preliminare, una certificazione di qualità delle
imprese che sia affidata a controllori esterni. Se voglio la patente
di guida devo sostenere un esame e presentare un certificato medico.
Nessuno mi permetterebbe di guidare solo sulla base di una mia
dichiarazione in cui dico che so farlo».
Altro?
«Il 90% degli infortuni avviene nelle Pmi. Queste aziende devono
essere aiutate a promuovere la sicurezza dal punto di vista
organizzativo e formativo da parte del governo e delle associazioni
di categoria».
Bisogna aumentare gli ispettori?
«Certo, ma anche elevare la qualità delle ispezioni con un
coordinamento tra tutti gli enti preposti. Inoltre serve una
strategia mirata di attività ispettive nei settori a maggior
rischio. Non è il numero che ci interessa ma la qualità». —
IL PATTO FRA ISRAELE ED IL DIAVOLO: Nord della Striscia sotto
assedio. Domenica riprendono colloqui per una tregua
Gaza, scuola rifugio colpita da un missile "Uccisi nove bimbi"
Mohammed Obeid
nello del gatto
gerusalemme
Riprenderanno domenica a Doha i colloqui per tregua e liberazione
ostaggi da Gaza. La delegazione israeliana sarà guidata dal capo del
Mossad David Barnea e incontrerà nella capitale del Qatar il premier
locale, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani e il capo della Cia
William Bunrs, oltre al nuovo capo dei servizi egiziani Hassan
Rashad. Dopo l'uccisione a Gaza del capo di Hamas Yahya Sinwar,
Israele ha ripreso i contatti con l'Egitto. La visita del segretario
di stato americano Blinken ha spianato la strada.
Arrivano anche segnali da Hamas. Uno dei membri del suo ufficio
politico, Mousa Abu Marzook, è volato a Mosca, dove ha incontrato il
vice ministro degli esteri Mikhail Bogdanov. Abu Marzouk ha chiesto
alla Russia di impegnarsi per favorire un governo di unità nazionale
tra le diverse fazioni palestinesi per il post guerra a Gaza. In
cambio, Hamas ha promesso che i primi due ostaggi ad uscire dalla
striscia saranno due soldati che hanno la doppia cittadinanza
israeliana e russa, Alexander Trufanov e Maxim Herkin. Per questo,
secondo media arabi, una delegazione russa sarebbe già arrivata ieri
in Israele per discutere i dettagli. Putin ha offerto il suo aiuto
per far finire la guerra.
Che invece continua cruenta nella Striscia di Gaza. Nei venti giorni
di violenti combattimenti al Nord, secondo fonti palestinesi, ci
sono state più di 700 vittime. In un attacco israeliano a Nuseirat,
nel centro della Striscia, contro l'ex scuola Shuhadaa divenuta
rifugio di sfollati, sono state uccise 17 persone tra le quali,
secondo Al Jazeera, nove bambini, mentre 52 sono rimaste ferite.
Secondo il portavoce del governo di Gaza, questo è il 196mo centro
dove hanno trovato rifugio gli sfollati a essere colpito dall'inizio
della guerra.
L'esercito ha spiegato di aver colpito la scuola di Nuseirat poiché
un gruppo di Hamas vi operava dall'interno per pianificare e portare
a termine attacchi contro le truppe e Israele. I militari
riferiscono di aver preso misure per mitigare i danni ai civili
nell'attacco e accusa Hamas di usare siti civili per il terrore.
Nel Nord sotto assedio, la situazione più difficile si registra
all'ospedale Kamal Adwan, che secondo il direttore Hussam Abu Safia,
è stato attaccato dalle truppe israeliane. I palestinesi denunciano
che le stazioni di desalinizzazione e pompaggio dell'acqua sono
ferme a causa della mancanza di carburante. Circa 400.000 sono i
rifugiati nella zona, alcune decine dei quali hanno cominciato a
lasciare l'area. Nessun camion di aiuti sarebbe entrato da
settimane.
Dati che l'esercito respinge. Secondo il Cogat, l'ufficio dei
militari che si occupa dei Territori palestinesi, il 22 ottobre sono
entrati 104 camion con aiuti umanitari, 20 dal valico
settentrionale, gli altri a Kerem Shalom, a Sud. Martedì sono
entrate anche sei cisterne di carburante. Altri 36 camion sono
entrati dall'ingresso 96 che porta direttamente al Nord. Oggi
dovrebbe partire da Genova la nave che trasporterà la prima
fornitura dei 15 camion di aiuti che l'Italia spedisce nella
Striscia nell'ambito del suo programma Food for Gaza.
Secondo la rete saudita Al-Arabiya, l'inviato speciale degli Stati
Uniti Amos Hochstein e il presidente del parlamento libanese Nabih
Berri hanno concordato una bozza di accordo per un cessate il fuoco
tra Israele e Hezbollah basato sulla risoluzione Onu 1701. Il fronte
resta però molto caldo, con gli attacchi israeliani sul Libano e
centinaia di razzi lanciati verso Israele. Quattro i militari
israeliani morti nel sud del paese dei cedri. —
IL PATTO DEI BRICS : acqua
dell'
Il ricatto
taipei
Lo chiamano il monte Everest dei fiumi. È il corso d'acqua più alto
al mondo, con una media di quattromila metri. Corre tra Tibet e
Himalaya, prima di fare una drammatica inversione a U e scendere
vertiginosamente di 2700 metri attraverso tunnel e canyon,
confluendo nel Brahmaputra. Il fiume in questione si chiama Yarlun
Tsangpo e potrebbe presto diventare il fulcro di una disputa tra i
due Paesi più popolosi della terra: Cina e India. Nei giorni scorsi,
è stato annunciato un accordo per la gestione della sezione
occidentale dell'enorme confine conteso, utile a spianare la strada
al primo bilaterale ufficiale in 5 anni tra Xi Jinping e Narendra
Modi. Al summit dei Brics di Kazan, il presidente cinese e il
premier indiano hanno detto di voler normalizzare i rapporti. Ma la
sensazione è che non sarà semplice evitare acque burrascose, anche a
causa proprio delle risorse idriche.
Pechino sarebbe vicina a completare lo studio di fattibilità per la
costruzione della mega diga di Motuo, che i media indiani chiamano
enfaticamente "la madre di tutte le dighe". Del progetto si parla da
tempo, ma il cambio di marcia è arrivato nel 2021, quando
nell'ultimo piano quinquennale del Partito comunista è apparso
l'obiettivo strategico di «sfruttare il potenziale idroelettrico del
corso inferiore dello Yarlun Tsangpo». Dettaglio chiave: ci si trova
nelle immediate vicinanze della sezione orientale del confine
conteso. Il fiume corre come un serpente in corrispondenza della
cosiddetta "linea di controllo effettivo" tra i due giganti
asiatici, e la diga dovrebbe sorgere nella prefettura di Nyingchi. È
qui che l'altitudine dello Yarlun Tsangpo precipita, dirigendosi
nell'Arunachal Pradesh, lo stato indiano rivendicato dalla Cina col
nome di Tibet meridionale. Dagli anni Cinquanta, la Cina ha
costruito oltre 20 mila dighe di altezza superiore ai 15 metri, tra
cui la più grande centrale idroelettrica del mondo: la diga delle
Tre Gole sul fiume Azzurro. Nulla in confronto alla Motuo, che
potrebbe essere in grado di generare tra i 40 e i 60 gigawatt di
energia, circa il triplo delle Tre Gole. L'impresa sarà tutt'altro
che semplice: la zona è molto attiva a livello sismico e c'è un
elevato rischio di frane. Ma completare l'opera avrebbe una duplice
valenza. Primo: contribuirebbe a raggiungere la neutralità carbonica
entro il 2060. Secondo: garantirebbe energia per una regione
strategica come il Tibet, che Pechino mira a stabilizzare e
assimilare anche e soprattutto attraverso lo sviluppo economico.
L'India è però preoccupata che la diga possa diventare una
straordinaria arma politica. Stando a valle, Nuova Delhi teme che
Pechino possa controllare il flusso del fiume, trattenendo o
rilasciando acqua. Con conseguenze potenzialmente notevoli su
economia, sicurezza alimentare e rapporti di forza. La Cina sostiene
di non avere intenzione di deviare l'acqua, ma questo non ha placato
le preoccupazioni dell'India, che sta lavorando a una "contro diga"
da 11 mila megawatt sul fiume Siang. L'obiettivo è creare uno
stoccaggio d'acqua sufficiente a ridurre l'impatto di una eventuale
crisi idropolitica. I rischi al confine sino-indiano sono
particolarmente accentuati, visto che l'area conserva una delle
maggiori risorse idroelettriche non sfruttate del pianeta, mentre la
tensione alla frontiera resta irrisolta. Nel giugno 2020 e novembre
2022 ci sono stati i primi scontri tra truppe dei due Paesi dal
1975, con diverse decine di morti da entrambe le parti. Prima della
parziale distensione dei giorni scorsi, Xi ha dato uno smacco a
Nuova Delhi non presentandosi al G20 indiano del 2023, e nel
frattempo lavora all'ampliamento della rete stradale nella regione e
ha fatto rinominare in mandarino alcune località sotto controllo
indiano. Modi ha previsto l'invio di migliaia di nuovi soldati, fa
costruire nuove strutture e cerca il sostegno dei mezzi tecnologici
degli Stati Uniti. Difficile immaginare che la nuova intesa, la cui
portata e tenuta restano tutte da verificare, possa cancellare
questi sviluppi ed evitarne di nuovi. Anche perché sullo sfondo,
oltre all'acqua, resta anche la spinosa vicenda della successione
del Dalai Lama, su cui sia il governo tibetano in esilio che il
Partito comunista rivendicano il diritto di scelta. Tenzin Gyatso si
trova da decenni proprio in India e negli ultimi anni è stato spesso
inviato non lontano dalla frontiera. Pechino, che lo considera un
separatista, teme che la questione possa essere usata dall'India per
creare instabilità in Tibet. Tra tutti questi ingredienti, l'acqua
potrebbe diventare il principale. D'altronde, diversi esperti
prevedono che in futuro l'accesso alle risorse idriche sarà più
importante di quello a petrolio e gas, diventando dunque il fulcro
della competizione globale tra Paesi. —
Mafia, il reggente della Cisl "Mai più un caso Ceravolo"
giuseppe legato
Dall'altroieri è il reggente della Filca Cisl Torino, sindacato
nella bufera per l'arresto poche settimane fa del rappresentante
dell'iscritto Domenico Ceravolo con l'accusa di mafia. Enzo Pelle,
segretario nazionale della sigla degli edili: «Da noi si è
verificato un problema, dobbiamo averne coscienza affinchè non
ricapiti più. Ho fatto il sindacalista di strada in territori dove
il fenomeno della ‘ndrangheta e credo che questa esperienza mi sarà
utile in una situazione come quella che si è vissuta a Torino dove –
a dire il vero, non mi aspettavo che potesse capitare. Posso
garantire che qui c'è un gruppo sano che va però aiutato ad avere
una maggiore sensibilità sul tema».
Segretario Pelle, sarà una reggenza breve o lunga?
«Non sarà una parentesi corta. Quando lascerò sarà perché sono
convinto che gli obiettivi che ci eravamo prefissati saranno stati
raggiunti. Tutti».
Ecco, che obiettivi ha fissato per superare questo momento?
«Ritrovare maggiore attenzione su comportamenti, linguaggi e
valutazioni delle persone e dei comportamenti da adottare quando ci
sono situazioni dubbie».
Cosa ha detto ai suoi operatori?
«Che dobbiamo stare più attenti. Che metteremo mano al regolamento
se necessario e cambieremo alcune cose. Oltre alla qualità del
nostro servizio ai lavoratori e ai loro diritti ci vuole una cura
particolare dopo quanto avvenuto».
Mettere mano al regolamento per fare cosa, ad esempio?
«Per pretendere il certificato dei carichi pendenti, ad esempio, di
chi lavora per noi».
Basterà?
«Organizzeremo dei corsi, dei seminari, degli aggiornamenti con
esperti della lotta alla mafia che ci aiutino a sviluppare».
Conosceva Ceravolo?
«L'ho conosciuto durante qualche occasione istituzionale del
sindacato».
Non abbastanza da farsi un'idea sua?
«Era una persona molto taciturna. E quando uno non parla molto non è
facile nemmeno per un occhio allenato come il mio cogliere anche
solo una stranezza. Ne ho parlato oggi (ieri per chi legger) con i
nostri operatori».
Come glielo hanno raccontato?
«Come un lavoratore preparato ed efficiente sui cantieri, non
particolarmente forte sul tesseramento al contrario di quanto ho
letto su alcuni giornali e che aveva manifestato qualche fragilità
economica».
Il sindacato sosteneva per Ceravolo spese di un certo rilievo. Dai
contributi per le utenze, ai viaggi per la Calabria per testimoniare
a un processo, ai telefoni. Benefit concessi a tutti gli operatori?
«Non tutti. Diciamo che qualcuno ha fatto qualche concessione in più
a Ceravolo credo per gli stessi motivi di cui ho parlato sopra.
Ecco, bessuno ha letto che dalle debolezze di questa natura possono
nascere comportamenti non corretti».
Ovvero?
«Un gesto di aiuto nella assoluta ignoranza della presunta seconda
vita che è venuta fuori dall'inchiesta».
Che però – in ipotesi d'accusa esisteva ed era inquietante.
«Ha turbato anche noi. Detto ciò nel nostro sindacato non vi è
alcuno spazio per ambiguità».
25.10.24
L'incidente nello stabilimento della Toyota Material Handling alla
periferia di Bologna Lo scoppio causato da un compressore. Oggi era
previsto uno sciopero per la sicurezza
Noemi, una dipendente
"
Esplode il capannone "Un boato, poi l'inferno" Due morti e undici
feriti FILIPPO FIORINI
BOLOGNA
Un compressore industriale è esploso e due operai, lo specializzato
Fabio Tosi e Lorenzo Cubello, sono morti. Undici loro colleghi sono
rimasti feriti e, tra questi, uno è in gravi condizioni.
Erano le 17,15 di ieri. Il secondo turno giornaliero alla Toyota
Material Handling Italia era trascorso per metà ed erano in servizio
circa 300 delle 850 persone impiegate in questa ditta che produce
carrelli elevatori alla periferia di Bologna e che pubblicamente
vantava una qualità del lavoro straordinaria. In realtà, però,
questo non è il primo incidente a verificarsi nello stabilimento e
oggi era previsto uno sciopero per chiedere maggiore sicurezza. Lo
scoppio, udito fino a 10 km di distanza, capace di infrangere le
vetrate degli edifici circostanti e paragonato a «una bomba» o a «un
terremoto», ha spezzato un pilastro portante che ha poi trascinato
con sé il tetto del magazzino, facendolo crollare.
La prima di queste due nuove morti bianche è stata istantanea. La
seconda, invece, è avvenuta durante il trasporto in ospedale con
l'elisoccorso, intervenuto insieme a una decina di ambulanze, mezzi
dei Vigili del Fuoco, Carabinieri e Protezione Civile. Il personale
di sicurezza ha scavato per tutta la notte e continua a farlo anche
in queste ore, ma viene dato praticamente per certo che non ci siano
dispersi. Fatta eccezione per il ferito grave, i restanti 10
dipendenti non sono in pericolo di vita. Molti di loro erano a una
notevole distanza dal luogo dell'incidente e sono rimasti feriti dai
frammenti delle cose rotte dall'onda d'urto.
La fabbrica è uno stabilimento moderno, in cui i muletti vengono
assemblati in catene di montaggio automatizzate, con attrezzi
azionati ad aria compressa dagli operai. I compressori sono in un
reparto separato e proprio qui si è consumata la tragedia.
Soccorritori appena usciti dal luogo del disastro riferiscono che
l'architettura è collassata su sé stessa, ammucchiando macerie di
metallo e laterizi a livello del suolo. Con le indagini appena
incominciate, le ipotesi sulle cause si dividono tra il difetto di
fabbricazione del macchinario, la cattiva manutenzione o un utilizzo
inappropriato. Anche se manca l'ufficialità, è probabile che la
Procura apra a breve un fascicolo per omicidio colposo.
Fatto sgomberare l'impianto, le maestranze si sono assembrate ai
cancelli insieme ai famigliari di chi ancora era irreperibile e i
residenti dei dintorni, venuti a sincerarsi delle ragioni del boato.
«È un macello, è esplosa l'azienda. È crollato il tetto, sono
crollati gli uffici, è successa una cosa assurda», ha detto uno dei
dipendenti, che sulle prime ha riferito dell'esplosione di una
bombola di metano e che come molti compagni è rimasto sul posto a
lungo, nonostante il diluvio.
Una collega, invece, ha paragonato l'esplosione a «un terremoto». «È
andata via la corrente, un rumore fortissimo, siamo corsi tutti
fuori e ci hanno detto che c'era odore di gas e dovevamo scappare.
Siamo usciti in strada e ci hanno portato in mensa».
Inoltre, la donna, impiegata a tempo determinato, ha raccontato che
«qui ci sono sempre problemi, soprattutto alla linea 1. In molti si
sono già fatti male». Proprio per questo, oggi erano previste due
ore di sciopero. Adesso i sindacati Fim, Fiom e Uilm hanno indetto
otto ore di sciopero per domani. Gian Pietro Montanari della
Fiom-Cgil, ha spiegato che «questa non è l'azienda peggiore del
mondo, però bisogna chiarire se c'è stata una corretta manutenzione
o meno». Due anni fa, per esempio, la Toyota Italia aveva annunciato
una riduzione dei turni giornalieri a 7 ore, senza ridurre le buste
paga. Il sindacalista, però, ha ricordato anche che in passato si
era scioperato perché ai lavoratori erano stati assegnati dei nuovi
attrezzi non ancora collaudati. Inoltre, si era propagato un
incendio nel reparto verniciatura, senza conseguenze per le persone,
un epilogo che stavolta è stato molto peggiore.
Nichelino, la donna, ottantenne, è affetta da demenza senile, deve
essere assistita costantemente L'Utim denuncia: "Situazione assurda:
hanno detto no al contributo per pagare la retta di 3 mila euro"
"È malata grave, ma non è urgente" L'Asl nega l'aiuto per stare
nella Rsa
erika nicchiosini
Maria è una signora quasi ottantenne di Nichelino. Da marzo dello
scorso anno è ricoverata in una Rsa del territorio, la Debouchè,
perché la sua demenza senile grave non le permette di compire
semplici azioni quotidiane come mangiare o stare seduta da sola. Ciò
nonostante, secondo l'Asl To5 e il Cisa12, i servizi sanitari e
sociali a cui fanno riferimento diversi comuni della cintura sud di
Torino, non ha diritto a nessun contributo economico nel pagamento
della retta della Rsa: oltre 3 mila euro mensili.
Una spesa che con il tempo sta diventando insostenibile, e che il
marito Giuseppe Araudo affronta facendo affidamento sulla sua
pensione e sui risparmi di una vita pur di garantire alla moglie
cure e assistenza adeguate. Dice: «Non so per quanto tempo ancora
riuscirò ad affrontare le spese: è una situazione pesantissima». E
c'è già chi parla di «Cortocircuito burocratico». Motivo? Nonostante
un quadro clinico molto grave, che ha ottenuto dalla Commissione di
valutazione geriatrica, di Asl e servizi sociali un punteggio
sanitario di 13 su 14 – corrispondente a una «non autosufficienza di
alto grado con necessità assistenziali e sanitarie elevate», alla
malata è stata assegnata una valutazione «non urgente». Di qui lo
stop all'aiuto economico.
La situazione è stata intercettata dall'Utim - Unione per la tutela
delle persone con disabilità intellettiva - attraverso lo Sportello
diritto alle cure. «Questo ha confinato la signora in una lista di
attesa con tempi di risposta fino a un anno – spiega il referente di
Nichelino, Giuseppe D'Angelo - La paziente, costretta a letto e
incapace persino di mantenere la postura seduta, vede compromesso il
suo diritto alla salute».
Secondo l'Utim e D'Angelo, che chiedono l'intervento delle
istituzioni, non sarebbe una situazione isolata: «E le famiglie
continuano a sopportare il peso economico e psicologico di
un'assistenza tutta privata, con la probabilità di cadere in povertà
e dover poi chiedere aiuto ai Servizi sociali del Comune».
Intanto l'Asl To5 precisa che la gestione degli anziani non
autosufficienti «segue precise normative», che prevedono la
valutazione non solo sanitaria ma anche sociale del paziente. «Nel
caso specifico, è stata attribuita una fascia assistenziale alta, ma
con priorità "non urgente", il che significa che l'accesso al regime
convenzionato potrebbe avvenire entro luglio 2025. Salvo un
eventuale peggioramento». Intanto, però, il signor Giuseppe Araudo
non sa più come fare.
24.10.24
CHI LI AVEVA COMANDATI ?
li scontri del 23 febbraio scorso. L'accusa: eccesso colposo di
legittima difesa e lesioni lievi
Dieci agenti sotto inchiesta a Pisa per le cariche contro gli
studenti
Pino Di Blasio
PISA
Sarebbero 10 i poliziotti indagati dalla procura di Pisa per gli
scontri e le cariche contro gli studenti durante il corteo pro
Palestina del 23 febbraio.
Le accuse a loro carico sono eccesso colposo di legittima difesa e
lesioni lievi. Sono stati i sindacati della polizia a rivelare
l'inchiesta aperta sugli agenti di polizia. Valter Mazzetti,
segretario generale del sindacato Fsp Polizia, parla di 6 agenti
indagati per «una manifestazione niente affatto pacifista,
l'ennesimo caso di agenti accusati per essere stati aggrediti mentre
facevano il proprio dovere». Tra i poliziotti sotto inchiesta ci
sarebbero anche agenti della mobile di Firenze e i responsabili
della sicurezza a Pisa. Dopo la manifestazione e gli scontri, il
diluvio di polemiche che si scatenò sulle forze dell'ordine portò
anche al trasferimento del questore di Pisa, Sebastiano Salvo,
"dirottato" alla questura di La Spezia. A febbraio 7 poliziotti in
servizio durante il corteo, si autoidentificarono in procura. I
magistrati hanno acquisito i filmati delle telecamere cittadine e
anche i video girati dalla polizia scientifica.
Il momento più caldo quel 23 febbraio fu la carica di una dozzina di
agenti che volevano impedire al corteo degli studenti di entrare in
piazza dei Cavalieri, dove ha sede la prestigiosa Scuola Normale
superiore. Dieci mesi fa, a criticare il comportamento degli agenti
fu per primo il presidente della Repubblica Mattarella: «I
manganelli contro i giovani sono un fallimento» scrisse nella nota
inviata al ministro dell'Interno Piantedosi. Ma anche il sindaco
leghista di Pisa, Michele Conti, contestò le forze dell'ordine,
definendosi «profondamente amareggiato». Oggi invece la Lega, con
l'eurodeputata Susanna Ceccardi e il parlamentare pisano Edoardo
Ziello, è dalla parte degli agenti. «Sono convinta che stessero
cercando, tra molte difficoltà - ha dichiarato Susanna Ceccardi - di
tutelare la sicurezza pubblica e che siano stati aggrediti, visto
che si parla appunto di legittima difesa. Io sto dalla parte dei
poliziotti anche e soprattutto in questo momento di difficoltà.
La rete mondiale delle spie al servizio degli ayatollah da Israele
fino a Washington
Fabiana Magrì
Si moltiplicano i casi di spionaggio ai danni di scienziati e di
figure chiave dell'establishment politico e militare israeliano con
la regia di Teheran e con cittadini israeliani nel ruoli di agenti
segreti. Nel giro di pochi mesi, lo Shin Bet ha declassificato una
serie di complotti. Cinque da settembre, due solo questa settimana.
L'ultimo, ieri, quando sono emersi sui media israeliani i dettagli
di un'ulteriore rete di spie arrestata da servizi segreti interni e
polizia, circa un mese fa.
Si tratta di sette persone, questa volta palestinesi di Gerusalemme
Est con lo status di cittadini o residenti permanenti israeliani.
Gli investigatori li hanno pedinati per un mese e mezzo. Le accuse
sono di spionaggio per l'Iran e di pianificazione di attacchi in
Israele per conto della Repubblica islamica. Le autorità hanno
ricostruito come il capo banda, il ventitreenne Rami Alian, sia
stato reclutato direttamente da un agente iraniano e abbia poi
provveduto a coinvolgere gli altri sei. «Non sono stati aiutati da
un intermediario turco, come è accaduto in casi precedenti – ha
spiegato ai media un poliziotto – ma hanno utilizzato altri mezzi,
su cui non possiamo fornire informazioni».
La squadra messa su da Alian era composta da giovani tra i 19 e i 23
anni, senza pendenze penali, tutti amici fra loro e residenti nel
quartiere di Beit Safafa. Dopo un periodo di rodaggio, ha spiegato
ad Haaretz un funzionario della sicurezza, le missioni assegnate dai
contatti iraniani sarebbero diventate «azioni di sabotaggio più
serie». Missioni eseguite per soldi, ma non solo. Le autorità hanno
sottolineato, in questo caso e per la prima volta, il movente anche
ideologico. «Sono orgoglioso che un iraniano si sia rivolto a me»,
avrebbe detto Alian durante l'interrogatorio.
Tra missioni portate a termine e altre messe in cantiere, le
richieste andavano da lanciare una granata a mano contro un agente
di sicurezza israeliano (non compiuta), fotografare un centro di
ricerca (presumibilmente compiuta) e assassinare il sindaco di una
grande città nel centro di Israele o, in cambio di 200 mila shekel
(50 mila euro), uno scienziato nucleare. I preparativi erano già
iniziati. Informazioni sull'obiettivo, sulle sue abitudini
quotidiane e sugli spostamenti abituali erano state raccolte. Ma la
cellula è stata arrestata prima che potesse procedere.
Anche negli Stati Uniti c'è profonda preoccupazione per la
divulgazione clandestina – una settimana fa sul canale Telegram
Middle East Spectator – di due rapporti di intelligence analitica
che descrivono nel dettaglio i preparativi di Israele per l'attacco
di rappresaglia all'Iran. L'Fbi sta indagando, a stretto contatto
con il Dipartimento della Difesa e l'Nsa, sotto lo sguardo del
presidente Joe Biden. Domenica il Pentagono ha confermato che i
documenti top secret dati in pasto al pubblico, compilati dalla
National Geospatial-Intelligence Agency e dalla National Security
Agency, sono reali. Una cosa sembra chiara ad Alon Pinkas,
diplomatico ed analista israeliano: «la piattaforma scelta (il
canale Telegram Middle East Spectator, ndr) indica che questa
probabilmente non è stata una fuga di notizie deliberata degli Stati
Uniti per fare pressione su Israele o allertare l'Iran».
Lo scenario in effetti sembra molto più intricato. Sky News Arabic
ha citato una fonte del Pentagono che sostiene che dietro la fuga di
notizie ci sia un membro senior dello staff dell'ufficio del
Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin. La testata
con sede ad Abu Dhabi avrebbe identificato la "gola profonda" come
Ariane Tabatabai, una iraniana americana già interessata da uno
scandalo sollevato a ottobre del 2023 dalla testata online Semafor,
dal canale tv in lingua farsi con sede a Londra Iran International e
dalla rivista ebraica Tablet Magazine. Una serie di e-mail del
governo iraniano, intercettate e verificate un anno fa, avevano
dimostrato che l'allora inviato iraniano (poi sospeso)
dell'amministrazione Biden, Robert Malley aveva aiutato a
«infiltrare l'agente iraniano» Tabatabai in alcune delle posizioni
più delicate del governo degli Stati Uniti, prima al Dipartimento di
Stato e poi al Pentagono, dove ha avuto accesso a informazioni molto
riservate. «Questa storia non è vera», smentisce sulla piattaforma X
la corrispondente per la sicurezza nazionale di Fox News, Jennifer
Griffin, dopo aver parlato con funzionari del Dipartimento della
Difesa e con la stessa sospettata.
XI E PUTIN : Lo Zar celebra la partecipazione di 36 Paesi al
summit. Domani forse l'incontro con Guterres
"I Brics siano il motore del Sud globale" Putin e Xi si ritrovano da
vecchi amici
giuseppe agliastro
mosca
Contrastare l'immagine di una Russia isolata a livello
internazionale e cercare di allargare le proprie relazioni
economiche: gli esperti sembrano concordi sugli obiettivi del
Cremlino per il vertice dei Paesi Brics iniziato ieri in Russia,
nella città di Kazan. Un vertice che durerà tre giorni e che si
svolge nel pieno delle tensioni tra Mosca e Occidente per
l'aggressione militare contro l'Ucraina. E con Putin nella lista dei
ricercati della Corte penale internazionale. Il presidente russo ha
iniziato con un abbraccio a favore di telecamera con il premier
indiano Narendra Modi. Poi ha incontrato i leader di Sudafrica e
Cina. E ha colto ancora una volta l'occasione per mostrarsi
pubblicamente in sintonia con Pechino. «Le relazioni russo-cinesi
sono diventate un modello», ha detto Putin a Xi Jinping chiamandalo
«caro amico» e aggiungendo che vuole rafforzare queste relazioni «su
tutte le piattaforme internazionali per garantire la sicurezza
globale e un ordine mondiale giusto». Parole a cui Xi ha risposto
lodando «la profonda amicizia» tra Russia e Cina in una «situazione
internazionale caotica».
Quello in corso a Kazan è il primo vertice Brics da quando Iran,
Egitto, Etiopia e Emirati Arabi si sono uniti a Brasile, Russia,
India, Cina e Sudafrica in un gruppo che ora rappresenta il 45 per
cento della popolazione e il 35 per cento del Pil mondiali. Stando
alle autorità russe, sulle rive del Volga si incontrano i
rappresentanti di 36 Paesi, tra cui 22 capi di Stato. E secondo
alcuni si tratterebbe del più grande evento diplomatico in Russia da
quando le truppe di Putin hanno invaso l'Ucraina attirando su Mosca
sanzioni su sanzioni da parte dell'Occidente.
I Paesi Brics sono molto eterogenei e a volte hanno interessi
contrastanti. Alcuni hanno buone relazioni coi Paesi occidentali,
altri meno. L'India è in stretti rapporti sia con gli Stati Uniti
sia con Mosca, da cui importa armi ma anche grandi quantità di
petrolio a prezzo scontato. E, come la Cina, cerca di proporsi come
possibile mediatrice per mettere fine alla guerra in Ucraina.
«Sosteniamo totalmente gli sforzi per ripristinare rapidamente la
pace e la stabilità», ha ripetuto ieri il premier indiano Modi dopo
aver abbracciato Putin, che nei prossimi giorni dovrebbe incontrare
anche Erdogan, il presidente della Turchia, che non esclude un
proprio ingresso nel gruppo delle economie "emergenti", e
probabilmente anche il segretario generale dell'Onu Guterres.
Al summit sono previste anche discussioni per la possibile creazione
di un nuovo sistema di pagamenti globale, una sorta di alternativa
al sistema Swift, dal quale la Russia è stata tagliata fuori dopo
che i suoi carri armati hanno invaso l'Ucraina. —
Il report di Cittadinanzattiva : crescono gli italiani che
rinunciano alle cure
Incubo liste d'attesa si aspetta 480 giorni la visita oncologica
Paolo Russo
Mentre il Governo con la manovra lascia pochi spicci alla sanità,
appena 1,2 miliardi "lordi" contro i 4 richiesti dal ministro
Schillaci, cresce la quota di cittadini che denunciano di essere
rimasti intrappolati nelle liste di attesa: più 2,8% rispetto al
2022, +8,6% sul 2021. E oramai quasi un terzo delle segnalazioni di
disservizi, il 32,4%, fa riferimento al mancato accesso alle
prestazioni, mentre il 9% delle donne, il 6,2% degli uomini rinuncia
alle cure, denuncia il Rapporto civico sulla Salute di
Cittadinanzattiva presentato ieri a Roma. Complessivamente oltre il
7% della popolazione fa a meno di visite e accertamenti diagnostici
non tanto per la difficoltà a pagare il conto quanto per i tempi
biblici di attesa che spingono sempre più assistiti verso le braccia
del privato. Questo dato «mostra che avevamo ragione a intervenire
sulle liste d'attesa», ha affermato il ministro della Salute Orazio
Schillaci, il quale ha annunciato che a breve saranno varati i
decreti attuativi della legge sulle liste d'attesa. A cominciare da
quello che specifica come e quando scatteranno i poteri sostitutivi
del ministero delle Salute in caso le Regioni risultino inadempienti
nell'applicare le misure "taglia-coda". In attesa di vedere se il
decreto varato prima delle elezioni europee produrrà qualche effetto
la situazione delle liste d'attesa resta da codice rosso. Anche nel
2024, spiegano da Cittadinanzattiva, visto che le segnalazioni sui
tempi massimi non rispettati continuano ad arrivare numerose ogni
giorno e in costante crescita rispetto a un 2023 che è già da
incubo. Perché tanto per cominciare il 31,1% degli incagliati nelle
liste di attesa denunciano il fatto di non aver proprio avuto un
appuntamento essendosi trovati davanti agende bloccate. Pratica
fuorilegge ma che in molte Asl evidentemente la fa ancora da
padrona. Prima ancora di sentirsi dare appuntamento a un anno di
distanza c'è poi da superare lo scoglio del Cup, che il 20% di chi
ha denunciato un problema di accesso alle prestazioni ha avuto
difficoltà a contattare. Superati questi due ostacoli poi i tempi
restano biblici. Perché saranno anche quelli denunciati da chi ha
avuto da lamentarsi, ma non è facile farsi una ragione di una visita
di controllo oncologica fissata a 480 giorni di distanza. Così come
è difficile accettare che per asportare chirurgicamente un tumore
alla prostata anziché 30 giorni come da codice di priorità riportato
nella richiesta medica si debba invece attendere 159 giorni. Una
delle specialità per cui la pazienza è d'obbligo è l'oculistica,
tanto che per un controllo della vista si arriva ad attendere 468
giorni contro i 120 previsti per una prestazione con codice di
priorità P, ossia "programmabile".
Peggio ancora va per gli accertamenti diagnostici. Per un ecodoppler
dei tronchi sovraortici si può anche dover attendere circa un anno e
mezzo, per l'esattezza 526 giorni. Per una spirometria c'è chi ha
dovuto pazientare 266 giorni nonostante sulla ricetta campeggiasse
le lettera D delle prestazioni differibili, ma non oltre 60 giorni.
Con lo stesso codice di priorità si sono dovuti attendere invece 300
giorni tondi tondi per ottenere una tac della colonna nel tratto
lombosacrale.
Che con queste tempistiche sempre più italiani rinunci alle cure lo
conferma anche il calo delle prestazioni erogate, che nel 2023 sono
state l'8% in meno dell'anno precedente. Con forti differenze
regionali però, passando del -2% di Toscana e Lombardia al -25%
della Sardegna e '27 e meno 28% di Valle d'Aosta e Alto Adige.
Male anche l'assistenza territoriale, l'altro fianco scoperto del
nostri Ssn, con il 14,1% delle segnalazioni di disservizi, dato in
crescita di oltre il 5% rispetto all'anno precedente.
23.10.24
La rabbia degli agenti italiani di Gjader "Manca anche lo spazzolone
del water" Eleonora Camilli
Roma
I 12 migranti (7 bengalesi e 5 egiziani) portati a Shengjin e poi,
per ordine del tribunale di Roma, riportati in Italia, sono ancora
confusi, non hanno capito fino in fondo di essere stati, loro
malgrado, gli sfortunati pionieri del progetto Albania. Ma almeno
stanno bene, hanno ricevuto finalmente l'informativa legale e
incontrato gli avvocati che si occuperanno degli eventuali ricorsi.
Un'impresa non facile come spiega uno dei legali, Gennaro Santoro:
«Per poter parlare col mio assistito ho dovuto fare reclamo ai
Garanti, inviare numerose pec al ministero dell'Interno, chiedere a
parlamentari di intervenire. Continuano a mettere ostacoli nella
speranza di non far presentare ricorso al Tribunale contro il
diniego dell'asilo politico - afferma - Perché sanno che il rigetto
della commissione è illegittimo». L'esame in terra albanese delle
domande di protezione potrebbe, infatti, essere considerato nullo.
Non solo la commissione territoriale chiamata a giudicare, e scelta
dal Viminale, non ha all'interno alcun rappresentante dell'Alto
commissariato per i rifugiati (Unhcr), ma la sua decisione rientra
nelle procedure accelerate di frontiera che, a quanto hanno deciso i
giudici romani, non potevano essere applicate perché i 12 non
provengono da Paesi sicuri.
Per ora, dunque, i migranti restano ospitati nel Centro di
accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Bari Palese in un limbo
giuridico. Ma la loro situazione non è l'unico cruccio del governo,
che ora ha a che fare anche con le proteste del personale della
polizia penitenziaria, spedito al di là dell'Adriatico, e ora sul
piede di guerra. «I nostri uomini non solo non possono godere della
sistemazione alberghiera come tutti i colleghi delle altre forze di
polizia e armate in Albania, ma addirittura vengono oltraggiate le
specifiche previsioni contrattuali che li tutelano», tuona Gennarino
De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa polizia
penitenziaria che già lo scorso 17 ottobre, con una lettera, aveva
sollevato la questione. E aggiunge: «Se l'amministrazione
penitenziaria e lo Stato non dimostrano il minimo rispetto per le
donne e gli uomini in divisa che li rappresentano, non osiamo
immaginare il trattamento che potrebbe essere riservato ai migranti.
Mai ne arrivassero».
In totale, sono 45 gli agenti della polizia penitenziaria chiamati
in servizio nella terra delle aquile. Il loro compito è occuparsi
del carcere costruito a Gjader, con 24 posti letto, dove dovrebbero
essere inviati i migranti che commettono reati nel periodo di
trattenimento. Ma la paura degli agenti è che il pasticcio
politico-giudiziario sul protocollo Italia-Albania lasci le
strutture vuote ancora per un bel po'. Non solo, ma c'è anche la
questione economica. Per tutto il personale, dagli agenti
penitenziari ai poliziotti, carabinieri, finanzieri, chiamati in
missione a Gjader è previsto un aumento in busta paga di circa cento
euro al giorno. Che tradotto vuol dire novecentomila euro al mese,
solo per gli indennizzi di trasferimento di trecento unità.
Spese folli, per un Cpr (centro per il rimpatrio) e un carcere
vuoti. E su cui grava una questione giuridica di diritto ancora
sospesa. Gli agenti della penitenziaria si lamentano anche degli
alloggi: prefabbricati a cui si accede con una scala metallica
interna, senza elementi di arredo basilari, dalla tv allo spazzolino
per il water. «È tutto paradossale» ripetono mentre sono in attesa
degli altri colleghi e dei migranti. Semmai arriveranno. —
I BRICS CONTRO L'OCCIDENTE CON CINA E RUSSIA ALLEATI : L'ultima
sfida dei Brics al potere Usa un circuito finanziario anti-sanzioni
Stefano Stefanini
In quindici anni di vita i Brics hanno combinato poco o niente. Al
vertice che si apre oggi a Kazan, dalla Russia senza amore, ci
provano facendo massa critica, arruolando un'ampia ancorché
diseguale partecipazione di leader mondiali, avanzando propositi
ambiziosi – addirittura di lanciare un'alternativa al dollaro come
mezzo di pagamento internazionale. Per il momento quest'ultimo
obiettivo rimarrà nel mondo dei sogni, ma fa da contrappunto
politico all'80esimo anniversario degli accordi di Bretton Woods che
ricorre, in parallelo, nelle riunioni autunnali del Fondo Monetario
Internazionale e della Banca Mondiale in corso questa settimana a
Washington.
I Brics presenti oggi a Kazan superano l'Occidente in Pil (37% di
quello mondiale), popolazione (circa metà dell'umanità) e
territorio. Non sono tuttavia in grado, oggi, di sfidare gli Stati
Uniti e l'Occidente, non perché, messi insieme, non abbiano appunto
risorse, tecnologie e capacità militari (e nucleari) per sostenere
il confronto. Non solo perché divisi, se non rivali, e non omogenei
fra loro ma perché hanno a bordo partecipanti che, senza alcuna
intenzione di diventare fisiologici antagonisti dell'Occidente,
trovano condizioni propizie a tenere il piede in due staffe. Come la
Turchia anche (e soprattutto) in quella della Nato, l'India in
quella del Quad anti-Cina (Usa, Australia, Giappone, India), gli
Emirati ospitando una base militare Usa. L'elenco delle acrobazie
potrebbe continuare, con la grossa eccezione dei due grandi registi
del gruppo, ben schierati sul fronte (anti)occidentale: Cina e
Russia. Ai quali i Brics servono come importante cassa di risonanza
internazionale che faccia da contraltare all'Occidente e ai vari
formati con i quali si presenta – G7, Nato, Ue, Ocse – ma,
soprattutto, al detestato "ordine liberale internazionale". Qui
però, Pechino e Mosca trovano terreno più fertile.
L'insofferenza verso un ordine mondiale e valoriale disegnato
esclusivamente dall'Occidente, talvolta percepito come scia del
colonialismo, spesso accusato di usare due pesi e due misure, fa da
collante ideologico all'intero gruppo dei Brics, per eterogeneo che
sia. E non va sottovalutato. Ma, per quanto possa essere una leva
nelle votazioni alle Nazioni Unite – il cui Segretario Generale
António Guterres è presente a Kazan – di qui a sfidare a tutto campo
l'Occidente deve passare molta acqua sotto i ponti. Molta meno,
però, se il vertice è visto nell'ottica del padrone di casa: non per
lanciare un nuovo ordine mondiale o un'alternativa al sistema di
pagamenti Swift, ma per puntellare la strategia russa volta a
isolare internazionalmente l'Ucraina, tagliando l'erba sotto i piedi
ai tentativi di Volodymir Zelensky di raccogliere consensi
internazionali per il proprio piano di "pace". Con la
partecipazione, per la prima volta, dell'Iran, esiste a questo
vertice uno zoccolo duro filorusso, al quale alcuni partecipanti
(come il Kazakhstan) si allineano non per scelta, ma per necessità
geografica. Basta che il resto della palude Brics non si opponga – e
non lo farà.
Vladimir Putin non ha lasciato nulla al caso. A Kazan, capitale del
Tatarstan, egli gioca in casa, si affaccia sulla sua Eurasia, a metà
strada fra Mosca e gli Urali, trova un palcoscenico mondiale e
approfitta dell'interregno a Washington, dove un leader è al
crepuscolo e due, potenziali, in un duello all'ultimo sangue, nonché
del vistoso vuoto europeo, fra leader nazionali deboli e tempi
biblici dei passaggi di consegne a Bruxelles – dove la nuova
Commissione e il nuovo Presidente del Consiglio Ue prenderanno le
redini sei mesi dopo le elezioni europee. Sarà affiancato dall'amico
senza limiti, Xi Jinping. Il parterre, pur con qualche assenza
eccellente (Lula da Silva rappresentato però dal Ministro degli
Esteri brasiliano): Narendra Modi (India), Recep Tayyip Erdogan
(Turchia), Cyril Ramaphosa (Sudafrica), Abdel Fattah al Sisi
(Egitto), Masoud Pezeshkian (Iran). Non manca il guasatefeste
balcanico, Milorad Dodik, a rappresentare "l'entità serba" della
Bosnia. Quando mai le circostanze sono state così favorevoli a
rafforzare la statura internazionale di Mosca? La Russia fa così da
battistrada nel lanciare il guanto di sfida all'Occidente, mentre
accudisce ai propri interessi nazionali cercando di ristabilire una
zona d'influenza esclusiva nell'ex-Urss, traguardo che il Presidente
russo insegue da tempo, come minimo dalla mini-invasione della
Georgia del 2008. Con le buone – per modo di dire – o con le
cattive.
Kazan è un vertice a due facce. Quella Brics non rappresenta il "Sud
globale", ma ne è certamente un'importante cinghia di trasmissione
che Occidente e Europa non si possono permettere d'ignorare. Per ora
molto più dichiarativa che operativa. Quella russa, ben più
operativa e ad impatto rapido, serve a creare intorno a Mosca un
bacino di consensi o benevolenze internazionali mentre Vladimir
Putin spinge sull'acceleratore con la guerra in Ucraina, con
l'interferenza nelle elezioni in Moldova e in Georgia. A Chi?in?u
gli è andata male, ma giusto per un soffio; fra il 5 novembre e il 3
dicembre sarà il turno di Tbilisi. E, chiunque entri alla Casa
Bianca, il 20 gennaio troverà il fatto compiuto. —
Gli 007 confermano l'arrivo in Russia, sarebbero 10 mila. Da
Washington altri 400 milioni a Kiev
Soldati nordcoreani diretti in Ucraina Seul chiede di bloccarli, è
crisi con Mosca
giuseppe agliastro
mosca
La Corea del Sud ha convocato l'ambasciatore russo. Chiede
«l'immediato ritiro» di quelle che secondo gli 007 di Seul sarebbero
truppe nordcoreane arrivate nell'estremo oriente russo per
addestrarsi e poi essere «probabilmente» mandate a combattere in
Ucraina.
Anche Kiev nei giorni scorsi ha accusato il regime nordcoreano di
prepararsi a inviare soldati al fianco di quelli del Cremlino: 10
mila secondo il presidente ucraino Zelensky. Mosca e Pyongyang
respingono però le accuse. Mentre Usa e Nato dichiarano di non avere
al momento elementi per poterle confermare, ma si dicono
preoccupati. L'eventuale «invio di truppe nordcoreane in Ucraina per
combattere al fianco della Russia segnerebbe un'escalation
significativa», avverte il segretario generale della Nato, Mark
Rutte. Ed è dello stesso avviso il portavoce dell'Ue per gli affari
esteri, Peter Stano.
La scorsa settimana, l'intelligence di Seul ha dichiarato che tra
l'8 e il 13 ottobre delle navi militari russe avrebbero fatto
sbarcare a Vladivostok circa 1.500 soldati nordcoreani, e che altri
potrebbero arrivarne. La nuova accusa – non confermabile – arriva
circa quattro mesi dopo che i dittatori Putin e Kim Jong-un hanno
firmato un misterioso patto di cooperazione strategica a Pyongyang.
La Corea del Nord è già accusata dall'Occidente di fornire missili a
Mosca nonostante le sanzioni internazionali. Il portavoce di Putin
sostiene invece che la cooperazione con Pyongyang non sia «diretta
contro Paesi terzi».
Nelle stesse ore, il capo del Pentagono, Lloyd Austin, arrivava a
Kiev in una visita a sorpresa per ribadire il sostegno americano
all'Ucraina in un momento in cui le truppe russe sembrano guadagnare
lentamente terreno nel Donbass. Austin ha annunciato nuove armi per
400 milioni di dollari, ma non sembrano esserci novità sulle due
principali richieste di Zelensky: il permesso di lanciare in
territorio russo razzi a lungo raggio di fabbricazione occidentale e
l'invito a entrare nella Nato (e avviare un percorso che comunque
può durare anni, con gli esperti che ritengono altamente improbabile
un ingresso di Kiev nell'alleanza con una guerra in corso).
IL REPORTAGE
La furia del fiume tombato "I pozzetti saltavano via poi qui
l'asfalto è esploso"
inviato a Bologna
Sotto la chiesa di San Paolo. Sotto lo studio dell'architetto Enrico
Gieri. Sotto il garage condominiale al civico 70 di via Costa. Giù
fra i cavi elettrici, nel magazzino della pasticceria e in
corrispondenza della fermata del pullman. Il fiume Ravone passava
sotto i palazzi del quartiere Saragozza di Bologna ormai quasi
dimenticato da oltre sessant'anni, prima che saltasse fuori come una
furia dalla sua tomba di cemento.
«È incredibile quello che è successo» dice il signor Andrea
Cardinali, di mestiere geometra. «Nel giro di tre ore sono esplosi i
tombini, le auto sono partite come barche, infine si è stappato
l'asfalto e da là è incominciata a salire l'acqua a fontana». È
arrabbiatissimo. Come tutti qui. Perché quel fiume è la prova di un
tempo nuovo dentro a una politica vecchia. «Lo so che sono state
piogge straordinarie, ma ormai non si può più usare questa scusa. Il
problema è l'incuria. Arriviamo da anni di menefreghismo. Serve un
nuovo piano di manutenzione e sicurezza nazionale. Non capisco cosa
stiano aspettando ancora, spendono soldi pubblici per cose senza
senso e noi siamo nel fango».
Il Ravone era un torrente quasi senza storia. Nasce sulle pendici
del monte Paderno. È lungo in tutto 18 chilometri, segue il suo
alveo naturale fino al Reno. Ma il fatto è che per due chilometri
scorre sotto la città. Fu la decisione presa negli anni Sessanta in
ossequio al nuovo piano regolatore: bisognava costruire. Il fiume
intralciava. L'idea fu quella di murarlo vivo dentro una galleria
sotterranea di due metri per due. Ma c'era troppa acqua, l'altra
notte. Troppa acqua per quel piccolo canale di cemento. Ecco cosa
sono state quelle esplosioni assurde: i tombini che volavano in aria
e il cemento che crepitava come sopra a un magma ribollente. Era
l'acqua del Ravone. Era il fiume che si riprendeva il cielo.
L'architetto Gieri sta spalando. Spala fango, butta via cose
irrecuperabili, cerca di asciugare l'ingresso del suo studio: «Serve
un'idea. Capisco che i temporali non siano più quelli di una volta.
Ma bisogna trovare il modo di affrontare questa cosa».
Siamo alla quarta alluvione nel giro di due anni in Emilia Romagna.
Quella del 17 maggio 2023, la più devastante, quella dei diciassette
morti e dei miliardi di danni, aveva causato danni nel centro della
città. Ancora il Ravone. Ma era uscito in un punto senza tombatura e
di proprietà demaniale, all'altezza di via Saffi. Dopo quella
esondazione, il Comune ha fatto studiare il caso a un gruppo di
esperti. Sono stati eseguiti dei lavori in quel punto. E proprio in
quel punto, a questo quarto giro di tempesta, il Ravone ha tenuto. E
quindi? Se il Ravone passa sotto le case private, se il Ravone
scorre sotto negozi e uffici privati, a chi spetta prendersi cura
del tratto intombato?
Alle undici di mattina nel fango arriva il sindaco Matteo Lepore. Un
residente lo affronta a muso duro, un altro, invece, dice: «Sindaco,
siamo con te. Ma qui bisogna fare qualcosa». È successo questo:
sabato nel giro di sei ore è caduto il quantitativo di pioggia di
tutto il mese di ottobre, due volte quello dell'alluvione più
devastante. «Abbiamo dato l'allarme per tempo, tutte le persone sono
state messe in salvo. Ma il Ravone ha un alveo molto piccolo, si
riempie in fretta. La città si è allagata da sotto, non da sopra.
Servono casse di laminazione per difenderla».
Il sindaco risponde al telefono. Chiede notizie degli sfollati. Poi,
con amarezza, dice: «Su queste alluvioni sono state fate troppe
discussioni di parte, abbiamo assistito a troppi litigi
istituzionali. Non voglio attribuire colpe. Ma serve più unità,
quella che io chiamo l'unità repubblicana». Domandiamo: a che punto
sono i lavori dopo il disastro del 2023? «I progetti ci sono, ma
andrebbero finanziati. Invece mancano i soldi. Tutto va a rilento».
E sul caso del fiume Ravone intubato per fare posto ai palazzi,
simbolo della vecchia Italia del cemento? «Bisogna intervenire a
monte. Bisogna trovare un modo per non fare confluire tutta
quell'acqua sotto la città».
Il futuro, quindi. Mentre il fango è il presente, ancora una volta.
Arriva un signore quasi tremando, con un misto di stanchezza e
stupore dice al sindaco: «Sono qui dal '49. Non pensavo di vedere
una cosa del genere». Il Ravone non sta più al suo posto. Sabato
nella furia di liberarsi ha sollevato un intero garage condominiale.
Quelle auto adesso sono piantate dentro gli ingressi, sparate come
proiettili e finite accartocciate.
Quarta alluvione in Emilia- Romagna. Ci sono ancora 1600 persone
sfollate nei comuni dell'area metropolitana. La Regione chiederà
ancora lo stato d'emergenza. La presidente facente funzioni Irene
Priolo, che si trova qui al posto di Stefano Bonaccini eletto in
Europa, sceglie queste parole: «I cittadini che ho incontrato sono
disperati, ormai ben oltre l'arrabbiatura. Ci stanno chiedendo come
istituzioni di stare insieme. Questo grido d'allarme deve arrivare a
livello nazionale e fare in modo che nella prossima finanziaria ci
siano i soldi per un piano strutturale».
Sembra tutto già visto. Sono scene da un'altra ordinaria alluvione.
Ma quegli oggetti tirati fuori dalle cantine e appoggiate sui muri,
quel giradischi e quelle fotografie, sono pezzi unici perduti per
sempre.
Adesso tutti ripetono che piogge del genere non sono arginabili.
«L'acqua non si può fermare», è una delle frasi più ricorrenti. Ma
il caso del fiume Ravone, un piccolo fiume murato sotto la città di
Bologna, era già per certi versi un caso di scuola. C'è una tesi di
laurea datata marzo 2016, questo è il titolo: «Analisi del rischio
idraulico in ambiente urbano: il caso del torrente Ravone a
Bologna». Candidato, Amedeo Bracaloni. Professore, Mario Martina.
Ecco le conclusioni: «Non sembra più possibile far rientrare questi
eventi nella categoria delle calamità o delle fatalità non
prevedibili»
Il rider
nell'alluvione
Una bici, il lago in mezzo alla strada e un cubo sulla schiena.
L'uomo o la donna che pedala è una parte dell'ingranaggio. Non ha
soggettività. Se l'avesse non sarebbe certo lì, in una notte di
alluvione a Bologna, a portare una pizza Margherita a casa di
chissachì per quattro soldi. Si dirà: questo è il lavoro. È vero.
Non sempre il lavoro è gratificazione. Ma c'è lavoro e lavoro.
Sappiamo tutti che chi pedala sulle bici dei rider, il sempre più
vasto popolo del cubo, non lo fa solo per i soldi di quella corsa ma
anche per non perdere la priorità acquisita con l'algoritmo. Una
consegna rifiutata è uguale a tutte le altre, non importa che ci sia
l'alluvione. L'algoritmo registra comunque. È impersonale, non ha
coscienza. È stato scelto proprio per quello.
Nella fotografia manca un protagonista: c'è l'acqua che ha messo in
ginocchio una città, c'è il rider che pedala controcorrente, c'è il
prezioso carico che si porta sulla schiena. Non c'è chi ha messo in
moto tutto questo: l'uomo o la donna che con una telefonata ha
ordinato la pizza un quarto d'ora prima dello scatto. A differenza
dell'algoritmo, chi ha fatto quella telefonata una coscienza
dovrebbe averla. Avrebbe dovuto immaginare le conseguenze di una
chiamata sventata, fatta nella notte più buia della storia recente
di Bologna, con il sindaco che invitava gli abitanti a salire ai
piani alti delle case per salvarsi dall'onda di piena. È in questo
scenario che al signor X viene in mente di mangiarsi una bella pizza
e di farsela portare sul divano, magari guardando in tv le immagini
dell'alluvione. Ed è sempre in questo contesto che i dirigenti
locali della società dei rider hanno pensato che il servizio non va
interrotto. A nessun costo. La pizza margherita come la canzone dei
Queen: The show must go on, andare sempre avanti, a prescindere.
Ma la lunga notte dei rider nell'alluvione non è finita con il
rifluire delle acque nell'alveo dei torrenti. È proseguita la
mattina dopo, ha inondato le chat degli uomini con i cubi, dando
vita a una discussione serrata. Perché c'è cubo e cubo. I pedalatori
di Just Eat sono gli unici ad avere un contratto da lavoratori
dipendenti. Con condizioni e norme precise. Infatti l'altra sera non
lavoravano: «Lo impedisce l'accordo», spiega Carlo Parenti della
Filt Cgil che ieri stava preparando un esposto contro gli altri
gestori delle piattaforme come Deliveroo, quella del ciclista con la
divisa azzurra della famosa fotografia. Nel contratto di Just Eat
anche il pluviometro è materia sindacale: con più di 5 millimetri di
pioggia in un'ora, con 8-12 millimetri in tre ore, con più di 16 in
sei ore, i rider si fermano. «L'altra sera sono scesi 160
millimetri». Dunque in quel caso non c'era bisogno di contratti: per
fermarsi bastava il buon senso.
La discussione tra gli uomini del cubo è tutta sui confini di quel
consenso. Perché affrontare le ondate di piena rischiando la vita?
Daremo un nome di fantasia alla risposta di Michele, innervosito
dalle critiche dei colleghi di pedalata: «Nessuno mi ha obbligato.
Ho scelto io di farlo. Sono io che rischio e sono io che so fin dove
mi posso spingere. Chi non se la sentiva poteva restare a casa».
Quasi mai il mondo è bianco o nero. Viviamo, chi più chi meno,
nell'area grigia del compromesso. Così non pochi lavorano come
dipendenti per Just Eat e arrotondano, nel tempo libero, con le
altre piattaforme. Michele è uno di loro. Ha pedalato nell'acqua
perché quella sera, in mezzo all'alluvione, i rider disposti a
lavorare erano meno e la consegna veniva pagata di più.«È il
mercato, bellezza», avrebbe commentato Humphrey Bogart.
Di tutto questo noi clienti sappiamo quasi nulla. Non immaginiamo
neppure che esista questo mondo con le sue regole e contraddizioni.
Ma sappiamo una cosa semplice: con l'alluvione non si lavora in
bicicletta. Sembra banale. Anche se l'algoritmo non si ferma, gli
umani dovrebbero farlo. Purtroppo la scelta dell'uomo sul divano
come quella dei dirigenti delle piattaforme che non si sono fermate
è stata compiuta da persone con un'anima e una coscienza. Ognuno è
individualmente responsabile delle sue decisioni. Non prendiamocela
con l'algoritmo.
l'inchiesta
Interrogata a roma la moglie dell'ex ministro sangiuliano "Ti mando un documento
riservato, puliscilo" Quel filo diretto tra il militare e l'uomo di
Musk
Boccia indagata per truffa immobiliare a Pisa
Antonio Masala
Andrea Stroppa
irene famà
roma
Da un lato del telefono c'è Andrea Stroppa, il braccio destro di
Elon Musk in Italia, che al progetto Starlink ci tiene davvero: «Sto
contribuendo per fare una cosa bella…fatta bene...per il Paese».
Dall'altro lato del cellulare parla il "suo" riferimento nel
ministero della Difesa Antonio Masala. L'ufficiale di Marina punta
agli affari, a concludere in fretta ogni trattativa anche a costo di
far trapelare carte top secret. «Andrea, è importante che questa
cosa non circoli perché è un documento del Ministero… È veramente
riservato, interno. Ti chiedo di pulirlo te, io non ho modo di
farlo». Le intercettazioni dell'inchiesta della procura di Roma per
corruzione, con una raffica di persone e società indagate,
raccontano di una lunga serie di gare truccate nella pubblica
amministrazione. Per favorire questo o quell'amico, questa o quella
società.
Interessi tra i più svariati. A iniziare da quelli che l'ufficiale
di Marina aveva in Starlink, connessione internet satellitare
ovunque sviluppata dall'azienda spaziale SpaceX. In estate, si
discute sull'utilizzo del progetto sia a scopi militari sia civili.
Il ministero della Difesa vuole dotarsi del sistema satellitare e,
lo scorso 30 luglio, l'ufficio di Gabinetto indice una riunione
tecnica. Forte del suo ruolo, l'ufficiale di Marina partecipa
all'incontro. E i suoi obiettivi, secondo quanto ricostruito dagli
inquirenti, sono diversi. Vuole, si legge nell'informativa della
Guardia di finanza, «far riconoscere, dai massimi livelli
istituzionali coinvolti, un ruolo al VI Reparto dello Stato Maggiore
Difesa nell'iter di pianificazione e implementazione del progetto».
E vuole guadagnarci. Socio occulto, tramite la moglie, della società
di informatica Olidata, cerca spazi e accordi per la Spa.
L'ufficiale Masala contatta l'ex hacker Andrea Stroppa. Con cui, si
legge negli atti, ha «opache interazioni». Gli propone di «lavorare
insieme». Cerca di dettare i tempi. Gli spiega che «se saranno
veloci, entro l'anno potrebbero riuscire a fare un accordo per tutto
il Paese. Se invece andranno per le lunghe, cercheranno di fare le
attivazioni per i singoli clienti, quali per esempio la Marina».
Stroppa aspetta «40 domande» sulla questione, così da poter
«chiedere ai tecnici americani di Starlink di rispondere subito».
Assicura l'ufficiale: «Tutto quello che è possibile fare, cioè
internamente, spingo affinché venga fatto. Perché, comunque...te
l'ho detto pure quando ci siamo visti. Ci tengo a livello
personale...se un progetto deve essere fatto, dev'essere fatto bene.
Almeno posso dire che sto contribuendo a fare una bella cosa».
Ora l'informatico trentenne, finito indagato, assicura: «Non sapevo
che l'ufficiale avesse interessi legati alla società d'informatica».
Secondo gli inquirenti, coordinati dai procuratori aggiunti Giuseppe
Cascini e Paolo Ielo e dai magistrati Lorenzo Del Giudice e
Gianfranco Gallo, qualcosa invece aveva intuito. E gli atti parlano
di una promessa: un contratto di fornitura tra Spacex e Olidata Spa.
Il militare cerca di accreditarsi. E lo fa, almeno per quanto
racconta l'inchiesta, insieme all'ex rappresentante legale di
Olidata, Cristiano Rufini, pure lui finito nel registro degli
indagati. E c'è una conversazione che appare particolarmente
significativa. Masala racconta al "socio" di un Generale che
«sovrintende il progetto» e che l'ha affrontato senza troppi giri di
parole. «Mi ha detto: "Non vorrei che avessi interessi personali
perché stai perorando la causa di Starlink molto fortemente". Ha
detto di trovarlo strano». L'ufficiale nega. E spiega ad Andrea
Stroppa, che in quei giorni stava preparando una presentazione, che
«il nome di Olidata non deve comparire». In nessun modo.
L'ufficiale Antonio Masala, tra le figure chiave di questa inchiesta
condotta dai finanzieri del Comando provinciale di Roma e del nucleo
speciale polizia valutaria, non aggancia solo Stroppa. Gli
accertamenti, che hanno portato all'arresto dell'ex direttore
generale di Sogei Paolino Iorio e dell'imprenditore Massimo Rossi,
raccontano di un intreccio di affari e conoscenze, di gare e appalti
truccati banditi da Sogei, dal ministero dell'Interno-Dipartimento
della Pubblica sicurezza, dal ministero della Difesa e dallo Stato
maggiore della Difesa. Di «un articolato sistema corruttivo» di cui
Starlink rappresentava forse il progetto più ambizioso.
Il tribunale accoglie la richiesta di sospensiva del provvedimento
emanato dal prefetto: fatti troppo vecchi e c'è interesse pubblico
su Tav e Tenda
Antimafia, il Tar congela l'interdittiva a Cogefa Salve le grandi
opere: i cantieri vanno avanti
GIUSEPPE LEGATO
LODOVICO POLETTO
Il Tar smonta l'interdittiva antimafia a carico di Co. ge. fa,
colosso delle infrastrutture che sta realizzando – tra le tante
opere – i cantieri del Tenda e lo scavo del tunnel del Moncenisio. I
fatti richiamati a sostegno del provvedimento dalla Prefettura e dal
gruppo interforze interno che ha istruito il procedimento sono
«troppo risalenti nel tempo». Non più attuali dunque – per
estensione – al fine di motivare uno stop per la società a lavorare
nei cantieri finanziati con fondi – in toto o in parte – pubblici.
Nelle tre pagine di sentenza emessa ieri pomeriggio dal presidente
Raffaele Prosperi si legge: «Il provvedimento prefettizio impugnato
riguarda principalmente fatti estremamente risalenti nel tempo e
talvolta nei decenni, interessando anche persone decedute oltre
quindici anni addietro (si fa certamente riferimento a Teresio
Fantini, fondatore di Cogefa venuto a mancare nel 2006 ndr) oppure
soggetti in stretta parentela e che dunque si può al momento solo
immaginare un coinvolgimento indiretto degli attuali amministratori
della Cogefa». C'è poi una motivazione che pare avere le stimmate
dell'interesse pubblico: «La ditta interessata segue molteplici
cantieri di rilevanza nazionale e concernente i maggiori
collegamenti stradali con la Francia, vie principali di transito per
le esportazioni italiane oggigiorno di assoluto rilievo visto il
perdurare delle interruzioni ferroviarie in territorio francese». I
giudici dunque valorizzano «l'opportunità dell'accoglimento del
ricorso in connessione alla garanzia della momentanea continuazione
delle opere e dei rapporti di lavoro dell'alto numero delle
maestranze impiegate e che per quanto rilevato appare preminente
l'interesse pubblico al mantenimento delle attività della
ricorrente».
Co. ge. fa, raggiunta da interdittiva lo scorso 15 ottobre, è la
testa di un impero che si occupa di grandi costruzioni, opere di
rilevanza strategica: una produzione economica (a fine 2023) di
oltre 214 milioni di euro. Il legale di Cogefa, . Carlo Merani
spiega: «Sono soddisfatto per l'intervenuta sospensione degli
effetti dell'interdittiva che tanti danni stava provocando
all'azienda e anche alle commesse pubbliche. Come evidenziato la
questione sarà riaffrontata in una prossima udienza di fronte
all'intero collegio del Tar». I danni a cui fa riferimento il legale
sono questi: nei tre giorni successivi all'emanazione del
provvedimento i principali committenti di gran di opere hanno
scritto a Co.Ge.Fa (Telt, Anas, Città Metropolitana etc…) intimando
che «non appena sarebbe entrato in vigore il provvedimento
applicativo del Prefetto ne sarebbero derivate le conseguenze».
Tradotto: la risoluzione dei contratti. Non andrà così, almeno per
ora. Tira un sospiro di sollievo la Regione: «La decisione del Tar
del Piemonte garantisce la prosecuzione di opere strategiche per il
territorio e questa è senza dubbio una buona notizia: i cantieri
vanno avanti» dicono, in una nota, il presidente Alberto Cirio, e
gli assessori alle Infrastrutture strategiche Enrico Bussalino e ai
Trasporti Marco Gabus. Co.ge.fa, dal canto suo aveva scritto
nell'atto di impugnazione dell'interdittiva che «l'interdittiva
colpisce una grande società con numerosi addentellati economici e
finanziari a causa di presunte condotte poste in essere non dalle
attuali figure gestorie, ma da soggetti che non rivestono da oltre
dieci anni alcuna carica nella Società (Roberto Fantini, indagato
per concorso esterno in associazione mafiosa) e che con essa non
hanno alcun rapporto, se non quello parenterale evidentemente non
modificabile»
Germagnano, in manette un pregiudicato di 33 anni che era tornato a
vivere a casa dei genitori Ha trovato i militari ad aspettarlo al
ritorno da un colpo appena messo a segno in una tabaccheria
Torna a casa dopo la rapina e la madre lo fa arrestare
gianni giacomino
Quando è salito sulla macchina parcheggiata davanti a casa a
Germagnano con la madre che cercava di fermarlo è stato
chiaro:«Lasciami vado a fare una rapina in tabaccheria in paese e
torno». La donna, però, non ha perso tempo e ha immediatamente
avvertito il 112. Così quando il figlio 33enne, con alle spalle una
discreta sfilza di precedenti, è tornato dalla razzia è stato anche
raggiunto dai carabinieri del nucleo radiomobile di Venaria che lo
hanno arrestato e riportato in carcere ad Ivrea.
La storia si è consumata tutta nel giro di un'ora, a Germagnano dove
l'uomo è venuto a stare con i suoi dopo aver avuto dei problemi con
la sua ex, vittima di maltrattamenti in famiglia. Infatti il 33enne
ha il divieto di avvicinamento alla donna e non può più entrare nel
comune di Moncalieri. Per questo ha deciso di raggiungere le Valli
di Lanzo. E, l'altro giorno, si è messo nei guai. Quando è arrivato
davanti all'obiettivo, si è calato sul viso il cappuccio della felpa
ed è entrato in tabaccheria. Dove ha strattonato e gettato a terra
la proprietaria, poi ha arraffato 400 Gratta&Vinci, un migliaio di
euro in contanti. Quindi è risalito in macchina ed è tornato verso
la casa dei suoi, che abitano poco distante. Ovviamente il 33enne
non si immaginava certo che la madre - provata da anni di
sopportazione del figlio che ne ha combinate un po' di tutti i
colori - avesse già avvisato le forze dell'ordine. Quindi si è messo
comodo in salotto e ha iniziato a grattare i tagliandi che aveva
appena rubato. Fino a quando non si è trovato davanti ai carabinieri
del radiomobile di Venaria che lo hanno prelevato e portato in
carcere.
Nel frattempo la commerciante aggredita e parecchio scossa dalla
violenza subita ha raggiunto il pronto soccorso dell'ospedale di
Ciriè dove i medici, dopo un controllo, l'hanno dimessa giudicandola
guaribile in una settimana.
I carabinieri di Ciriè invece, l'altro pomeriggio dopo delle rapide
indagini, hanno denunciato per rapina un ragazzo che aveva assaltato
il bar "Dolomice" nella centralissima isola pedonale di via Vittorio
Emanuele, a Ciriè. Il trentenne, armato di un coltello, indossava un
berretto, ma era a volto scoperto. É entrato nel locale poco prima
della chiusura, intorno a mezzanotte, ha minacciato con l'arma le
dipendenti e si è fatto consegnare circa 600 euro in contanti. Poi è
fuggito per Ciriè. Le fasi dell'assalto sono però state riprese
nitidamente dalle telecamere che sorvegliano il bar e anche via
Vittorio Emanuele. Poco più tardi il 30enne, con alle spalle una
sfilza di precedenti, è stato fermato dagli investigatori. —
22.10.24
senza pace
Bologna
L'urbanistica
La mia
Non so se è una persecuzione. Però è dal 2012, quando le viscere del
sottosuolo cominciarono a rivoltarsi, che questa terra non ha pace,
la regione più moderna d'Italia, un angolo di America piantato nello
stivale con la sua economia diffusa e le sue eccellenze, dove il
basket conta più del calcio e i bambini giocano a baseball. Prima il
terremoto, poi la siccità e dopo la siccità le alluvioni a catena, e
mettiamoci pure il Covid. Dalla Romagna a Bologna è un'epica del
dolore che stringe nella sua morsa questa terra da dodici anni. Sono
due cose diverse, va detto, come spiega Romano Montroni, il Libraio
d'Italia, che ci guida nel volto disastrato della città («anche se
in centro dove abito non è successo niente»). Là è come se
franassero le montagne percosse inesorabilmente da quel diluvio
infinito, qui è il sottosuolo che si ribella al destino che gli era
stato assegnato. Alla fine, le piaghe dell'Emilia Romagna sono
comunque quelle di una regione ricca, ammirata e anche un po'
presuntuosa, come annota Marco Marozzi, il suo Cronista più
importante, abituata a guardare gli altri dall'alto in basso. Ed è
vero in fondo che nella vulgata comune «il cambiamento climatico in
tutta la sua immensa tragicità colpisce a sangue il buon governo».
Eppure c'è anche qualcosa di diverso in questo capriccio del
destino. Perché Bologna ha sempre voluto guardare in alto,
dimenticandosi alla resa dei conti di quel che c'era sotto i suoi
piedi. Tutto cominciò nel 1956, ricorda Montroni, quando il sindaco
Dozza decise che bisognava ammodernare l'urbanistica della città e
da Roma arrivò Campos Venuti per realizzare questo progetto. Fu
deciso che i fiumiciattoli venissero interrati e dimenticati. La
storia di quei canali è antica e affonda le sue radici nel Medioevo,
ma fu proprio grazie a quella gestione delle acque esemplare e
innovativa che Bologna poté sviluppare una fiorente industria. Fra
loro c'è il Ravone, un torrente che nasce sui colli e sfocia nel
Reno dopo 10 chilometri, durante i quali entra in città sotto il
portico di via Saragozza, e la costeggia dal suo lato Est,
nascondendosi nel suo suolo e uscendone ogni tanto. Ma adesso,
com'era già successo nel 2023, ha esondato da quelle viscere, come
se fosse venuto fuori a castigarla, assieme a Idice e Zeno. Via
Saffi inondata, ordini di evacuazione, anche a San Lazzaro, duemila
sfollati, e il sindaco di Casalecchio di Reno, davanti alle immagini
di macchine che galleggiano sull'acqua, dice con voce rassicurante
che è tutto sotto controllo, ma che nessuno deve uscire di casa. Non
c'è bisogno di gridare, qui si fa così. Montroni ricorda come
Giovanni Guareschi faceva benedire i paesi del Grande Fiume da don
Camillo, ma non è più la stessa Bassa di 70 anni fa, i fenomeni
estremi dalle epidemie alle rivolte del sottosuolo e delle sue acque
non guardano in faccia a nessuno e possono colpire anche i lembi
migliori dello sviluppo umano. È questa la fregatura. Se «il buon
governo ha sempre vinto contro tutto e tutti», come sottolinea
ancora Montroni, oggi è come se perdesse contro sé stesso. Nel ‘56
l'arcivescovo Lercaro schierò Dossetti per battere Dozza. Lo
costrinse a radunare il meglio che trovasse e lui chiamò Ardigò e
Pedrazzi fra gli altri, ma la Dc ottenne il peggior risultato degli
ultimi 60 anni, senza contare che molti di quei candidati finirono
poi nelle file avverse. Anche i rivali pensavano di vincere
guardando in alto.
È questo il prezzo che pagano Bologna e l'Emilia? Certo, pure gli
altri la guardano sempre e solo così, nel bene e nel male. Le Monde
la cita come la città più anti Meloni d'Italia, non come quella dove
cedono i canali e un fiumiciattolo dimenticato travolge le sue
strade. In compenso, il New York Times l'ha accusata di aver tradito
la sua storia per vendersi all'overtourism, legando la propria
immagine a uno dei suoi prodotti più tipici, la mortadella. Come a
dire che ha smesso di volare alto, che questo nuovo inferno
turistico si è preso tutto. Però quando il Pd Renziano aveva deciso
di lanciare Bologna come City of Food, la Los Angeles sul Reno, era
partito dall'alto e la immaginava una capitale del cibo
politicamente e dieteticamente corretto, di Farinetti e Segré, e di
Fico. Prodi portava al vecchio Diana Tony Blair e Brad Pitt e
Angelina Jolie mangiavano i tortellini all'Osteria dei Poeti. Non è
che tutto questo non esiste più. È che non puoi più guardare in
alto, questa è l'unica verità che ci consegna quello che accade
adesso.
Giovedì 24 il presidente Mattarella sarà a Bologna e renderà visita
all'Istituto di Scienze Religiose e al Mulino, che compie 70 anni.
Nella sala della Biblioteca, ci sarà anche Romano Montroni, entrato
nel nuovo cda della casa editrice. Lui è il libraio più famoso
d'Italia ed era un ex magazziniere quando nel 1964 passò alla guida
delle librerie Feltrinelli, partendo da qui, sotto le due torri.
Allora si poteva volare alto, si poteva cominciare da queste strade.
Ma oggi sarebbe ancora così? Oggi Monsignor Zuppi dice che è
necessario realizzare una «conversione ecologica». E il sindaco
Lepore parla di Bologna come «laboratorio di innovazione nel
cambiamento climatico». Chissà se sono solo parole. Perché non
bastano neanche più i miracoli. Il 5 luglio del 1433 la Madonna di
San Luca entrò in processione da Porta Saragozza e in quel momento
apparve il sole a scacciare la pioggia che tormentava la città.
Adesso niente. Vedi il cielo che viene giù e un video riprende dei
rider che girano con le pizze sguazzando sulle bici nei fiumi
d'acqua e di fango. C'è chi non si può fermare, ma questa immagine
ci dice qualcos'altro: in quei colori neri e cupi, e in quei ragazzi
fradici, c'è tutta la sconfitta che viene dal basso. —
Mario Tozzi
Abbiamo sacrificato gli spazi della natura E ora le alluvioni ci
trovano più fragili Non porterebbe alcun vantaggio alla comprensione dei fenomeni
e al da farsi, se concentrassimo tutte le nostre attenzioni
sull'Emilia-Romagna, proprio mentre le piogge aggrediscono Umbria e
Marche, appena dopo che la Liguria è stata trasformata in un dominio
subacqueo, e Calabria e Sicilia vedono l'acqua entrare nelle case.
Tutta l'Italia viene ormai alluvionata con una frequenza e una
consistenza sconosciute prima. Ma certo il caso dell'Emilia-Romagna
è comunque in qualche modo paradigmatico per diverse ragioni, a
partire da quella territoriale: una regione tra le più sviluppate
dal punto di vista economico è anche la più interessata da frane e
alluvioni, ed è difficile pensare che si tratti di un caso.
In Emilia-Romagna si è costruito come forsennati e lo si è fatto
anche nelle aree a pericolosità idraulica, quelle che andrebbero
lasciate intatte e, anzi, lentamente sgombrate da parte della
popolazione residente e dalle costruzioni. Non bastasse, la parte
orientale della regione ha visto progressivamente cancellati quei
lacerti di natura che avevano resistito al furore bonificatorio dei
nostri antenati e che, oggi, avrebbero protetto case e persone.
Non si è arrivati agli eccessi della Liguria, quella mezzaluna di
montagne e colline a picco sul mare che è stata trasformata in un
anfiteatro di asfalto e cemento perennemente sommerso e aggredito
dalle mareggiate. E non siamo nello stato comatoso di Calabria e
Sicilia, scampate solo per via della siccità alle ultime piogge, ma
teatri delle famigerate alluvioni dell'abusivismo edilizio e
dell'abbandono. Siamo in una regione moderna che produce reddito e
eccellenze, ma che non ha tenuto in alcun conto l'ambiente naturale,
ritenendo a torto che le aree di pertinenza fluviale dovessero
essere sacrificate ai capannoni industriali e alla regimentazione
coatta delle acque. Per non dire dei fiumi tombati sotto le città:
Modena e soprattutto Bologna, dove oggi ci si meraviglia
dell'esplosione del Reno e dell'Aposa, come se ci si potesse
dimenticare che per visitarli ci si deva infilare sotto terra,
perché sono stati sottratti al godimento della popolazione e
colpevolmente mutati in bombe idrauliche a orologeria.
E in Italia ci sono qualcosa come dodicimila chilometri di corsi
d'acqua seppelliti da asfalto e cemento. Non che non accada lo
stesso in Lombardia (Seveso e Lambro, per citare un esempio) o
altrove, ma il conto che la crisi climatica ci sta presentando è più
salato in Emilia-Romagna e non servirà a molto prendersela con il
cameriere che lo notifica.
Perché lo stato del territorio c'entra parecchio, ma è evidente che
il minimo comune denominatore dell'Italia alluvionata di fine
ottobre 2024 è l'accelerazione spropositata che la crisi climatica
sembra aver messo agli eventi meteorologici a carattere violento,
come ampiamente preventivato dai ricercatori specialisti già da
alcuni anni. In definitiva, queste alluvioni sono figlie delle
nostre attività produttive, un legame ormai ben delineato, visto che
la discussione sul ruolo dei sapiens, fra gli scienziati, è stata
chiusa da tempo e si riaprirà solo se emergeranno nuovi dati. Che al
momento non ci sono. Ed è questo legame che va spezzato, agendo
sulle cause, cioè azzerando le nostre emissioni climalteranti. Solo
allora potremo dedicarci all'adattamento e alla mitigazione degli
effetti, altrimenti rischiamo di adottare provvedimenti che
costeranno sacrifici, ma che non saranno risolutivi, perché, intanto
che li mettiamo in atto, le cose peggiorano.
Nei fatti, però, non riusciamo a prendere decisioni significative
per diminuire le emissioni, figuriamoci per azzerarle. Anche per
colpa dell'ignoranza diffusa e della malafede. Così, perdendoci in
polemiche sterili, non azzeriamo né ci adattiamo. E finiamo
sott'acqua.
Stiamo però affrontando la sfida della crisi climatica e del degrado
territoriale con le armi giuste? A giudicare dai risultati
sembrerebbe di no, non soltanto perché le grandi opere, la nostra
unica risposta, hanno bisogno di grandi quantità di denaro che
spesso manca, ma soprattutto perché, dove pure sono state messe in
atto, non hanno funzionato e non funzionano come ci si aspetterebbe.
Naturalmente qui non parliamo delle piccole opere, delle vasche di
espansione puntuali o della manutenzione ordinaria e straordinaria:
quelle opere occorrono, ma sapienti, puntuali e nel contesto di
interventi "dolci". Qui parliamo di grandi dighe, muraglioni di
contenimento, briglie, sbancamenti e uso fuori misura del cemento:
di quello non abbiamo bisogno perché non funziona e, anzi, peggiora
la situazione. Qui parliamo dell'invasione sistematica delle aree di
pertinenza di montagne e fiumi: non è un caso che esistano letti di
piena e di magra e che vadano rispettati entrambi. Fiumi e montagne
sono sistemi naturali, significa che più li irrigidisci e peggio
fai: un fiume lasciato libero fa meno danni, a patto di mantenersi
alla giusta distanza.
Ma l'Emilia-Romagna, come la Lombardia (più di altre realtà), ci sta
indicando che abbiamo raggiunto uno dei limiti più insormontabili
dello sviluppo economico, quello del suolo, un limite che non può
essere in alcun modo scavalcato. Semplicemente non possiamo
moltiplicare le attività produttive, gli ettari da coltivare, gli
allevamenti, le fabbriche, gli impianti e le infrastrutture, perché
nessun vivente può vivere in un contesto completamente artificiale e
perché lo sviluppo non può incrementare all'infinito su un pianeta
per definizione finito.
Il moltiplicarsi delle alluvioni ci dice che il re è nudo e rivela
che il futuro non può risiedere nelle quantità, ma, se ci riusciamo,
nella qualità. Il capitale economico è integralmente figlio del
capitale naturale, ma quest'ultimo non è rifondabile alla scala dei
tempi dell'uomo e lo stiamo consumando con un assalto
ipertecnologico degno di scopi più nobili. Dove oggi i fiumi
esondano, in passato c'erano paludi e acquitrini, cioè i territori
dell'acqua, che ritornano temporaneamente alla loro origine antica.
Solo che in mezzo ci sono le nostre vite e i nostri beni. —
URSO E CIRIO VOGLIONO APRIRE TORINO AI CINESI ALLEATI DI PUTIN:
Erdogan e Xi da Putin al vertice dei Brics giuseppe agliastro
mosca
L'Ucraina dice di aver attaccato una fabbrica di esplosivi e un
aerodromo militare nel cuore della Russia. Ma allo stesso tempo
sostiene che almeno 17 persone siano state ferite in un raid
missilistico su Kryvyi Rih e più di 37 mila siano rimaste senza
elettricità nella regione nord-orientale di Sumy dopo un
bombardamento delle forze russe su una «infrastruttura energetica».
La Russia da parte sua afferma di aver neutralizzato più di cento
droni ucraini nella notte e non commenta (almeno per ora) la notizia
del presunto attacco alla base aerea di Lipetsk-2, ma lascia
intendere che sia stato respinto il raid contro la fabbrica di
esplosivi Sverdlov, tra le più grandi del Paese. «I mezzi di difesa
aerea e di guerra elettronica hanno respinto un attacco di droni sul
territorio della zona industriale di Dzerzhinsk», afferma infatti
Gleb Nikitin, governatore della regione di Nizhny Novgorod,
aggiungendo però che quattro vigili del fuoco avrebbero riportato
«leggere ferite da schegge». Tutt'altra la versione di Kiev, secondo
cui «numerose esplosioni» si sarebbero registrate sia nella zona
dell'aerodromo militare sia in quella della fabbrica di esplosivi,
che è sotto sanzioni di Usa e Ue e dista ben 900 chilometri dalla
frontiera. Al momento nessuno dei due resoconti è verificabile in
maniera indipendente.
Ora che l'inverno si avvicina, aumentano i timori di Kiev per i
bombardamenti russi sulle infrastrutture energetiche, la cui rete in
Ucraina è già stata messa in ginocchio in questi anni di guerra, con
i soldati russi accusati di aver lasciato al buio e al gelo milioni
di persone.
Il presidente ucraino Zelensky intanto è tornato a chiedere ai suoi
alleati «maggiori capacità di difesa aerea» e «a lungo raggio»,
accusando i militari russi di aver lanciato la settimana scorsa
contro l'Ucraina «più di 20 razzi di vario tipo, circa 800 bombe
aeree guidate e più di 500 droni». «Un mondo unito nella difesa può
resistere a questo terrore mirato», ha dichiarato Zelensky.
La Russia da domani a giovedì ospiterà invece il vertice dei Paesi
Brics, a cui sono attesi, tra gli altri, il leader cinese Xi Jinping,
il presidente turco Erdogan e il segretario generale dell'Onu
Guterres. Un evento che servirà a Putin per cercare di smentire la
sua immagine di isolamento.
Nuovi atti depositati al Riesame: "Ceravolo finanziò la latitanza in
Marocco di un trafficante di droga. La sorella nella ditta di
esponenti della n'drangheta" Si aggrava la posizione del sindacalista Cisl "Da anni a
completa disposizione dei boss"
leonardo di paco
giuseppe legato
Ulteriori atti di indagine sono stati nel frattempo depositati dalla
Dda di Torino nell'ambito dell'inchiesta che ha portato in carcere –
per associazione mafiosa – il sindacalista (sospeso) della Filca
Cisl Domenico Ceravolo difeso dall'avvocato di fiducia Christian
Scaramozzino.
Si tratta di diverse annotazioni del Gico della Finanza che
raccontano ulteriori – e più datate - e contiguità con appartenenti
o contigui alla ‘ndrangheta. Gli atti sono quelli dell'inchiesta
Fenice ed emerge come Ceravolo, già cinque anni fra, incontrò a
Moncalieri il boss Antonio Serratore e Onofrio Garcea uomo di punta
della cosca Bonavota finito a processo (e condannato in via
definitiva) per voto di scambio politico mafioso con l'ex assessore
regionale di Fdi Roberto Rosso (per quest'ultimo pende Cassazione).
Nelle carte sono mappati contatti telefonici con membri di spicco
dell'organizzazione mafiosa: da Salvatore Arone a Basilio De Fina a
Nazareno Fratea tutti gente già condannata in più gradi di giudizio
a pene severe per ‘ndrangheta tutti soggetti "verso i quali –
scrivono gli investigatori nel Nucleo di polizia economica della
Finanza – Ceravolo si è sempre mostrato disponibile e reverente".
Ancora: "Ha altresì intrattenuto rapporti con Raffaele Arone, altro
esponente della 'ndrina Bonavota per il tramite dello zio, Francesco
Arone". Di più: "Dall'analisi delle conversazioni intercettate
sull'utenza in uso a Raffaele Serratore (già condannato per mafia) è
emerso come quest'ultimo sia particolarmente legato a Ceravolo il
quale, con massima dedizione, si è messo a completa disposizione".
Come? "Oltre a contattarlo quasi quotidianamente, ogni qualvolta
Serratore manifesta la necessità di essere accompagnato da qualche
parte è lui (Ceravolo ndr) che si mette immediatamente a sua
disposizione. Ceravolo – sempre secondo gli investigatori avrebbe
partecipato al finanziamento della latitanza in Marocco (dal
febbraio al dicembre 2016) di Francesco Mandaradoni "a vantaggio
del, quale – si legge agli atti – ha trasferito 1000 euro circa".
E proprio in relazione ai Mandaradoni, soggetti da sempre ritenuti
contigui alla ‘ndrina Bonavota, Ceravolo avrebbe avuto vantaggi a
ricaduta "familiare". Da ottobre 2014 a gennaio 2015 la signora
Rosanna Ceravolo "ha percepito redditi dalla "Build Up Srl, società
per quanto riscontrato dall'attività investigativa svolta dalla
Legione dei Carabinieri di Genova essere congiuntamente gestita da
esponenti della 'ndrina Bonavota".
Ancora a giugno 2022 viene intercettata una telefonata tra un membro
della famiglia D'Agostino e Ceravolo. Il primo racconta al secondo
che in un cantiere in corso a Milano si era presentato un delegato
della Uil per "fare delle tessere" sindacali. Annota la Finanza. "
Immediatamente Ceravolo ha contattato un operaio a lui vicino
invitandolo a riferire ai "ragazzi" presenti in cantiere di non
proseguire con le iscrizioni sindacali". Ciò doveva accadere, ha
proseguito D'Agostino, perché la Uil "non è un nostro sindacato".
Questa affermazione "assume rilevanza almeno per due ragioni: la
prima dimostra come i partecipi del gruppo investigato, consideri la
Filca-Cisl, all'interno della quale opera Ceravolo, come il loro
sindacato di riferimento; la seconda evidenzia come sia lo stesso
datore di lavoro ad indirizzare i dipendenti, impedendone
l'iscrizione verso altre sigle, verso il sindacato di loro
convenienza considerato che il delegato di riferimento è Domenico
Ceravolo appunto". Va ricordato che la Filca-Cisl Torino Canavese è
la federazione territoriale che è cresciuta di più nel 2023
aumentando gli iscritti di 1.061 unità e raggiungendo quota 7.839
tesserati: +16%.
In settimana, infine, all'interno della Filca torinese è previsto il
direttivo per sostituire l'attuale segretario provinciale, Mauro De
Lellis, non indagato, promosso a segretario regionale nei primi
giorni dell'inchiesta. De Lellis, come da protocollo, rassegnerà le
dimissioni dal vertice provinciale. Ma il direttivo del sindacato,
anziché eleggere la nuova segreteria, potrebbe decidere per un
periodo di reggenza. Una mossa cautelativa, che non prevede
l'azzeramento degli organismi, in attesa che si conoscano ulteriori
sviluppi sulle indagini. —
21.10.24
Abuso d'ufficio
"
Raffaele Cantone
"Banche dati violate, Italia a rischio sicurezza Sulla giustizia
auspico un fermo biologico"
Separazione carriere
L'uso dei Trojan
Sorteggio del Csm Inviato a Perugia
Riforma della giustizia? «Non si avvertiva la necessità d tutte
queste modifiche, auspico un "fermo biologico" da parte
dell'esecutivo». E ancora: «Il tema delle violazioni alle banche
dati pubbliche o più in generale dei sistemi informatici pubblici, a
partire da quelli del ministero della Giustizia, si sta rivelando in
questi giorni un problema enorme, anche di sicurezza per l'intero
Paese». E poi la lotta alla corruzione che da anni connota la sua
carriera da magistrato e da ex presidente di Anac «resa molto più
complicata dalle ultime riforme», il ruolo delle Fondazioni create
dai partiti «che in molti casi finanziano in modo illecito e
surrettizio la politica». L'ufficio del Procuratore di Perugia
Raffaele Cantone è un via vai di investigatori: l'inchiesta che vede
indagati, tra gli altri, il tenente della Guardia di Finanza
Pasquale Striano e l'ex magistrato della Dna Antonio Laudati è in
corso: «Di questo ovviamente nulla posso dire» precisa.
Procuratore Cantone, non si è mai visto – o si è raramente visto -
come in questo biennio un profluvio di modifiche legislative. Erano
tutte così necessarie ?
«Effettivamente nell'ultimo periodo si sono susseguiti tanti
interventi in materia di giustizia su molti aspetti sostanziali e
processuali. Va detto, per onestà, che anche altre legislature, pure
recenti, si erano distinte per un eccesso di attivismo. Sulla
necessità ed opportunità non posso che concordare con quanto
saggiamente e felicemente ha detto la Prima Presidente della
Cassazione, Margherita Cassano».
Sarebbe a dire?
«Ha auspicato un "fermo biologico" in materia».
Abuso d'ufficio abolito. E amministratori liberi dalla paura della
firma. Quanto c'è di vero?
«È una leggenda metropolitana che la paura della firma, quella che
qualcuno chiama burocrazia difensiva, dipenda dalla norma sull'abuso
di ufficio; la paura della firma, purtroppo, invece è un fatto
esistente, ma ha ben altre e più complesse cause. Sono convinto che
anche con l'abolizione dell'abuso le amministrazioni pubbliche non
si trasformeranno in esempi di efficienza e i fatti purtroppo mi
daranno ragione».
Cosa accadrebbe alla lotta alla corruzione nell'ipotesi di un
combinato disposto tra l'abrogazione dell'abuso d'ufficio, il
ridimensionamento del traffico di influenze e la ventilata
cancellazione della Spazzacorrotti?
«Chi si occupa di indagini sa benissimo che l'abolizione dell'abuso
di ufficio renderà le indagini in materia di corruzione molto più
difficili, perché viene meno un'ipotesi di "reato spia", che può
nascondere - non sempre - fatti di corruzione. La riforma Nordio
depotenzia moltissimo anche il traffico di influenze che però è un
reato che serve a punire l'attività dei faccendieri, che nelle forme
moderne di corruzione sono coloro che fanno da tramite fra i
pubblici ufficiali corrotti ed i corruttori: l'annacquamento di
questa fattispecie rischierà di indebolire anche questo aspetto
dell'attività di contrasto».
Sono pubbliche le intenzioni di limitare anche l'utilizzo del Trojan
su indagini di corruzione.
«Non consentire il trojan per questa tipologia di reati avrà un
effetto assolutamente deleterio».
Forse qualcuno crede ancora che corrotti e corruttori parlano
liberamente al telefono?
«Ma si figuri. La corruzione è un reato commesso da persone con un
certo livello di cultura e di attenzione, che al telefono parlano
pochissimo e che non lo utilizzano per scambiarsi favori e mazzette;
pensare che possano bastare le sole intercettazioni telefoniche è
quantomeno un'ingenuità».
Dall'inchiesta della procura di Genova sulla politica è emerso un
tema molto delicato legato alle Fondazioni che i politici creano per
finanziare la campagna elettorale. Un sistema trasparente?
«Le Fondazioni create a latere dei partiti nascono con nobili
finalità culturali e di promozione di idee politiche ma in molti
casi diventano un modo per finanziare in modo illecito e surrettizio
la politica. La legislazione, pur con le novità timide introdotte
dalla "Spazzacorrotti", non è in grado di garantire la trasparenza
dei finanziamenti e paradossalmente questa situazione fa danno anche
a quelle Fondazioni che vogliono fare davvero politica e non
raccattare denaro».
Ha ragione il presidente dell'Anticorruzione Busia a invocare una
nuova legge sul conflitto di interessi?
«Ha assolutamente ragione; il conflitto di interessi è l'anticamera
della corruzione: per troppi anni abbiamo pensato che riguardasse un
unico politico e cioè un importante imprenditore; in realtà i
conflitti di interesse nelle amministrazioni pubbliche sono tanti e,
ad oggi, non ci sono strumenti adeguati per rimuoverli».
Stop alle intercettazioni dopo 45 giorni. Anche questa era una
misura impellente per un miglior funzionamento della giustizia? E
cosa c'entra coi diritti degli indagati?
«Credo che sia una riforma sbagliata, malgrado le eventuali buone
intenzioni che la animano; concordo che le intercettazioni non
devono avere tempi lunghissimi, ma fissare un limite per legge non è
una buona idea; vediamo come sarà scritta la norma».
Quanto eventuali limitazioni all'accesso ai cellulari degli indagati
(ddl sui sequestri) avrebbe impattato sull'indagine che sta portando
avanti come procuratore di Perugia insieme al suo ufficio?
«Dell'indagine nulla posso dire ma mi faccia dire che il tema delle
violazioni alle banche dati pubbliche o di interesse pubblico o più
in generale dei sistemi informatici pubblici, a partire da quelli
del ministero della Giustizia, si sta rivelando in questi giorni un
problema enorme, anche di sicurezza per l'intero Paese. Bisogna sul
punto dare atto che fra le tante leggi criticabili il Parlamento ha
varato una buona riforma dei reati informatici, attribuendo il
coordinamento delle indagini alla Procura Nazionale antimafia. Un
plauso meritato, quindi».
Sostiene il ministro che «la madre di tutte le riforme è la
separazione delle carriere ».
«Io sono assolutamente contrario; la riforma fra l'altro di cui si
discute non prevede la separazione delle carriere ma molto di più e
cioè la separazione delle magistrature e paradossalmente renderà il
pm più forte e molto più autoreferenziale, ma anche molto più a
rischio di essere influenzato da scelte della politica. Mi auguro
che su questa riforma vi sia la giusta riflessione, perché si
rischia di stravolgere l'impianto costituzionale».
Ritiene verosimile anche lei – come alcuni suoi colleghi – che «il
vero obiettivo di pezzi di questo esecutivo sia sottomettere (ad
esso) i pm e abolire l'azione penale obbligatoria»?
«Sono rischi concreti che vanno assolutamente scongiurati; certi
principi rappresentarono nel 1946 i capisaldi di una Costituzione
democratica e restano ancora oggi pienamente validi».
L'avviso di arresto, così ribattezzato dalla norma sul
"contraddittorio anticipato" sta svelando alcune fragilità.
«È una riforma che non potrà reggere; nella prima attuazione ci sta
creando problemi seri non tanto per i reati contro la pubblica
amministrazione ma per quelli che riguardano la sicurezza pubblica:
i furti e lo spaccio di droga; in una realtà come Perugia in cui
questi reati sono appannaggio di soggetti senza fissa dimora o che
non sono della zona l'interrogatorio preventivo rischia di rendere
l'eventuale misura successiva inutile, perché gli indagati si danno
alla fuga. Il governo ha promesso che monitorerà gli effetti e mi
auguro, se necessario, che torni davvero sui propri passi».
Capitolo sorteggio/Csm. Il ministro Nordio lo considera «l'unico
modo per dare alla magistratura indipendenza e autonomia». E cita la
Corte d'Assise «composta per la maggioranza da giudici popolari
sorteggiati». ...
«È un ragionamento che faccio fatica a credere possa aver fatto un
giurista raffinato come il collega Nordio; cosa c'entra la Corte di
assise, i cui componenti dovranno partecipare ad un processo per un
tempo relativo, con il Csm chiamato ad gestire la vita professionale
e le carriere dei magistrati? Questa norma mi pare solo punitiva per
la magistratura e vorrei che si capisse che qualcuno, in futuro,
raccogliendo questo precedente potrà chiedere che anche il
Parlamento venga scelto a sorteggio»
Progetti energetici finti e finanziamenti veri Il tesoro era in un
box di corso Giulio Cesare
Banche truffate e soldi investiti nei lingotti d'oro In 50 a
processo ludovica lopetti
Hanno messo a segno truffe milionarie ai danni del Gse (Gestore dei
servizi energetici) e dei maggiori istituti di credito italiani (Bpm,
Montepaschi e Ubi banca, solo per citarne alcune) grazie a una
galassia di società fantasma che sono riuscite a ottenere erogazioni
pubbliche, prestiti bancari e crediti fiscali per decine di milioni
di euro.
Per "ripulire" i proventi delle truffe, poi, hanno acquistato
centinaia di lingotti d'oro, in parte stivati in un box di corso
Giulio Cesare insieme a 600mila euro in contanti. E ancora,
avrebbero aperto conti correnti nell'Est Europa e nei paradisi
fiscali e portafogli "crypto" su cui far transitare il denaro
sporco.E sullo sfondo compaiono imputati già coinvolti in indagini
legate alla 'ndrangheta calabrese.
Un meccanismo che ha iniziato a vacillare quando i finanzieri, a
fine gennaio 2019, hanno trovato il box e ne hanno sequestrato il
contenuto. A quel punto Elio Miegge, Luca Villata, Simone Marietta e
Luca Pifferi, che la Procura considera «capi e organizzatori» di una
vasta e radicata associazione a delinquere, hanno cercato di fuggire
in Svizzera grazie alla complicità di un faccendiere, ma sono stati
fermati dai carabinieri con la valigia in mano.
Oggi i quattro colletti bianchi sono finiti a processo insieme ad
altre 48 persone (difese, tra gli altri, da Guido Anetrini e Luigi
Chiappero) con accuse che vanno dal riciclaggio alla frode, tutti
reati commessi, in ipotesi, nella cornice associativa. Alla sbarra
ci sono imprenditori, commercialisti e "teste di legno", ma anche
soggetti già noti alle cronache come Crescenzo D'Alterio, imputato
nel processo sulla presunta infiltrazione della 'ndrangheta
nell'impresa che gestiva il bar del Palagiustizia, e Pasquale Motta,
condannato in via definitiva a 6 anni per aver riciclato il denaro
della cosca Pensabene in una rsa di Favria.
L'udienza preliminare si è aperta nei giorni scorsi con le
costituzioni di parte civile: hanno chiesto di partecipare al
processo, in veste di danneggiati, il Gse (interamente partecipato
dal Mef), Unicredit, Banca Ifis, Leasys spa, Banca Progetto, Credem,
Banca Sella e altre.
Le indagini, coordinate dal pm Ruggero Crupi e affidate a
Carabinieri e Guardia di Finanza, hanno scoperto decine di società
(tra le altre, FS srls, Progest Key srls e la Omnia Energy srls)
intestate a prestanome o a identità di fantasia come "Paolo
Locatelli" o "Elisa Girotti", che presentavano al Gse documenti da
cui risultava l'esecuzione di falsi lavori di efficentamento
energetico. Il gestore erogava i "certificati bianchi" (titoli di
risparmio energetico) e le società li monetizzavano mettendoli in
commercio. Gli amministratori delle ditte poi trasferivano il denaro
all'estero fatturando compensi per prestazioni mai eseguite. Lo
stesso metodo sarebbe stato usato per raggirare le banche: le
società presentavano credenziali solide e ottenevano finanziamenti
da centinaia di migliaia di euro, garantiti per metà dal Ministero
dello Sviluppo. Poi i gestori di fatto trasferivano il bottino
all'estero e ne facevano perdere le tracce. Ma lo schema sarebbe
stato replicato anche con auto prese a leasing, mai restituite e
spedite in Lituania e Bulgaria.
Nell'ambito della stessa inchiesta, nel 2019, era finita sotto
sequestro anche l'Hamburgheria di Eataly dell'outlet di Settimo
Torinese (Eataly estranea ai fatti), che faceva capo a una società
(la Opera srl) gestita di fatto dal sodalizio e, nell'ipotesi della
procura, sarebbe stata utilizzata - emerge dagli atti - per
reinvestire i proventi delle maxi-truffe nell'economia legale. —
In Vaticano la canonizzazione del beato nato nel 1851. Nel 1996 il
miracolo in Amazzonia: la guarigione di un indigeno aggredito da un
giaguaro
Oggi il Papa proclama Santo Allamano A Torino fondò le Missioni
della Consolata domenico agasso
Giuseppe Allamano e il suo motto di vita «fare bene il bene» salgono
agli altari della Chiesa universale. Stamattina papa Francesco
proclama Santo il fondatore delle Missioni della Consolata. Il
sacerdote, nato a Castelnuovo Don Bosco il 21 gennaio 1851 e morto a
Torino il 16 febbraio 1926, annoverato nella schiera dei «santi
sociali» piemontesi, è beato dal 1990 per volere di Giovanni Paolo
II. E oggi è di nuovo festa in piazza San Pietro e a Torino, dove
Allamano fu rettore del Santuario della Consolata dall'età di 29
anni.
Il Canonico è nipote di un altro santo carissimo alla Città della
Mole, Giuseppe Cafasso; ed è concittadino di san Giovanni Bosco.
Ordinato prete 22enne, sette anni dopo è Rettore anche del Convitto
ecclesiastico per i neo-sacerdoti.
Come ricorda l'arcivescovo di Torino, il cardinale designato Roberto
Repole, la missione dell'Istituto che ha fondato partì «dall'amato
Santuario della Consolata e oggi è diffusa in tutto il mondo, dove i
missionari e le missionarie della Consolata continuano a
testimoniare la fede, spesso in condizioni di povertà materiale e
spirituale».
Tutto inizia da un'osservazione che turba Allamano: molti giovani
preti desiderosi di diventare missionari vengono ostacolati dalle
diocesi, che alle missioni preferiscono mandare soldi piuttosto che
risorse umane. Il Canonico decide di creare un Istituto di
missionari. Il suo progetto deve attendere dieci anni, tra vari
contrattempi Oltretevere. Ottiene il via libera nel 1901. Nel 1902
parte la prima spedizione: direzione Kenya. Otto anni più tardi
Allamano dà origine anche alle Suore Missionarie della Consolata.
Il fondatore nel 1912, sostenuto da altri leader cattolici,
sottopone a Pio X l'ignoranza dei fedeli riguardo alla missione, un
vuoto causato spesso dalla sottovalutazione che serpeggia nei Sacri
Palazzi. Denuncia, e propone: una Giornata missionaria annuale.
L'idea di Allamano resta in un cassetto vaticano. Fino al 1927,
quando Pio XI istituisce la Giornata missionaria mondiale, che si
celebra proprio oggi.
Il miracolo che conduce il Canonico alla santità è del febbraio
1996: l'insperata guarigione di Sorino Yanomami, indigeno
dell'Amazzonia, attaccato da un giaguaro che gli ha provocato gravi
ferite al cranio. Commenta Corrado Dalmonego, missionario della
Consolata, antropologo, in servizio tra il popolo Yanomami, nel nord
del Brasile: «È come se Allamano ci dicesse "io ho interceduto ma
adesso, qual è la condizione dei popoli indigeni?"». Nella terra
dove si è verificato «il prodigio sta avvenendo una seconda corsa
all'oro, un aumento esponenziale di sfruttamento minerario illegale,
legato ai narcos, al traffico di armi, con 20 mila cercatori d'oro
su una popolazione di 33 mila persone». Oltre a «disboscamento,
devastazione della foresta, contaminazione di acque e terre, si
assiste a un deterioramento delle condizioni di salute della
popolazione».
C'è urgente bisogno di «fare bene il bene».
20.10.24
Ostaggi
dell'
acqua
Mario Tozzi Se non ci lasciamo abbagliare dal solo Po che esonda in
centro a Torino, e che ci sembra quasi famigliare, le immagini che
provengono dalla Liguria destano incredulità anche negli osservatori
più attenti. Ma, a guardare bene, si tratta sempre, e ancora una
volta, della stessa identica modalità. Paesi e cittadini incastrati
nei thalweg fluviali quasi interamente sommersi da una massa d'acqua
marrone in costante flusso verso mare. Non importa se si tratti di
Savona o Genova, di Sori o di Alassio, tutto finisce rapidamente
sott'acqua. E non dovrebbero destare alcuna incredulità, perché
tutto è, ed era, largamente prevedibile, a partire dalla situazione
meteorologica. La "depressione del Golfo di Genova" si studia sui
libri di scuola media superiore ed era, una volta, caratteristica di
quella regione specifica e di quella stagione. Oggi è diventata più
profonda, si genera a contatto di acque sempre più calde, dura più a
lungo e investe aree sempre più vaste, fino alla Toscana e oltre.
Portando peraltro con sé un corredo di fenomeni correlati che vanno
dalle trombe marine ai veri e propri tornado nostrani, tanto che si
parla ormai apertamente di Medicanes, uragani mediterranei.
Perché le cose sono cambiate negli ultimi trent'anni, almeno a
partire dall'alluvione di Serravezza (1996), forse la prima nostrana
da ascrivere alle flash flood, le alluvioni improvvise, che
costringono ad evacuare quantità impensabili di acqua in pochissimo
tempo su aste fluviali relativamente corte. Senza per questo che
siano scomparse le alluvioni "tradizionali" del Nord Italia, quelle
che un tempo permettevano di aspettare in vigile attesa la piena
dopo che il Po aveva caricato piogge, neve e acque di fusione dei
ghiacciai dal Monviso a Pontelagoscuro: il fiume esondato a Torino
ci rammenta che anche le grandi città corrono rischi, pure se ben
munite di argini in pietra.
Ma, stante la situazione meteorologica mutata, da noi la differenza
la fa lo stato del territorio che in Liguria è agghiacciante: a
fronte della struggente bellezza paesaggistica, la regione agonizza
soffocata da un mare di cemento e asfalto che l'hanno resa
impermeabile preda delle acque dilavanti. Non c'è quasi un borgo,
una città o una singola abitazione che non sia costruita in aree di
pericolosità idraulica o franosa: ci siamo illusi che i fiumi
fossero limitati alle loro acque e non al complesso del loro
vastissimo letto, abbiamo tombato interi corsi d'acqua sotto strade
e palazzi, abbiamo privato le colline delle foreste di lecci,
naturale difesa, e le abbiamo sostituite con uliveti e vigne che,
però, abbiamo successivamente abbandonato, con il corredo degli
straordinari muretti a secco oggi impossibilitati a contenere
alcunché. E non è un problema di manutenzione, o pulizia degli
argini, dragaggio degli alvei o nuove opere, tutte operazioni che
servono solo per calmare la popolazione, non ottenendo alcun
risultato ai fini della mitigazione del rischio e, anzi, spesso
incrementandolo.
Non è un fenomeno nuovo, se è vero, come è vero che già Italo
Calvino scriveva della "rapallizzazione", cioè dello "stravolgere a
fini speculativi l'assetto edilizio e urbanistico dei piccoli centri
urbani, in spregio a ogni criterio di pianificazione e alla tutela
dei valori paesaggistici" (Treccani). Ma negli ultimi decenni ha
conosciuto un nuovo vigore, che è arrivato perfino a leggi regionali
che acconsentono le costruzioni a ridosso dei corsi d'acqua, in
spregio a ogni normativa nazionale. Una bulimia costruttiva schiava
del dio denaro che dimentica bellezza, qualità della vita e
paesaggio.
Ma quelle immagini debbono necessariamente essere lette assieme a
quelle della stazione ferroviaria di Siena ridotta a un canale e a
quelle analoghe che vengono dalla Francia meridionale, dove in 48
ore sono caduti fino a 870 mm di pioggia: la quantità che, in
passato, cadeva in una decina di mesi. O a quelle provenienti da
tutto l'emisfero boreale, dalla Biblioteca Nazionale di Spagna a
Monterrey si va senza sosta sott'acqua e si muore: quasi duemila
vittime per queste "nuove" inondazioni. Che andrebbero sommate a
quelle delle regioni che sono, invece, tormentate dalla siccità,
come la Sicilia, una siccità che, altrove, uccide. Perché si tratta
delle due facce della stessa medaglia, quella della crisi climatica
più acuta e più accelerata e globale che i sapiens abbiano mai
subito. E dell'unica che hanno essi stessi creato, prelevando il
carbonio sotterrato nei combustibili fossili, bruciandolo e
spargendolo allegramente in atmosfera in aggiunta ai cicli naturali
che, senza questo contributo, funzionavano egregiamente
all'equilibrio.
Ora, però, tutti i nodi stanno venendo rapidamente al pettine e, per
citare due conseguenze a scala globale, le correnti oceaniche
dell'Atlantico viaggiano verso il collasso, fenomeno che potrebbe
portare, tra l'altro, a celle di tempesta anche fredde nell'emisfero
boreale, come anni fa descritto da un film visionario (The Day after
Tomorrow, di R.Emmerich 2004) e come paventato addirittura dal
Pentagono già dall'inizio degli anni Duemila (Dough e Randall 2007).
O come il fatto che i serbatori naturali di carbonio, che hanno
assorbito CO2 in questi secoli e millenni (foreste e territori
vergini) lo scorso anno non ne abbiano assorbita affatto, preludendo
a un'accelerazione del riscaldamento globale fuori dalla nostra
possibilità di previsione (il collasso dei serbatoi naturali di
carbonio non veniva, in genere, messo nel conto della crisi
climatica). In questa situazione ogni tentativo di adattamento
(termine oggi molto alla moda per nascondere il fatto che non c'è
alcuna volontà politica di intervenire) risulterà fatalmente
inutile, se non verranno prese draconiane misure per azzerare le
nostre emissioni clima alteranti, misure di cui non si vede alcun
profilo all'orizzonte.
L'hacker che spiava le mail dei giudici "Aveva le password di 15 pm
torinesi" giuseppe legato
Perché detenesse gli indirizzi mail con relative password del
dominio giustizia.it di tutti quei magistrati (46) in servizio in
diversi uffici giudiziari italiani è comprensibile solo in parte. E
cioè – per una quota - con il tentativo di "bucare" le
corrispondenze elettroniche dei pm che stavano indagando su di lui
(Gela e Napoli in testa). Per acquisire eventuali atti investigativi
che lo riguardavano. Non è ancora noto però – anzi è un giallo - il
motivo per cui Carmelo Miano, 24 anni, originario di Sciacca (Ag),
l'hacker arrestato dalla procura di Napoli alcuni giorni fa,
detenesse nel suo pc anche gli indirizzi mail e relative password di
15 magistrati della procura di Torino.
Non avrebbe effettuato accessi al contenuto delle caselle, ma
riuscendo a bucare le password avrebbe comunque potuto farlo in
qualsiasi momento.
Così «nella serie indefinita» - scrivono i pm di Napoli – di
magistrati colpiti dall'attacco informatico figurano i nomi di un
terzo dell'organico della procura di Torino. Sono contenuti
un'informativa agli atti dell'indagine. Si tratta del procuratore
Giovanni Bombardieri, di Marco Gianoglio, il capo del pool che
indaga contro i reati economici, Cesare Parodi a capo del settore
Fasce Deboli, Enrica Gabetta "Aggiunto" che guida 8 sostituti nel
contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione. Ma ci sono
anche i pm Gianfranco Colace, Mario Bendoni, Giovanni Caspani,
Vincenzo Pacileo, Paolo Cappelli, Chiara Canepa, Elisa Buffa, Delia
Boschetto, Lisa Bergamasco, Emilio Gatti , Patrizia Caputo e Ruggero
Crupi.
A Napoli riflettono sulla possibilità che Miano non abbia agito,
come ha sostenuto davanti al gip nell'interrogatorio di garanzia,
solamente per conoscere i fascicoli d'indagine che lo riguardavano.
Piuttosto «il possesso di documenti relativi all'architettura
informatica di infrastrutture della Gdf e della Polizia di Stato;
gli accessi abusivi ai sistemi telematici di uffici di Polizia di
Stato – che nulla hanno a che fare con le indagini sull'indagato –
appaiono elementi oggettivi che stridono con le dichiarazioni e con
la versione sostenuta da Miano nell'interrogatorio». Ergo l'idea è
che «possedendo Miano wallet contenenti criptovalute convertite per
alcuni milioni di euro,» si possono intravedere «finalità di
profitto connesse agli accessi e alle gestioni di dati, e che allo
stato non possono far escludere l'esistenza di committenti o
destinatari di dati e documenti sensibili esfiltrati». E negli esiti
della perquisizione avvenuta lo scorso 1 ottobre «è stato
riscontrato che. in più occasioni, Miano aveva prelevato dai sistemi
della rete del Ministero della Giustizia il database relativo a
tutti gli utenti di dominio (inclusi dunque i magistrati di tutta
Italia), contenente le userame con le relative password, sebbene
queste ultime memorizzate in forma di hash un codice alfanumerico
non reversibile se non tramite specifici attacchi».
Secondo l'avvocato Gioacchino Genchi, legale dell'indagato «la
circostanza che Miano avesse nel suo computer gli account e le
password di 40 magistrati, fra cui alcuni pubblici ministeri delle
procure di Torino, di Firenze e di Perugia è assolutamente priva di
alcuna significatività. Piuttosto – aggiunge - bisognerà considerare
a quale di queste caselle email e pec Miano abbia effettivamente
acceduto e a quali no. Sicuramente non è acceduto a quella dei
magistrati di Perugia, di Firenze e di Torino, che nell'informativa
depositata alla vigilia del riesame sembrano tirati apposta per i
capelli, nello strenuo tentativo di tenere le indagini a Napoli». —
19.10.24
Agente segreto sotto copertura si infiltra nei narcos: 13 arresti ludovica lopetti
Il 31 ottobre 2023 sono stati i cani antidroga a guidare i
finanzieri alla meta. In un deposito in via Cirenaica hanno trovato
386 chili di hashish. Una montagna di droga già suddivisa in due
milioni e 486 mila dosi singole pronte a finire sul mercato, per
undici milioni di euro. In tutto gli investigatori coordinati dalla
Direzione distrettuale antimafia hanno sequestrato 800 chili di
stupefacente, anche cocaina. Ma è il retroscena dell'indagine che
evoca la sceneggiatura di una serie tv. A stanare i narcos ha
contribuito un agente sotto copertura, che per anni si è dedicato a
quello che in gergo si chiama "money pick up". «Il funzionario -
spiega il gip nell'ordinanza che ha portato in carcere 13 persone
per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga - è
riuscito a infiltrarsi nel sistema dei "prelevatori" dei contanti,
ottenendo la consegna del denaro proveniente dai gruppi dediti al
traffico di stupefacenti».
L'agente tra maggio e agosto del 2020, solo a Torino ha preso in
consegna borsoni di contanti per un milione e mezzo di euro. Il
denaro sarebbe dovuto finire in Colombia, a saldo delle partite di
hashish e cocaina che il «cartello criminale» aveva acquistato a
credito dai narcos sudamericani. L'indagine è partita a Trento, dove
la procura stava investigando sulla lavanderia di denaro che si
reggeva sui "trasferitori" in contatto con il cartello colombiano.
Intermediari incaricati di gestire i pagamenti senza lasciare
traccia si inventavano passaggi tortuosi in grado di schermare la
provenienza illecita dei soldi. Quando la procura torinese ha
ricevuto gli atti, ha fatto mettere sotto controllo i telefoni dei
sospettati che avevano portato i borsoni all'agente in incognito.
Così sono risaliti a due diversi gruppi, organizzati con auto dal
doppio fondo, camion, criptofonini e magazzini dove stoccare e
lavorare la merce. Per i pm Dionigi Tibone e Laura Ruffino il primo
sarebbe capeggiato dal marocchino Hicham Boussen, 45 anni, difeso da
Alessandro Gasparini. Conterebbe su nove "partecipi" - difesi, tra
gli altri, dall'avvocato Giuseppe Spataro - con compiti vari:
approvvigionamento, trasporto e smercio al dettaglio. A capo
dell'altro gruppo ci sarebbe il connazionale Salah Lemaaoui, 49
anni, difeso da Cosimo Palumbo. L'unico gregario identificato è
latitante. Il terzo non è mai stato identificato. Gli investigatori
hanno captato la sua voce al telefono e lo hanno visto all'opera
durante gli appostamenti, ma è sempre sfuggito. Per i soggetti
ritenuti «capi e promotori» che hanno scelto il giudizio abbreviato,
la procura ha chiesto fino a 18 anni di carcere. Per quelli che
hanno scelto il dibattimento si profila un acceso dibattito, perché
il numero minimo per contestare il reato associativo è di tre
persone. Ma il terzo partecipe forse è un "fantasma".
18.10.24
"La salute non è soltanto un costo Si raddoppi il prezzo delle
sigarette"
Silvio Garattini
Le liste d'attesa
Le medicine
"
FRANCESCO MOSCATELLI MILANO
«Per la sanità il governo non sta facendo quello che potrebbe fare.
Però è facile criticare l'esecutivo in carica. In realtà tutti i
governi che si sono succeduti in Italia si sono mossi considerando
la salute una spesa invece che un investimento. Lo stesso accade con
la ricerca o l'istruzione: vengono considerate un costo, mentre sono
un investimento. Purtroppo chi governa guarda più ai voti che agli
interessi del Paese». Silvio Garattini, 95 anni, fondatore e
presidente dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di
Milano, scienziato e allo stesso tempo combattivo difensore del
diritto alla salute, si concentra sulle responsabilità della
politica senza però dimenticare che «tutto dipende dai cittadini,
perché se tutti andassimo a votare probabilmente avremmo anche
politici migliori».
Professor Garattini, il sindacato dei medici ospedalieri annuncia
barricate contro la finanziaria. Qual è il suo giudizio?
«Se i numeri sono quelli che sto leggendo in queste ore i fondi
previsti dalla manovra per la sanità sono pochi. Soprattutto se
guardiamo a quanto spendono gli altri Paesi. A mio parere il
problema principale è che non possiamo continuare a mantenere gli
stipendi dei medici, degli infermieri e più in generale del
personale del Servizio Sanitario Nazionale ai livelli attuali. Sono
fra i più bassi d'Europa e questo comporta il passaggio al privato,
dove le retribuzioni sono migliori, o il trasferimento all'estero. E
poi c'è il tema disuguaglianze, strettamente collegato alla
questione liste d'attesa».
Perché le disuguaglianze aumentano le liste d'attesa?
«Oggi chi paga può avere visite e analisi rapidamente rivolgendosi
ai privati, sempre più spesso attraverso le assicurazioni. E dato
che le assicurazioni hanno la priorità, le liste d'attesa per chi
non può pagare si allungano. È un'ingiustizia che non possiamo
tollerare perché la nostra Costituzione dice che il Paese tutela la
salute di tutti, non solo di chi può permetterselo».
Come si possono ridurre le liste d'attesa?
«Ci sono cose che si devono risolvere nel tempo perché ci sono liste
d'attesa per troppe malattie evitabili. Promuovere la prevenzione,
ad esempio, è il modo più efficace per ridurle. Intervenendo su
fattori come fumo, alcol, droga, attività fisica e sovrappeso, si
diminuiscono anche gli accessi al Servizio Sanitario Nazionale. Solo
così si inverte la tendenza all'aumento dei costi. Per creare
prevenzione, però, serve una rivoluzione culturale. Eppure i
dirigenti della sanità, invece che uscire da una scuola ad hoc, che
in Italia non esiste, continuano a essere scelti e nominati dalla
politica».
Cosa si può fare, invece, nel breve periodo?
«Se ci fossero davvero le case di comunità, ovvero luoghi in cui
venti o trenta medici di medicina generale lavorano insieme, ci
sarebbero meno liste d'attesa. Le case di comunità, però, per ora
esistono davvero solo nelle leggi».
Il problema è sempre lo stesso: la scarsità delle risorse…
«Non condivido questa idea. Trovare i soldi per la sanità sarebbe
facile. Per cominciare si dovrebbe rivedere il prontuario
terapeutico dei farmaci sul quale non si interviene da trent'anni.
Noi paghiamo un sacco di soldi per farmaci che sono inutili o che
sono in sovrabbondanza».
Faccia qualche esempio...
«Perché dobbiamo avere 70 farmaci anti-diabete? Se facessimo dei
confronti e scegliessimo i più efficaci potremmo averne molti meno.
Per trovare i soldi poi si potrebbe raddoppiare il costo delle
sigarette. Oggi da noi è il più basso d'Europa. In Francia un
pacchetto costa 12 euro, in Gran Bretagna 10 sterline».
Non sarebbe una misura impopolare?
«Raccoglieremmo miliardi di euro per la sanità. Anche perché dodici
milioni di fumatori incidono tantissimo sul Servizio Sanitario
Nazionale: abbiamo costi elevati per malattie che senza fumo
sarebbero evitabili. Lo chiediamo da vent'anni. Idem per l'alcol».
Cosa propone?
«L'alcol è un altro fattore cancerogeno. Non si capisce perché non
si fanno i festival delle sigarette ma si fanno quelli del vino. Non
si fa niente di ciò che servirebbe davvero alla salute. La sanità è
diventata un grande mercato. In Italia abbiamo 4,5 milioni di
persone con diabete di tipo 2 e 180 mila morti all'anno per tumore.
Il 40% di queste patologie sarebbe evitabile. Basta volerlo». —
UN REAGALO IMMOTIVATO: TFR
Con silenzio assenso destinato ai fondi
9,7 milioni
Addio al Tfr? Fra le misure delle manovra, c'è l'introduzione di un
semestre di silenzio-assenso per destinare il trattamento di fine
rapporto dei lavoratori ai fondi di pensione integrativa (una strada
già tentata nel 2007). La proposta, partita dal ministro del Lavoro
Marina Calderone, aveva sul tavolo due ipotesi. La prima: conferire
obbligatoriamente e automaticamente ai fondi pensione una fetta del
Tfr – nella misura del 25% – di tutti i lavoratori o solo dei
neoassunti. In alternativa, affidarsi a un meccanismo su base
volontaria (opzione più gradita ai sindacati). Stando all'ultimo
rapporto dell'Inps, l'ammontare di Tfr/Tfs accantonato è di 9,7
miliardi per i dipendenti pubblici mentre per il settore privato
sfiora i 6,9 miliardi. Senza contare le piccole imprese che non lo
versano alla tesoreria Inps (l'obbligo scatta dai 50 dipendenti in
su) e che, anzi, hanno nel Tfr un'importante leva finanziaria.
Secondo la relazione annuale Covip, oggi sono iscritti alla
previdenza complementare 9,7 milioni di lavoratori italiani: solo il
36,9% della forza lavoro.
UN GOVERNO DELIGITTIMATO : Banche
I conti che non tornano
gianluca paolucci
«Aspettiamo di vedere il testo». All'indomani dell'annuncio del
governo sul «contributo» di banche e assicurazioni alla manovra, nel
mondo finanziario prevale la cautela. L'Abi (Associazione bancaria
italiana), che in mattinata ha riunito il comitato esecutivo con
all'ordine del giorno anche l'analisi della manovra, ha fatto sapere
che si esprimerà solo «quando sarà possibile esaminare
l'articolato». Perfino i commenti delle banche d'affari, che in
mattinata sottolineavano l'impatto sostanzialmente neutro della
misura, dopo le parole del ministro Giorgetti e dopo la diffusione
del testo del Documento programmatico di bilancio (Dpb) hanno virato
su un approccio più cauto: «Aspettiamo di vedere il testo». Una
cautela che si è riflessa nell'andamento dei titoli del settore in
Borsa: partenza in buon rialzo, flessione decisa durante la
conferenza stampa del ministro dell'Economia, quando Giorgetti ha
chiarito di ritenere «sacrifici» quelli chiesti al sistema bancario,
lenta ripresa e chiusura poco mossa. Se Giorgetti e il viceministro
Maurizio Leo hanno chiarito che i 3,5 miliardi di maggiori introiti
riguardavano banche e assicurazioni e non solo le banche, il testo
del Documento programmatico di bilancio inviato a Bruxelles nella
tarda serata di martedì racconta un'altra storia.
Secondo le tabelle allegate al Dpb, l'impatto della misura -
calcolato sul pil reale del 2024 - sarà pari a zero per quest'anno,
di circa 3,1 miliardi nel 2025 (quando si vedranno i suoi effetti in
termini fiscali) e negativo per 1,35 miliardi e 1,75 miliardi
rispettivamente nel 2026 e 2027. In sostanza, un anticipo di cassa
che sarà restituito dallo Stato nei due anni successivi. Questa
cifra comprende, hanno spiegato Giorgetti e Leo, il contributo delle
imprese assicurative quantificato in conferenza stampa in un
miliardo di euro. Anche in questo caso - come nel caso delle banche
-, per quanto noto dovrebbe trattarsi di un anticipo: l'imposta
prevista per alcuni tipi di polizze alla scadenza viene adesso
spalmata anno per anno. Numeri diversi da quelli citati in
conferenza stampa, che hanno causato un certo spaesamento anche
negli uffici studi delle grandi banche. Tolto il miliardo a carico
delle assicurazioni, per le banche l'anticipo sarebbe di circa 2
miliardi. Inferiore ai 2,5 miliardi citati in conferenza stampa ma
concentrati in una unica annualità, il 2025 appunto. E non spalmati
su due anni. «Per ora ci atteniamo ai numeri citati dal ministro»,
dice in serata un analista.
Gran parte dei due miliardi a carico delle banche viene dalle
cosiddete Dta, i crediti fiscali differiti, accumulatisi nei bilanci
bancari nella stagione delle svalutazioni miliardarie per effetto
della vendita delle sofferenze. Nei primi cinque gruppi bancari,
questi crediti fiscali ammontano a 30,5 miliardi di euro, un bel
tesoretto, che in questa stagione di ricchi utili servono ad
abbattere il carico fiscale. Secondo le stime della Fabi, le minori
deduzioni previste dalla manovra valgono 780 milioni per Unicredit e
913 per Intesa Sanpaolo. Una parte più piccola del contributo,
inferiore ai 100 milioni, dovrebbe arrivare invece dalla sospensione
degli sgravi fiscali sulle stock option. Anche in questo caso serve
il condizionale, perché i testi normativi non ci sono ancora.
Sta di fatto che nel documento di 38 pagine inviato a Bruxelles non
mancano le curiosità. L'impatto sul pil della manovra, ad esempio, è
stimato nello 0,3%. La spending review, nella forma della revisione
della spesa dei ministeri, avrà un impatto positivo per 3,3 miliardi
tra il 2024 e il 2026, nel 2027 rappresenterà un costo di circa 800
milioni. —
BITCOIN=RICICLAGGIO ma PAOLO ARDOINO L'ad di Tether: "È una misura
che colpisce soprattutto i giovani e le startup delle criptovalute"
" L'aumento delle tasse su Bitcoin è un errore Farà scappare
dall'Italia cervelli e capitali"
Paolo Ardoino
Arcangelo Rociola
«La decisione del governo di portare le tasse sulle rendite da
Bitcoin al 42% è illogica e pericolosa. Colpirà soprattutto i
giovani e le aziende italiane nate in questo settore. Avrà un unico
effetto: aumenterà la fuga di capitali e di cervelli dal nostro
Paese». Nel mondo delle criptovalute, Paolo Ardoino è probabilmente
l'italiano più celebre. È fondatore e guida di Tether, azienda
dietro una valuta digitale dal valore stabile e ancorata al dollaro
che vanta una capitalizzazione di 119 miliardi. Muove ogni giorno 53
miliardi di transazioni e solo nella prima metà del 2024 ha generato
5,2 miliardi di utili. Che giudizio dà alla decisione del governo?
«È una scelta sbagliata, illogica e senza precedenti. Da italiano mi
ferisce. Tassare le rendite più di tutte le altre è il culmine di
una guerra al settore che va avanti da 10 anni».
Perché illogica?
«In conferenza stampa il viceministro Leo ha detto ai aumentano le
tasse sulle rendite perché Bitcoin è diventato uno strumento più
popolare. Cioè il principio è: visto che aumentano i suoi
possessori, portiamo le tasse di chi li possiede dal 26% al 42%. È
miope e pericoloso».
In Italia si stima che i possessori di cripto siano 2,5 milioni, per
circa 2,5 miliardi. Chi sarà più colpito?
«I giovani, che sono la stragrande maggioranza dei possessori. A
loro si sta dicendo che l'Italia tassa un'innovazione e la tassa più
di altre cose. Questo scoraggerà ulteriormente chi vuole fare
innovazione e creare aziende tecnologiche».
Molti sui social dicono di voler lasciare l'Italia.
«Non lo faranno tutti, ma molti penso di si. E poi sia chiaro, chi
lascerà l'Italia sono i grandi possessori di Bitcoin, e sono tanti.
Chi pagherà saranno i piccoli e medi risparmiatori».
Che ne sarà delle aziende italiane del settore?
«C'è un rischio sistemico. Una delle cose peggiori nella vita è non
avere certezze. A queste aziende non solo non ne vengono date, ma
vengono anche penalizzate più di altre. O venderanno o andranno
via».
Un concetto ricorrente nelle sue risposte è la fuga.
«Bitcoin è un portafoglio digitale che ti porti ovunque. Il valore
di Bitcoin è slegato dal Paese in cui ci si trova. È un modo diverso
di intendere la ricchezza. E se un Paese offre condizioni migliori,
uno va. Noi italiani siamo storicamente abituati».
Lei perché è andato via?
«Per necessità. Guadagnavo 800 euro come ricercatore. Ogni anno in
attesa di un rinnovo. Ogni anno con la paura di non averlo. Ripeto,
vivere senza certezze è la cosa peggiore».
Oggi però è uno degli uomini più ricchi d'Italia. C'è chi pensa che
la ricchezza dei possessori di cripto sia iniqua perché finora è
sfuggita al fisco.
«Conosco molta gente che ha cripto e vuole pagare le tasse. Anche al
26%, come avviene con gli altri investimenti. Ma mi faccia dire una
cosa».
Prego.
«C'è una logica sbagliata in tutto questo. Io ho fatto impresa
scommettendo su un'innovazione. L'Italia non ha mai premiato chi
vuole fare innovazione. Non ha mai capito dove andava il mondo,
anche prima delle criptovalute. Conosco menti incredibili nel nostro
Paese che non vengono valorizzate, che a un certo punto si stancano
e vanno via. E poi, se qualcuno riesce in qualcosa non solo non
viene aiutato, ma criminalizzato».
Darebbe un consiglio all'esecutivo?
«Che facciano norme e leggi dopo aver studiato un settore. Si
facciano aiutare da qualcuno. Quello che hanno fatto con le cripto
ha dimostrato che non conoscono né l'industria, né il suo
potenziale. E neppure le conseguenze enormi che avrà questa scelta
sull'intero Paese»
IL PREZZO DELLA SCELTA DEL TOSSICO MUSK : L'invito mancato da parte
di Biden con Scholz, Macron e Starmer. La premier a Bruxelles
minimizza: "Domani sarò in Libano, preferisco così" DISSE LA VOLPE
ALL'UVA.
Ucraina, l'Italia esclusa dal vertice Usa
Ilario Lombardo
Inviato a Bruxelles
Per due volte in meno di una settimana Giorgia Meloni è stata
esclusa dal vertice ristretto dei principali leader occidentali. La
prima, solo virtualmente: perché la riunione, prevista venerdì
scorso a Berlino, come preparatoria del summit di Ramstein
sull'Ucraina, non si è mai tenuta, rinviata su richiesta di Joe
Biden, costretto a restare negli Stati Uniti per affrontare le
devastanti conseguenze dell'uragano Milton sulla Florida.
Domani, sempre nella capitale tedesca, il presidente americano vedrà
il primo ministro inglese Keir Starmer, il cancelliere tedesco Olaf
Scholz, il presidente francese Emmanuel Macron. Meloni non ci sarà,
nonostante sia la presidente di turno del G7, e in altri casi il
formato del vertice tra gli Usa e i più grandi Stati europei – il
cosiddetto Quint – era stato allargato anche all'Italia.
Meloni, da Bruxelles, prova a minimizzare, puntando su un
appuntamento personale, una missione organizzata negli ultimi
giorni: «Non potrei partecipare all'incontro perché nello stesso
giorno sono in Libano e in Giordania. E penso che in questa fase sia
ancora più utile parlare con gli attori della regione. Questo
viaggio è la mia priorità».
La premier a Beirut vedrà il primo ministro e il presidente del
Parlamento, mentre non andrà a fare visita al contingente italiano
della missione Onu, Unifil, nel Sud, nell'area degli scontri tra
Israele e Hezbollah.
«Troppo pericoloso», spiega il ministro Guido Crosetto, dopo gli
attacchi dell'esercito israeliano ai caschi blu. Di certo il viaggio
è una coincidenza perfetta, che, almeno in parte, copre un'assenza
che in qualche modo va spiegata. Stando a fonti diplomatiche, il
motivo va ricercato nella progressiva marginalizzazione dell'Italia
sul fronte delle commesse militari. Ieri Biden ha annunciato un
altro pacchetto di aiuti per l'Ucraina, di 425 milioni di dollari, e
la spedizione di armi a lungo raggio, in grado potenzialmente di
colpire obiettivi in Russia. Il contributo del governo italiano,
invece, nei mesi è diminuito, l'entusiasmo si è raffreddato, sempre
più condizionato dalla disaffezione dell'opinione pubblica verso le
resistenza ucraina. La destra che guida il Paese è spaccata, ma
nessuno dei tre partiti, né FdI, né Lega, né Forza Italia, è
favorevole a far cadere il divieto di utilizzo sul territorio russo
delle armi fornite a Kiev.
Colpisce un altro aspetto: per due anni Meloni e Biden hanno avuto
un'intesa senza sbavature, affettuosa in pubblico, solida in
privato, nonostante i legami politici della premier con Donald
Trump. E questo di domani potrebbe essere l'ultimo importante
vertice di Biden prima del voto americano e dello tsunami che si
abbatterà sul mondo e sull'Europa, se il tycoon repubblicano
riconquisterà la Casa Bianca. Trump potrebbe ridefinire nuovamente i
rapporti con la Russia di Vladimir Putin, non solo degli Stati Uniti
ma anche degli alleati. Rapporti che si sono incrinati, come prova
anche l'ultimo episodio denunciato da Mosca, che ha protestato per
la decisione di negare i visti alla delegazione russa che doveva
partecipare a Milano al 75esimo International Astronautical Congress.
Un atteggiamento delle autorità italiane che è stato duramente
criticato dalla portavoce del ministero degli Esteri, Maria
Zakharova: «Consideriamo questa come un'altra manifestazione del
corso russofobo dell'attuale leadership italiana che assesta un
altro colpo alle relazioni con la Russia»
Nello Stato chiave il Tycoon provò a sovvertire la vittoria di Biden
nel 2020. Oggi sarebbe lui in vantaggio
Georgia, 320 mila elettori hanno già scelto E il giudice blocca la
regola del riconteggio
marco liconti
Washington
A fronte di sondaggi poco affidabili – il New York Times ha dedicato
una lunga analisi al problema – un'indicazione reale su chi vincerà
la Casa Bianca potrebbe essere già presente nelle urne. È la pratica
dell'early voting, il voto anticipato per posta e di persona alla
quale gli americani, a partire dal 2000, fanno sempre più ricorso.
Dopo il picco del 69% nel 2020 causa pandemia, nelle elezioni di
midterm del 2022 il 50% dei partecipanti al voto avevano scelto
questa modalità. In attesa dei dati finali – si avranno dopo l'Election
Day del 5 novembre – fa scalpore il record di 328 mila voti
anticipati fatto registrare in Georgia (Stato-chiave) nella prima
giornata di apertura anticipata del voto. E sempre in Georgia, dove
Donald Trump nel 2020 tentò di sovvertire l'esito del voto
favorevole a Joe Biden («Trovatemi i voti», diede ordine alle
autorità elettorali dello Stato), un giudice, Robert McBurney, ha
bloccato la nuova regola voluta dai Repubblicani di riconteggiare a
mano tutti i voti che verranno espressi nello Stato, per verificare
che il numero delle schede coincida con quello degli elettori. Una
richiesta che avrebbe ritardato di giorni l'annuncio del risultato.
McBurney è anche il giudice che presiede il processo (ora fermo) a
Donald Trump per le vicende di quattro anni fa. Il tycoon, che per
anni ha accusato (senza prove) i Democratici di sfruttare l'early
voting per falsificare il voto, in questa tornata elettorale ha
cambiato completamente rotta. La sua campagna sta incoraggiando gli
elettori a votare anticipatamente. Appelli espliciti sono stati
lanciati in questo senso in Pennsylvania e North Carolina, anch'essi
Stati-chiave per la conquista della Casa Bianca. Forse perché un
recente sondaggio dell'Università di Harvard gli assegna un lieve
margine su Kamala Harris nel voto anticipato (48-47). Comunque, una
conferma di quanto in questa elezione ogni singolo voto possa
spostare gli equilibri. Nei sette Stati-chiave, il calendario dell'early
voting prevede le urne già aperte per Arizona, Georgia e in gran
parte delle contee della Pennsylvania. Entro la fine di questa
settimana si aggiungeranno North Carolina e Nevada, entro la
prossima Wisconsin e Michigan. Nel frattempo, fioccano le cause
legali sulle regole elettorali. Soprattutto negli Stati-chiave,
Democratici e Repubblicani hanno già presentato nei tribunali decine
di ricorsi, contestandosi reciprocamente presunti vantaggi. È
un'anticipazione di quanto potrebbe accadere dopo il 5 novembre.
LA STORIA INFINITA : I dialoghi tra il direttore generale Iorio e
l'imprenditore Massimo Rossi: "Quando arrivano i pacchi?". Per gli
inquirenti si trattava di mazzette
Inchiesta Sogei, gli indagati al telefono "Dai che qui c'è da
lavorare per tutti"
irene famà
roma
«Sono arrivati i pacchi? » . Insistente Paolino Iorio, il direttore
generale di Sogei, che contattava l'imprenditore Massimo Rossi con
cui era in affari. Voleva sapere se erano arrivati i soldi, quel
denaro che tramite Rossi pare si intascasse per favorire questa e
quella società in gare e appalti. Intercettato al telefono dalla
Guardia di finanza, si informava sui tempi. «Quanto devo ancora
aspettare? » . Spazientito continuava a chiamare. E quelle
telefonate, che l'hanno portato agli arresti domiciliari per una
vicenda di corruzione, sono tutte raccolte in un'informativa agli
atti della procura di Roma.
Iorio, una lunga carriera come manager pubblico, dal primo settembre
2023 è a capo della Direzione ingegneria, infrastrutture, data
center e dallo scorso marzo diventa il numero uno della società che
si occupa della gestione dei servizi informatici della pubblica
amministrazione controllata al 100% dal ministero dell'Economia.
L'altro giorno viene arrestato: con sé 15mila euro in contanti
appena consegnati dall'amico imprenditore. Agli inquirenti ha
confessato di aver preso centomila euro. Tangenti? Assolutamente no.
«Davo consigli, facevo attività di consulenza».
Gli accertamenti dei finanzieri del Comando provinciale di Roma e
del nucleo speciale polizia valutaria raccontano una storia diversa.
Massimo Rossi voleva favorire le imprese legate a lui, alla sua
famiglia e ai suoi amici. E pagava Paolino Iorio. In questo modo, si
legge negli atti, con Sogei avrebbe stipulato una «serie di
contratti» per oltre cento milioni. I due si incontravano un paio di
volte al mese. «Dal novembre 2023», sostengono gli inquirenti della
procura di Roma. Iorio pare abbia raccontato che gli scambi erano
iniziati già a febbraio 2023. Altro aspetto al vaglio degli
investigatori che al manager hanno sequestrato pure un cellulare di
quelli vecchi. Acquistato apposta per parlare con Rossi
"riservatamente", senza pericolo che venisse inoculato un trojan. La
sim? Intestata alla moglie dell'imprenditore. Massimo Rossi, anche
lui finito ai domiciliari, davanti ai pm ha scelto di avvalersi
della facoltà di non rispondere.
Le indagini proseguono. Sogei ha inviato un'informativa alla Corte
dei Conti. In una nota spiega di aver revocato «tutte le cariche,
gli incarichi e le procure conferite all'ingegnere», di aver avviato
degli accertamenti interni e di essersi rivolta a un legale per
potersi costituire parte offesa in un eventuale procedimento penale.
L'inchiesta, coordinata dagli aggiunti Giuseppe Cascini e Paolo Ielo
e dai magistrati Lorenzo Del Giudice e Gianfranco Gallo, ruota
intorno a gare e appalti truccati banditi da Sogei, dal ministero
dell'Interno-Dipartimento della Pubblica sicurezza, dal ministero
della Difesa e dallo Stato maggiore della Difesa. E il ministro
dell'Economia Giorgetti commenta: «Aspettiamo il lavoro della
magistratura». Mentre il senatore Boccia del Pd chiede «al Governo
di spiegare in Parlamento».
Diciotto le persone indagate, quattordici le società, di cui due
quotate in Borsa, Olidata e Digital Value. Ed è proprio su Olidata
spa, noto nome del mondo hi-tech, che gli accertamenti si
soffermano. Due degli indagati, un ufficiale di Marina e un
dipendente del ministero dell'Interno, erano soci occulti tramite le
mogli. E cercavano di stringere dei patti per riuscire a inserire la
società in svariati affari.
«Dai che qui c'è da lavorare per tutti». Così l'ufficiale Antonio
Masala avrebbe detto al telefono ai "suoi" in Olidata, convinto di
essere riuscito a concludere un contratto di forniture con il
colosso SpaceX, azienda aerospaziale statunitense. Come? In cambio
di informazioni con Antonio Stroppa, l'uomo di Elon Musk in Italia.
Nei guai è finito anche il rappresentante legale della Spa Cristiano
Rufini. Lui assicura «la massima disponibilità a collaborare con la
magistratura». E da Olidata si dicono «a completa disposizione degli
inquirenti». —
MAFIA ISTITUZONALE : 'inchiesta
Anzio, la mafia e il vertice segreto al bar L'ex assessore indagato
pilota le liste
Il bel mare da cartolina è lontano. Una via di periferia anonima,
con casette basse e qualche artigiano. A metà strada un bar senza
tante pretese, tavolini di plastica, un ombrellone inutile con il
sole autunnale. Anzio, 54 mila abitanti, paesone a sud della
capitale, sembra lontano miglia da questo luogo. Distanti i
ristoranti di pesce, la movida, il chiasso estivo, le spiagge dei
romani ad agosto. Nessuno sguardo curioso. Qui un gruppetto di
persone sta decidendo parte del futuro della città. È proprio di
discrezione che c'è bisogno.
Il Comune, sciolto per infiltrazione mafiosa due anni fa, sta per
tornare alle urne, in un'elezione delicata e tesa. Il 17 e 18
novembre si voterà. Una decina di giorni prima arriverà la sentenza
del processo Tritone, l'inchiesta della DDA romana - pm Giovanni
Musarò e Alessandra Fini - che ha colpito, per la terza volta, le
cosche di ‘ndrangheta radicate sul litorale da decenni.
Nel bar nella periferia di Anzio martedì scorso si stavano decidendo
le liste elettorali di una parte dello schieramento della destra.
Discussioni animate sui nomi, i candidati che arrivano per firmare
l'accettazione della candidatura, qualche caffè, tante telefonate.
C'è chi ricorda i bei tempi passati: «Ho lavorato otto anni con
Candido», racconta un trentenne del posto, con ostentato orgoglio.
Il riferimento è all'ex sindaco Candido De Angelis, oggi indagato
per scambio elettorale politico-mafioso. Qualcuno commenta gli
ultimi arresti, o gli esiti di altri processi. Qui, sul litorale
romano, politica e inchieste giudiziarie spesso viaggiano in
parallelo. Due i comuni attualmente sciolti: oltre ad Anzio, la
vicina Nettuno, mentre ad Aprilia - il cui sindaco è stato
recentemente arrestato per un'altra indagine della Direzione
distrettuale antimafia della capitale - è arrivata la commissione
d'accesso da un paio di mesi.
A gestire la delicata fase della chiusura di alcune liste elettorali
nel paese sciolto per mafia ci sono i protagonisti della giunta
colpita dal provvedimento del ministro Piantedosi e, in parte,
dall'inchiesta della Procura di Roma. Assessori, consiglieri
comunali, esponenti della politica locale, alcuni di loro troppo
vicini ai vertici della Locale di ‘ndrangheta di Anzio e Nettuno.
Con qualche nome ben noto alle cronache giudiziarie. Quando la
riunione sta per iniziare arriva sorridente Gualtiero Di Carlo, già
assessore all'ambiente. Insieme all'ex sindaco De Angelis è indagato
oggi per voto di scambio politico-mafioso, un reato che prevede la
pena detentiva da dieci a quindici anni, la stessa prevista per gli
associati alle cosche. Si siede al tavolo dove verranno decisi i
nomi dei candidati. Poco prima una giovanissima studentessa aveva
firmato i moduli per presentarsi in una lista delle prossime
elezioni: «Che partito devo mettere, zio?», chiede ad un altro ex
assessore presente (non indagato), Bruno Tuscano. «Forza Italia»,
risponde, mentre al telefono dà indicazioni per raggiungere il
piccolo bar. Volti nuovi, certo. Puliti, senza dubbio. Ma la
macchina elettorale appare - in questa desolata strada di periferia,
lontano da sguardi troppo curiosi - nelle mani della classe
dirigente sporcata dalle inchieste dei magistrati antimafia. La
presenza sicuramente più ingombrante nella riunione di martedì
scorso - che La Stampa ha potuto documentare - era quella dell'ex
assessore Gualtiero Di Carlo. Un passato da pugile alle spalle, Di
Carlo è legato da un rapporto di amicizia con Davide Perronace,
indicato dai magistrati romani come uno dei tre vertici della Locale
di ‘ndrangheta, insieme a Giacomo Madaffari e Bruno Gallace. Nei
confronti di Perronace il pubblico ministero Giovanni Musarò ha
chiesto 24 anni di reclusione nel processo Tritone. I captatori
informatici del Nucleo investigativo del comando provinciale dei
Carabinieri di Roma hanno documentato i tanti incontri di Perronace
con il mondo politico di Anzio. Strettissimi i rapporti con l'ex
assessore Di Carlo, fotografato, tra l'altro, mentre abbraccia e
bacia uno dei capi della Locale di ‘Ndrangheta. Quando, il 17
febbraio 2022, scatta l'operazione Tritone con 65 arresti, il
politico di Forza Italia organizza subito una raccolta di fondi a
favore della famiglia Perronace, donando personalmente 1.500 euro
alla moglie di Davide. Appena tre giorni prima il boss calabrese
presentava l'amico al cugino, come assessore del Comune di Anzio:
«Mi ci ha messo lui, mi ha mandato a fare l'assessore all'ambiente,
il potere è il suo, mica il mio», si scherniva Di Carlo. Ancora più
inquietante la scena che trovano i carabinieri, all'inizio del 2022,
durante un controllo a Perronace, all'epoca agli arresti
domiciliari. Nel salotto di casa c'erano tanti politici locali, tra
i quali lo stesso Di Carlo. «Ma che state facendo qua, il consiglio
comunale? È meglio che andiamo via», è stato l'incredibile commento
dei militari.
Tra i pilastri dell'inchiesta Tritone c'è proprio l'ipotesi di un
condizionamento delle elezioni comunali da parte dei vertici della
Locale di ‘Ndrangheta. Nel 2018, quando si votò per i consigli di
Anzio e Nettuno, gli investigatori stavano già ascoltando in diretta
le conversazioni telefoniche tra gli esponenti di punta della
politica locale e le famiglie mafiose. Protagonista all'epoca per la
compilazione delle liste elettorali era Vincenzo Capolei, ex
coordinatore locale di Forza Italia per il collegio elettorale di
Anzio, Nettuno, Ardea e Pomezia, nonché fratello di un consigliere
regionale di maggioranza, Fabio. Quando fu scelto dalla coalizione
di destra il nome del candidato sindaco per il Comune di Nettuno «Capolei
informò subito Madaffari Giacomo», ovvero il capo
dell'organizzazione ndranghetista attiva sul litorale romano,
scrivono i pm nella memoria presentata dopo la requisitoria del
processo Tritone. Il candidato, Alessandro Coppola, venne poi
eletto.
Oggi Capolei giura di essere lontano dalla politica locale: «Io non
c'ero alla riunione di Anzio ieri, sto in Toscana - spiega a La
Stampa - può essere che c'era mio fratello, il consigliere
regionale, non io… Io quest'anno mi sono messo proprio in vacanza…».
Di sicuro carriera ne ha fatta: oggi è uno degli uomini di fiducia
del senatore Claudio Fazzone, coordinatore regionale di Forza
Italia.
Cogefa Stop per mafia
giuseppe legato
La scure dell'Antimafia si abbatte sulla società Co.Ge.fa, colosso
di grandi cantieri e delle infrastrutture autostradali finita alcuni
mesi fa al centro di un'inchiesta della Dda di Torino che ha svelato
l'infiltrazione della ‘ndrangheta nei cantieri deputati alla
manutenzione della A32 Torino-Bardonecchia. Il documento di analisi
della Prefettura, frutto di un lungo e articolato lavoro di un
gruppo investigativo interforze, annota i rapporti che collocano
questa società, destinataria di plurime (e milionarie) commesse
pubbliche ad ambienti della criminalità organizzata calabrese. E
mette nel mirino le contiguità – storiche e recenti – con esponenti
di criminalità comune e mafiosa.
Tutto ruota intorno alla famiglia Fantini il cui capostipite,
fondatore di Cogefa, (e già amministratore di Sitalfa) Teresio
Fantini, deceduto 18 anni fa, viene analizzato dagli investigatori
nei suoi rapporti con Giuseppe Pasqua soggetto definito «ben
introdotto nell'ambiente ‘ndranghetista del torinese ed operante a
Brandizzo» nonché destinatario di una condanna risalente al 1982 per
omicidio e a oggi indagato per associazione di stampo mafioso
nell'ultimo blitz del Ros ribattezzato "Echidna". Ci sono ancora i
fili che collegano Teresio (ma stavolta anche i figli Roberto e
Massimo) ad Antonio Esposito meglio noto come "Tonino", precedenti
penali per associazione a delinquere finalizzata all'usura in
concorso con Rocco Lo Presti, boss di primissimo piano degli anni
Ottanta (e fino alla sua morte) in Valsusa, conosciuto come "il ras
di Bardonecchia" e con Luciano Ursino (esponente di spicco della
‘ndrangheta) entrambi organici alla cosca Mazzaferro-Ursino.
In quel gruppo – fanno notare gli investigatori – Teresio veniva
chiamato "Il Generale". Risulta agli atti che Esposito – insieme a
un socio – abbia beneficiato di incarichi di guardiania dei cantieri
e commesse lavorative per la sua società cooperativa "Dyana".
Ancora a fondamento del provvedimento interdittivo figurano i
rapporti tra membri della famiglia Fantini e l'imprenditore Gian
Carlo Bellavia, attualmente agli arresti domiciliari per concorso
eterno in associazione mafiosa che gli è contestato nell'operazione
Echidna (ma già attenzionato nel procedimento "Platinum Dia").
E secondo quanto si apprende da fonti investigative anche il ruolo
di Roberto Fantini ha un peso sullo stop amministrativo e sul
concreto rischio di infiltrazione mafiosa. Gli investigatori
considerano Roberto, figlio di Teresio, un amico dei Pasqua,
indagati in quanto (presunti) affiliati alla ‘ndrangheta. Giuseppe
Pasqua «aveva con Fantini – scrive il gip nell'ordinanza di custodia
cautelare – un rapporto privilegiato». Infine, un focus riguarda le
cointeressenze economiche nei rapporti tra clienti e fornitori: gli
inquirenti mappano almeno quattro società riconducibili a loro
avviso alla famiglia Fantini (Cogefa, Trama srl, società agricola
"La Teresina" e consorzio Edilmaco) che hanno avuto rapporti
commerciali con imprese "controindicate" tra queste diverse sono già
state oggetto di diniego di iscrizione alla white list della
Prefettura. Per un importo dal 2019 ad oggi di circa 450 mila euro.
L'interdittiva antimafia è un provvedimento amministrativo adottato
dal Prefetto, di natura cautelare e preventiva previsto dal
cosiddetto "Codice antimafia" (decreto legislativo 6 settembre 2011,
n. 159). L'obiettivo è «impedire i rapporti contrattuali con la
Pubblica amministrazione di società, formalmente estranee ma,
direttamente o indirettamente, comunque collegate con la criminalità
organizzata». Viene emessa ogni volta che siano stati rilevati
tentativi di infiltrazione (sono sufficienti forti sospetti) da
parte della criminalità organizzata volti a condizionare le scelte e
gli indirizzi dell'impresa coinvolta. A chi viene colpito dall'interdittiva
è preclusa ogni possibilità di ottenere contributi, finanziamenti e
mutui agevolati, concessi dallo Stato, da altri enti pubblici o
dall'Unione europe.Il colosso delle costruzioni ha 400 dipendenti e
1.200 lavoratori al giorno in diversi appalti. Decine di cantieri in
pericolo
Dal Tenda alle opere per la Tav
L'azienda: "Noi vittime, ora il ricorso"
massimiliano peggio
Alle otto di sera Cogefa annuncia: «Abbiamo già avviato tutte le
azioni necessarie per impugnare il provvedimento emesso dalla
Prefettura e richiedere la sospensiva presso il Tar per difendere la
nostra reputazione e il futuro di dipendenti e collaboratori. Nonché
per garantire la continuità delle attività aziendali e la corretta
esecuzione delle commesse».
Il tema è ampio e delicato. Cogefa è un colosso con 400 dipendenti
diretti e 1200 lavoratori al giorno distribuiti nei vari appalti. In
ballo ci sono (oltre agli appalti diretti) anche le partecipazioni
ai consorzi di impresa in molti lavori pubblici. Uno per tutti al
col di Tenda, dove l'appaltatore è Edilmaco. Oppure gli interventi
al Moncenisio (tanto per fare due esempi): è possibile che anch'essi
si debbano fermare. Commenta l'avvocato dell'azienda, Carlo Merani:
«Cogefa in questo caso è una vittima. E il paradosso è che invece di
aiutarla viene punita. Dico questo perché è la stessa Prefettura a
scrivere nel documento che c'è la possibilità che l'azienda subisca,
ripeto subisca, dei possibili tentativi di infiltrazione mafiosa».
Nasce da qui, «la necessità» di presentare rapidamente il ricorso
con la richiesta di sospensiva. Nel frattempo, però, ruspe e
cantieri si fermano. Anche nelle opere dei privati, quelli che
adottano per le assegnazioni gli stessi criteri degli enti pubblici.
Ma cos'è Cogefa? È la testa di un impero che si occupa di grandi
costruzioni, opere di rilevanza strategica: una produzione economica
(a fine 2023) di oltre 214 milioni di euro. Seguendo le orme di
partecipazioni e alleanze imprenditoriali si va dagli interventi
complementari del traforo ferroviario della Torino Lione, al
cantiere del nuovo tunnel del colle di Tenda, fino alla
progettazione e realizzazione dei lavori di ottimizzazione della
Torino-Milano con la viabilità locale.
Il nome Cogefa emerge tra la opere collegate al cantiere Tav. È
infatti nel raggruppamento di imprese che deve costruire l'impianto
per il riutilizzo del materiale di scavo proveniente dal traforo
ferroviario. Valore dell'intervento: oltre 648 milioni di euro.
Il valore delle partecipazioni che fanno capo alla Cogefa supera i 6
milioni di euro. Tramite questo reticolato di società, si arriva a
un altro tunnel, quello Cuneese, forse il più sfortunato. Quello del
Colle di Tenda. Prima colpito dalla risoluzione del rapporto con il
precedente appaltatore per clamorose magagne strutturali, poi le
inchieste giudiziarie - che nulla hanno a vedere con l'attuale
interdittiva antimafia - e infine l'alluvione dell'ottobre 2020. La
Cogefa è collegata a quel cantiere tramite il Consorzio Edilmaco, di
cui possiede il 50%. Ed è frutto di un tandem con un altro colosso
delle costruzioni, la Mattioda Spa: è subentrato nell'appalto
integrato per la «progettazione e l'esecuzione dei lavori del nuovo
tunnel». Intervento problematico: l'alluvione di 4 anni fa ha
distrutto il cantiere. Difficoltà così invasive da essere annotate
nel bilancio societario. Di pregio anche la partecipazione alla
società Alfa Batiment Sarl, nel Principato di Monaco, che realizza
stabili di lusso. Tra le altre opere c'è palazzo Bernini a Torino.
QUANDO C'ERA LA SOPRAELEVATA NON
SUCCEDEVA, MA INTERESSI EDILIZI LA HANNO ELIMINATA: Girone
Baldissera
pier francesco caracciolo
Trenta minuti per percorrere un chilometro. Tanto ci hanno messo
ieri mattina gli automobilisti di passaggio in piazza Baldissera,
intricato snodo del quadrante Nord-Ovest di Torino. Il maltempo, che
ha aumentato il numero di vetture in strada, sommato alla chiusura
di due vie della zona, bloccate per la presenza di altrettanti
cantieri: è nata così la "tempesta perfetta", che si è
materializzata con code che, in corso Venezia, hanno raggiunto i tre
chilometri di lunghezza.
Il picco del traffico si è registrato tra le 8 e le 9, 30, quando
centinaia di torinesi erano diretti a scuola o sul posto di lavoro.
Gli agenti di quattro pattuglie della polizia municipale sono
intervenuti per dirigere il voluminoso flusso di auto, riuscendo
però solo a limitare i danni.
Nel filmato girato da Carmela Ventra, consigliera in Circoscrizione
5, la coda di veicoli si perde all'orizzonte, sia in un senso di
marcia che nell'altro. Il suono dei clacson delle vetture
imbottigliate e la sirena di un'ambulanza impegnata a destreggiarsi
tra i veicoli fanno da sottofondo al video. Il cuore dell'ingorgo,
neanche a dirlo, è proprio la rotonda, dove le auto sono ferme una
dietro l'altra.
«Trentacinque minuti buttati e in ritardo sulla tabella di marcia
già di prima mattina» scrive sui social Valerio Lomanto, presidente
della Circoscrizione 6, rimasto imbottigliato nel traffico. A essere
rallentati, oltre alle auto, i mezzi pubblici: «Sono rimasta un'ora
alla fermata per portare mio figlio a scuola: inammissibile» scrive
una mamma. «Oggi (ieri, ndr) tutta Torino ovest è bloccata» aggiunge
Enrico Sola, automobilista. Ad essere chiuso al traffico, ieri
mattina, uno dei controviali di corso Venezia, bloccato dal 16
settembre per un quadruplo intervento sulle condotte sotterranee.
Interdetto alle auto, da lunedì scorso, anche l'imbocco di via
Chiesa della Salute, che da piazza Baldissera dista 150 metri.
Gli automobilisti dovranno convivere con l'attuale rotonda
Baldissera, dove oggi passano cinquemila auto ogni ora, almeno fino
all'inizio del prossimo anno. Entro la fine del 2024 il Comune
metterà a bando i lavori per il restyling della piazza, finalizzati
a snellire il traffico. I cantieri partiranno nel primo trimestre
del 2025, con l'obiettivo di chiuderli in tredici mesi (dunque nel
2026). L'operazione costerà 7,5 milioni di euro, finanziata per 4,5
milioni con fondi della Città e per 3 milioni con le risorse
assegnate dal Pn Metro Plus.
Il progetto del Comune prevede di sostituire la rotatoria con un
incrocio regolato da sei semafori. Il piano d'intervento contempla
anche il ripristino dell'impianto tranviario (la linea 10) già
presente lungo le vie Cecchi, Chiesa della Salute e Bibiana (il
servizio sarà riattivato anche tra piazza Statuto e via Massari,
dove oggi viene effettuato con autobus).
La gestione dell'incrocio avverrà in modo dinamico, vale a dire con
semafori intelligenti, in grado leggere in tempo reale i flussi di
auto, pedoni e ciclisti e accendere le lampade rossa e verde di
conseguenza. Ogni carreggiata, poi, sarà dotata di una corsia
diretta a destra, per consentire di effettuare la manovra di svolta
a monte dell'intersezione, senza dover impegnare l'incrocio.
Nei prossimi mesi la Città si muoverà per illustrare ai torinesi i
dettagli del cantiere. «Prima dell'inizio dei lavori convocheremo
una serie di incontri pubblici» spiega Chiara Foglietta, assessora
alla Viabilità. Saranno coinvolte, aggiunge l'assessora, le quattro
Circoscrizioni il cui territorio ricade nella zona di piazza
Baldissera (sono la Quattro, la Cinque, la Sei e la Sette). «Come
sta avvenendo in questi mesi in via Po, non ci sarà mai una chiusura
totale al traffico della zona – aggiunge Foglietta, con riferimento
a piazza Baldissera – Si procederà per lotti, così da ridurre i
disagi per gli automobilisti».
TRIBUNALE INGIUSTO: Si spacca le vertebre a lavoro, per il pm il
caso va archiviato: Cgil, Cisl e Uil contro la decisione
La solidarietà dei sindacati all'operaio " Serve giustizia per
Massimo Fasolio "
Giovanni Turi
«Serve giustizia per Massimo Fasolio. La responsabilità non è sua
come singolo lavoratore che si è infortunato, ma di chi ha
organizzato il processo di lavoro, indipendentemente dal contratto».
Non le manda a dire il segretario generale della Cgil Piemonte,
Giorgio Airaudo. I toni dei sindacati provinciali e regionali sono
amareggiati. Ma anche di denuncia. Rimuginano e non accettano la
storia di Fasolio, ex operaio metalmeccanico, oggi 61enne, che si è
fratturato le vertebre sollevando pacchi a mano da 25 e 50 chili,
inerme davanti alla richiesta della procura di Torino di archiviare
il caso come infortunio sul lavoro.
Una vicenda anticipata che porta a poche, dure conclusioni. Come
quella della segretaria della Cisl Torino-Canavese, Cristina
Maccari: «Valgono più i sacchi di paraffina della salute di un
lavoratore. Un contratto di somministrazione di una settimana a 8
euro all'ora non guarda in faccia a nessuno, anzi rende chiunque
ricattabile».
Era questa la condizione di Fasolio: disoccupato da sei anni, alla
prima chiamata dell'agenzia per il lavoro ha risposto subito
presente. «Non poteva dire di no – continua Airaudo – Non aveva
alternative. La precarietà sommata alle misure del governo sta
portando a una stagionalità perenne. Se poi ai contratti dalla
durata di pochi giorni, che rendono i lavoratori invisibili,
aggiungiamo l'inadeguatezza dei salari italiani si arriva a episodi
come questi». Duro anche il segretario della Uil Torino e Piemonte,
Gianni Cortese. «Le aziende dovrebbero fare formazione e prevenire
queste situazioni – spiega –Laddove non è possibile, servono più
controlli. Anche se oggi la possibilità di un'ispezione sul luogo di
lavoro è sotto il 5%, viste le carenze di organico tra gli
ispettori». Poi, scandagliando la vicenda di Fasolio, aggiunge: «C'è
una responsabilità dell'azienda – dice – Si ravvisa un'assenza degli
ausili al sollevamento dei pesi, il che è anacronistico in un
periodo in cui si parla di intelligenza artificiale e tecnologie che
alleggeriscono il lavoro manuale». Si accoda Maccari che sottolinea
come «il lavoratore non può auto valutarsi le condizioni di salute.
Non comprendo la scelta della procura per cui l'operaio avrebbe
dovuto dire di no. E poi le valutazioni sull'idoneità dovrebbero
passare da un medico».
Sulle denunce d'infortunio in Piemonte, gli ultimi dati Inail danno
uno spaccato chiaro: nei primi 8 mesi del 2024 se ne contano 28.
328, +2, 6% rispetto all'anno precedente. Chiosa Federico Bellono,
segretario generale della Cgil di Torino: «Questa sentenza non ci
soddisfa e auspichiamo che il ricorso del lavoratore, a cui va la
nostra solidarietà, venga accolto – sostiene – Ma il problema non è
nei tribunali, ma fuori dalle aule di giustizia. Le persone sono
sotto ricatto, hanno paura di perdere il lavoro e mantenerlo è più
importante della tutela della propria salute. Ormai siamo di fronte
a un sistema che mette al centro il profitto a ogni costo». —
BANCOMAT ANTI AMBIENTE : «Indietro non si torna». Il progetto
di mobilità sostenibile «A piedi tra le nuvole», tra Ceresole e il
Colle del Nivolet, con tutta probabilità sarà definitivamente
archiviato.
Lo stop dell'estate appena trascorsa, voluto dall'Ente parco Gran
Paradiso, potrebbe risultare propedeutico a una mezza rivoluzione,
proprio come aveva anticipato, qualche mese fa, il direttore del
Parco, Bruno Bassano. Rivoluzione che potrebbe passare (anche)
dall'istituzione di un «pedaggio ambientale» per chi sceglie di
salire in quota con il proprio mezzo a motore. Un po' quello che
succede alle Tre cime di Lavaredo (tra Veneto e Trentino).
«Per la prima volta in vent'anni, con la riapertura domenicale,
abbiamo raccolto dei dati scientifici che a breve illustreremo nel
dettaglio - conferma il presidente del Gran Paradiso, Mauro Durbano
- presenteremo una proposta di regolamentazione organica del
traffico verso il colle del Nivolet, valida tutti i giorni d'estate
e non solo la domenica e i festivi».
Negli ultimi due decenni, «A piedi tra le nuvole» ha visto la
chiusura domenicale della provinciale 50 che dalla diga del Serrù si
arrampica fino ai 2640 metri di quota del colle del Nivolet.
«Auspichiamo che, dopo la pausa di riflessione di quest'anno, il
Parco e il Comune di Ceresole Reale tornino a fare sistema con la
Città metropolitana - dice in merito il vicesindaco metropolitano
Jacopo Suppo - per salvaguardare, almeno nelle giornate festive dei
mesi di luglio e agosto, un patrimonio naturale e un'infrastruttura
viaria di grande valore, per la cui salvaguardia il nostro ente da
sempre impegna ingenti risorse finanziarie e professionali».
L'ex provincia, proprietaria della strada, ha ribadito dal canto suo
l'impegno a proporre, soprattutto in ambiente montano, alternative
alla mobilità motorizzata individuale: «Siamo disponibili ad un
confronto per definire per il 2025 nuove modalità di
regolamentazione estiva, considerando prioritaria la tutela
dell'ambiente alpino ma anche la sicurezza della circolazione». Il
confronto sicuramente ci sarà (allargato ai Comuni di Ceresole e
Valsavarenche) ma il Parco Gran Paradiso non ha intenzione di fare
passi indietro: «Apprezziamo la volontà di dialogare - conferma
Durbano - ma questo non significa tornare al passato. Anzi sarà
proprio l'occasione per proporre qualcosa di nuovo». Con la
possibilità, come detto, di arrivare ad un «pedaggio ambientale» per
chi sale in quota, anche solo con il pagamento dei parcheggi (oggi
liberi e selvaggi) e l'istituzione di un numero chiuso per evitare
gli «assalti» al colle.
Intanto, da martedì 15 ottobre, per la provinciale 50 del Nivolet è
iniziato il periodo di chiusura invernale che terminerà, neve
permettendo, il 15 maggio del prossimo anno. Ci sono più di sei mesi
per trovare una quadra in vista della prossima estate. —
17.10.24
L'intervento
Flavia Perina
Multato perché invoca la pace La libertà vittima dell'eccesso di
zelo «Quando ho messo lo striscione sul mio banco di miele ho
pensato che non potevo più separare la mia attività lavorativa da
una battaglia che sento urgente: quella per il ripristino dei
diritti dei civili a Gaza. Così mi sono detto: perderò qualche
cliente ma lo preferisco all'essere indifferente». Marco Borella ha
42 anni, è un apicoltore ed educatore comasco. Due giorni fa,
davanti al suo banco al mercato di Desio dove vende il miele della
sua azienda agricola, sono arrivati i Carabinieri che gli hanno
fatto un verbale da 430 euro per aver esposto ed essersi rifiutato
di rimuovere un cartello con la scritta "Stop bombing Gaza. Stop
genocide".
l1Lei si occupa di api. Cosa c'entra Gaza?
«Per me non c'è giustizia ambientale senza giustizia sociale. I due
temi non sono separati. Le api sono politica, esattamente come lo è
lo smaltimento dei rifiuti, i trasporti. E a proposito di rifiuti,
per ripulire Gaza ci vorranno anni».
l2Come si è sentito quando sono arrivati i Carabinieri?
«Ho cercato di rimanere tranquillo ma ero agitato. Sentivo di stare
subendo un'ingiustizia. Ma ho spiegato le mie ragioni ai militari.
Sarebbe stato ipocrita rimuovere lo striscione per quieto vivere».
l3Perché la contestazione solo adesso, visto che lo striscione lo
espone da due mesi?
«Non so chi ha fatto la segnalazione alle forze dell'ordine. Non so
se c'è un mandante politico. Mi hanno detto che qualcuno si è
sentito offeso dal contenuto dello cartello. In ogni caso, non
conteneva insulti, né incitamento all'odio. Per cui la contestazione
(commi 1 e 11 del codice della strada, ndr) è per aver esposto un
cartello che "distrae gli automobilisti". Ma il banco non guarda la
strada».
l4Cosa farà con il verbale?
«Farò ricorso. Mi sono rivolto a un avvocato e finché non ci sarà la
pronuncia non pagherò».
l5Cosa pensa il suo legale?
«Mi ha detto di star tranquillo. In ogni caso, il livello di
intollerabilità della situazione in Palestina è a un livello tale
che non potevo più stare zitto». —
Siamo certi che sia solo eccesso di zelo
la multa di 430 euro comminata dai carabinieri di Desio, Brianza,
all'apicoltore Marco Borella che da mesi espone sul suo banco un
cartello con due frasi in favore di Gaza: "Stop bombing" e "Stop
genocide". Siamo certi che gli arriveranno le scuse, e ovviamente la
rottamazione del verbale, e l'affetto delle organizzazioni agricole
grandi e piccole, e le rassicurazioni della politica. Tranquillo, è
stato un equivoco, Stop Bombing si può dire. Mica siamo a Kabul. Da
noi ogni cosa che non sia un insulto o una minaccia si può dire,
soprattutto se si dice a volto scoperto, senza bastoni, e per di più
accompagnata dalla gentilezza del miele.
Al momento non è ancora successo, ma siamo sicuri che succederà.
Viviamo nell'Italia dell'Articolo 21, "tutti hanno diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo
scritto e ogni altro mezzo di diffusione", una frase che scolpisce
il divieto di perseguire le opinioni per qualsiasi motivo, compresa
(come è immaginabile sia successo a Desio) la protesta di chi non è
d'accordo. E per di più siamo l'Italia che ama le api e gli
apicoltori, ne ha fatto un tema anche politico, e pure sullo Stop
Bombing, la fine dei bombardamenti sui civili di Gaza, la tregua, si
è espressa ripetutamente ai massimi livelli, e anche se fosse stato
il contrario: ma davvero può costituire un fastidio politico un
cartello su una bancarella?
Ecco, vorremmo che questa vicenda – dopo le scuse, la solidarietà,
l'affetto – aiutasse anche a capire quanto l'eccesso di zelo può
risultare irritante e dannoso per le istituzioni, ovunque. Irritante
perché affoga nei verbali di caserma gli ultimi sprazzi di sogno
personale, giusto o sbagliato che sia, chissà come sopravvissuti
alla cultura dei social e dei reality. Borella, con la sua
cooperativa tra i due rami del Lago di Como, la sua scelta di vita
inconsueta – le api come simbolo di amore per il territorio e le
relazioni umane – è uno degli imprevedibili romantici prodotti da
una società che va da un'altra parte. Erano milioni ai tempi di
Seattle e della Via Campesina, incendiarono le piazze no-global e
poi sparirono, sconfitti da modelli più forti di loro. Non basta?
Pure la multa agli ultimi giapponesi di quel tipo di scelta?
Poi c'è il danno reputazionale, e anche quello non va sottovalutato.
Una istituzione è forte quando usa la mano pesante con i più grossi,
non con i piccoli, gli isolati, quelli che lanciano un messaggio con
un cartello in un mercatino agricolo. E di grandi e grossi nella
questione delle guerre ce ne sono tantissimi, parlano di odio,
ritorsione e annientamento a milioni di persone. Attraverso i social
incitano all'antisemitismo e alla violenza, diffondono notizie
false, talvolta lavorano al servizio di autentiche centrali di
disinformazione che minacciano le nostre democrazie. Nei loro
confronti, anche in virtù della libertà di espressione, poco o nulla
si è potuto fare ma è surreale che gli stessi principi che rendono
incensurabile e inattaccabile il web non valgano per quattro parole
scritte a mano in una piazza di paese.
Sì, siamo sicuri che sia solo eccesso di zelo. Altri motivi non
vengono in mente, sfugge pure quello della pubblica sicurezza (che
avrà il suo da fare con le manifestazioni annunciate contro la
multa) e dunque: stracciare in fretta quella multa, finirla lì prima
possibile.
"Sollevando pacchi mi sono rotto la schiena per i pm il caso va
chiuso ma io voglio giustizia" Massimo Fasolio
"
elisa sola
torino
«Mi chiamo Massimo e sono un operaio. Ho 61 anni. E 34 di
contributi. Ho passato la vita in fabbrica. Con turni di giorno e di
notte. In catena di montaggio e in magazzino. Ma dal 2000 in poi le
aziende in cui sono stato mi hanno lasciato a casa. Hanno chiuso o
sono fallite. Mi sono sempre dato da fare. Ho mandato migliaia di
curriculum. Solo che alla mia età non ti vuole più nessuno. Il
giorno in cui mi sono spaccato le vertebre non me ne sono accorto
subito. Ero disoccupato da sei anni. Mi hanno offerto un contratto
di una settimana per otto euro lordi l'ora. Ero felice. Il primo
giorno mi hanno messo a scaricare pacchi di paraffina da 50 chili.
L'ho fatto per otto ore. Sono tornato a casa e mi sono seduto sul
divano. Ho sentito delle scosse alla schiena. Da allora non sono più
riuscito ad alzarmi per tre mesi». Massimo Fasolio non lavora dal 6
giugno del 2022. È stato il primo e l'ultimo giorno del suo ritorno
in fabbrica. Addetto alla catena di montaggio, la mansione prevista.
Lui ha fatto ciò che gli hanno chiesto. La frattura delle vertebre
lo ha costretto a stare immobile, con il busto, per tre mesi. La
procura di Torino ha chiesto l'archiviazione dell'infortunio sul
lavoro perché «non è stato possibile risalire all'autore del reato,
ben potendo il lavoratore rifiutare di effettuare le lamentate
prestazioni di carico e scarico». L'avvocato Guido Anetrini, che
assiste Fasolo, si è opposto alla richiesta, sulla quale deciderà il
gup. «Siamo di fronte a una deriva dei diritti dei lavoratori che ci
conduce verso il baratro - afferma il legale - eppure, e lo dico da
liberale, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. Non può essere
condiviso l'assunto per cui l'operaio avrebbe dovuto rifiutarsi».
Fasolio, come sta?
«Ho ancora mal di schiena».
Dopo due anni dall'incidente?
«Sì. Certi giorni quelle scosse le sento ancora. Ma non è quello il
punto. Non voglio lamentarmi. Io vorrei lavorare. Non mi sono mai
tirato indietro davanti a nessuna fatica nella mia vita».
Lei ha sempre fatto l'operaio?
«Sì. Sono stato in aziende metalmeccaniche. Dal 1983 al 2000 alle
Fonderie Roz di Borgo San Paolo. Poi a Grugliasco. Ero operaio
addetto ai trattamenti termici in catena di montaggio. La ditta è
fallita nel 2013. Ci hanno messi in cassa integrazione, poi lasciati
a casa».
Come ha fatto a mantenersi, senza uno stipendio?
«Ho preso il porto d'armi e ho fatto la guardia giurata. Giravo di
notte nelle stesse fabbriche che mi avevano dato il lavoro e che
erano ormai chiuse. Per mille euro e cinquanta al mese. Ho aperto e
chiuso un'enoteca. Sono rimasto a casa, disoccupato, durante gli
ultimi anni. Mandavo migliaia di curriculum e nessuno mi chiamava».
Secondo lei perché?
«Perché ero vecchio. Per loro. Non per me. Un giorno l'addetta di
un'agenzia interinale me lo ha proprio detto. Avevo appena finito un
colloquio, era andato bene. E ha aggiunto: Lei è piaciuto, ma sa, è
per l'età... Eppure io non mi sono mai tirato indietro. A 14 anni
lavoravo già, al bar della vecchia stazione di Porta Susa».
Come ha fatto a resistere, economicamente?
«È stato grazie a mio fratello che non sono finito in mezzo a una
strada. Ha un posto fisso all'Iveco. Non vivo da solo ma con lui,
nella stessa casa. Quando io non guadagnavo faceva lui la spesa e
mangiavamo in due».
Come ricorda il giorno dell'incidente?
«Ero contento perché erano anni che nessuno mi chiamava. Mi hanno
chiamato alle 10,30. Mi hanno chiesto due cose: se avevo le scarpe
antinfortunistiche e se potevo iniziare alle 13. Ho detto sì».
E poi cosa è successo?
«Appena arrivato, con altri, ci hanno portato in una specie di
capannone. C'era un Tir pieno di paraffina. Stavano aprendo il
portellone dietro. E c'era da scaricare i pacchi. Uno più vecchio di
me non lo ha fatto, perché non ce la faceva. Io ho iniziato con
quelli da 25 chili. E poi con quelli da 50. Erano tonnellate di
roba. Molto pesanti. Finito il turno sono andato in agenzia a
firmare il contratto e sono tornato a casa. Ero felice».
Era un contratto di una sola settimana?
«Sì. Ma è normale nel nostro mondo. A volte ti fanno contratti da
uno o due giorni».
Cosa pensa della richiesta di archiviazione del suo infortunio?
«Ci sono rimasto molto male. Ho ricevuto la raccomandata una
mattina. Erano mesi che nessuno mi diceva più niente. Ho pensato che
non era una cosa giusta. E sono andato da un avvocato. Io ho sempre
lavorato e rispettato tutti. Non mi sono mai tirato indietro. E quel
giorno non potevo rifiutarmi. So di essere nella ragione. Se fossi
andato via, mi avrebbero accusato di non avere terminato il lavoro».
Cosa si aspetta adesso?
«Giustizia. Un risarcimento per la mia schiena e per il male che
ancora ho. Penso alla pensione. Chissà se ci arriverò. Devo arrivare
a 67 anni. Cosa avrei dovuto fare, più di così, non lo so. Mi sono
fatto male lavorando. E se penso a quante volte ho rischiato, in
fabbrica. Anni fa ci facevano salire su dieci pedane, una sopra
l'altra, per raggiungere un silos. È tutto il sistema della
sicurezza che non va. In Italia non esiste e non funziona». —
16.10.24
Consulenze a Ernst & Young "Truccate le gare d'appalto"
Dodici gare della Regione Lombardia truccate per 10 milioni di euro.
Sei consulenti EY – anche in ruoli apicali nella compagine italiana
del colosso – sono indagati dalla procura europea per turbativa
d'asta. Per questo, la Gdf ha perquisito gli uffici milanesi e
romani della società, ma anche le postazioni di alcuni consulenti in
Regione, mentre i pm hanno sentito alcuni dipendenti dell'ente. Per
l'accusa, EY si sarebbe aggiudicata le gare al centro delle indagini
presentando le candidature degli «stessi gruppi di consulenti» con
una «sovrapposizione di incarichi» tale da sommare una «quantità di
ore di lavoro superiori a quelle che possono essere realizzate in un
mese» da ognuno di loro. Si tratta di appalti, finanziati dal Fondo
sociale europeo (Fse) e dal Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr)
tra il 2019 e il 2023. Progetti che miravano a seguire l'ente
nell'intera gestione dei fondi, dall' assistenza tecnica ai corsi di
formazione. Per i pm, la Regione è parte offesa, ma le indagini
vogliono escludere eventuali responsabilità. «Esamineremo con
attenzione quello di cui si parla e poi faremo valutazioni», è il
commento del governatore Attilio Fontana.
Nel mirino della Guardia di finanza i bandi gestiti dagli uffici sia
dell'Interno sia della Difesa Sono diciotto le persone indagate: "Un
giro di mazzette per pilotare le forniture informatiche"
"Tangenti nei ministeri" Arrestato il dg di Sogei indagato l'uomo di
Musk irene famà
roma
I lavori con il colosso SpaceX, l'azienda aerospaziale statunitense
fondata da Elon Musk, e la gara da 180 milioni per la
ristrutturazione della rete del comparto della Difesa. E ancora. La
gara per le licenze software dei server Natanix, all'avanguardia
della tecnologia di cloud. Ecco. Per raccontare «l'articolato
sistema corruttivo» smascherato da un'inchiesta della procura di
Roma bisogna partire da qui. Dai bandi finiti al vaglio degli
inquirenti e dai personaggi coinvolti. Arrestato Paolino Iorio,
direttore generale di Sogei, la società che si occupa della gestione
dei servizi informatici della pubblica amministrazione controllata
al 100% dal ministero dell'Economia. Il manager è stato fermato
lunedì sera mentre intascava una mazzetta da 15 mila euro. Denaro in
contanti, chiuso in una busta, appena consegnato dall'imprenditore
Massimo Rossi, pure lui finito ai domiciliari.
Indagati in diciotto, con reati che spaziano dalla corruzione alla
turbativa d'asta, e quattordici società, di cui due quotate in
Borsa, Olidata e Digital Value. Tra gli altri Andrea Stroppa, classe
'94, referente di Elon Musk in Italia, che in questa storia avrebbe
pure potuto consultare un documento riservatissimo della Farnesina
in cui si valutava l'utilizzo delle tecnologie satellitari fornite
dal dall'azienda americana SpaceX. Nell'elenco anche Antonio Angelo
Masala, ufficiale della Marina distaccato presso il VI Reparto
Sistemi dello Stato Maggiore della Difesa, e Amato Fusco, dipendente
del ministero dell'Interno. E altri personaggi che, a capo di
società minori, sono accusati di aver dato copertura contabile ai
flussi di denaro utilizzato per pagare le tangenti.
«Un sistema corruttivo con ramificazioni sia all'interno del
ministero della Difesa, sia in Sogei, sia al ministero
dell'Interno», è scritto negli atti. I finanzieri del Comando
provinciale di Roma e del nucleo speciale polizia valutaria hanno
intercettato flussi finanziari anomali tra alcuni imprenditori e
dirigenti. Scattano le intercettazioni telefoniche e ambientali e il
numero uno di Sogei in auto parla da solo, si racconta, si
"confessa".
Personaggio chiave, in questa vicenda, è Massimo Rossi, dominus di
un gruppo temporaneo di impresa. È lui, secondo la procura di Roma
diretta da Francesco Lo Voi, a creare relazioni, tenere i contatti,
far girare i soldi. E tra le varie gare e i vari appalti ci si
aggira intorno ai 300 milioni di euro.
Con il manager Iorio, dal novembre 2023 si incontrano due volte al
mese per scambiarsi decine di migliaia di euro. Rossi vuole favorire
le imprese legate a lui, alla sua famiglia e ai suoi amici. Così
paga. E con Sogei avrebbe stipulato «una serie di contratti» per un
valore complessivo di oltre cento milioni. In particolare: «Sogei
spa si è impegnata ad acquistare prodotti e servizi forniti da
Italware srl per 98.617.126,37 euro e da Itd Solution spa per
5.772.010,11».
Sogei, in una nota, «esprime piena fiducia nella magistratura, a cui
sta prestando totale supporto», e si dichiara indiscutibilmente
estranea ai fatti. «Se questi fossero acclarati in maniera
definitiva l'azienda si dichiarerà parte lesa e si tutelerà nelle
sedi competenti».
Denaro, potere, influenze, contatti sono sullo sfondo di questa
vicenda complessa. Un esempio è il caso che riguarda SpaceX.
L'ufficiale della Marina viene a scoprire il progetto del governo di
acquistare il sistema satellitare» Starlink. Lo scorso 29 agosto è
in riunione e attorno al tavolo si valuta «il progetto finalizzato
all'impiego, con scopi militari prima e dual use dopo, delle
tecnologie satellitari fornite dall'azienda americana». Così
aggancia Stroppa. Gli invia anche un «documento riservato redatto a
margine della riunione». Gli propone una sorta di collaborazione:
lui assicura informazioni confidenziali, «in cambio accetta la
promessa da Stroppa della conclusione di un contratto di fornitura
tra Spacex e Olidata spa», nota società di informatica. «Questa
vicenda - si legge negli atti - è sintomatica di un accordo
concluso, o in corso di conclusione, al fine di far beneficiare
Olidata Spa degli affari del gruppo statunitense». E dalla Farnesina
precisano: «Non si tratterebbe di un documento "riservato" secondo
la classificazione di legge della documentazione "riservata" e
"segreta". Dovrebbe trattarsi di un documento interno, un elenco di
necessità espresse dal ministero (il numero delle ambasciate e
consolati) da collegare al sistema se eventualmente fosse andata
avanti la procedura».
Stroppa affida una replica ai social: a un utente che su X gli
chiede: «Puoi rispondere alle accuse che ti riguardano?», lui
risponde: «Certo, non vedo l'ora». —
Valentina Patrignani , sposata con l'ufficiale di Marina Antonio
Masala, deteneva azioni in Olidata per tre milioni di euro
Soci occulti attraverso mogli e compagne Così il sistema faceva
affari anche in Borsa
roma
C'è un nome che torna nei vari appalti finiti al centro
dell'inchiesta della procura di Roma. Ed è quello di Olidata spa,
società di informatica quotata in borsa. Centrale, a quanto emerge
dagli atti, per comprendere questo giro di appalti truccati, denaro
e interessi. L'ufficiale di Marina Antonio Masala ne era «socio
occulto» tramite la moglie Valentina Patrignani, pure lei indagata,
«titolare di azioni per oltre tre milioni di euro». Così anche il
dipendente del ministero dell'Interno Amato Fusco, che «tramite la
compagna era titolare di azioni per 10 mila euro». Così si
spiegherebbe almeno parte dell'interesse a inserire Olidata nelle
«catene delle vendite».
Il 30 gennaio 2024, il raggruppamento temporaneo di imprese che fa
capo all'imprenditore Massimo Rossi, finito agli arresti
domiciliari, si aggiudica l'ampia gara di ristrutturazione delle
infrastrutture della rete del comparto della Difesa. E Antonio
Masala, «l'Antonio della Difesa» per gli amici d'affari, si muove.
Incontra Rossi, fornisce informazioni utili. Poi, «come illecito
compenso per l'opera prestata nella gestione della procedura»,
Olidata spa viene inserita «dalle imprese aggiudicatarie nella
catena di vendita con proventi quantificabili in oltre 4 milioni e
mezzo».
Stesso schema sarebbe stato attuato dal dipendente del Viminale e
direttore della Centrale dei servizi logistici e della gestione
patrimoniale della Polizia di Stato. Ad aprile 2024, il ministero
dell'Interno apre la gara per le licenze software per il server
Natanix, tecnologia di cloud. Fusco, secondo le accuse, incontra
l'imprenditore Rossi. L'affidamento va ad Itd Solution e ad un'altra
srl coinvolta nell'indagine. Olidata spa viene inserita nella catena
di vendita.
A febbraio 2024, invece, la stessa gara viene bandita dalla
Direzione di Intendenza della Marina Militare. Qui è l'ufficiale
Masala che si attiva. Anche qui «otterrà» dei favori. «Riceverà - si
legge negli atti - un'indebita utilità attraverso partecipazioni
occulte a società formalmente riferibili alla moglie».
Olidata spa, che vede indagato il rappresentante legale Cristiano
Rufini, torna anche nella questione di Spacex. L'ufficiale di Marina
contatta l'uomo di Elon Musk in Italia, gli assicura informazioni
utili. In cambio? «Un contratto di fornitura con Olidata».
Lo Stato Maggiore della Difesa assicura «il massimo supporto alle
autorità inquirenti». E aggiunge: «I presunti comportamenti per i
quali si indaga non sono certamente compatibili con i valori e i
principi fondanti delle Forze Armate italiane».
Borsa Italiana comunica che da oggi, fino a successivo provvedimento
sulle azioni ordinarie, a Digital Value spa e Olidata spa non sarà
consentita l'immissione di ordini senza limite di prezzo. I titoli
ieri hanno chiuso rispettivamente in calo del 10,46% e del 13,33%,
dopo che le sedi delle due società sono state perquisite per le
ipotesi di corruzione e turbata libertà degli incanti nell'ambito di
diverse procedure di appalto e affidamento in materia di informatica
e telecomunicazioni, bandite da Sogei, dal ministero
dell'Interno-Dipartimento della Pubblica sicurezza, dal ministero
della Difesa e dallo Stato maggiore della Difesa.
L'inchiesta prosegue. I finanzieri del Comando provinciale di Roma e
del Nucleo speciale polizia valutaria, a casa e negli uffici degli
indagati e delle società, hanno sequestrato tablet, smartphone,
computer, pennette usb e documentazione di ogni tipo, digitale e
cartacea, per ricostruire i flussi finanziari delle operazioni
finite nell'indagine. Al vaglio le fatture relative alle operazioni
considerate inesistenti, i contratti e i bilanci. Si analizzano i
conti. Mentre nelle chat, in particolare WhatsApp e Telegram, e
nelle email si cercano le parole chiave. Va da sé i nomi delle
società e delle persone indagate, soprannomi compresi come «Cr7» o
«biondina». C'è pure la ricerca «AS Roma»: tra le utilità promesse
in cambio di favori potrebbero risultare anche i biglietti per le
partite di calcio.
il retroscena Poche ore prima del blitz
degli inquirenti aveva preannunciato che i "poteri forti" erano in
azione A Palazzo Chigi scattano le verifiche sul 31 enne che
lavorava con il governo all'accordo Starlink
Stroppa, l'ex hacker evoca complotti "Vogliono fermare Elon e
Giorgia"
ilario lombardo
roma
«Giorgia Meloni capisce che il futuro è questo. Coinvolgendo le
aziende italiane si creano lavoro e investimenti, con Starlink si
connettono i cittadini e le Pmi fuori dai grandi centri abitati. Chi
prova a ostacolarla dovrebbe vergognarsi». Alle tre e quaranta di
pomeriggio del 13 ottobre, Andrea Stroppa scrive questo tweet su X,
il social di proprietà di Elon Musk, suo mito, suo mentore, suo
datore di lavoro. Un follower gli chiede: «Se veramente qualcuno si
sta opponendo, sarebbe bene chiamarli pubblicamente a renderne
conto». «Se sarà necessario –è la risposta – al momento giusto». È
come se Stroppa sapesse qualcosa e volesse anticiparlo. Poche ore
dopo, alle sette e mezza di sera, diventa ancora più esplicito:
«Stiamo lavorando per far diventare Italia grande partner di SpaceX.
Qualcuno – anche nei palazzi – sta provando a fermarci. Fate sentire
la vostra voce! ». Passano solo venti ore da questo sfogo, e
scatterà il blitz della Guardia di Finanza: così si verrà a sapere
che Stroppa è indagato dalla procura di Roma. Senza mai staccare le
dita da X, lui non si scompone, dice di non vedere l'ora di
rispondere sulle accuse dei pm, e ripubblica, autocitandosi, il suo
tweet, con un'aggiunta: « "Qualcuno sta provando a fermarci". Un
giorno scriverò un libro». Segue faccina che ride.
I palazzi. I poteri forti. Meloni tirata in ballo come vittima
predestinata di un complotto. Trame evocate, ma senza nessun nome.
Sembra il calco di uno dei tanti discorsi della premier in questi
primi due anni di governo, sempre prontamente rilanciati nelle
batterie delle dichiarazioni dei parlamentari di FdI, nei quali
Meloni ha adombrato cospirazioni e intrighi ai suoi danni, senza mai
portare una prova. La magistratura sospettata di muoversi per fini
politici diventa così il naturale bersaglio della destra che governa
e dei suoi principali sponsor. Lo fa Elon Musk in difesa di Matteo
Salvini, imputato per aver tenuto in mare un barcone pieno di
migranti. E lo fa Andrea Stroppa appena entrano in gioco gli
interessi di Musk.
Meloni è in Senato quando la notizia dell'inchiesta Sogei diventa
pubblica. Le girano i primi articoli. A Palazzo Chigi scatta
l'allarme per verificare ingressi e contatti con Stroppa, l'uomo che
sta trattando l'accordo con il governo per integrare il sistema
satellitare di Musk, Starlink, alla rete della banda ultralarga. La
sua biografia racconta l'ascesa rapida di un ragazzo di trentuno
anni di Torpignattara, prima periferia romana, cespuglio di capelli
disordinato, spesso vestito in tuta Adidas, un hacker, un classico
nerd che prima della guerra in Ucraina coltivava relazioni con
pirati informatici russi, cooptato dalla politica, esperto di
cybersecurity per Matteo Renzi nel 2017 (scoperto dall'amico e
appassionato del settore Marco Carrai), diventato poi il braccio
operativo di Musk in Italia, «referente della multinazionale SpaceX»
scrivono i magistrati. Di fatto, un lobbista che sui social si fa
chiamare Claudius Nero's Legion, dal nome del generale romano del
200 a. C, e che si muove agevolmente tra i ministeri, con
un'interlocuzione costante che si intensifica nell'ultimo anno
quando Meloni entra nell'orbita del pianeta Musk. Stroppa è a
Palazzo Chigi con il guru sudafricano quando Mister Tesla incontra
la premier. È con lui quando viene accolto tra gli applausi come
ospite d'onore ad Atreju, la festa annuale di FdI. È con lui alla
serata di gala del 23 settembre all'American Council di New York,
mentre l'uomo più ricco del mondo siede al tavolo con Meloni dopo
averle consegnato il Global Citizenship Award. Quando c'è Musk, c'è
Stroppa, colpito come per osmosi dall'infatuazione politica del
miliardario per Meloni e per Donald Trump.
A Palazzo Chigi si minimizza l'imbarazzo ma non si negano le
verifiche. La rete di Stroppa si allarga ai ministeri Esteri,
Difesa, Interno, Imprese e Made in Italy. La premier chiede che sia
il sottosegretario con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano, a
occuparsene. Anche perché dalle carte spunta un documento della
Farnesina – definito «segreto» dai pm – che un indagato, l'ufficiale
della Marina Militare Antonio Masala, ha passato a Stroppa. Il
ministero guidato da Antonio Tajani conferma, con una precisazione,
però: non si tratta di un documento riservato ma a uso interno. Ed è
un elenco di ambasciate e consolati da collegare a Starlink per
«migliorare il livello delle comunicazioni di installazioni della
presidenza del Consiglio, degli Esteri, della Difesa in aree
problematiche, soprattutto nel Mediterraneo». È solo una piccola
parte del grande affare che Stroppa esalta quasi quotidianamente su
X, e di cui si fa vanto con gli indagati, interessati a entrarci con
la società Olidata. Un accordo pubblico-privato che il governo
sovranista di Meloni sta accarezzando per colmare i ritardi nei
progetti del Pnrr sulla rete ultraveloce, che valgono 6 miliardi di
euro. Lo conferma il sottosegretario all'Innovazione tecnologica
Alessio Butti che ha ammesso una prima sperimentazione per portare
il servizio "space-based" in aree remote, difficilmente
raggiungibili dalle infrastrutture terrestri. Le resistenze di
Telecom e Open Fiber, gli operatori che gestiscono la rete e che
temono l'avanzata di Musk, sembrano ormai superate dalla volontà
politica dell'esecutivo. Meloni è decisa ad andare avanti,
nonostante i rischi evidenziati dal Pd con un'interrogazione alla
premier e al ministro del Made in Italy Adolfo Urso, e con le
dichiarazioni rilasciate da Lorenzo Guerini. L'ex ministro della
Difesa e presidente del Copasir, il comitato parlamentare di
controllo sui Servizi, a fine settembre, durante gli Stati generali
sullo Spazio, ha invitato il governo a riflettere su cosa comporti
per la sicurezza dell'Italia affidare a un privato, proprietario di
satelliti a bassa quota, i dati dei cittadini
15.10.24
10 ANNI DI PROTEZIONI E SILENZI, obiettivo LIBANO e poi IRAN con gli
USA: Dagli insediamenti a
oggi: tutti gli affronti. Oggi consultazioni al Consiglio di
sicurezza sul Libano
Quelle 174 violazioni del diritto internazionale Tel Aviv da dieci
anni sfida le Nazioni Unite
alberto simoni
corrispondente da washington
Israel Katz, capo della diplomazia di Gerusalemme, dice che l'87%
degli israeliani concorda con la decisione dell'esecutivo di
considerare il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres
«persona non grata». «Non cambieremo rotta», ha detto su X
confermando che la decisione del 3 ottobre è irreversibile.
La storia delle relazioni fra Onu e Israele tracima di
incomprensioni, denunce, schermaglie, scontri e lo Stato ebraico si
è sempre sentito bersaglio degli umori dell'Assemblea generale,
storicamente più vicina ad abbracciare causa palestinese e discorsi
dei leader dell'Olp e poi Anp che si sono avvicendati sul palco.
Celebre fu quello di Arafat del 13 novembre del 1974, il capo
palestinese pronunciò il discorso del «mitra e dell'ulivo».
Quest'anno Mahmoud Abbas, che di Arafat è stato successore all'Anp,
ha chiesto l'espulsione di Israele dalle Nazioni Unite in un
discorso concluso fra gli applausi.
È in questo clima che il sentimento di avversione di Netanyahu per
l'Onu germoglia. «In dieci anni – disse Netanyahu il 27 settembre a
Palazzo di Vetro – l'Assemblea ha formalmente denunciato Israele 174
volte, cento volte più che tutte le denunce riservate agli altri
Paesi messi insieme, è uno scherzo!». Segno di pregiudizio per gli
israeliani, fatti incontrovertibili di alcuni comportamenti
imputabili – dal sostegno ai coloni, agli insediamenti, sino
ovviamente alla campagna militare a Gaza – a Gerusalemme.
Per Netanyahu, «l'Onu è uno stagno di odio antisemita e qui si
accusa lo stato ebraico di ogni cosa».
A Palazzo di Vetro solo gli Stati Uniti sono i veri alleati: pronti
a bloccare in Consiglio di Sicurezza ogni risoluzione danneggi
l'alleato e a prediligere azioni bilaterali per indurre Israele a
moderare le sue azioni. Successe così nel maggio del 2021 quando
Washington mise il veto a un risoluzione sulla West Bank sostenendo
di voler lavorare sul canale privato con Israele.
Oggi ci saranno consultazioni – in programma da tempo – a porte
chiuse in Consiglio di Sicurezza su una risoluzione del 2004 (la
1559) che riguarda la sovranità territoriale del Libano. La
sottosegretaria Rosemary DiCarlo riferirà che benché in 20 anni il
contesto è mutato, la risoluzione – che già chiedeva il disarmo
delle milizie libanesi e non, due anni prima della Risoluzione 1701
(quella che ha rafforzato l'Unifil) – rimane ancora attuale. Non è
previsto alcun voto. Il piatto forte, ovvero la riunione d'emergenza
chiesta dalla Francia su Unifil, non è ancora in calendario. Si
capirà ancora una volta quanto Netanyahu può contare sull'alleato
Usa e quanto la comunità internazionale sarà in grado di premere su
Israele per fermare l'offensiva. Netanyahu vede Unifil come un
ostacolo alla distruzione di Hezbollah, «la quintessenza del
terrorismo nel mondo di oggi», disse il 27 ottobre. «Ha tentacoli
ovunque e attacca Israele ferocemente da 20 anni. Ora è troppo»
aggiunse prima di denunciare che per 18 anni Hezbollah non ha
rispettato la risoluzione 1701. Linea condivisa dagli Usa. Che,
tuttavia, hanno espresso sabato sera in una telefonata fra Austin e
Gallant «profonda preoccupazione» per gli spari sui caschi blu.
L'Unrwa (Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) è altro terreno di
scontro permanente. Per Israele è il veicolo con cui i miliziani di
Hamas sfruttano connivenze e copertura internazionale per colpire
gli ebrei. L'Onu risponde che non «ci sono sufficienti evidenze» a
dimostrare che «il personale Unrwa abbia partecipato» all'eccidio
del 7 ottobre.
Dove l'Onu vede violazioni del diritto internazionale (gli
insediamenti nella West Bank, le operazioni a Gaza, l'invasione del
Libano, le condizioni dei prigionieri palestinesi per citare solo
alcuni casi recenti), Netanyahu fiuta un'ideologia perversa e
distorta della realtà e la negazione del diritto di Israele di
difendersi sancito dall'articolo 51 della Carta Onu.
L'Unrwa, dicono gli israeliani citando loro inchieste, ha avuto 30
membri dello staff coinvolti nel 7 ottobre e centinaia di dipendenti
hanno gioito per la strage. Nel 2004 Peter Hansen, allora
commissario dell'Unrwa disse in un'intervista a una tv canadese:
«Sono sicuro ci sono membri di Hamas sul libro paga dell'Onu». Per
poi precisare che comunque Hamas è un'organizzazione politica e non
solo militare. Ismail Haniyeh era un insegnante pagato da Unrwa,
diversi quadri di Hamas sono stati formati in questa struttura.
Pistola fumante secondo il Bibi-pensiero del cieco sostegno Onu per
i palestinesi. Schermaglie, anche violente. Ma ora gli spari su
Unifil aprono nuovi e incerti scenari.
INASCOLTATI : per la soluzione a due stati
Schlein e Conte: "Israele si fermi ora il governo riconosca la
Palestina"
«Dopo i violenti attacchi dei giorni scorsi alle postazioni Unifil,
l'ennesimo sconfinamento di carri armati dell'Idf verso le posizioni
delle forze di pace dell'Onu. Netanyahu va fermato, le sue azioni
criminali non possono essere più tollerate». Lo ha detto la
segretaria del Pd, Elly Schlein, in una nota diffusa ieri. «Il
governo italiano riconosca subito lo Stato di Palestina per iniziare
a costruire la soluzione dei due popoli, due Stati». Il leader dei 5
Stelle, Giuseppe Conte, dichiara: «Fermiamo la follia di Netanyahu,
prendiamo decisioni serie per imporre il cessate il fuoco e la
soluzione due popoli due Stati per Israele e Palestina.
Fuoco Mamma Fatima
"
sulle
famiglie
inviato a beirut
Sama ha tredici mesi e da 28 giorni i medici lottano per salvare il
suo viso dalle terribili ustioni che hanno bruciato tutta la parte
sinistra. Le medicazioni sono dolorose e quando comincia a piangere,
sempre più forte, l'infermiera tira la tenda che chiude la stanzetta
al primo piano del reparto ustionati all'Hopital Libanais de
Geitaoui, un quartiere cristiano di Beirut, non lontano dal porto. È
sdraiata su un fianco, con il suo pannolino, gli occhi spalancati, i
capelli castani tirati da un lato, la fronte e la guancia
bucherellate da macchie rosse, che devono rimarginarsi nel modo
giusto. L'infermiera tira meglio la tenda, fino in fondo.
Sarà una lunga lotta, ma almeno Sama non rischia la vita e non l'ha
persa, come tanti nel suo villaggio. L'ospedale è nuovo, luccicante.
Una struttura privata, pulitissimo, con aria condizionata, cartelli
in inglese e arabo, le pareti in granito grigio, nitide come
specchi. L'hanno ricostruito dopo la terribile esplosione del 4
agosto 2020, che ha devastato la parte bassa del quartiere, la più
esposta all'onda d'urto. Le cure sono costose, e solo chi ha una
buona assicurazione può permettersele. Ora però è diverso. C'è la
guerra, e dal Sud continuano ad affluire feriti, soprattutto
ustionati. Gente che non ha più nulla e viene curata gratis.
«Eravamo sulla veranda, io e mio marito, i suoi amici», racconta
Fatima, la mamma di Sama. Ha 36 anni, il velo nero ricamato ai bordi
che le cinge il volto e copre i capelli e le spalle. Indossa una
maglietta nera e pantaloni dello stesso colore, forse troppo
attillati per una donna del Sud sciita. Glieli hanno regalati perché
ha perso tutto nel bombardamento del suo villaggio, Deir al-Qanoun.
«Abbiamo visto esplodere la casa di fronte – continua – così, di
colpo, senza sentire nulla prima. Le bambine erano scese nel cortile
e hanno preso la botta in pieno, non le vedevo più per il fumo, io e
mio marito eravamo per terra, ma illesi, poi ho visto la plastica
che copriva la veranda prendere fuoco». Si mette a piangere. Poi,
dal telefonino, mostra le foto delle bimbe, Sama e la più grande,
sette anni, appena arrivate all'ospedale, tutte coperte di
bruciature. «La casa era in fiamme, abbiamo raccolto un po' di
vestiti e li abbiamo messi in macchina, stavamo per salire e
scappare quando un altro colpo l'ha distrutta, allora siamo corsi
verso i campi, con loro due tra le braccia».
Qualcuno li ha raccolti per strada e portati al primo ospedale
decente, nello Chouf, ma non era abbastanza attrezzato. Poi, per
fortuna, si è liberato un posto qui a Geitaoui. La dottoressa che le
ha in cura non si ferma un attimo da più di un mese. «La prima
ondata è stata quella dei cercapersone – ricorda –. Sono arrivati in
tanti, con ustioni al volto, la vista compromessa. È stato molto
brutto. Eravamo a disagio». Si ferma un attimo, e beve un altro
sorso di caffè. «Sapevamo che erano di Hezbollah, ed Hezbollah non
ama essere riconosciuto. E invece adesso li vedevamo in faccia,
registravamo i loro nomi nel registro. Non ero tranquilla, anche se,
certo, erano persone da curare». Si ferma di nuovo e riflette.
«Ho fatto il giuramento di Ippocrate, ma ho avuto anche brutti
pensieri». E cioè? «In questo quartiere l'esplosione al porto ha
fatto tante vittime. L'ospedale è stato mezzo distrutto. Ed
Hezbollah ha le sue responsabilità per quello che è successo quattro
anni fa e soprattutto per questa guerra dove ha trascinato tutto il
Libano. Ben gli sta, ho pensato».
All'inizio non ha provato molta pietà ma una storia le ha fatto
cambiare idea. «Una giovane di 22 anni – spiega – aveva perso tutte
e due gli occhi. Aveva preso il cercapersone che squillava per
portarlo dal padre, uno del partito, e le è esploso in faccia.
Quando me l'hanno portata, e ho saputo, ho avuto un colpo al cuore,
che destino terribile, che ingiustizia». Anche su Nasrallah ha
pensieri ambivalenti. «L'esplosione che l'ha ucciso mi ha ricordato
quella del porto, mi sembrava un giusto contrappasso. Ma tutto
sommato mi fa anche pena. È che questa guerra ci porta troppo dolore
e noi libanesi ne abbiamo vissuto già abbastanza».
Fatima, la mamma di Sama, l'aspetta in una saletta vicino
all'ingresso del pronto soccorso. Vuole sapere se la piccola tornerà
come prima, avrà una vita normale. Viene da un villaggio dove
Hezbollah la fa da padrone, e che adesso non esiste più. «Io non so
niente di politica – sembra quasi giustificarsi –. Non abbiamo mai
visto nulla, vivevamo tranquilli». In una grossa busta di plastica
trasparente al suo fianco ci sono indumenti di ricambio. Da quasi un
mese vive nell'ospedale. Dorme nella stanzetta della bambina, lei su
una brandina a fianco al letto, il marito sul pavimento, sopra una
coperta. Non sa se un giorno potrà ricostruire la sua casa. Vuole
solo vivere, possibilmente in pace.
progetto Albania
Le falle
del
dall'inviato a Gjadër
Mare calmo, visibilità ottima. «Niente, ancora niente», dice il
direttore del porto Sender Marashi. Stanno smontando il luna park,
qualcuno fa il bagno. Fra questi pescherecci che tornano carichi di
sgombri e sardine, uno dei prossimi giorni attraccherà una nave
della Marina Militare italiana. Porterà il primo carico di migranti
della missione Albania. Una missione piena di incognite e di
problemi. Si vedono tutti. A occhio nudo. In queste giornate di
attesa e cielo terso.
Roulette mediterranea
È una questione di fortuna. Si capisce bene. Ogni singola persona
che tenterà l'attraversata per arrivare in Europa avrà quattro
possibili livelli di rischio e di sventura. Scampata la morte per
annegamento, potrebbe essere portata indietro dalla Guardia Costiera
libica finanziata dal governo italiano: altre torture, altre
violenze, altri soldi da pagare. Il terzo livello di rischio è
incontrare una motovedetta italiana. Perché da lì è probabile il
trasbordo sulla nave hub della Marina, quindi una lenta navigazione
verso l'Albania. Che non è ancora Europa, anche se sogna di farne
parte. Per questo essere salvati da una nave Ong diventerà presto,
per distacco, la migliore delle possibilità. Le Ong non vanno in
Albania. Poco importa se verrà assegnato un porto di sbarco
lontanissimo, come scelta punitiva. Genova, Ravenna, Ancona sono
comunque Italia, sono pur sempre Europa.
Paesi sicuri
Possono essere deportati in Albania solo uomini adulti provenienti
da Paesi considerati «sicuri». Ma l'Italia considera sicuri anche
Egitto, Tunisia e Bangladesh. Mentre una sentenza del 4 ottobre
della Corte di giustizia dell'Unione europea fissa altri parametri.
Perché un Paese possa essere considerato sicuro, deve esserlo in
qualsiasi parte e per qualsiasi cittadino. Chiedete a quel ragazzo
tunisino a cui è stato tagliato un testicolo per ritorsione, dopo
che aveva messo incinta la sua fidanzata, se tornare in Tunisia per
lui sia effettivamente sicuro. Come si comporteranno i giudici che
dovranno decidere sui singoli casi?
Un destino in pochi giorni
La procedura accelerata per chiedere il diritto d'asilo dovrà durare
al massimo 28 giorni. Servono interpreti preparati. Servono
informazioni precise che mettano le persone nelle condizioni di
esercitare un diritto. Serve sapere chiaramente – per esempio – che
in caso di diniego della commissione, il tempo per presentare
ricorso è stato appena ridotto a 7 giorni. Fare tutto questo in
Albania, in video collegamento, secondo molti giuristi discrimina
fra migranti e migranti, il che è anticostituzionale. Di sicuro un
migrante in Albania sarà molto più solo. Più indifeso.
Avvocato d'ufficio o di fiducia
Per esempio: vallo a trovare un avvocato di fiducia, stando dentro
le gabbie del centro di detenzione di Gjadër. Devi difenderti in
lingua italiana, in un Paese che parla albanese, mentre tu ne parli
un'altra ancora. Da queste gabbie il diritto alla difesa appare
fortemente indebolito.
Un piccolissimo Stato italiano in terra d'Albania
Lo dicono gli agenti di guardia: «Oltre il cancello cambia nazione».
Lo dice il premier albanese Edi Rama: «Quei centri non ci
riguardano». Non si capisce quindi cosa succederà in caso di
rivolte, di incendio, di tentatitivi di fuga. O, più semplicemente,
se una persona dentro si sentirà male e avrà bisogno di cure urgenti
dall'altra nazione. Oltre le gabbie.
Prigionieri di fatto
«L'accordo con l'Italia prevede che nessun migrante uscirà mai da
lì», dice sempre il premier albanese Edi Rama. Ma l'Italia non può
costringere all'infinito un migrante dentro a quelle gabbie. Si
prevedono molti viaggi di ritorno: Adriatico coast to coast.
Il conto salato
Per costruire l'hotspot al porto di Shëngjin e il centro di
trattenimento di Gjadër, il governo Meloni ha già stanziato 65
milioni di euro. Il costo di gestione previsto è di 120 milioni
all'anno. Ma è un costo ipotetico. Sottostimato. Perché nessuno sa
quanti trasbordi – effettivamente – verranno fatti. Quanti
poliziotti saranno impiegati in trasferta, quanti costi vivi e
variabili dovranno essere sostenuti.
Il miraggio delle espulsioni
Nella prima metà del 2024 in Italia sono stati firmati 13.330 ordini
di rimpatrio. Le espulsioni eseguite 2. 242. Questi sono i numeri
reali. Cosa sarà dei migranti con il foglio di via in terra
albanese? La probabilità che il governo italiano debba accompagnarli
sul suolo italiano, per poi abbandonarli al loro destino, è molto
alta.
Ma allora perché?
Per rimpatriare direttamente dall'Albania alcune nazionalità,
pochissime. Quasi soltanto migranti tunisini, grazie all'accordo fra
governi. Questo sembra l'obiettivo. Serve una foto simbolica. «Siamo
nel propagandistico» dicono gli studiosi del fenomeno migratorio. Ma
mentre il governo cerca la foto, il rischio è creare una zona
franca. Sarà difficile testimoniare quello che accadrà lì dentro. I
centri in Albania nascono per essere "un altrove". Un posto senza
testimoni. —Nel decreto Flussi inserito un articolo per espellere
anche chi non ha mai messo piede in Italia
Quella norma ad hoc per i respingimenti "Il diritto al ricorso sarà
solo sulla carta"
serena riformato
ROMA
Mentre a Shengjin e Gjader si erigevano le mura dei centri, in
Italia il governo ha silenziosamente cercato di costruire un
impianto normativo per legittimare il sistema Albania. Nel decreto
Flussi, approvato il 3 ottobre, almeno due norme sono state scritte
ad hoc per le strutture albanesi. La più importante è all'articolo
13: l'esecutivo amplia le ipotesi di respingimento alla frontiera
fino a comprendervi i migranti che in Italia non ci abbiano nemmeno
mai messo piede. Finora, il questore poteva decidere l'espulsione –
tramite la procedura accelerata, 28 giorni per esaminare la domanda
– solo per gli stranieri bloccati alla frontiera o appena entrati
nel Paese. Ma l'ipotesi non avrebbe compreso, formalmente, i
migranti che verranno portati in Albania prima ancora di aver fatto
ingresso in Italia. Con il codicillo inserito appositamente nel
decreto Flussi, invece, il respingimento differito potrà essere
applicato agli irregolari «rintracciati a seguito di operazioni di
ricerca o soccorso in mare» durante le «attività di sorveglianza»
dei confini esterni dell'Ue. Prima ancora di sbarcare. Che
l'aggiustamento sia pensato per l'Albania è confermato anche da
altre piccole modifiche: sempre in base all'articolo 13 del
provvedimento, la decisione di rigetto della domanda di protezione
porterà al respingimento anche «qualora la procedura si svolga
direttamente alla frontiera o nelle zone di transito». Per
Gianfranco Schiavone, giurista dell'Asgi, «con il decreto Flussi il
governo italiano ha cercato di rafforzare la possibilità di
espellere i migranti che transiteranno in Albania». Comprimendone i
diritti. All'articolo 17 del provvedimento, infatti, si prevede
anche un dimezzamento del tempo concesso allo straniero per
presentare ricorso nel caso la sua domanda di protezione sia stata
rifiutata: da 15 a 7 giorni. «La decisione di impugnare un diniego
non rientra nei doveri dell'avvocato d'ufficio», spiega Schiavone:
«Il migrante in 7 giorni dovrebbe trovarsi un legale in Italia,
contattarlo non si sa come e convincerlo a depositare l'atto in
pochi giorni». Secondo il giurista, «lo scopo di questa operazione è
lasciare il diritto al ricorso sulla carta, ma svuotarlo di effetto.
14.10.24
Chiara Gribaudo
Le prospettive
"Brandizzo ci ha dato una lezione non parliamo di errori umani"
serena riformato
roma
«Dopo le tragedie, vorremmo che non ci fosse solo una corale
indignazione, ma si imparasse qualcosa: quello che è successo a
Brandizzo non deve accadere mai più». Chiara Gribaudo,
vicepresidente Pd, alla Camera presiede la Commissione parlamentare
d'inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia con questo
obiettivo: dissezionare le stragi degli ultimi anni, comprenderne le
cause e individuare le debolezze su cui intervenire. A settembre, la
commissione ha pubblicato un rapporto sull'incidente di Brandizzo,
dove 5 operai furono travolti da un treno mentre lavoravano sui
binari. «La magistratura cercherà i colpevoli - specifica Gribaudo
-. Noi cerchiamo le opportunità di miglioramento».
La relazione riconosce il «comportamento umano» come «causa
principale» della strage di Brandizzo. La politica cosa può fare?
«Siamo certi che quelle persone, in quel momento, non dovevano stare
sui binari. Ma ci vuole prudenza a parlare di "errore umano". Dietro
la definizione arida c'è un problema più ampio: è l'organizzazione
del lavoro che mette i dipendenti nelle condizioni di sbagliare».
In che modo?
«Influiscono i vincoli di orario, la spinta a fare in fretta, la
percezione che si dà del rischio, anche solo nel linguaggio. La
tendenza generale è certificare il rispetto delle norme dal punto di
vista burocratico e poi vivere quotidianamente una realtà ben
diversa. È un problema di formazione, di clima e cultura della
sicurezza».
Servono più corsi?
«Non riguarda solo gli operai, ma anche i capi. Oggi, per la
Giornata nazionale per le vittime degli infortuni sul lavoro sarò a
Casteldaccia, nel Palermitano, dove a maggio cinque lavoratori sono
morti respirando un gas mortale nel corso della manutenzione
fognaria. Fra loro c'era il proprietario della ditta in subappalto».
Ecco, le scatole cinesi dei subappalti quanto incidono sul fenomeno?
«Purtroppo, se andiamo a vedere i dati, nella catena degli appalti e
dei subappalti si concentra il maggior numero di infortuni. C'è
sempre il rischio che si creino lavoratori di serie A e serie B. Non
c'è dubbio che qualcosa vada ripensato. Con il Codice degli appalti
si è fatto un primo passo. Ma non è abbastanza».
Cosa bisognerebbe fare di più?
«Nel rispetto dell'autonomia della magistratura, mi chiedo se sia
opportuno che le stazioni appaltanti, dopo eventi particolarmente
drammatici, possano continuare ad affidare le lavorazioni a imprese
responsabili di inadempienze con gravi conseguenze».
Nei primi otto mesi del 2024 l'Inail ha contato 680 morti sul
lavoro, con un aumento del 3,5% sull'anno precedente. Com'è
possibile che i numeri siano in crescita anziché diminuire?
«Purtroppo, i dati Inail sono anche parziali perché non considerano
il lavoro nero. Queste cifre ci dicono quanto sia importante non
limitarsi alle norme spot annunciate dopo gli eventi tragici, e poi
lasciar passare mesi senza prestare troppa attenzione al problema.
Servirebbe un cambio di passo radicale. Per questo, dal 29 al 31
ottobre la Commissione d'inchiesta che presiedo organizzerà gli
Stati generali su salute e sicurezza sul lavoro in Italia, in
collaborazione con la presidenza della Camera».
Come si svolgeranno?
«Sarà presente il presidente della Repubblica e interverrà il
commissario europeo per il Lavoro uscente Nicolas Schmit. Faremo
tavole rotonde con tutte le istituzioni che si occupano del tema,
dagli ispettori alla magistratura, passando per le associazioni di
categoria. Approfondiremo i problemi dell'edilizia e
dell'agricoltura, ma anche delle molestie sui luoghi di lavoro. E ci
sarà anche un focus specifico sulla necessità di un massiccio
investimento sulle nuove tecnologie».
Come possono incidere sulla sicurezza?
«Torno ai risultati della nostra inchiesta su Brandizzo. Oggi
esistono meccanismi sofisticati che permettono ai treni di
rallentare la velocità, se percepiscono la presenza di persone sui
binari. Avrebbero evitato l'immane tragedia della notte fra il 30 e
31 agosto 2023. In altri Paesi, questi strumenti sono già
operativi». —
13.10.24
PUTIN CONTINUA AD UCCIDERE :
«Un colpo terribile», dice Volodymyr Zelensky mentre incontra Papa
Francesco, «una notizia sconvolgente», secondo la diplomazia
dell'Unione Europea, un «crimine di guerra» come viene qualificato
dalla magistratura di Kyiv. La notizia della morte della giornalista
ucraina Viktoria Roschina in un carcere russo, a 27 anni, è arrivata
proprio mentre la sua famiglia aspettava di poterla riabbracciare:
dopo lunghe trattative, era stata inclusa nella lista dei
prigionieri da scambiare tra Russia e Ucraina. Invece, dopo lunghi
silenzi, le autorità penitenziarie russe hanno infine comunicato al
padre della cronista, Volodymyr Roschin, che sua figlia è deceduta,
in circostanze e per cause sconosciute, mentre veniva trasferita dal
carcere di Taganrog, nel Sud della Russia, in una prigione
moscovita.
Una fine terribile per una reporter diventata famosa per le sue
inchieste scomode: aveva indagato la strage sul Maidan durante la
rivoluzione in piazza del 2014, ed era andata più volte nei
territori occupati dai russi per raccontare i crimini contro la
popolazione civile. Cronista della tv Hromadske e della Ukrainskaya
Pravda, Roschina aveva iniziato a fare la giornalista a 16 anni e
veniva descritta dai colleghi come molto coraggiosa e determinata.
Era già finita nelle mani dei militari russi nel 2022, mentre
cercava di entrare nella Mariupol assediata dalle truppe di Mosca,
ed era stata rilasciata dopo qualche giorno di prigionia, costretta
a girare un video in cui ringraziava i militari di Putin per «averla
salvata». Nonostante questa esperienza, portare la testimonianza
degli ucraini rimasti sotto l'occupazione russa era diventata la sua
missione: si era infiltrata nei territori occupati ed è proprio lì
che era sparita, il 3 agosto 2023. Le autorità russe avrebbero
ammesso di averla arrestata soltanto nel maggio 2024, ed era stata
inserita ufficialmente nella lista dei prigionieri della Croce Rossa
internazionale. Il 28 agosto scorso Volodymyr Roschin aveva chiesto
ufficialmente ai russi notizie di sua figlia, e giovedì scorso ha
ricevuto una mail (datata 2 ottobre) nella quale gli veniva
comunicato che era deceduta il 19 settembre.
Difficile immaginarsi una causa "naturale" di questa morte: il 6
ottobre Victoria avrebbe dovuto compiere appena 28 anni. Ma il
carcere giudiziario numero 2 di Taganrog, dove era rinchiusa da più
di cinque mesi, è celebre come "l'inferno in terra", dice Tetyana
Katrychenko della ong ucraina "Media per i diritti umani". È uno dei
penitenziari dove vengono tenuti i prigionieri ucraini, civili e
militari, e gli ex detenuti che ci sono passati raccontano di
«torture terribili per costringerli a confessare crimini che non
hanno commesso». Manganelli, martelli e scosse elettriche sono gli
strumenti utilizzati contro i prigionieri, insieme alla denutrizione
e alle umiliazioni, come testimoniato da decine di uomini e donne
ucraini che vi sono passati. Un carcere talmente pesante che perfino
le autorità russe hanno deciso di sostituirne la direzione, dopo la
morte di diversi detenuti. Prima, Viktoria era stata incarcerata
nella prigione di Berdyansk, nei territori ucraini sotto occupazione
russa, un altro penitenziario noto per torture e maltrattamenti
degli ucraini.
Un inferno dal quale però Roschina avrebbe dovuto uscire a breve,
«avevamo fatto tutto il possibile per farla tornare a casa», ha
dichiarato ieri il portavoce dello spionaggio militare di Kyiv
Andriy Yusov.
Secondo alcune indiscrezioni, la giornalista avrebbe dovuto venire
scambiata già il 13 settembre. Qualcosa è andato tragicamente
storto. Troppe torture, troppi maltrattamenti, o forse qualche
vendetta dei servizi russi: Viktoria aveva indagato sui membri dei
reparti speciali Berkut fuggiti in Russia dopo aver sparato sulla
folla a Kyiv. Un indizio inquietante è il fatto che la Russia non
restituirà, almeno per ora, il suo corpo: bisognerà attendere «uno
scambio dei cadaveri di persone trattenute», recita la lettera
ricevuta dal padre, quindi un nuovo negoziato, che durerà mesi, per
fare tornare a casa la giovane reporter. Ci sono altri 25
giornalisti ucraini che restano nelle mani dei carcerieri russi, ha
ricordato ieri durante l'incontro al Vaticano Zelensky, parte di
quegli almeno 1.700 civili (tra cui più di 400 donne) imprigionati
nei territori occupati dai militari di Mosca.
Howard Kakita Il superstite: "Solo i
testimoni comprendono l'enormità di quel disastro" Illusione STUPENDA "Se
Putin e Kim ascoltassero la mia storia non vorrebbero più usare le
armi nucleari"
TAipei
«Sono incredibilmente felice». Howard Kakita ha 86 anni. Il 6 agosto
1945 ne aveva sette e si trovava a poco più di un chilometro
dall'epicentro dell'esplosione della bomba atomica sganciata su
Hiroshima dall'Enola Gay. Il premio Nobel per la Pace alla Nihon
Hidankyo e a tutti gli hibakusha è stato annunciato quando in
California, dove vive, era notte fonda. Appena appresa la notizia,
dice a La Stampa di avere una speranza: «Spero che questo risultato
rafforzerà gli sforzi globali volti a fermare la proliferazione
delle armi nucleari e a promuovere un divieto totale del loro
utilizzo». Lui quell'obiettivo lo persegue da decenni, tra le file
della American Society of Hiroshima-Nagasaki A-Bomb Survivors, «la
cui missione è strettamente in linea con quella della Nihon Hidankyo».
Eppure, da qualche tempo quanto accade nel mondo sembra andare verso
il riarmo e maggiori rischi di uno scontro nucleare.
«Spesso mi sono chiesto se alcuni dei leader mondiali abbiano mai
visto o ascoltato quello che è successo a noi. Forse no. Sono
convinto che questo Nobel darà più visibilità alla nostra causa.
Certo, purtroppo non credo che il premio basti per cambiare la mente
di Vladimir Putin e Kim Jong-un, né che possa risolvere
improvvisamente il conflitto in Medio Oriente. Ma io spero ci sia di
aiuto per continuare a evitare che le armi atomiche vengano
utilizzate, come fatto negli ultimi 80 anni».
Che cosa ricorda del 6 agosto 1945?
«Era un lunedì. Io e mio fratello stavamo andando a scuola, quando
altri bambini ci dissero che le lezioni erano state cancellate
perché c'erano degli aerei nemici nelle vicinanze. Ne fummo felici.
Quando abbiamo sentito che un aereo stava venendo verso Hiroshima,
io e mio fratello salimmo in cima al tetto della casa dove vivevamo
coi nostri nonni per vedere le scie. Per nostra fortuna, mia nonna
ci disse di scendere. Quando è arrivata la bomba, non ricordo il
lampo, né il botto. Ricordo le fiamme sui pezzi di casa caduti sopra
di me, l'odore di fumo. Non ero gravemente ferito e sono riuscito a
tirarmi fuori. Mio nonno e altri uomini presero i secchi per cercare
di spegnere un incendio, senza rendersi conto che l'intera città era
completamente scomparsa. Allontanandoci, c'era un'enorme sfilata di
persone simili a zombie. Alcune con orrende ferite, altre morte. Io
mi ammalai a causa delle radiazioni, ma in qualche modo sopravvissi.
Anche se le ferite psicologiche sono state più complicate da
curare».
Il direttore della Nihon Hidankyo ha paragonato la Gaza di oggi al
Giappone del 1945. Che effetto le fa quanto sta accadendo nel mondo?
«È da un paio d'anni, dopo la guerra in Ucraina, che mi chiedo come
sia possibile che siamo in questa situazione. E le cose sono persino
peggiorate. La Russia e la Corea del Nord minacciano di usare bombe
nucleari, la Cina ne vuole avere mille entro la fine del decennio.
Per non parlare dei rischi tra Israele e Iran, o tra Pakistan e
India. Abbiamo 13 mila armi nucleari nel mondo, 13 mila. Se
ascoltassero davvero le nostre storie non ne vorrebbero di più».
Ha fiducia nell'ascolto e nella comprensione delle nuove
generazioni, per evitare che si ripeta la tragedia?
«Vado spesso a parlare nei licei e nelle università. I giovani mi
sembrano molto interessati, ma a meno che tu non sia davvero
testimone di qualcosa del genere, è difficile comprendere del tutto
la grandezza del disastro. Noi la capiamo. Tra noi sopravvissuti, da
quanto è iniziata la guerra in Ucraina diverse persone non riescono
più a dormire, per il timore di dover rivivere quell'orrore».
La barca e il canone del Palafuksas al centro dell'inchiesta con 10
indagati
Ci sarebbero anche delle intercettazioni telefoniche a corredo delle
accuse sollevate dall'aggiunto Enrica Gabetta e dal sostituto
Giovanni Caspani nei confronti - anche - dell'imprenditore del gusto
Umberto Montano e della super dirigente del dipartimento Commercio
del Comune di Torino Paola Virano. L'inchiesta dello Scico della
Polizia e della Squadra Mobile di Torino vede 10 persone iscritte
nel registro degli indagati. La presunta corruzione lega le
posizioni di Virano e Montano. Lei lo avrebbe consigliato su come
rientrare da un debito di poco più di 500 mila euro e si sarebbe
interessata per abbassare (di un milione circa) i canoni della
concessione degli spazi del Palafuksas ricevendo in cambio il
prestito di una barca durante un weekend di vacanza all'Isola
d'Elba. g.leg. —
12.10.24
MESSAGGIO FORTE E CHIARO : MONITORIAMO I VOSTRI CONTI
dalla filiale di Intesa
Sanpaolo a Bitonto: il dipendente 50enne è stato licenziato Dal
procuratore antimafia alla presidente del Consiglio, oltre 3500
conti controllati in tutta Italia
La banca
La difesa di Coviello
Il bancario insospettabile spiava Meloni, politici e pm Ora si
indaga sui mandanti
" irene famà
inviata a bari
Insospettabile. Dietro il suo sportello di una filiale di Intesa
Sanpaolo spiava i conti correnti di persone illustri. Illustrissime.
La premier Giorgia Meloni, sua sorella Arianna, il suo ex compagno
Giambruno. E ancora. I ministri Daniela Santanché e Guido Crosetto.
Il procuratore della Direzione nazionale antimafia Giovanni Melillo
e carabinieri e militari della Guardia di finanza. Quello di
Vincenzo Coviello, cinquantenne di Bitonto, era un monitoraggio
quotidiano. Settemila gli accessi abusivi effettuati dal 21 febbraio
2022 al 24 aprile 2024: trecento al mese, circa quindici al giorno,
su oltre 3500 clienti portafogliati di 679 filiali sparse in tutta
Italia.
Sbirciava, questo è certo. Perché? Per chi? Difficile credere alla
semplice ossessione. Alla raccolta spasmodica di dati solo per farsi
"grande" con gli amici al bar. Secondo i primi accertamenti della
procura di Bari, guidata da Roberto Rossi, Coviello avrebbe
consultato conti correnti e anagrafiche. Ma quei dati non li avrebbe
né scaricati né condivisi con altri della banca né salvati su
supporti informatici. Insomma: nessun dossier mirato da condividere
come quelli del caso Striano, l'ex tenente della finanza indagato
per aver scaricato migliaia e migliaia di file segreti dalle banche
dati della Dna e delle forze dell'ordine.
Vincenzo Coviello per Intesa Sanpaolo si occupava della clientela
legata al business agro-alimentare con accesso a conti di società e
di aziende su tutto il territorio nazionale. «Quei dati li ho
consultati perché è il mio lavoro farlo», avrebbe detto per
giustificaris. Eppure l'alert è scattato lo stesso.
A banca Intesa Sanpaolo funziona così: il dipendente «autorizzato»
gestisce i dati della clientela e i sistemi di controllo
automatizzati monitorano i comportamenti e segnalano quelli anomali.
Ad esempio, se una stessa persona viene cercata troppe volte.
Insomma, se le consultazioni assumono un particolare rilievo
quantitativo o qualitativo. A quel punto scatta l'allarme. E così è
stato per Coviello. Gli analisti informatici del mega centro di
controllo che monitora i flussi telematici di tutto l'istituto
bancario da Moncalieri, comune alle porte di Torino, riscontrano le
anomalie. E la banca avvia un'indagine interna. A seguire il
procedimento disciplinare, che è una procedura lunga e scrupolosa.
Poi il licenziamento lo scorso 8 agosto.
Oltre ad avere adottato «tempestivamente nei confronti del
dipendente le opportune iniziative disciplinari», la Banca fa sapere
di avere «provveduto ad informare le autorità competenti». Immediata
la segnalazione al Garante della privacy e poi la denuncia in
procura. Insieme a un correntista di Bitonto che sarebbe stato
avvisato dal direttore dei numerosi accessi sul suo conto.
Consultazioni random per mera curiosità? Dai primi accertamenti,
risulta che Coviello abbia tenuto sotto controllo guadagni e spese
di politici, magistrati, sportivi, esponenti delle forze
dell'ordine. E l'elenco è davvero lungo. Compaiono, così raccontano
le prime informazioni, anche il presidente del Senato Ignazio La
Russa, l'ex ministro Raffaele Fitto, ora alla Commissione Ue, il
governatore della Puglia Michele Emiliano e quello del Veneto Luca
Zaia e il procuratore della Repubblica di Trani Renato Nitti.
Vincenzo Coviello era seriale. Non ha scaricato o copiato nulla, è
vero. Ma quei dati, in gran segreto, nascosto dietro il computer e
dietro quella teca di vetro che separa i dipendenti dai clienti, li
ha consultati. Forse appuntati. E ora gli investigatori dei
carabinieri della procura di Bari stanno cercando di ricostruire la
questione. Di risalire ai possibili mandanti. E di capire se il
funzionario ha agito da solo o con l'aiuto di qualcuno.
I numeri di questa sorta di spy story sembrano enormi. E lo sono, se
messi a confronto di un insospettabile funzionario. È doveroso,
però, ricordare che Intesa Sanpaolo gestisce circa 13 milioni di
clienti e al giorno transazioni che si aggirano intorno ai 20
miliardi. In questa vicenda, ciò che colpisce sono i nomi dei
personaggi spiati. E c'è chi si spinge a ipotizzare un
coinvolgimento degli investigatori privati. Faro degli inquirenti,
che hanno acquisito documenti e file e continuano ad ascoltare
testimoni, anche su eventuali pagamenti o altre utilità.
E la storia, con i dovuti distinguo, ricorda anche quella di Carmelo
Miano, l'hacker di Gela che dalla sua camera a Roma, a 24 anni, ha
violato i server del ministero della Giustizia e ha messo le mani su
fascicoli coperti da segreto di quattro procure. «Ho rubato le email
dei pm perché avevo attacchi d'ansia», avrebbe detto agli
investigatori della procura di Napoli.
Ansia. Curiosità. Poi c'è chi ipotizza un grande complotto. E chi
pensa a diversi mandanti impegnati a intercettare le persone giuste
al posto giusto. Per ottenere le informazioni che desiderano. —
Produzione al palo: -3,2% su base annua "Una Caporetto per la nostra
industria" La produzione industriale dell'Italia resta al palo. Ad
agosto, secondo l'Istat l'indice destagionalizzato della produzione
industriale è aumentato dello 0,1% rispetto a luglio. Ma in termini
tendenziali, la produzione industriale è scesa del 3,2% rispetto a
un anno fa. Le associazioni dei consumatori Unc e Codacons parlano
di «Caporetto» per l'industria tricolore. «Siamo al 19esimo calo
tendenziale consecutivo» dicono i consumatori. Su base tendenziale,
le flessioni maggiori si rilevano nella fabbricazione di mezzi di
trasporto (-14,2%), nella fabbricazione di macchinari (-11,6%) e
nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-10,8%).
Confcommercio parla di «situazione delicata» a cui si deve reagire e
la Cgil chiede al governo di convocare subito un tavolo di confronto
con imprese e sindacati a Palazzo Chigi.
QUESTO E' IL FUTURO DI MIRAFIORI: Gli schiavi
del
tessile
niccolò zancan
inviato a seano (prato)
Ecco quello che si deve sapere. «Mi chiamo Ehtisham Hussain, ho 29
anni, sono pachistano. Il mio lavoro nel distretto della moda di
Prato consiste in questo: chiudo scatole, carico scatole, scarico
scatole, metto i capi sugli attaccapanni e poi chiudo altre scatole,
le carico e le scarico ancora. Ogni giorno. Per dodici ore al
giorno. Sette giorni su sette. Guadagno 1200 euro al mese. Ma senza
riposo, senza malattia. Quando devo andare in questura per il
documento, il capo mi toglie 50 euro dalla paga. Ogni volta che c'è
un problema, il capo mi toglie 50 euro dalla paga. Quando finisco il
turno, devo lavare i bagni e i pavimenti».
Ehtisham Hussain lavora in uno dei distretti economici italiani più
redditizi del mondo per una paga di 3 euro e 33 centesimi all'ora.
Ecco perché da domenica è in sciopero con altri lavoratori nelle sue
stesse condizioni. Sono i dipendenti di cinque aziende della zona
che chiedono di poter lavorare otto ore al giorno e di poter avere
un giorno di riposo settimanale. Mercoledì notte stavano facendo un
picchetto davanti ai cancelli della ditta di confezioni "Lin Weidong"
a Seano, quando è arrivata la squadraccia di picchiatori.
«In quel momento c'erano in tutto otto persone» spiega adesso la
coordinatrice di "Sudd Cobas", Sarah Caudiero. «Due lavoratori e due
sindacalisti erano a dormire nelle tende, due lavoratori e altri due
dei nostri erano qui ai tavolini per il turno sveglia». La
squadraccia di picchiatori è arrivata alle spalle. Scavalcando una
rete. Era buio pesto. Notte nera. «Per prima cosa hanno urlato:
"Fermi tutti, polizia!". Poi hanno iniziato a picchiare con dei
bastoni. Avevano felpe scure, cappucci in testa. Picchiavano.
Picchiavano tutti. Prima di scappare, hanno detto: "La prossima
volta vi spariamo"».
Erano italiani. «Leggera inflessione dialettale toscana», precisa
chi si è preso quelle mazzate sulla schiena. Ieri pomeriggio le
vittime del pestaggio - quattro persone con contusioni e lividi -
sono state sentite in procura. E sempre da ieri, un'auto dei
carabinieri resta di scorta davanti al presidio dei lavoratori. È
qui che incontriamo Ehtisham Hussain: «Siamo tutti stanchi, troppo
stanchi. Io mando 500 euro al mese a casa per fare vivere la mia
famiglia. Quando arrivano i miei soldi, loro vanno a fare la spesa.
Sono il più grade di cinque fratelli. Tutti dipendono dal mio lavoro
in Italia». Ma quale lavoro? Quale tipo di lavoro?
Il tessile: 10 mila aziende (compreso l'indotto) grandi, medie e
piccolissime, 35 mila lavoratori emersi. Ma ogni volta che uno
nomina questo distretto deve sempre ricordare i sei operai bruciati
vivi nel laboratorio di Prato dove lavoravano e pure dormivano, deve
sempre ricordare Luana D'Orazio stritolata da un orditoio a
Montemurlo perché il sistema di sicurezza era stato manomesso per
non rallentare l'impianto. E adesso? Ecco questi nuovi lavoratori
picchiati mentre cercavano di affermare la loro stessa esistenza in
vita. Avete paura? «No» risponde la sindacalista Sarah Caudiero.
«Siamo abituati. Non è la prima volta che riceviamo minacce o
peggio. A marzo un caporale di una ditta della logistica, "la
AccaSrl", ha picchiato i lavoratori per farli uscire dal sindacato,
mentre cercavamo un accordo per lavorare 8 ore al giorno invece che
12. Abbiamo contato sei aggressioni fra la primavera e l'estate».
Era il distretto dei cinesi al servizio dei grandi marchi della moda
internazionale. Ma adesso i lavoratori più poveri sono tutti
pakistani e afgani. Sono loro che stanno cercando di portare
all'attenzione di tutti quello che sta succedendo. Lo sciopero di
domenica ha coinvolto i lavoratori di cinque marchi: stireria Tang,
logistica Tredesi, tessitura Sofia, la fabbrica di cerniere Linzhong
e - appunto - confezioni Lin Weidong. Le prime quattro hanno aperto
un tavolo di trattativa. La quinta, per ora, rifiuta qualsiasi
possibile accordo. Per conto di chi sono arrivati i picchiatori? A
nome di chi stavano minacciando i dipendenti in sciopero?
La procura indaga, la politica si indigna. La sindaca di Prato,
Ilaria Bigetti, dice: «È inaccettabile che chi manifesta per i
propri diritti sia intimidito e aggredito». Tutti chiedono
chiarezza. Mentre i lavoratori sfruttati, che erano già scesi in
strada la notte del pestaggio, torneranno a manifestare domenica.
Per capire quello che ancora succede nel distretto del tessile più
famoso d'Italia bisogna sempre tenere a mente il caso Montblanc.
Erano lavoratori in committenza di due pelletterie di Campi
Bisenzio, impiegati dodici ore al giorno, sette giorni su sette, che
confezionavano borse vendute a 1200 euro al pezzo. Quando hanno
protestato, la casa madre ha tagliato i ponti: «Perché l'appaltatore
non ha rispettato gli standard delineati nel nostro codice di
condotta per i fornitori». E loro - i lavoratori sfruttati - sono
finiti per strada. Disoccupati.
Due giorni di perquisizioni negli uffici
dall'assessorato al Commercio; nel mirino anche i bandi per
l'assegnazione dei posti al settore ittico
Favori e consulenze al patron di Mercato centrale
Indagata LA INTOCCABILE
Virano, super dirigente del Comune
giuseppe legato
giulia ricci
Il mercato coperto e quello ittico finiscono nel mirino della
procura di Torino. A vario titolo bandi – in ipotesi d'accusa -
sospetti , interessamenti per rideterminazioni di canoni di
concessione, consigli su fideiussioni e per "rientrare" da
esposizioni debitorie e – in cambio – regalie e favori. E
nell'inchiesta del procuratore aggiunto Enrica Gabetta e del pm
Giovanni Caspani, finiscono due nomi rilevanti. Si tratta
dell'imprenditore Umberto Montano, presidente e Fondatore del brand
"Mercato centrale", un format di grande successo aperto nel 2014 a
Firenze ed esportato nel giro di 7 anni in altre tre città d'Italia:
a Roma nel 2016, a Torino nel 2019 e a Milano nel 2021. E proprio
Torino è costata a Montano un avviso di garanzia per corruzione. In
questa contestazione figura in concorso Paola Virano, dirigente (con
la carica di direttore) del dipartimento commercio della Città a sua
volta accusata – solo di turbativa – per il bando relativo
all'assegnazione del mercato ittico. Ma andiamo con ordine: l'altroieri
e ieri mattina i poliziotti della Sisco (Sezione investigativa del
Servizio centrale operativo) della polizia e della Squadra Mobile di
Torino hanno notificato 10 ordini di esibizione ad altrettanti
indagati, acquisito documenti anche a Firenze, dove il brand Mercato
Centrale è nato e nella sede dell'assessorato al Commercio del
Comune di Torino. I filoni dell'inchiesta sono tre, ma quelli più
rilevanti conducono alla super-dirigente (già riferimento della
macchina comunale in passato per le politiche urbanistiche) e
all'imprenditore del gusto la cui iniziativa d'impresa a Torino – al
contrario delle altre sedi con fatturati alle stelle e numeri di
pubblico rilevanti – non ha riscosso per nulla successo. Doveva
essere un locale stellato alla portata di tutti, ma il suo rapporto
con Torino non è mai decollato. E questo nonostante all'epoca
l'iniziativa contava su nomi di assoluto spessore del panorama della
cucina e del gusto: Davide Scabin in testa (del tutto estraneo alla
vicenda in oggetto). Secondo l'ipotesi d'accusa - da dimostrare in
giudizio – Virano avrebbe dato consigli a Montano su come gestire il
rientro da un debito pari a poco più di 500 mila euro con Soris e -
sempre su richiesta di Montano - si sarebbe impegnata (senza ancora
risultati concreti) per rivedere i costi della convenzione che
regolava la concessione degli spazi su canone. Con un ipotetico
risparmio di circa un milione di euro. In cambio Virano avrebbe
ricevuto delle regalie – pare l'utilizzo di una barca – durante un
weekend di vacanza trascorso all'Isola D'Elba dove la dirigente ha
anche una dimora estiva. Il secondo fronte è quello del mercato
ittico. Attualmente chiuso, più bandi (base d'asta 2,6 milioni) per
l'assegnazione ad operatori di mercato sono andati deserti.
L'ipotesi di turbativa, di cui Virano risponde insieme ad altre tre
persone riguarderebbe un presunto intervento della dirigente per far
abbassare l'iniziale importo fideiussorio a garanzia della
partecipazione all'investimento che avrebbe potuto favorire o meno
alcuni operatori. Il legale di Virano, Roberto Capra commenta: «La
mia assistita è molto serena perchè ha sempre e solo lavorato per il
bene della città e siamo fiduciosi che gli accertamenti in corso
daranno conto della ‘assenza di qualsiasi ipotesi di
responsabilità». In coda altri indagati a Trofarello in un terzo
filone dell'inchiesta che coinvolge l'attuale segretario comunale in
ordine a presunti reati in materia urbanistica.
professionisti
da giovedì scorso non hanno più messo piede nell'ospedale
Visite private in orario di lavoro Oftalmico, licenziati due medici
Caterina stamin
Timbravano come se stessero svolgendo regolare attività lavorativa
per l'ospedale. Peccato che in quelle ore, in cui erano pagati con i
soldi pubblici, visitassero pazienti privatamente. Per questo due
giovani oculisti dell'ospedale Oftalmico sono stati licenziati "per
giusta causa" dall'Asl Città di Torino. «A seguito di approfondite
verifiche, abbiamo preso provvedimenti nei confronti di due
professionisti - conferma Carlo Picco, direttore generale dell'Asl -
perché agivano in libera professione durante l'orario d'ufficio».
Per legge è prevista la netta separazione tra l'attività in orario
di servizio dei medici ospedalieri e la loro libera professione. Una
norma volta a evitare che i professionisti "rubino" tempo all'orario
per cui sono pagati dai cittadini e durante il quale devono svolgere
la loro attività da dipendenti. Nel caso in questione l'indagine,
durata mesi, ha preso in considerazione le "bollature" di due anni
consecutivi, dal 2022 al 2023. Per tutto questo periodo di tempo, i
due specialisti dell'Oftalmico - Riccardo B. e Alessandra M. - in
orario di "intramoenia"(ossia privato) più volte non si sarebbero "stimbrati
dall'ospedale": non avrebbero, quindi, sospeso il loro orario di
lavoro di dipendenti pubblici, mentre svolgevano la libera
professione privata. Così facendo, i due medici avrebbero anche
ricevuto un doppio compenso: dall'ospedale e dai privati cittadini
che, ignari di tutto, si sono rivolti a loro.
A mettere fine alle loro truffe alcuni controlli a campione dell'Asl
su diversi professionisti dell'ospedale: sono state esaminate le
prestazioni in intramoenia dei due oculisti e comparati gli orari.
Quindi, una settimana fa, entrambi i medici hanno ricevuto la mail
dall'Asl Città di Torino, che gli comunicava l'immediata
interruzione della loro attività lavorativa "per giusta causa". Da
giovedì scorso non hanno più messo piede all'Oftalmico. Dall'Asl è
partita la segnalazione all'autorità giudiziaria. I professionisti
potranno ricorrere contro il provvedimento di licenziamento,
proposto dalla Commissione di disciplina alla direzione generale.
Ma, viste le ripetute violazioni, sarà per loro difficile dimostrare
la buona fede.
11.10.24
MAFIA E STADI :
L'Antimafia
Inter e Milan
Le indagini
su
Grazia Longo
Roma
Sullo scandalo esploso dopo l'inchiesta della procura di Milano
"Doppia curva", che ha portato all'azzeramento dei vertici delle
tifoserie di Milan e Inter, interviene ora la Commissione antimafia.
A Palazzo San Macuto hanno già acquisito gli atti relativi alle
indagini e oggi il capogruppo Pd Walter Verini presenterà
ufficialmente la richiesta di un Comitato che possa occuparsi della
questione. La sua costituzione avverrà molto presto. «La presidente
della Commissione Chiara Colosimo mi ha già comunicato per le vie
brevi che accoglierà la mia richiesta - annuncia il senatore dem -.
È dunque probabile che dopo la lettura delle carte si procederà alle
audizioni dei presidenti dei club milanesi e delle persone utili
alla ricostruzione della vicenda».
L'idea del Comitato nasce dall'esigenza di una struttura più agevole
e snella rispetto all'assemblea plenaria. E l'obiettivo è quello di
estendere i lavori anche alle altre squadre per affrontare la piaga
delle infiltrazioni mafiose nel mondo del calcio. «Dobbiamo
affrontare un problema che non è solo milanese - precisa Verini -. È
noto che in moltissimi stadi italiani c'è questa situazione, in un
connubio pericolosissimo tra ultrà, criminalità e criminalità
organizzata. E le società spesso chiudono gli occhi».
Di qui l'idea di un Comitato che affronti, in un tempo definito, il
tema criminalità negli stadi, i rapporti con la criminalità
organizzata, le responsabilità delle tifoserie e cosa fare per
sradicare questi fenomeni. «Ovviamente non ci vogliamo sostituire
alla magistratura che fa la sua parte - prosegue -, come la fanno
anche le forze dell'ordine. La Commissione antimafia accende un faro
sul problema e il Comitato, dopo le audizioni può avanzare, magari
dopo sei mesi di attività, delle proposte al Parlamento per liberare
il calcio dalla criminalità organizzata che non ha niente a che fare
con il calcio, ma è solo delinquenza».
Verini pone l'accento sugli affari loschi che la criminalità
organizzata macina intorno agli stadi attraverso il bagarinaggio, il
merchandising, i parcheggi. Denaro che confluisce in attività
illegali come il traffico di droga e il riciclaggio: «La collusione
con la ‘ndrangheta è una miscela esplosiva molto pericolosa. La
Federcalcio, la Lega, le società di calcio devono prendere coscienza
e recidere questi collegamenti. Occorre restituire gli stadi ai
tifosi e non lasciarli nelle mani dei delinquenti».
All'attenzione del Comitato, inoltre, anche i pericolosi rapporti
delle tifoserie con l'estremismo nero. «Un aspetto che, come la
vicinanza ad ambienti mafiosi, riguarda varie città d'Italia, tipo
Verona, Bergamo, Torino, Roma - aggiunge -. In merito, infine, al
silenzio, spesso per quieto vivere, delle società di calcio, do atto
al presidente della Lazio Claudio Lotito di aver reciso i rapporti
con gli ultras, tanto da dover vivere sotto scorta».
LI AVEVO SCONSIGLIATI A PEVERARO MA COME AL SOLITO MI RISE IN FACCIA
: Il Comune ricorre in giudizio per 4 contratti con Jp Morgan e
Dexia Crediop Un altro è con Intesa Sanpaolo. Il primo cittadino:
"Resta partner strategico"
La Città fa causa alle banche per i maxi-derivati del 2000 "Sono
contenziosi ordinari"
ANDREA JOLY
Cinque cause a tre diversi istituti bancari per interrompere un
salasso da quasi 200 milioni (e che rischia di salire di altri 50).
La Città, stretta da anni nella morsa di cinque contratti derivati,
ha deciso di fare ricorso alle banche con cui sono stati
sottoscritti tra il 2006 e il 2007 dagli assessori al Bilancio Paolo
Peveraro (fino a quando divenne vicepresidente della Regione con
Mercedes Bresso) e Gianguido Passoni all'epoca di Sergio Chiamparino
sindaco. L'obiettivo è quello di fronteggiare i debiti ed eventuali
ulteriori rialzi dei tassi d'interesse. Tra speculazione e crisi
economiche, infatti, quelli che sembravano affari 18 anni fa si sono
rivelati una scommessa sconveniente per il Comune. Così, dopo la
ricognizione della situazione la decisione di fare ricorso.
A confermarlo è stato lo stesso sindaco Stefano Lo Russo, ieri, a
margine della sua visita al mercato di Porta Palazzo. «È un fatto
tecnico in mano agli avvocati, ma è una cosa ordinaria», ha
precisato rispondendo alle domande dei giornalisti. Dei cinque
contratti derivati citati in giudizio, due erano stati sottoscritti
con la multinazionale statunitense di servizi finanziari Jp Morgan;
due con l'istituto di credito specializzato nella concessione di
mutui e prestiti a lungo termine per la realizzazione di grandi
infrastrutture Dexia Crediop; uno con Intesa Sanpaolo.
La Città «ha tanti contenziosi e di tutti i tipi, dalle buche alle
multe - ha ricordato Lo Russo - Da sindaco vorrei averne meno, ma
quelli che ogni settimana esaminiamo sono molti e questo è uno di
quelli». E ha poi aggiunto, sollecitato sulla stretta collaborazione
per numerosi progetti con Intesa Sanpaolo Intesa, come «resti un
partner strategico della Città con il quale i rapporti sono
eccellenti e con cui lavoriamo benissimo, continuiamo a lavorare e
continueremo a farlo in futuro. Questo è un caso molto specifico».
Il primo cittadino ha infine concluso citando il caso del
contenzioso col ministero di Grazia e giustizia sul pagamento degli
emolumenti della polizia municipale: «Non ha certo impedito di avere
un buon rapporto in seguito».
L'iniziativa si inserisce nelle numerose azioni intentate dal Comune
per ridurre il debito della Città: «mettere a posto i conti» è tra
le priorità di Lo Russo fin dai primi giorni di insediamento. L'assessora
Gabriella Nardelli, anche alla luce del Patto per Torino siglato col
governo Draghi per garantire l'equilibrio finanziario con risorse
straordinarie fino a 113 milioni di euro, in questa prima parte di
mandato ha studiato i bilanci e la rinegoziazione dei mutui.
Nell'ambito dell'analisi della situazione finanziaria è emerso che i
contratti stipulati non solo avevano procurato un buco da quasi 200
milioni, come filtra dagli uffici, ma forte anche di una serie di
sentenze della Cassazione favorevoli ai ricorrenti si poteva
recuperare almeno in parte la cifra persa.
L'avvocatura della Città, filtra dalle prime indiscrezioni, ha
affidato la pratica allo studio "Cedrini & Zamagni". Obiettivo:
recuperare parte dei milioni persi e smettere di versarne altri. —
GIUSTIZIA ? La decisione del giudice di Brescia sull'esposto del
magistrato, a lungo nella Procura di Torino. Resta aperta la
posizione dell'ex procuratore
"Non c'è prova di complotto anti Padalino" Ma gli atti su Spataro
finiscono a Milano
elisa sola
«Non vi sono elementi per ipotizzare con un minimo grado di
fondatezza, tale da meritare il vaglio di un processo, che il
magistrato Andrea Padalino sia stato vittima di un complotto ordito
dai colleghi torinesi e della procura di Milano».
Lo scrive la gip Angela Corvi, del tribunale di Brescia, nel
provvedimento con cui ha archiviato la posizione di sette pubblici
ministeri in servizio nelle due città, all'epoca dei fatti al vaglio
delle indagini. La questione , però non è chiusa. La giudice ha
trasmesso le carte alla procura di Milano perché si valuti un ultimo
episodio, per il quale il nome di Armando Spataro, ex capo della
procura di Torino e in pensione al dicembre del 2018, fu iscritto
nel registro degli indagati per rifiuto in atti di ufficio. In
questo caso la gip Corvi ha preso atto che, per ragioni di
«competenza funzionale», non ha titoli per pronunciarsi, dal momento
che non ci sono magistrati milanesi interessati.
Il fascicolo era stato aperto dopo un esposto dello stesso Padalino.
Il magistrato, quando era in servizio a Torino come pubblico
ministero, era stato indagato per una vicenda di presunti favori in
procura. Al processo, celebrato a Milano, fu assolto.
Il caso di cui adesso dovranno occuparsi gli inquirenti di Milano,
riguarda un presunto divieto impartito dall'allora procuratore capo
Armando Spataro ai pubblici ministeri che stavano indagando sul
collega Padalino per i presunti favori nel Palazzo di giustizia di
Torino. A parlare del «divieto», come si ricava dalla lettura degli
atti, sono stati Anna Maria Loreto, succeduta a Spataro alla guida
della procura di Torino, e tre pubblici ministeri. La procura di
Brescia ha già fatto presente che a proprio parere non si
configurano illeciti di carattere penale.
Padalino, nell'esposto che diede il via alle indagini, lamentò, fra
l'altro, il mancato invio da parte di Spataro ai pm di Milano dei
resoconti di due procuratori aggiunti (Paolo Borgna e Patrizia
Caputo) che avrebbero potuto scagionarlo subito, senza passare per
il vaglio di un processo. Il gip del tribunale di Brescia, a
proposito, riporta ampi stralci di una relazione presentata nel 2023
da Anna Maria Loreto, da cui si dedurrebbe che i pm torinesi
chiesero più volte nel 2017 di ascoltare Borgna come testimone,
«vedendosi sempre opporre un netto rifiuto» da parte di Spataro. «In
luogo della testimonianza - affermava Loreto - Spataro si determinò
a chiedere a Borgna di redigere una relazione assicurandolo, su sua
richiesta, che non sarebbe mai entrata nel fascicolo». Il documento,
che non conteneva accuse contro Padalino, venne fatto leggere ai tre
pm torinesi che stavano lavorando al caso, con il «divieto» di
inserirlo negli atti di indagine. Una volta classificato «a
protocollo riservato», fu chiuso in cassaforte. Dopo il
pensionamento di Spataro fu Borgna, diventato reggente della
procura, a trasmetterlo alla procura di Milano il 7 marzo 2019. —
10.10.24
valentino Girlanda Sindaco di Bevilacqua: "In struttura pubblica
avrei aspettato 18 mesi"
"Cinquemila euro per non perdere la vista Ho dovuto chiedere un
prestito in banca" Paolo Russo
roma
Sarà che la sanità non è più nelle mani dei sindaci come ai tempi
delle vecchie Usl, ma non si può dire che per il primo cittadino di
Bevilacqua, nel Veronese, qualcuno abbia avuto un occhio di
riguardo. La vista anzi ha rischiato proprio di perderla a causa
delle liste di attesa.
Valentino Girlanda, 63 anni, è un paziente fragile. «Qualche anno fa
ho infatti subito il trapianto di rene. Poi durante i controlli
periodici ai quali mi devo sottoporre, ho scoperto che quelle prime
difficoltà nel vedere rischiavano di diventare un problema
decisamente grave a detta del medico». In entrambi gli occhi si
erano formate due cataratte. Un male comune a una certa età, solo
che al sindaco è avanzato velocemente, «limitandomi in breve tempo e
in modo significativo la vista. Una situazione anomala, causata dai
farmaci anti-rigetto che devo assumere da quando sono stato
trapiantato», precisa Girlanda. Che a quel punto decide di prenotare
una visita dall'oculista «anche perché di li a poco avrei dovuto
rinnovare la patente di guida, che in quelle condizioni non mi
avrebbero concesso. In regime pubblico però i tempi di attesa
andavano da due a tre mesi». Troppi, «così sono andato a farmi
visitare all'ospedale di Legnano ma in forma privata, sborsando per
questo i primi 100 euro». Una bazzecola rispetto a quello che
sarebbe seguito. «L'oculista mi consiglia di sottopormi subito ad
intervento chirurgico e chiama il centro unico di prenotazione della
Ulss. La risposta però è stata una doccia fredda: il primo posto
libero era disponibile solo dopo un anno e mezzo. E pensare
-aggiunge- che il mio medico nel fare richiesta aveva specificato
che non c'era tempo da perdere perché la situazione avrebbe potuto
peggiorare rapidamente, rendendo incerto l'esito dell'intervento».
Questo perché se non operata la cataratta può causare un aumento
della pressione oculare con danni irreversibili all'occhio.
«A quel punto, per non rischiare di rimanere cieco, sono andato a un
centro privato di Verona, dove dopo un paio di settimane mi hanno
effettuato una seconda visita pagata altri 100 euro e poi, a
distanza di 20 giorni, sono stato operato, sborsando ben 5.000 euro.
Ho dovuto chiedere un prestito in banca per fare subito il bonifico
ma non posso fare a meno di pensare che senza una buona pensione ora
non vedrei più». —
GRAZIE A SPERANZA PD E DRAGHI :
Collasso della sanità, pagano le famiglie 4,5 milioni di italiani
rinunciano a curarsi
Il 23 dicembre 1978 il Parlamento approvava a la legge 833 che
istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in attuazione
dell'art. 32 della Costituzione. Un radicale cambio di rotta nella
tutela della salute delle persone, un modello di sanità pubblica
ispirato da princìpi di universalismo, uguaglianza ed equità e
finanziato dalla fiscalità generale. Un SSN che ha permesso di
ottenere eccellenti risultati di salute e di aumentare l'aspettativa
di vita e che tutto il mondo continua a guardare con ammirazione.
Già nel marzo 2013, in occasione del lancio della campagna "Salviamo
il Nostro Ssn", la Fondazione Gimbe aveva previsto che la perdita
del SSN non sarebbe stata annunciata dal fragore improvviso di una
valanga, ma si sarebbe manifestata come il lento e silenzioso
scivolamento di un ghiacciaio, attraverso, lustri, decenni.
Un processo inesorabile che avrebbe eroso il diritto costituzionale
alla tutela della salute. E se fino alla pandemia la sostenibilità
del SSN è rimasto un tema tra addetti ai lavori, oggi la tenuta
della sanità pubblica, prossima al punto di non ritorno, coinvolge
60 milioni di persone. I principi fondanti del SSN sono stati
traditi: l'universalismo è lettera morta, visto che i Livelli
essenziali di assistenza (Lea) non sono esigibili da tutti;
l'uguaglianza e l'equità sono ormai un miraggio, viste le profonde
diseguaglianze nell'accesso a servizi e prestazioni. Il diritto
costituzionale alla tutela della salute, in particolare per le fasce
socio-economiche più deboli, gli anziani e i fragili, chi vive nel
Mezzogiorno e nelle aree interne e disagiate si sta inesorabilmente
sgretolando.
Innumerevoli problemi gravano sulla vita quotidiana delle persone:
interminabili tempi di attesa, pronto soccorso affollatissimi,
impossibilità a iscriversi ad un medico di famiglia vicino casa,
migrazione sanitaria, aumento della spesa privata e impoverimento
delle famiglie sino alla rinuncia alle cure. I dati del 7° Rapporto
Gimbe sul Ssn - presentati presso la Sala Capitolare del Senato
della Repubblica - documentano che la sanità pubblica fa acqua da
tutte le parti. Un divario della spesa sanitaria pubblica pro capite
di 889 euro rispetto alla media dei paesi Ocse membri dell'Unione
europea, con un gap complessivo che sfiora i 52,4 miliardi, frutto
del costante definanziamento attuato da tutti i governi negli ultimi
15 anni. E il futuro non è affatto roseo: secondo il Piano
strutturale di bilancio approvato dal governo nel 2026 il rapporto
spesa sanitaria/Pil scenderà al 6,2%. Esplode la spesa pagata di
tasca propria dai cittadini: nel 2023 è aumentata del 10,3%, 3,8
miliardi in più del 2022. Un impatto sulle famiglie che, oltre a
rendere sempre meno esigibile il diritto universale alle cure, nel
2023 ha costretto quasi 4,5 milioni di persone a rinunciare a visite
o esami diagnostici, di cui circa 2,5 milioni per motivi economici.
La crisi motivazionale di medici e infermieri che abbandonano il Ssn
ha generato una carenza di personale che compromette qualità e
accessibilità dei servizi sanitari e aggrava i disagi per i
pazienti. Tra il 2019 e il 2022 il Ssn ha perso oltre 11.000 medici
e si stima che nel solo primo semestre del 2023 altri 2.564 medici
abbiano abbandonato il servizio pubblico.
Ma la crisi colpisce soprattutto il personale infermieristico:
l'Italia conta solo 6,5 infermieri ogni 1.000 abitanti, uno dei
numeri più bassi d'Europa. Riguardo i Lea, le prestazioni che il Ssn
è tenuto a fornire a tutte le persone, nel 2022 solo 13 Regioni
hanno rispettato gli standard, con un divario sempre più marcato tra
Nord e Sud. Le uniche Regioni del Mezzogiorno promosse sono Puglia e
Basilicata, che si posizionano comunque in fondo alla classifica. E
la mobilità sanitaria riflette questo squilibrio, con i pazienti del
Sud che migrano verso le Regioni del Nord, gravando ulteriormente
sui bilanci già fragili delle aree meno sviluppate: in dettaglio,
nel decennio 2012-2021 le Regioni del Mezzogiorno hanno accumulato
un debito di quasi 11 miliardi. Diseguaglianze regionali su cui
incombe lo spettro dell'autonomia differenziata che legittimerà tali
divari.
Nel frattempo, altrettanto in sordina, si è involuta la percezione
pubblica del valore del Ssn: salute non più un bene supremo da
tutelare secondo il dettato costituzionale, ma una merce da vendere
e comprare. Una pericolosa involuzione che spiana la strada ad una
sanità regolata dal libero mercato, dove le prestazioni saranno
accessibili solo a chi potrà pagare di tasca propria o avrà
sottoscritto costose polizze assicurative. Che, in ogni caso, non
potranno mai garantire nemmeno ai più abbienti una copertura globale
come quella offerta dal Ssn. E senza una rapida inversione di rotta,
il "ghiacciaio" continuerà inesorabilmente a scivolare: da un
Servizio sanitario nazionale fondato per la tutela di un diritto
costituzionale, a 21 Sistemi sanitari regionali regolati dalle leggi
del libero mercato.
Il Paese corre un rischio gravissimo: perdere il Ssn non significa
solo compromettere la salute delle persone, ma soprattutto
mortificarne la dignità e ridurre le loro capacità di realizzare
ambizioni e obiettivi. È per questoche la Fondazione Gimbe ha
realizzato il Piano di rilancio del Ssn: un programma chiaro in 13
punti che prescrive la terapia necessaria a salvare il nostro Ssn
"malato". Un piano che mantiene come bussola l'articolo 32 della
Costituzione e il rispetto dei principi fondanti del Ssn, mettendo
nero su bianco le azioni indispensabili per potenziarlo con risorse
adeguate, riforme coraggiose e una radicale e moderna
riorganizzazione. Per attuare questo piano, la Fondazione Gimbe ha
invocato un nuovo patto politico e sociale, che superi divisioni
ideologiche di partito e avvicendamenti dei governi, riconoscendo
nel Ssn un pilastro della nostra democrazia, uno strumento di
coesione sociale e un motore per lo sviluppo economico dell'Italia.
Un patto che chiede ai cittadini di diventare utenti informati e
responsabili, consapevoli del valore del Ssn, e a tutti gli attori
della sanità di rinunciare ai privilegi acquisiti per salvaguardare
il bene comune.
Perché se la Costituzione tutela il diritto alla salute di tutti, la
sanità deve essere per tutti.
Aggirato il veto di Orban sul piano del G7: per il rimborso si
useranno i beni russi congelati In forse l'arrivo di Biden al summit
di Ramstein. Ipotesi incontro Zelensky -Meloni a Roma
Maxi-prestito all'Ucraina l'Ue va avanti senza gli Usa "Garantiamo
35 miliardi"
Viktor Orban
MARCO BRESOLIN
INVIATO A LUSSEMBURGO
I governi dell'Unione europea hanno superato le titubanze interne e
hanno deciso di andare avanti con il maxi-prestito all'Ucraina
concordato dal G7 prima dell'estate. Anche se al momento non c'è la
garanzia assoluta che gli Stati Uniti faranno la loro parte nel
piano d'aiuti da 45 miliardi che sarà rimborsato con gli utili
generati dai beni russi congelati. L'amministrazione americana ha
subordinato il suo contributo alla modifica del meccanismo
sanzionatorio dell'Ue, che prevede un rinnovo ogni sei mesi:
Washington ha chiesto di estenderlo a 36 mesi, in modo da avere
maggiore prevedibilità ed evitare che due volte l'anno il
congelamento dei beni finisca ostaggio dei veti di un Paese. Ma il
governo ungherese continua a opporsi a questa modifica.
Per uscire dallo stallo, all'Ecofin di ieri i ministri delle Finanze
si sono trovati d'accordo sulla proposta avanzata da Ursula von der
Leyen in occasione del suo viaggio a Kiev del 20 settembre scorso:
l'Ue si impegnerà a erogare «fino a 35 miliardi di euro» - vale a
dire la propria quota da circa 17,5 miliardi più quella degli Stati
Uniti - nella speranza che Washington si accodi in un secondo
momento. I restanti dieci miliardi dovrebbero essere "coperti" da
Regno Unito, Canada e Giappone. I tre testi legislativi che
attiveranno il meccanismo finiranno oggi sul tavolo del Coreper,
l'organismo che riunisce i 27 ambasciatori Ue: per la loro
approvazione è sufficiente la maggioranza qualificata, mentre quello
che modifica le tempistiche per le sanzioni richiede l'unanimità. Ed
è proprio questo il motivo per cui si è deciso di "spacchettarli",
mettendo da parte il tema delle sanzioni.
«Ne riparleremo a novembre – ha tenuto il punto Mihaly Varga,
ministro delle Finanze ungherese –. Noi crediamo che la questione
dell'estensione delle sanzioni debba essere decisa dopo le elezioni
americane. Dobbiamo vedere in quale direzione andrà la futura
amministrazione Usa perché, come si può vedere dalla campagna, ci
sono due modi assolutamente diversi per risolvere il problema: uno
in direzione della pace e l'altro in direzione della guerra». In
sostanza, per dare il suo via libera, il governo ungherese aspetta
di vedere cosa farà la Casa Bianca, la quale però non prenderà una
decisione fino a quando l'Ungheria non avrà sbloccato la questione
delle sanzioni. Un cortocircuito che sembra non avere una via
d'uscita.
A Bruxelles c'è il timore che gli Stati Uniti potrebbero non entrare
mai nel meccanismo del prestito: si tratta di uno scenario probabile
in caso di vittoria di Trump. Per questo nelle prossime settimane
continuerà il pressing sulla Casa Bianca per convincere il
presidente Joe Biden a giocare d'anticipo e mettere così al sicuro i
fondi. Ieri era stato annunciato per sabato un incontro a Berlino
tra i leader di Usa, Regno Unito, Francia e Germania proprio per
discutere della situazione in Ucraina prima del vertice a Ramstein,
dal sostegno militare a quello finanziario. Ma poche ore dopo Biden
ha cancellato la sua presenza per via dell'uragano Milton. Il
vertice si sarebbe dovuto tenere nel formato Quad, dunque senza
l'Italia. In serata, però, è arrivata la notizia di una possibile
visita di Volodymyr Zelensky a Roma, prevista per domani, per
incontrare Giorgia Meloni.
Tornando al maxi-prestito all'Ucraina, il primo dei tre regolamenti
Ue consentirà di introdurre un meccanismo per raccogliere sui
mercati i 45 miliardi definiti dall'accordo siglato dal G7. Servirà
anche il via libera del Parlamento europeo, che si esprimerà a fine
ottobre: la prima tranche dei fondi sarà così erogata a Kiev entro
la fine dell'anno, mentre le restanti nel corso del 2025. Gli altri
due regolamenti modificheranno invece la destinazione d'uso dei
proventi generati dai beni russi congelati, che valgono a circa 3
miliardi di euro l'anno. Prima dell'estate, l'Ue aveva deciso di
utilizzare il 90% di questi fondi per il sostegno militare e il 10%
per la ricostruzione, ma ora le proporzioni si sono invertite: il
95% servirà per ripagare il prestito (nell'arco dei prossimi 40
anni) e solo il 5% per finanziare l'invio di armi. —
LO AVEVO INTUITO : Brescia, otto mesi a De Pasquale e Spadaro. Il
legale: "Precedente pericoloso per l'autonomia dei magistrati"
"Nascosero le prove alla difesa" condannati i pm del processo Eni
monica serra
milano
Con l'accusa di rigetto di atti d'ufficio, il Tribunale di Brescia
ha condannato a 8 mesi i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio
Spadaro, ora alla procura europea. Si è chiuso così, almeno in primo
grado, il processo ai due magistrati che avrebbero omesso di
depositare atti favorevoli alle difese nel procedimento Eni Nigeria,
in ogni caso terminato con l'assoluzione di tutti gli imputati,
compresi i vertici della compagnia petrolifera.
«Questa sentenza rappresenta un precedente pericoloso, perché mette
in discussione i principi fondamentali dell'autonomia e della
discrezionalità delle scelte processuali di un pubblico ministero»
ha dichiarato il difensore Massimo Dinoia, alla lettura del
dispositivo di una decisione contro cui ha già annunciato di fare
appello, mentre in quel momento i due pm hanno preferito non essere
presenti in aula.
Travolto a maggio dalla decisione del plenum del Csm di non
confermarlo nelle funzioni semi-direttive nella procura di Milano,
dove fino ad allora ha rivestito il ruolo di procuratore aggiunto a
capo del pool reati economici internazionali, De Pasquale è stato
l'unico pm in Italia ad aver ottenuto la condanna dell'ex premier
Silvio Berlusconi per frode fiscale. Nel giugno del 2021, con il
collega Spadaro, ha scoperto di essere indagato con la notifica di
un decreto di perquisizione informatica eseguita su computer e
dispositivi nel suo ufficio, al quarto piano del palazzo di
giustizia.
Per l'accusa, tra febbraio e marzo del 2021, i due magistrati
avrebbero omesso «volontariamente» di depositare al processo
«informazioni, prima verbali e poi documentali» che avrebbero minato
la credibilità del ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, coimputato ma
anche testimone «valorizzato» dai pm. Due, in particolare: un video
e delle chat trovate nel cellulare di Armanna dal collega Paolo
Storari (anche lui finito sotto processo a Brescia per rivelazione
del segreto d'ufficio, poi assolto) che in quel momento indagava sul
presunto complotto Eni e che le aveva inviate per mail ai due
colleghi. Chat che dimostravano che Armanna avrebbe pagato un
poliziotto nigeriano, chiamato come testimone per confermare le
accuse a Eni. «Si trattava solo della bozza di una memoria
informale» si sono difesi in aula i pm. Nella requisitoria, i
colleghi Francesco Milanesi e Donato Greco con il procuratore
Francesco Prete hanno sostenuto che avrebbero dovuto «adempiere agli
obblighi di legge», ossia non tanto «selezionare» gli elementi di
prova ma depositarli tutti alle parti processuali. Invece «con il
loro comportamento omissivo», «nascondendo» atti favorevoli agli
imputati, avrebbero «leso il diritto di difesa».
Il Tribunale presieduto da Roberto Spanò li ha condannati a 8 mesi
con sospensione della pena e non menzione, e ha stabilito che il
risarcimento alla parte civile Gianfranco Falcioni, ex vice console
onorario in Nigeria, da versare in solido con la Presidenza del
Consiglio, sarà liquidato in seguito al giudizio civile. Entro 45
giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza, solo dopo
la difesa potrà fare appello.
Inchiesta sugli ultrà Inzaghi e Zanetti tra i primi testimoni
Tra una settimana o poco più parte delle carte dell'inchiesta
sulle curve di San Siro, che ha azzerato i vertici ultrà della Nord
interista e della Sud milanista, arriveranno alla Procura federale
della Figc, che dovrà verificare, sul fronte della giustizia
sportiva, eventuali condotte "rilevanti" da parte di Inter e Milan o
dei loro tesserati. In queste ore, saranno ascoltati l'allenatore
nerazzurro Simone Inzaghi, il vicepresidente del club Javier Zanetti
e il capitano del Milan Davide Calabria. In seguito dovrebbero
essere sentiti il centrocampista interista Hakan Çalhanoglu e l'ex
difensore nerazzurro, ora al Psg, Milan Skriniar.
Il presidente della Provincia di Imperia è indagato per abuso
d'ufficio nell'inchiesta sulla compravendita di un'ex bocciofila. Si
va verso lo stralcio
Silurò la dirigente che non voleva firmare Scajola si salva grazie
alla riforma Nordio
mattia mangraviti
imperia
La riforma Nordio che ha cancellato il reato di abuso d'ufficio
salva anche il presidente della Provincia di Imperia Claudio
Scajola. L'ex ministro, infatti, risulta iscritto nel registro degli
indagati con l'accusa di abuso d'ufficio nell'inchiesta sulla
compravendita di un'ex bocciofila, a Imperia. La sua posizione,
però, verrà stralciata alla chiusura delle indagini, a meno che nel
frattempo non venga modificata l'ipotesi di reato, dato che l'abuso
d'ufficio è stato abolito lo scorso agosto.
Il ddl del ministro della Giustizia Nordio ha eliminato la norma del
codice penale che puniva il pubblico ufficiale che, violando
consapevolmente leggi, regolamenti o l'obbligo di astensione,
provoca un danno ad altri o si procura un vantaggio patrimoniale.
Nel 2020 l'articolo era stato modificato specificando che il reato
non si poteva configurare in presenza di margini di discrezionalità
amministrativa nell'adozione di un provvedimento. Una disposizione
ora cancellata del tutto.
A Imperia, l'inchiesta per falso e abuso d'ufficio vede indagati
Rosa Puglia, segretario generale della Provincia, Manolo Crocetta,
dirigente del settore legale, Michele Russo, dirigente del settore
Infrastrutture, Pier Carlo Gandolfo, geometra del settore
Infrastrutture, e Fulvio Modugno, ingegnere del settore
Infrastrutture. Oggetto dell'indagine presunte irregolarità
nell'acquisizione, da parte della Provincia, dell'ex bocciofila di
proprietà di un privato, Pietro Salvo.
Nel mirino il valore dell'immobile che presenterebbe criticità per
la presenza di vincoli urbanistici e di costruzioni abusive. In
particolare l'ex Bocciofila, in base all'ipotesi dei pm sarebbe
all'origine della decisione del presidente Scajola di sollevare
dall'incarico una dirigente della Provincia, Patrizia Migliorini,
perché si sarebbe rifiutata di firmare l'approvazione del progetto
di demolizione - a carico della Provincia, per 48 mila euro - degli
abusi edilizi commessi dal privato e il successivo atto di
affidamento dei lavori.
Secondo quanto contestato dalla procura Migliorini, dopo la
posizione contraria assunta, sarebbe stata oggetto di un crescente
"pressing" da parte della segretaria generale Rosa Puglia e di
Scajola, culminato con la destituzione dall'incarico e la nomina del
collega Michele Russo, più gradito all'ex ministro.
Proprio nell'ambito delle pressioni contestate dagli inquirenti, la
segreteria del presidente della Provincia, nonché sindaco di
Imperia, avrebbe inviato a Migliorini una mail con, scansionata, la
perentoria annotazione scritta da Scajola: «I dirigenti risolvono;
se non riescono se ne vadano, questo è il dovere!!!». Secondo la
procura una mail dal «degradante contenuto minatorio».
In base alla ricostruzione degli inquirenti, la Provincia avrebbe
quindi acquistato l'ex bocciofila da Pietro Salvo per 115 mila euro,
accollandosi, dopo il rifiuto del proprietario a eseguirli, anche i
lavori di demolizione degli abusi edilizi, 48 mila euro. Un totale
di 163 mila euro, a fronte del prezzo, 30 mila euro, al quale Salvo
aveva rilevato l'ex impianto nel 2010.
Un'operazione fortemente contestata prima dal consigliere
provinciale di opposizione Domenico Abbo («se c'è un abuso edilizio
del privato, perché paga la Provincia la demolizione? ») e
successivamente dalla funzionaria Migliorini che, in una nota
inviata al suo Crocetta scrive: «Ritengo che l'amministrazione
provinciale si stia accollando un onere non solo economico che
spetterebbe al proprietario con conseguente maggiori costi rispetto
al valore della perizia di stima».
L'acquisto dell'area di corso Roosevelt, quest'ultima oggetto anche
di un'inchiesta per corruzione che ha portato agli arresti dell'ex
vicepresidente della Provincia Luigino Dellerba e di due
imprenditori, Vincenzo e Gaetano Speranza, è stato voluto fortemente
da Scajola per realizzarvi un parcheggio il cui progetto prevede la
realizzazione di 28 posti auto. —
I CINESI DELLA JAC AL POSTO DELLA FIAT: Il mercato
I cinesi di Jac cercano casa per produrre a Torino
claudia luise
I cinesi di Jac sbarcano a Torino. Non una visita di cortesia, ma un
viaggio lungo e articolato della dirigenza della casa
automobilistica statale con sede ad Hefei, con funzionari
governativi al seguito, per valutare la possibilità di aprire uno
stabilimento produttivo in Piemonte. La visita è in programma per
metà novembre e si stanno fissando gli incontri con istituzioni,
università e rappresentanze imprenditoriali con lo scopo, oltre che
di aprire una sponda produttiva in Europa, anche di cercare nuove
partnership per la diffusione e la commercializzazione. Jac nel 2023
ha registrato ricavi intorno ai 5,8 miliardi di euro (in crescita
del 23,7% sull'anno) e le sue vendite in Cina raggiungono il mezzo
milione di veicoli. La sua gamma è composta soprattutto da veicoli
elettrici: city car, suv e commerciali.
La scelta di Torino non è casuale: Jac è da vent'anni a Pianezza,
con un centro di ricerca e sviluppo che nel tempo ha avuto
collaborazioni anche con Pininfarina per la J5. Ed è stato sempre un
manager di Jac a fondare nel capoluogo piemontese, nel 2017, la Xev
che poi ha lanciato la minicar elettrica Yoyo (tra i partner c'è
Eni). In Italia ha collaborato pure con la DR Automobiles per
commercializzare alcuni modelli di Suv riomologati secondo le
normative antinquinamento europee: così è nata la DR 4. Il
produttore orientale è anche entrato in un gruppo controllato al 50%
da Volkswagen e che produce con marchio Sol i veicoli elettrici di
Seat. La delegazione cinese sarà composta, oltre che dai manager
della Jac, anche dal sindaco della città di Hefei, con il ministro
dell'industria della provincia di Anhui, dove ha sede l'headquarter
del prodottore (nato come Anhui Jianghuai Automobile). «Cerchiamo di
giocare la nostra parte - spiega il sindaco di Torino, Stefano Lo
Russo, che venerdì interverrà in commissione consiliare per fare un
punto sullo stato di salute dell'automotive - che è quella di
portare il più possibile nella nostra città occasioni di produzione
e di lavoro, ovviamente dentro un quadro che sta cambiando e cambia
molto rapidamente».
sanita'
Costi elevati il 9 per cento rinuncia alle cure
Sanità: aumenta la frattura tra Nord e Sud del Paese. Aumenta la
spesa per le famiglie. E aumenta anche il numero di quanti sono
costretti a rinunciare alle cure. E' la sintesi del Rapporto che la
Fondazione Gimbe pubblica periodicamente per monitorare lo stato di
salute della nostra sanità. Restando al Piemonte, la percentuale di
famiglie che nel 2023 ha rinunciato alle prestazioni sanitarie è
pari al 8,8%. In diminuzione rispetto al 2022 (si attestava al 9,6%)
ma comunque al di sopra della media nazionale, ferma al 7,6%. Quanto
al personale sanitario, in Piemonte infatti (dato 2022) si contano
2,09 medici dipendenti ogni mille abitanti contro una media Italia
di 2,11. Migliore la situazione nel comparto degli infermieri
dipendenti: 5,4 unità ogni mille abitanti contro una media Italia
pari a 5,1. Rapporto medici-infermieri: in Piemonte è pari a 2,59
ogni mille abitanti contro una media Italia ferma a 2,44. Edilizia
sanitaria: entro il 2026 dovranno essere in funzione 82 case di
comunità ma per ora ne sono state dichiarate attive 17, il 21%,
contro una media nazionale peraltro ferma al 19%. Centrali Operative
Territoriali: delle 43 da varare entro il 2024 ne risultano
funzionanti a pieno regime 27, il 63% del totale (contro una media
Italia ferma al 59%). Ospedali di Comunità: 27 da attivare entro il
2026, ad oggi siamo a zero contro una media italiana pari al 13% di
opere realizzate. Terapie intensive e semintensive: al 31 luglio la
Regione aveva realizzato il 57% dei posti letto aggiuntivi di
terapia sub-intensiva, contro una media italiana ferma al 52%.
ale.mon .
09.10.24
Ordinario a soli 29 anni: il padre Annibale è stato presidente della
Corte su indicazione di An
Il giovane costituzionalista figlio d'arte che ha ispirato il
premierato a Meloni
francesco grignetti
roma
Cortese, discreto, sempre attento al confine tra decisione politica
(di cui è rispettosissimo) e consulenza giuridica, Francesco Saverio
Marini è l'uomo che sussurra di riforme costituzionali all'orecchio
di Giorgia Meloni. Sono quasi coetanei, lui nato a Roma nel 1973 e
lei nel 1977. L'area politica, poi, è comune, essendo Marini il
figlio di Annibale Marini che come lui è stato professore di Diritto
all'università romana di Tor Vergata ed è stato giudice
costituzionale dal 1997 al 2006 (e nell'ultimo anno anche presidente
della Corte) su indicazione di Alleanza nazionale.
Di Francesco Saverio si dice che sia il padre della riforma sul
premierato. E in effetti, dalla sua postazione a palazzo Chigi – da
dove salterebbe alla Corte costituzionale con inedito passaggio
diretto – ha pilotato i testi che il governo ha portato in
Parlamento. E fin dai primi incontri che Giorgia Meloni ebbe con
l'opposizione fu evidente che non era un caso se quel giovane
professore le sedeva accanto.
Il mantra della stabilità li accomuna, la leader e il suo
consigliere giuridico. Diceva spesso Marini in quei giorni:
«L'instabilità dei governi è il vero macro-problema italiano». Con
quale forma arrivarci, però, in fondo conta poco per entrambi. E
spiegava la riforma così: «Siamo rimasti nel solco del
parlamentarismo». Per aggiungere: «Il nostro intento è quello di
garantire stabilità e governabilità preservando per quanto possibile
la nostra tradizione costituzionale e gli equilibri istituzionali
esistenti». Per quanto possibile, appunto.
Di suo, Marini ci mette anche una robusta sponda cattolica. È
significativo il bastione dell'università di Tor Vergata, da sempre
nell'alveo dei movimenti cattolici romani: qui era professore suo
padre Annibale; qui insegna suo fratello Renato, ordinario di
diritto privato; e qui Francesco Saverio si laurea, è nominato
cultore della materia, professore associato, ordinario a soli 29
anni e ora è anche pro-rettore. Rettore peraltro era Orazio
Schillaci, ministro della Salute.
Le uniche sortite fuori da Tor Vergata sono nel 1998 alla facoltà di
Giurisprudenza della Libera Università Maria Santissima
Assunta-Lumsa e poi dal 2006 al 2011 nella facoltà di diritto
canonico dell'Università lateranense. Dapprima è stato nominato
giudice istruttore e giudice dell'esecuzione civile presso il
tribunale della città del Vaticano, poi giudice applicato del
tribunale del Vaticano, di recente il Papa lo ha nominato magistrato
ordinario.
Nel 2021 è vicepresidente del Consiglio di presidenza della Corte
dei Conti, membro laico nominato dal Parlamento. Il suo studio di
brillante amministrativista ha molti clienti importanti. Dal 2006 al
2011 ha curato il contenzioso costituzionale della Regione Valle
d'Aosta e oggi presiede il Comitato paritetico Stato-Regione Valle
d'Aosta.
Ad introdurlo negli ambienti romani che contano è stato anche
Antonio Catricalà, amico del padre, che anche lui nel tempo ha
insegnato a Tor Vergata. Così dal 2009 al 2011 Francesco Saverio
Marini è stato consigliere giuridico dell'Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato, in anni della presidenza Catricalà. Lo
avrebbe poi seguito come capo della segreteria tecnica quando l'ex
presidente dell'Antitrust divenne sottosegretario alla presidenza
del consiglio nel governo Monti nel 2011 e 2012. Giovane sopraffino
tecnico al servizio di un aborrito (da Meloni) governo tecnico.
ennesimo blitz da inizio settembre al cantiere nella cascina
malpensata, dove nascerà il centro didattico
Meisino, quarto stop degli attivisti pier francesco caracciolo
Per la quarta volta in un mese hanno bloccato i cantieri nel Meisino.
Questo hanno fatto, ieri mattina, attivisti e residenti nella zona
di Sassi. Una decina di loro, alle 8.30, si sono parati davanti alla
gru che, da circa un'ora, all'interno del parco stava arando una
fetta di prato a ridosso di corso Sturzo. Così facendo, hanno
indotto gli operai incaricati dalla Città a interrompere i lavori,
che in quel punto del parco prevedono la realizzazione di una
passerella pedonale nell'ambito del progetto per la realizzazione di
un «centro per l'educazione sportivo-ambientale».
È stata così bloccata sul nascere quella che doveva essere la
ripartenza del cantiere nel verde del parco, dove i lavori erano
fermi dal 24 settembre. Uno stop, quello delle ultime due settimane,
deciso dalla Città per verificare l'eventuale presenza di ricci nel
Meisino, poi esclusa dopo un accertamento di un pool di esperti.
Quello delle 8.30 non è stato l'unico presidio anti-cantiere di
giornata. Nel pomeriggio, alle 15, la scena si è ripetuta: da una
parte una gru, di nuovo diretta verso il verde a ridosso di corso
Sturzo, dall'altra una decina di attivisti del comitato Salviamo il
Meisino. Gli operai, in nessuno dei due casi, hanno forzato la mano.
Anche perché, a differenza dei giorni scorsi, l'area non era
presidiata in forze dalla Polizia (presenti solo due agenti).
Hanno però proseguito i lavori nella cascina Malpensata, destinata a
diventare la base operativa del futuro centro didattico-ambientale,
al cui interno i cantieri non si sono mai fermati. Un progetto,
quello del Comune, da 11,5 milioni di euro, di cui gli attivisti non
vogliono sentir parlare. Le venti strutture ludico sportive previste
nel verde, a loro dire, devasterebbero una riserva naturale con
caratteristiche uniche, a Torino, in termini di fauna e flora. Per
questo presidiano il parco dal 6 settembre, data di apertura del
cantiere. La prima volta avevano rallentato i lavori il 9. Quella
mattina l'ingresso delle gru nel parco era stato bloccato per tre
ore da un presidio pacifico, poi sgomberato dalle forze dell'ordine.
La seconda due giorni dopo, quando le operazioni degli operai erano
state fermate per circa mezzora. La terza il 24 settembre scorso,
proprio nel verde a ridosso di corso Sturzo: in quel caso gli operai
avevano fatto dietrofront.
08.10.24
NON MERITOCRAZIA MA APPARTENENZA:
coop nere
La rete
delle
L'ex Nar Luigi Ciavardini è una sorta di faro per la destra romana.
Appena si entra nel mondo che gira attorno a Fratelli d'Italia il
rischio di trovare le sue tracce è decisamente alto. Così fu per la
presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo, ritratta sui
social insieme allo stragista di Bologna, o per l'ex portavoce del
governatore del Lazio Marcello De Angelis, imparentato direttamente
con Ciavardini. Fabio Tagliaferri, l'amministratore delegato della
Ales Spa, il braccio operativo del ministero della Cultura, nella
sua carriera politica più recente ha visto passare il mondo
imprenditoriale dell'ex Nar nei suoi uffici di assessore di
Frosinone, che ha occupato fino alla nomina in Ales da parte dell'ex
ministro Gennaro Sangiuliano, arrivata lo scorso febbraio. Tutto è
accaduto a Frosinone, città da anni governata dalla destra, vero e
proprio feudo politico di Fratelli d'Italia, un bacino elettorale in
grado di decidere elezioni e nomine nell'intera regione. Tagliaferri,
il 3 luglio 2017, ha ricevuto la delega ai Lavori pubblici e alla
Manutenzione nel comune a sud di Roma, carica di peso mantenuta fino
all'ottobre del 2021. Per quasi un ventennio è stato uno dei
protagonisti della destra nella capitale ciociara.
Il mondo imprenditoriale legato all'ex Nar si è incrociato per
alcuni anni con la gestione dei parchi, dei viali e dei giardini di
Frosinone – attraverso una serie di affidamenti partiti dagli uffici
dell'allora assessore Tagliaferri – grazie ad una cooperativa
sociale, la Essegi 2012. La società – che tra il 2019 e il 2020 ha
avuto complessivamente più di 3 milioni di euro di fatturato – si
occupa di inserimento dei detenuti ed ha come principale figura di
riferimento Germana De Angelis, la moglie dell'ex Nar Luigi
Ciavardini. A Frosinone, durante il mandato di Tagliaferri, ha
ricevuto diverse decine di incarichi: dalla manutenzione ordinaria
della viabilità, fino al supporto per le attività elettorali. I
legami con la famiglia del terrorista nero appaiono anche con una
seconda cooperativa, la Agm, aggiudicataria nel 2020 di altri
affidamenti diretti. Una sorta di passaggio di consegne. In questo
caso uno dei soci dell'epoca era Andrea Ciavardini, il figlio di
Luigi. Il secondo socio – presidente del consiglio di
amministrazione all'epoca dell'affidamento da parte dell'assessorato
guidato da Tagliaferri – era Manuel Cartella, nominato durante la
giunta Zingaretti vice garante delle carceri, legato anche lui al
mondo di Luigi Ciavardini. Cartella – secondo i documenti consultati
da La Stampa – risulta aver avuto il potere di firma nella
cooperativa Essegi 2012 ed ha avuto un ruolo attivo nella
Polisportiva "Gruppo Idee", l'associazione promossa nel 2009 da
Luigi Ciavardini, fondata, tra gli altri, dalla moglie Germana De
Angelis.
Le determinazioni per gli affidamenti, come prevede la normativa
sulle amministrazioni pubbliche, sono state firmate dal dirigente
dell'assessorato Lavori pubblici. La legge poi permette di non
effettuare la gara per le cifre sotto la soglia europea qualora gli
affidatari siano cooperative sociali, come nel caso della Essegi
2012 e della Agm. Secondo alcuni comunicati stampa pubblicati \sul
sito del comune di Frosinone un input di tipo politico era però
arrivato negli anni precedenti l'inizio degli affidamenti, con la
firma di un protocollo d'intesa tra l'associazione "Gruppo Idee"
(riconducibile a Luigi Ciavardini) e l'ex sindaco Nicola Ottaviani.
Nonostante il fatturato milionario, la Essegi 2012, destinataria dei
fondi per la manutenzione del verde pubblico da parte
dell'assessorato guidato all'epoca dall'ad della Ales, ha avuto
negli ultimi due anni diversi incidenti di percorso, che hanno
portato alla liquidazione. Prima è stata oggetto di verifiche ed
interventi da parte del Tribunale civile di Roma, per poi finire al
centro di un'ispezione dell'organismo di vigilanza del ministero
dello sviluppo economico. Germana De Angelis, nominata nel 2018
membro del Cda della cooperativa, aveva fornito dati anagrafici
«falsi o errati», come si legge in un provvedimento di annullamento
di quella nomina da parte del Tribunale di Roma. Alla camera di
Commercio aveva comunicato di essere nata nel 1976, invece che nel
1962; di conseguenza il codice fiscale inserito risultava diverso da
quello originale. La sua nomina nel Cda è stata quindi revocata dal
giudice del Registro delle imprese il 18 marzo 2023. Nell'agosto del
2022 il ministero dello Sviluppo economico ha avviato una verifica
della gestione della società, ritenuta anomala; dopo la relazione
degli ispettori, è stato decretato lo scorso anno la liquidazione
coatta, per non aver rispettato «le finalità mutualistiche tipiche
delle società cooperative».
Le due cooperative scelte dagli uffici dell'assessorato ai Lavori
pubblici del Comune di Frosinone hanno salde radici nell'estrema
destra romana. La Essegi 2012 aveva nel Cda, oltre alla moglie di
Ciavardini, Simona Catalano e Giulia Acciarini. Secondo
un'informativa della Digos di Roma, la Catalano era una nota
militante di Forza Nuova, sposata a sua volta con il responsabile di
un'associazione romana legata al mondo Skinheads. Acciarini –
estranea al mondo della destra – è la moglie di Manuel Cartella, il
vice garante delle carceri della Regione Lazio, socio del figlio di
Ciavardini: secondo quanto riferito dalla Digos di Roma, è membro di
quella stessa associazione estremista della Catalano, "Casa d'Italia
Monteverde". In altre parole, lo stesso giro, legato a doppio filo
al mondo dell'ex Nar.
La cooperativa Essegi 2012 ebbe un ruolo chiave anche nel garantire
a Gilberto Cavallini – altro terrorista nero condannato in secondo
grado per la strage di Bologna, oggi in attesa del giudizio della
Cassazione – la possibilità di uscire dal carcere, grazie ad un
contratto di assunzione firmato nel 2014. coop nere
La rete
delle
L'ex Nar Luigi Ciavardini è una sorta di faro per la destra romana.
Appena si entra nel mondo che gira attorno a Fratelli d'Italia il
rischio di trovare le sue tracce è decisamente alto. Così fu per la
presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo, ritratta sui
social insieme allo stragista di Bologna, o per l'ex portavoce del
governatore del Lazio Marcello De Angelis, imparentato direttamente
con Ciavardini. Fabio Tagliaferri, l'amministratore delegato della
Ales Spa, il braccio operativo del ministero della Cultura, nella
sua carriera politica più recente ha visto passare il mondo
imprenditoriale dell'ex Nar nei suoi uffici di assessore di
Frosinone, che ha occupato fino alla nomina in Ales da parte dell'ex
ministro Gennaro Sangiuliano, arrivata lo scorso febbraio. Tutto è
accaduto a Frosinone, città da anni governata dalla destra, vero e
proprio feudo politico di Fratelli d'Italia, un bacino elettorale in
grado di decidere elezioni e nomine nell'intera regione. Tagliaferri,
il 3 luglio 2017, ha ricevuto la delega ai Lavori pubblici e alla
Manutenzione nel comune a sud di Roma, carica di peso mantenuta fino
all'ottobre del 2021. Per quasi un ventennio è stato uno dei
protagonisti della destra nella capitale ciociara.
Il mondo imprenditoriale legato all'ex Nar si è incrociato per
alcuni anni con la gestione dei parchi, dei viali e dei giardini di
Frosinone – attraverso una serie di affidamenti partiti dagli uffici
dell'allora assessore Tagliaferri – grazie ad una cooperativa
sociale, la Essegi 2012. La società – che tra il 2019 e il 2020 ha
avuto complessivamente più di 3 milioni di euro di fatturato – si
occupa di inserimento dei detenuti ed ha come principale figura di
riferimento Germana De Angelis, la moglie dell'ex Nar Luigi
Ciavardini. A Frosinone, durante il mandato di Tagliaferri, ha
ricevuto diverse decine di incarichi: dalla manutenzione ordinaria
della viabilità, fino al supporto per le attività elettorali. I
legami con la famiglia del terrorista nero appaiono anche con una
seconda cooperativa, la Agm, aggiudicataria nel 2020 di altri
affidamenti diretti. Una sorta di passaggio di consegne. In questo
caso uno dei soci dell'epoca era Andrea Ciavardini, il figlio di
Luigi. Il secondo socio – presidente del consiglio di
amministrazione all'epoca dell'affidamento da parte dell'assessorato
guidato da Tagliaferri – era Manuel Cartella, nominato durante la
giunta Zingaretti vice garante delle carceri, legato anche lui al
mondo di Luigi Ciavardini. Cartella – secondo i documenti consultati
da La Stampa – risulta aver avuto il potere di firma nella
cooperativa Essegi 2012 ed ha avuto un ruolo attivo nella
Polisportiva "Gruppo Idee", l'associazione promossa nel 2009 da
Luigi Ciavardini, fondata, tra gli altri, dalla moglie Germana De
Angelis.
Le determinazioni per gli affidamenti, come prevede la normativa
sulle amministrazioni pubbliche, sono state firmate dal dirigente
dell'assessorato Lavori pubblici. La legge poi permette di non
effettuare la gara per le cifre sotto la soglia europea qualora gli
affidatari siano cooperative sociali, come nel caso della Essegi
2012 e della Agm. Secondo alcuni comunicati stampa pubblicati \sul
sito del comune di Frosinone un input di tipo politico era però
arrivato negli anni precedenti l'inizio degli affidamenti, con la
firma di un protocollo d'intesa tra l'associazione "Gruppo Idee"
(riconducibile a Luigi Ciavardini) e l'ex sindaco Nicola Ottaviani.
Nonostante il fatturato milionario, la Essegi 2012, destinataria dei
fondi per la manutenzione del verde pubblico da parte
dell'assessorato guidato all'epoca dall'ad della Ales, ha avuto
negli ultimi due anni diversi incidenti di percorso, che hanno
portato alla liquidazione. Prima è stata oggetto di verifiche ed
interventi da parte del Tribunale civile di Roma, per poi finire al
centro di un'ispezione dell'organismo di vigilanza del ministero
dello sviluppo economico. Germana De Angelis, nominata nel 2018
membro del Cda della cooperativa, aveva fornito dati anagrafici
«falsi o errati», come si legge in un provvedimento di annullamento
di quella nomina da parte del Tribunale di Roma. Alla camera di
Commercio aveva comunicato di essere nata nel 1976, invece che nel
1962; di conseguenza il codice fiscale inserito risultava diverso da
quello originale. La sua nomina nel Cda è stata quindi revocata dal
giudice del Registro delle imprese il 18 marzo 2023. Nell'agosto del
2022 il ministero dello Sviluppo economico ha avviato una verifica
della gestione della società, ritenuta anomala; dopo la relazione
degli ispettori, è stato decretato lo scorso anno la liquidazione
coatta, per non aver rispettato «le finalità mutualistiche tipiche
delle società cooperative».
Le due cooperative scelte dagli uffici dell'assessorato ai Lavori
pubblici del Comune di Frosinone hanno salde radici nell'estrema
destra romana. La Essegi 2012 aveva nel Cda, oltre alla moglie di
Ciavardini, Simona Catalano e Giulia Acciarini. Secondo
un'informativa della Digos di Roma, la Catalano era una nota
militante di Forza Nuova, sposata a sua volta con il responsabile di
un'associazione romana legata al mondo Skinheads. Acciarini –
estranea al mondo della destra – è la moglie di Manuel Cartella, il
vice garante delle carceri della Regione Lazio, socio del figlio di
Ciavardini: secondo quanto riferito dalla Digos di Roma, è membro di
quella stessa associazione estremista della Catalano, "Casa d'Italia
Monteverde". In altre parole, lo stesso giro, legato a doppio filo
al mondo dell'ex Nar.
La cooperativa Essegi 2012 ebbe un ruolo chiave anche nel garantire
a Gilberto Cavallini – altro terrorista nero condannato in secondo
grado per la strage di Bologna, oggi in attesa del giudizio della
Cassazione – la possibilità di uscire dal carcere, grazie ad un
contratto di assunzione firmato nel 2014.
Ecco i falsi nell'inchiesta su 25 direttori (ed ex) della Città
della Salute I pm: "Dissero al Mef che era tutto ok, ma i bilanci
non erano veritieri"
"Tutte le menzogne dei manager indagati alla Corte dei conti"
elisa sola
Non solo i bilanci falsificati. I crediti non riscossi e i
"disordini" contabili accumulati anno dopo anno, dando consistenza a
un passivo totale milionario. Ma ci sarebbero anche le false
comunicazioni riferite alla Corte dei conti, al Mef e alla Regione,
tra i reati contestati dalla procura di Torino nei confronti dei
vertici della Città della salute.
Nelle quaranta pagine dell'atto di conclusione indagini, notificato
nelle scorse ore a 25 direttori (o ex) dell'azienda ospedaliera, a
dirigenti e membri dei collegi sindacali, oltre alle contestazioni
di falso, relative ai bilanci dell'ultimo decennio, e di truffa, che
riguarda il mancato accantonamento del 5 percento delle visite
intramoenia, ci sono alcuni capi di imputazione sulle presunte
"bugie" che sarebbero state scritte, sullo stato dell'arte dei conti
del polo sanitario, alla Corte dei conti. È uno degli aspetti sui
quali hanno indagato i pm Giulia Rizzo e Mario Bendoni, che ad
alcuni ex componenti del collegio sindacale, in totale sette,
contestano il reato di falso ideologico in atto pubblico. «In
concorso tra loro – scrive la procura - con più omissioni e azioni
di un medesimo disegno criminoso in qualità di pubblici ufficiali,
disattendendo i principi di diligenza professionale e correttezza
che reggono l'assolvimento delle funzioni di vigilanza e controllo
proprie del Collegio sindacale, hanno violato la normativa e gli
obblighi di revisione e controllo previsti dal Mef». Le mancate
verifiche riguarderebbero una serie di obiettivi di bilancio che
vanno raggiunti e comunicati anno dopo anno. Tra le inadempienze, ci
sarebbero quelle sul mancato controllo dell'esistenza di una
contabilità separata per i soldi incassati con le attività di libera
professione. Nessuno, in sostanza, avrebbe distinto i conti,
generando una mescolanza ambigua che, ora, è al vaglio degli
inquirenti.
Ma non è finita. Uno dei fatti più gravi - secondo i pm - è
descritto negli ultimi capi di imputazione dell'atto giudiziario.
Gli indagati avrebbero mentito alla Corte dei conti, spedendo
questionari con risposte false. I membri del collegio sindacale per
legge devono relazionarsi alla Corte, ogni anno, inviando una
relazione sul bilancio di esercizio e le risposte di un dettagliato
questionario. Ora, secondo l'ipotesi dell'accusa, gli esponenti dei
collegi sindacali della Città della salute, insieme ad alcuni ex
direttori generali, avrebbero - dal 2014 al 2021 - «attestato
falsamente di avere compiuto fatti e adottato comportamenti di
vigilanza e controllo, dei quali i predetti atti erano destinati a
provare la verità, attestando la corretta organizzazione e gestione
contabile dell'Azienda e la corretta applicazione delle leggi
sull'esercizio della libera professione». Gli indagati avrebbero
anche accertato falsamente che «i sistemi amministrativo contabili
fornivano ragionevole certezza al bilancio», tra cui appunto,
l'esistenza di una «contabilità separata per l'attività intramoenia»
e di avere svolto «puntuali verifiche sulla corretta applicazione
della legge Balduzzi». Insomma, sulla carta, sarebbe stato tutto
perfetto. Conti in ordine, bilanci puliti e normativa rispettata. Ma
secondo la procura la realtà sarebbe stata ben diversa. Gli ex
direttori Pier Paolo Zanetta, Silvio Falco e all'attuale Giovanni La
Valle, secondo gli inquirenti, avrebbero anche scritto risposte
false sui questionari di rilevazione Alpi recepiti dalla Regione
Piemonte, inducendo in errore quindi, la Regione stessa e il Mef.
Entrambi gli enti figurano parti offese in questa indagine, insieme
alla stessa azienda di Città della salute al ministero della Sanità.
Tutti gli indagati
Ecco tutti i nomi dei manager indagati dalla procura che nei giorni
scorsi hanno ricevuto l'avviso di chiusura indagine, atto che
prelude a una richiesta di rinvio a giudizio. Hanno 20 giorni di
tempo per chiedere di essere sentiti dai pm. Sono Mario Albertazzi,
Valter Alpe, Vincenzo Altamura (Collegio sindacale), Lorenzo
Angelone, Davide Benedetto, Paolo Biancone, Fabrizio Borasio,
Beatrice Borghese, Andreana Bossola, Rosa Alessandra Brusco, Giacomo
Buchi (Collegio sindacale), Angelo Del Favero, Maurizio Dall'Acqua,
Eugenia Grillo, Giovanni La Valle, Pier Luigi Passoni, Andrea
Remonato (Collegio sindacale), Lucia Scalzo, Margherita Spaini
(Collegio sindacale), Giuseppe Stillitano, Renato Stradella, Alessia
Vaccaro (Collegio sindacale), Nunzio Vistato, Gian Paolo Zanetta.
07.10.24
L'intervista
"Le banche pronte ad aiutare i conti ma ora il governo abbatta il
debito "
Gian Maria Gros-Pietro Le misure
La crisi ai confini
"
I divari salariali
TORINO
Nessuna chiusura di fronte alla richiesta di sacrifici da parte del
governo. «Il sistema bancario italiano ha sempre avuto come
principio quello di venire incontro al sistema economico e sociale»,
dice Gian Maria Gros-Pietro. «Tuttavia», spiega il presidente di
Intesa Sanpaolo, riguardo l'intervento di cui si starebbe discutendo
al Ministero del Tesoro «ci si attende che non abbia impatti sul
conto economico». Perché già ora quello del credito è il settore
«che paga le imposte più elevate tra le società per azioni».
Presidente, a ogni stagione si parla di tassare gli extraprofitti di
banche e assicurazioni. Che ne pensa?
«Nei principi contabili internazionalmente accettati, il concetto di
extraprofitti non esiste. I profitti sono la differenza tra i ricavi
e i costi, può essere positiva o negativa, l'extra non è
aritmeticamente determinabile. Capisco, però, che ci si riferisca a
un concetto morale: si parla di profitti non meritati, perché
dipendono da qualcosa che non hai fatto tu. Nel caso delle banche,
però, c'è stato il periodo dei tassi di interesse negativi, una
situazione innaturale, in cui si stava "sott'acqua". Non ha senso
considerare "extraprofitto", immeritato, il miglioramento rispetto a
una situazione eccezionalmente negativa e assurda, nella quale chi
prestava denaro, anziché essere remunerato, "pagava" la controparte
affinché si godesse il prestito».
È un'apertura al governo?
«Una disponibilità c'è, certamente».
Che manovra servirebbe, davvero, per i conti del Paese?
«Comincio dal messaggio del Presidente della Repubblica a Cernobbio:
bisogna abbattere il debito. Una delle strade, come ha proposto
tempo fa il nostro consigliere delegato Carlo Messina, passa dalla
vendita di una parte del patrimonio immobiliare pubblico che, se
gestito in maniera più attiva e con investitori istituzionali,
verrebbe valorizzato. Tutto questo unito al controllo dell'avanzo
primario, che rimane imprescindibile».
Una boccata d'ossigeno potrebbe arrivare già nei prossimi giorni,
quando si riuniranno i vertici della Bce. È l'ora di un nuovo taglio
dei tassi?
«L'attività produttiva sta rallentando, l'inflazione scende: ci sono
tutti gli elementi per un taglio dei tassi di interesse. Penso che
la Bce continuerà con riduzioni di un quarto di punto. Ne farà una
adesso e una più avanti».
Dietro il cambio di passo di Francoforte, però, sembra esserci
soprattutto la frenata della Germania. Preoccupante per l'Europa,
per l'Italia e, in particolare, per il Nord-Ovest, che è un
importante fornitore dell'industria tedesca. Quanto sarà grave il
contraccolpo?
«Possiamo aspettarci difficoltà, anche se non così gravi. Il
rallentamento tedesco è legato a tre fattori: l'enorme rilevanza
delle esportazioni per Berlino, la forte concentrazione su alcuni
settori produttivi, come quello dell'automobile, e
l'internazionalizzazione delle catene produttive, soprattutto
nell'Est Europa».
Ma l'Italia, oggi, è ancora così dipendente dalla Germania?
«In parte sì, ma rispetto all'economia tedesca, il nostro settore
industriale, e in particolare quello manifatturiero, è molto più
diversificato, sia dal punto di vista merceologico che geografico, e
flessibile. Abbiamo una struttura produttiva che può adattarsi
rapidamente».
Restiamo tra Roma e Berlino. Cosa pensa della possibile acquisizione
di Commerzbank da parte di Unicredit e delle polemiche che ha
scatenato?
«Viviamo una situazione di forte dinamismo, cosa che non si
riscontra allo stesso modo in altri Paesi. Se si dice che l'Europa
ha bisogno di banche più grandi, e questo vale anche per la
Germania. Finora, in Europa, le grandi operazioni transnazionali
sono state fatte quasi tutte qui da noi: quando Crédit Agricole ha
acquisito Cariparma, quando Bnp Paribas ha rilevato una banca di
Stato come Bnl e quando, per un soffio, Banca Intesa e Sanpaolo Imi
non sono finite nelle mani di Crédit Agricole e Santander».
Ma quella doppia acquisizione sfumò...
«Vero, ma non per intervento del governo. Bensì perché due grandi
banche italiane si sono guardate allo specchio e hanno deciso di
intervenire, fondendosi tra loro».
Dunque Unicredit-Commerzbank va fatta...
«È un'operazione di cui – secondo le forze produttive di quel Paese
– la Germania ha bisogno. Dopo una prima levata di scudi, sono
cominciate a emergere opinioni favorevoli, sia da parte dei clienti
delle banche sia dai regolatori. Più di questo non penso si possa
dire».
I più recenti dati Ocse indicano che in Italia, all'inizio del 2024,
si è registrato un aumento retributivo significativo, pur permanendo
un notevole divario rispetto ad altri Paesi. Quali misure si
potrebbero adottare per colmare questa distanza?
«Il recupero del potere d'acquisto è fondamentale. Intesa Sanpaolo
lo ha sostenuto durante il rinnovo del contratto collettivo dei
bancari. Serve maggiore produttività, che consenta di pagare salari
internazionalmente competitivi. Abbiamo ottime università, ma
rischiamo di regalare all'estero i nostri talenti: una perdita di
valore che bisogna fermare. Dobbiamo attrarre e trattenere il
capitale umano diminuendo il divario di retribuzione tra il nostro e
quello di altri Paesi».
Le imprese lamentano ritardi, le amministrazioni locali troppa
burocrazia. Teme che il Pnrr finisca per essere un'occasione
mancata?
«Certamente abbiamo un problema di burocrazia, ma il Pnrr può essere
uno strumento che ci aiuta a superarlo. Il problema è l'interazione
con le istituzioni, le cui autorizzazioni non arrivano
tempestivamente. Anche questo va superato. Uno degli obiettivi di
questo strumento è fare dell'Europa un posto in cui si può lavorare
meglio. Detto ciò, potrebbe esserci qualche ritardo – la spesa già
realizzata si limita a poco più di un quarto di quanto sarà
disponibile (26%) – ma l'Italia è uno dei Paesi sopra la media in
termini di assegnazione dei fondi. E questo anche grazie al lavoro
del ministro Raffaele Fitto, oggi passato alla Commissione».
Avete appena presentato un libro sulla storia del Sanpaolo. In un
quadro economico così incerto, quali sono le strategie adottate da
voi per affrontare le sfide attuali e future?
«Nel grattacielo di Torino, al piano sotto a quello del mio ufficio,
c'è l'Innovation Center, cinghia di trasmissione tra la banca e il
mondo dell'innovazione. Attraverso esso controlliamo Neva, un
operatore di venture capital. Abbiamo sottoscritto il suo primo
fondo con 100 milioni di euro e il presidente Luca Remmert e l'ad
Mario Costantini ne hanno raccolti altri 150 sul mercato.
Recentemente, abbiamo dato via al secondo fondo in cui noi
contribuiamo con 200 milioni e intendiamo raccoglierne sul mercato
altri 300. Siamo sicuri che ce la faremo, perché i risultati, anche
economici, del primo fondo sono ottimi. Un gruppo grande come il
nostro ha la possibilità di investire in conoscenza. Noi guardiamo a
lungo termine e questo libro lo evidenzia. Oltre all'innovazione,
bisogna essere in grado di affrontare il cambiamento climatico, la
distruzione di risorse non riproducibili e l'inquinamento. Cambiare
il nostro modo di fare è un'urgenza, ma il processo deve essere
socialmente tollerabile».
Quel blitz sui giudici che mina il pluralismo Donatella Stasio
Lo sblocco, improvviso e unilaterale, dell'elezione del quindicesimo
giudice della Corte costituzionale conferma, se ce ne fosse bisogno,
un tratto identitario del governo Meloni, quello di un potere
autoritario, insofferente al pluralismo e ai diritti delle minoranze
e, quindi, anche a chi quei diritti è chiamato a tutelare. Come la
Corte costituzionale. Che la premier ha deciso di conquistare, forte
di una maggioranza "qualificata" ottenuta grazie ai cambi di casacca
di alcuni parlamentari. Appropriarsi della Corte significa
appropriarsi delle nostre libertà, dei nostri diritti civili e
sociali, messi a dura prova in questi due anni di governo. Significa
farne ciò che si vuole, senza avere la spada di Damocle di una
censura successiva. Significa eliminare ogni argine al proprio
potere "assoluto". Ed è quanto sta accadendo sotto i nostri occhi,
in un clima politico e mediatico di indifferenza che, forse, è
ancora più preoccupante del tentativo delle destre di appropriazione
indebita della Corte.
Lo aveva detto a gennaio: sarebbe stata lei "a dare le carte" nella
partita sull'elezione parlamentare dei giudici costituzionali, uno
già scaduto a novembre 2023 e altri tre in scadenza a dicembre 2024.
Detto, fatto: dopo aver tenuto la Corte zoppa per quasi un anno, ora
Giorgia Meloni decide di incassare la sua prima vittoria, senza
neanche giocare la partita con l'opposizione, come farebbe chi ha
ben chiari i suoi doveri istituzionali rispetto a un organo di
garanzia come la Consulta. Un fedele interprete di quei doveri
avrebbe cercato subito un candidato che, al di là dell'orientamento
culturale, fosse «meritevole, per cultura giuridica, esperienza,
stima e prestigio, di assumere quell'ufficio così rilevante», per
dirla con le parole del presidente della Repubblica Sergio
Mattarella, e sul quale far convergere anche i voti
dell'opposizione. Ma la premier non ci pensa proprio a far sedere al
tavolo Schlein e compagni. Il trasformismo politico dei parlamentari
le ha regalato i 363 voti necessari ad eleggersi da sola i giudici
costituzionali, ovvero la maggioranza "qualificata" dei 3/5 di
deputati e senatori: un quorum alto – persino più alto di quello
richiesto per eleggere il Capo dello Stato – stabilito proprio per
garantire la più ampia convergenza politica, in considerazione della
funzione "contromaggioritaria" delle Corti costituzionali, nate,
dopo l'esperienza tragica del nazifascismo, come limite al potere
assoluto e come garanzia del pluralismo e delle minoranze.
Ma tant'è. Forse anche in vista dell'udienza del 12 novembre in cui
la Corte deciderà i ricorsi regionali contro l'Autonomia
differenziata, Meloni ha "ordinato" ai gruppi di maggioranza di
presentarsi puntuali martedì prossimo alla Camera per votare il
"suo" giudice, il primo dei quattro da sostituire, che sarà il "suo"
consigliere giuridico, il costituzionalista Francesco Saverio
Marini, figlio di Annibale, già giudice ed ex presidente della Corte
nel 2005, designato sempre dalla destra.
Un governo che si sceglie da solo i componenti degli organi di
garanzia, sulla base di una maggioranza numerica non uscita dalle
urne ma dal cambio di casacca politica di alcuni parlamentari, è
assolutamente fuori dalle dinamiche di una democrazia
costituzionale. Il che rende concreto il rischio di avere alla Corte
non dei giudici ma dei "soldatini" con un preciso mandato politico.
Un po' come i giudici della Corte suprema americana voluti da Trump
all'epoca della sua presidenza, che il New York Times non chiama più
Justice ma Mister, perché quello che era il baluardo della rule of
law è diventato il baluardo di una linea politica. Bisogna impedire
che avvenga la stessa cosa con la nostra Corte.
Secondo Massimo Cacciari, stiamo facendo l'abitudine alla guerra e
questo rende più difficile la difesa dei principi dello stato di
diritto. Le guerre stanno rafforzando unilateralmente i governi,
silenziando i Parlamenti e aprendo la strada a regimi autoritari in
nome della sicurezza. Anche da noi. Pensiamo al Ddl del governo
Meloni, impregnato di cultura del "nemico", che in nome della
sicurezza criminalizza anche il dissenso. E pensiamo al divieto di
manifestare in piazza. Inquietante, ha scritto ieri Vladimiro
Zagrebelsky, ricordando che manifestare il dissenso è «un'esigenza
propria del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura
senza i quali non esiste società democratica». Eppure, siamo a
questo. La Corte costituzionale è, per sua natura, un argine contro
questa lenta erosione dei diritti e della democrazia ma i cittadini
non lo sanno, altrimenti riempirebbero le piazze, come hanno fatto
in altri Paesi, e il governo non tenterebbe di appropriarsene o di
fare ostruzionismo alle sue sentenze (vedi il fine vita). Purtroppo,
là dove le piazze non si sono riempite, le democrazie si sono
svuotate. Perciò, come dice Cacciari, non accontentiamoci di
sopravvivere.
Torino, chiuse le indagini su Città della salute. I pm: boom delle
visite in intramoenia, danno patrimoniale da 7 milioni di euro
"Molinette, dieci anni di bilanci truccati Così i direttori
incassavano i loro bonus"
elisa sola
torino
Buchi dichiarati, che in realtà erano voragini. Crediti non
incassati da anni. Anche da un milione e mezzo di euro. Conti che
sembravano puliti. Obiettivi che apparivano raggiunti, con
riscossione di bonus. Ma era – o meglio, sarebbe stata – tutta una
grande farsa. Almeno questa è la tesi della procura di Torino, che
ieri ha chiuso un'inchiesta colossale sui bilanci degli ultimi dieci
anni dell'azienda ospedaliero universitaria della Città della
salute. Sarebbero falsi. Scritti sulla base di omissioni e
dichiarazioni non vere. «In modo da indurre – mettono nero su bianco
i pm Giulia Rizzo e Mario Bendoni – i destinatari delle
comunicazioni sociali, compresi i cittadini, a celare il reale
andamento economico e patrimoniale» dell'azienda.
I due magistrati torinesi hanno fatto notificare nelle scorse ore 25
avvisi di garanzia a molti vertici – ed ex – della struttura. Per i
presunti bilanci falsi sono indagati l'attuale direttore generale
della Città della salute, Giovanni La Valle e i suoi predecessori
Silvio Falco, Gian Paolo Zanetta e Angelo Del Favero. Devono
rispondere dello stesso reato anche direttori sanitari e
amministrativi ai posti di comando negli ultimi dieci anni e vari
componenti dei collegi sindacali. Per ogni bilancio esaminato dai
carabinieri del nucleo investigativo compaiono anomalie. Cifre che
non tornano. Il filo rosso che collega i documenti contabili di un
decennio è la falsificazione dei passivi. Nel 2014, per esempio, il
risultato di esercizio generale dichiarato relativamente al settore
della libera professione era di meno 12 milioni e 753 mila euro. Ma
in realtà, il "rosso" reale, sarebbe stato – secondo la procura –
più profondo: di meno 14 milioni e 127 mila euro.
La maggior parte delle cifre "false" per i pm sarebbe relativa alle
attività intramoenia dei medici a libera professione, che svolgono
in ospedale visite al di fuori del normale orario di lavoro, a
fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa.
I conti non tornano, secondo gli inquirenti, perché alcuni indagati
avrebbero, commettendo (anche) il reato di truffa, violato la
normativa sulla cosiddetta "quota a fondo Balduzzi". Anziché
incassare il 5 percento del compenso dei liberi professionisti,
destinandolo ad attività di prevenzione o alla riduzione delle
lunghe liste d'attesa, i direttori della Città della salute
avrebbero evitato di riscuotere sette milioni di euro dal 2015 al
2022. I fatti di reato precedenti al 2018 sono prescritti, quindi
l'ammanco relativo a questa contestazione è di un milione e 700 mila
euro. Sull'intramoenia si era innescato un circolo vizioso. Più le
attività di libera professione si moltiplicavano, più si allungavano
i tempi delle liste d'attesa, e viceversa. Le relazioni sulla libera
professione sarebbero mandate, con dati falsi, alla Regione Piemonte
(persona offesa nel procedimento insieme alla Città della salute e
ai ministeri dell'Economia e della Sanità), che avrebbe elargito
premi e bonus ai direttori, leggendo che avevano raggiunto
determinati obiettivi. Tra cui, paradossalmente, quelli del
«miglioramento dei tempi di attesa».
Al di là di questo, ci sarebbero altre anomalie nei bilanci
dell'ente. Una serie di crediti non riscossi risalenti a vicende
giudiziarie, fallimenti, o fatti misteriosi ancora da accertare. Nel
2015, per esempio, gli indagati avrebbero omesso di svalutare i
crediti nei confronti del fallimento di Ristor matik, società che
gestiva la distribuzione di bibite e alimenti. L'importo complessivo
è di un milione e 212 mila euro. Nessuno sa dove siano finiti quei
soldi. E perché nessuno ha provato a riscuoterli. E ancora. Nel
bilancio del 2017 sarebbero stati svalutati crediti nei confronti
della Fondazione Ordine Mauriziano per quasi tre milioni di euro.
Mancherebbe anche, nelle casseforti, un milione di euro che Michele
Di Summa, cardiochirurgo condannato, avrebbe dovuto risarcire a
Città della salute. È solo uno dei tanti misteri dell'indagine. —
I boss al telefono: i Belfiore mirano al parcheggio dell'Allianz «Mi volevo prendere il parcheggio dello stadio di Torino, ma
c'è la famiglia Belfiore che sono di San Luca e sono forti anche a
Torino, hai capito?». Le mire di espansione di Giuseppe Caminiti,
gestore-ombra dei parcheggi intorno a «San Siro», sono rimaste solo
idee che non si sono mai concretizzate. Più volte l'ultrà
nerazzurro-narcotrafficante, arrestato due volte la scorsa settimana
per associazione per delinquere e per un omicidio del 1992, con
l'imprenditore Gherardo Zaccagni ha pensato di poter entrare nel
controllo delle aree di sosta dello Juventus Stadium. Come emerge
dall'inchiesta della Dda milanese, che ha azzerato i direttivi delle
Curve di Inter e Milan, a frenare le voglie di Caminiti sarebbe
stato il suo protettore Giuseppe Calabrò, detto "dutturicchiu",
eminenza grigia al Nord-Ovest delle famiglie di ‘ndrangheta. «Lo
avevo chiesto a Peppe (Calabrò, ndr) e m'ha detto: "Pino.. non è
giusto. Torino va bene, però magari se ci sono gli altri che
mangiano non puoi tirargli via il mangiare dalla bocca. Tu ha già
Milano. Tieniti Milano». A.SIR. —
06.10.24
- Alla fine dell’estate del 2024 se n’è andato all’età di quasi 91
anni Bruno Sacco. Italiano di nascita (viene alla luce a Udine il 12
novembre del 1933) e tedesco di adozione, il suo nome è strettamente
legato a quello della Mercedes, dove è entrando come designer nel
1958 dopo gli studi in ingegneria meccanica al Politecnico di Torino
e alcune esperienze alla Ghia e alla Pininfarina. Dal 1975 è lui il
capo del centro stile di Sindelfingen e resta responsabile di ogni
auto (ma anche autobus e camion) con la stella fino al suo
pensionamento nel 1999. In oltre 40 anni di lavoro ha firmato
modelli iconici, che resteranno per sempre nella storia
dell’automobile. Ho avuto il piacere di cenare con lui 40 anni fa e
lo ricordo molto piu' dispobile ed affabile a rispondere alle
mie domande , come Giugiaro , al contario di Ramaciotti, capo
designer di Pininfarina e Marchionne che quando piu' mi evita.
Il ministro: coinvolte grandi imprese estere
Urso rilancia sul nucleare: "Si parta ora" Sui chip verso
investimenti per 10 miliardi Nucleare e semiconduttori sono al centro dei progetti del
ministero delle Imprese e del Made in Italy, guidato da Adolfo Urso.
«Il nucleare di terza generazione avanzata e poi quello di quarta
generazione, infine il sogno che renderemo realtà della fusione
nucleare, sono opportunità, anche e direi soprattutto, per
l'Italia», ha spiegato il ministro. Secondo cui «sarà un processo di
medio termine, ma che dobbiamo iniziare da subito».
Allo stesso tempo, si punterà anche sulle nuove tecnologie. In
particolare, i chip. «Nel 2024 chiuderemo accordi per quasi 10
miliardi di investimenti nei semiconduttori. Il rilancio della
nostra tecnologia passa dal coinvolgimento di grandi imprese estere
sia a Taranto, e negli altri siti di acciaieria d'Italia, che a
Piombino», ha evidenziato.
l caso
Salassi
tabacchi
"
Maria Castellone vicepresidente Senato Paolo Russo
Una super tassa di scopo sulle sigarette per finanziare la sanità.
L'idea non è nuova ma questa volta, con la caccia aperta ai fondi
per asl e ospedali, potrebbe avere più chance di tagliare il
traguardo. Perché non solo l'appoggiano gli oncologi e le
opposizioni, ma riscuote consensi anche in frange della maggioranza.
L'idea lanciata dai medici oncologi dell'Aimo della vice presidente
del Senato, la pentastellata Maria Domenica Castellone, prevede di
aumentare di 5 euro il costo di un pacchetto di sigarette per
ricavarne un gettito di 13,2 miliardi da mettere sul piatto della
sanità, riducendo contemporaneamente consumi e tumori. E realizzando
un extra gettito che consentirebbe di riallineare il finanziamento
della sanità rispetto al Pil agli standard europei. L'ipotesi non la
disegna nemmeno il ministro della Salute, Orazio Schillaci, che sa
però quanto poco favore incontri nel Palazzo dell'Economia, dove
temono non solo un crollo dei consumi e quindi del gettito legato
alle accise sulle bionde, ma anche un drastico calo della produzione
nazionale di tabacco e dell'occupazione a questa collegata. Una
analisi contraddetta dalla Castellone, «perché in realtà solo l'1%
della produzione del tabacco consumato in Italia è prodotto nel
nostro Paese, mentre la produzione nostrana è oramai altamente
automatizzata».
Ma in caso di muro da parte del Tesoro, 5S e il Pd, che appoggia
l'iniziativa, hanno già un piano B. «Stiamo lavorando anche a una
seconda ipotesi di un aumento limitato a meno di un euro a pacchetto
che consentirebbe comunque di introitare circa 3 miliardi di euro»,
rivela la vice presidente del Senato. Somma che corrisponde a quanto
Schillaci va cercando per finanziare la prima tranche del suo piano
di assunzioni di medici e infermieri più la detassazione al 15%
della indennità di specificità medica, che prendono tutti i camici
bianchi ospedalieri, che in tal modo metterebbero in tasca circa 250
euro in più al mese. Un incentivo utile ad arginare la loro fuga
dalla sanità pubblica. L'idea di tassare le sigarette per curare la
sanità non piace comunque solo alle opposizioni. Come ammette la
stessa Castellone, «ci sono stati contatti con ampie frange della
maggioranza e l'idea ha trovato consensi soprattutto tra le fila di
Fratelli d'Italia, dove al contrario non è vista di buon occhio
l'idea alla quale starebbe lavorando il Mef di finanziare con nuove
tasse la sanità pubblica». La tassa sulle bionde, maxi o mini che
sia, dovrebbe entrare in manovra con un emendamento. Ma nel caso
questo non fosse approvato c'è un'altra strada che si potrebbe
seguire.
«Grazie ad un cambio di regolamento del Senato, se ci sono proposte
di iniziativa popolare che raccolgono 50mila firme, queste - spiega
Castellone - possono essere discusse in aula entro tre mesi dalla
data in cui sono depositate. Possiamo coinvolgere i cittadini su
questo argomento». E i sondaggi dicono che non sarebbe un'impresa
raggiungere il quorum. Secondo un'indagine del 2024 commissionata
dall'Istituto farmacologico Mario Negri, il 62% degli italiani
sarebbe favorevole a una tassa sul tabacco per finanziare l'Ssn.
Anche la Banca mondiale approva, considerando la sovrattassa una
delle più efficaci forme di lotta al tabagismo, visto che a un
aumento del 10% del prezzo corrisponde un calo del 4% dei consumi.
«Chiediamo alle Istituzioni di approvare una tassa di scopo sulle
sigarette, con il duplice obiettivo di disporre di ulteriori risorse
per l'Ssn e di ridurre il consumo di tabacco, perché il tabagismo è
un fattore di rischio anche per altre neoplasie, per malattie
cardiovascolari e respiratorie», afferma il presidente dall'Aiom,
Francesco Perrone. E i numeri gli danno ragione, perchè 9 diagnosi
di tumore al polmone su 10 sono causate dal fumo, al quale in Italia
possono essere attribuiti 40mila nuovi casi l'anno, che diventano
93mila considerando anche le altre forme di cancro, che costano al
paese 26 miliardi in cure.
Morte
I precedenti
sui
binari
filippo fiorini
San Giorgio di Piano
Tre ore prima dell'alba di ieri, tra una fila di more selvatiche e 9
colleghi che saldavano una rotaia, Attilio Franzini è finito sotto a
un treno. Probabilmente perché aveva appena rallentato per
attraversare la stazione di San Giorgio di Piano, l'intercity
partito da Bologna e diretto a Trieste era praticamente impossibile
da sentire, se non all'ultimo secondo. Il 47enne è stato colpito di
spalle.
La sua squadra operava su un binario morto, il 4. Tra loro e il
trasfertista di Formia, Latina, c'era un'altra via di manovra, il
binario 3, che come il precedente si estende poco oltre la lunghezza
delle pensiline della stazione ed è transennato a nord e sud. Poi,
il binario 2, soppresso nella notte per garantire la sicurezza del
cantiere. Attilio era sul numero 1, l'unico attivo. Perché?
Una torre faro mobile con generatore annesso. Una troncatrice per
rotaie. Il carrello di servizio appoggiato a un muro e una tanica
blu:
Questo è quel che resta del posto di lavoro in cui è caduta la più
recente delle oltre 370 morti bianche registrate quest'anno in
Italia. È sotto sequestro dalle 4,30 di ieri. Un'indiscrezione
proveniente dall'indagine per omicidio colposo, che la procura di
Bologna ha aperto contro ignoti e che sta conducendo attraverso la
Polfer, sostiene che i colleghi di Franzini abbiano detto che stava
trasportando degli attrezzi verso un capanno. Ma non c'è nessun
capanno in quella direzione e gli attrezzi sono tutti sul lato
sicuro della massicciata. Un'altra fonte riferisce invece che
nessuno dei sopravvissuti abbia spiegato perché uno di loro stava in
mezzo a un binario aperto.
Se tutte le persone presenti in loco, in servizio sui treni e nelle
centrali di controllo avessero seguito alla lettera quanto indicato
nelle oltre 200 pagine del documento "Istruzione per la protezione
nei cantieri" che Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) aggiorna dal 1986
a oggi, se tutti i meccanismi avessero funzionato correttamente, il
fatto non sarebbe accaduto. Qualcosa, però, è andato ancora una
volta tragicamente storto. A qualche ora dall'incidente, con il
traffico attorno al nodo già ripreso e solo qualche ritardo sui
convogli in viaggio tra Bologna e Venezia, è possibile affermare
solamente che i semafori e i segnali acustici funzionano.
Qualche anno fa, Franzini aveva lavorato alla nettezza urbana di
Formia. In seguito, è passato alla Salcef, una società per azioni di
Roma che aveva in appalto le riparazioni in cui ha perso la vita.
Tanto questa società, come Rfi, e il ministro dei Trasporti, Matteo
Salvini, hanno espresso «cordoglio e vicinanza alla famiglia»,
offrendo collaborazione e rimettendosi all'esito dell'inchiesta per
esprimere ulteriori commenti. Attilio non era sposato e non aveva
figli. Suo fratello Emanuele l'aveva sentito al telefono poco prima
che incominciasse il suo ultimo turno di lavoro. «Si era lamentato
della pioggia e del freddo». Si è raccomandato con lui che stesse in
riguardo e poi, le chiamate del giorno dopo non hanno più ricevuto
risposta.
Oltre a Emanuele, lascia un altro fratello, Andrea, e il padre,
Gino. Il sindacato Fiom-Cgil ha indetto uno sciopero di 4 ore alla
Salcef. Molte altre associazioni di lavoratori ed esponenti politici
hanno denunciato il preoccupante susseguirsi di morti bianche,
usando termini come «strage» o «guerra». Hanno denunciato le
storture derivanti dal sistema dei subappalti e accusato il governo
di non fare abbastanza per la sicurezza. Nei primi 5 mesi del 2024,
l'Inail ha contato 369 vittime, un aumento del 3, 1% rispetto al
2023.
Per il contesto in cui è avvenuta, la morte di Franzini ricorda la
strage di Brandizzo: in quella stazione, la notte del 30 agosto 2023
Michael Xanera, Giuseppe Sorvillo, Giuseppe Aversa, Saverio Giuseppe
Lombardo e Kevin Laganà, operai in subappalto, morirono investiti da
un treno, mentre riparavano i binari della Torino-Milano.
Massimo, padre dell'ultimo di questi cinque uomini, ha detto:
«Nessuno sta facendo un bel niente. Tutti promettono, a partire dai
politici, e poi si continua a morire. Brandizzo non ci ha insegnato
nulla».
Si è concluso il processo d'appello Platinum sulle infiltrazioni
della 'ndrangheta a Volpiano Pene fino a sei anni e undici mesi per
Mario Vazzana, al fratello Giuseppe sei anni e otto mesi
Condannati i "boss imprenditori" Assolto l'agente della municipale
andrea bucci
ludovica lopetti
Si è concluso con tre condanne e due assoluzioni il secondo grado
del processo Platinum sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel
Canavese, tra Volpiano e Chivasso. Ieri la Corte d'Appello ha
confermato le condanne inflitte in primo grado per associazione
mafiosa nei confronti dei fratelli imprenditori Mario e Giuseppe
Vazzana. Erano proprietari di un impero tra hotel, auto e conti
correnti per un totale di oltre otto milioni di euro, disseminato
tra Chivasso, dove gestivano un bar, Volpiano - dove avevano un
ristorante, una tabaccheria e due locali - e il Canavese.
Considerati 'ndranghetisti di rango (quantomeno dal 1991) e legati
alla potente enclave mafiosa degli Agresta, per i Vazzana ieri la
Corte ha confermato le condanne in primo grado, infliggendo a
Giuseppe Vazzana sei anni e otto mesi e al fratello Mario sei anni e
undici mesi. È stata confermata, inoltre, la condanna a dieci mesi
verso Antonio Agresta.
Al processo è stato invece assolto Paolo Busso, agente della polizia
municipale di Volpiano accusato di aver ‘abbuonato' sei multe a
Giuseppe Vazzana (condannato a 6 anni e 8 mesi) e aver tratto in
inganno una funzionaria dell'anagrafe per ottenere un indirizzo.
Busso era accusato di abuso d'ufficio. È stato assolto «perché il
fatto non è più previsto dalla legge come reato» in seguito alla
riforma Nordio. Riguardo alla seconda contestazione di cui doveva
rispondere, la Corte ha giudicato «di particolare tenuità» l'accesso
abusivo a sistema informatico che, secondo l'accusa, avrebbe
commesso il vigile, che dovrà risarcire di mille euro il comune di
Volpiano (assistito dall'avvocato Giulio Calosso).
«È stata ridata dignità a una persona che non meritava di essere
implicata in una vicenda molto più grossa di lui», ha commentato
l'avvocata Gabriella Vogliotti, che difende Busso, dopo la sentenza.
Con la stessa formula - «il fatto non è più previsto dalla legge
come reato» - è stato assolto anche Domenico Aspromonte, che era
imputato per la bancarotta dell'hotel La Darsena. In primo grado era
stato condannato a sei mesi.
Per Aspromonte il pm Valerio Longi aveva contestato l'associazione
di stampo mafioso e l'estorsione in relazione a una vicenda relativa
al ristorante Lago Reale. Durante le trattative per acquistare
un'altra attività commerciale attraverso la srl omonima, Aspromonte
e i fratelli Mario e Giuseppe Vazzana avrebbero chiesto un forte
sconto sul prezzo d'acquisto - 200 mila euro a fronte di 290 mila
chiesti dai venditori - per via di un presunto abuso da sanare,
minacciando di fare «un lago di sangue». Il tribunale ha
riqualificato il reato in esercizio arbitrario delle proprie ragioni
e aveva prosciolto gli imputati per difetto di querela, visto che le
vittime non avevano denunciato e il reato non è procedibile
d'ufficio. «Non hanno escluso la sussistenza dei fatti, cancellati i
reati, ma non i favori», commenta l'avvocato Calosso. Al processo,
oltre a Volpiano, si è costituito parte civile anche il Comune di
Chivasso, assistito dall'avvocato Andrea Castelnuovo. «Non c'è
spazio per nessuna attività legata direttamente o indirettamente
alla criminalità organizzata nel territorio cittadino», ha detto.—
05.10.24
tenuta a gaza da un miliziano legato a isis L'Idf libera una yazida rapita 10 anni fa
L'esercito israeliano ha annunciato il salvataggio di una donna
yazida di origine irachena che era stata rapita dieci anni fa ed era
tenuta prigioniera nella Striscia di Gaza da un miliziano di Hamas
con legami con lo Stato Islamico (Isis). Le forze israeliane hanno
spiegato che il miliziano è stato ucciso durante la guerra a Gaza,
forse a causa di un bombardamento israeliano, e la donna,
identificata come Fawzia Amin Sido, 21 anni, ha poi colto
l'occasione per fuggire. La giovane donna è stata trasferita prima
in Giordania e infine in Iraq, dove si trova la sua famiglia.
L'attivista yazida irachena Nadia Murad, premio Nobel per la pace
2018, ha affermato su X che «questa ragazza yazida è stata rapita
nel 2014. Dopo la caduta del califfato in Iraq e Siria
(rispettivamente nel 2017 e nel 2019), l'Isis l'ha trasferita a
Gaza. Ma non è l'unica detenuta a Gaza dall'Isis».
UNA RETE MISTA AV E NORMALE NON E' SICURA LO VEDRETE AL PROSSIMO
INCIDENTE :Non c'è una vera linea per l'alta velocità noi appesi a
un chiodo per altri 10 anni Andrea Giuricin
L'Italia spaccata in due da un chiodo apre una riflessione sul
sistema ferroviario italiano che è e rimane un esempio a livello
globale per quanto riguarda la liberalizzazione dell'alta velocità.
Il guasto di ieri deve ancora essere compreso completamente, anche
perché sembra una vicenda abbastanza assurda. Al di fuori di quanto
le indagini in corso indicheranno circa le responsabilità, ci sono
diversi fattori per i quali i guasti creano dei problemi così vasti
sia in termini temporali che in termini geografici.
In primo luogo, è chiaro che il Pnrr ha degli effetti importanti
proprio sulla situazione attuale, perché i quasi 30 miliardi di euro
d'investimenti (compresi i soldi derivanti dai fondi europei Cef),
hanno un impatto con migliaia di cantieri aperti contemporaneamente.
Questi cantieri provocano ritardi e cancellazioni sia per il settore
passeggeri che per il settore merci, che in realtà in questo momento
è in grandissima sofferenza con perdite di quasi 100 milioni di euro
come ricorda spesso l'associazione Fercargo.
I lavori, come quelli di questa estate che hanno portato ad avere
allungamenti dei tempi di percorrenza per l'alta velocità tra Roma e
Milano, sono necessari per migliorare la nostra infrastruttura che
per tanti anni non ha visto grandissimi lavori.
Questi lavori sulla rete, che continueranno fino al 2026 e oltre,
creano problemi aggiuntivi quando ci sono dei guasti
all'infrastruttura, perché eliminano di fatto i buffer esistenti
(come se non ci fossero più delle vie alternative).
Tornando al guasto di ieri, c'è da fare una puntualizzazione
importante. L'incidente è successo nel nodo urbano di Roma, il più
trafficato d'Italia e che, come ogni nodo urbano, vede insistere il
traffico non solo dell'alta velocità, ma anche di treni regionali,
intercity e finanche treni merci.
Il traffico misto nei nodi è una caratteristica italiana e provoca
complicazioni che ad esempio in Giappone, Spagna o Francia non
esistono, perché in quei paesi, l'alta velocità viaggia
completamente su linee dedicate e separate dal restante traffico.
Il nodo di Roma, al minimo problema rischia di andare in difficoltà
perché il traffico è molto denso. Solo nella stazione di Roma
Termini ogni giorno transitano circa 1000 treni e di questi solo 300
treni sono ad alta velocità.
La gran parte del traffico è dato dai treni pendolari che nel caso
della stazione principale di Roma incidono per quasi i due terzi del
traffico complessivo.
Quindi si comprende che c'è necessità non solo di diminuire i
guasti, e anche per questo ci sono i grandi investimenti di RFI, ma
anche di avere strategie di corto, medio e lungo termine.
Partiamo dal lungo termine e in questo caso si parla di grandi opere
infrastrutturali. Si può pensare al nodo di Firenze, storicamente
molto trafficato e in questo caso si sta costruendo un passante con
la nuova stazione di Belfiore, dando una soluzione alternativa come
succede ormai da qualche anno anche a Bologna. Ci vorrebbe
probabilmente un passante per l'alta velocità anche a Milano, ma è
chiaro che per queste opere ci vogliono lustri e non anni.
Ci sono poi soluzioni di medio termine, quale ad esempio la
soluzione tecnologica dell'Ertms alta densità. Questo sistema di
segnalamento permette di avere più treni a distanziamento minore ed
in sicurezza sulle stesse linee esistenti. Di fatto si crea nuova
capacità proprio in quei nodi dove la capacità inizia ad essere
scarsa.
Infine, nel breve termine c'è da risolvere il problema della
congestione nelle due principali stazioni italiane, vale a dire Roma
Termini e Milano Centrale. In questo caso la soluzione passa
attraverso una prioritizzazione del traffico che deve essere fatta
in funzione di criteri socio-economici. I treni "meno importanti"
devono fermarsi nelle stazioni di Roma Tiburtina e Milano Garibaldi,
andando a risolvere parzialmente e nel breve periodo i problemi
delle stazioni congestionate.
C'è però da essere franchi e ricordare che, con i tanti lavori sulla
rete attuale, i problemi continueranno ad esserci per i prossimi
anni. —
*Docente di Economia dei trasporti all'Università Bicocca
nove indagati. Perquisite le sedi di roma, milano e firenze
Indagine sugli appalti concessi dall'Anas Accuse di corruzione per
846mila euro
monica serra milano
Mazzette in cambio di gare da centinaia di milioni di euro. È questa
l'ipotesi della procura che indaga su un presunto sistema di appalti
pubblici truccati che ruota attorno ai fratelli Stefano, Luigi e
Marco Liani. Il primo è tuttora responsabile della struttura Anas
Toscana, gli altri due «ex funzionari pubblici che, in virtù del
ruolo rivestito in Anas, dopo aver interrotto il rapporto lavorativo
con la società pubblica per passare all'imprenditoria privata,
continuavano a operare nel settore dell'edilizia pubblica e della
costruzione e manutenzione di strade e autostrade attraverso società
a loro riconducibili» come si legge nei decreti con cui ieri il
Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf ha perquisito le
tre società riconducibili alla famiglia Liani e i nove indagati
coinvolti nell'inchiesta: 4 di loro sono ancora oggi funzionari
Anas. Acquisizioni di documenti sono state condotte invece nelle
sedi di Anas di Roma, Milano e Firenze. Ma anche negli uffici del
Consorzio stabile Sis di Torino che fa capo alla famiglia Dogliani.
Quattro gli episodi su cui stanno lavorando i pm coordinati dalla
procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano, che ipotizzano a vario
titolo le accuse di corruzione, turbativa d'asta e rivelazione del
segreto d'ufficio. Il primo ruota attorno al Consorzio stabile Sis
che non risulta indagato.
Si sarebbe aggiudicato nel 2019 un appalto da oltre 388 milioni di
euro per i lavori sulla SS340 Regina – Variante Tremezzina mentre
«intratteneva rapporti di lavoro personali» per cui pagava fatture a
Stefano Liani (486 mila euro) e al collega Eutimo Mucilli (360 mila
euro). Somme per i pm «funzionali a garantire fedeltà e benevolenza
dei due alti dirigenti pubblici». Gli altri episodi riguardano
invece due lotti della A4 Brescia-Soave; i 33 km della SS 469 Sebina
occidentale (un appalto da 2 milioni e mezzo di fatto subappaltato
alla Nuove iniziative spa di Marco Liani) e quello per i lavori
della Statale 412 della Val Tidone.
l'allarme nel Rapporto aris: 6 pazienti su 100 vittime di infezioni
durante la degenza
"Settemila decessi l'anno per gli errori in corsia" paolo russo
Un milione di ricoverati l'anno è vittima di errori in corsia. E tra
i sei e i settemila muoiono a causa di questi. Un intervento o una
terapia sbagliati, ma in oltre sei casi su dieci per colpa delle
infezioni contratte proprio in ospedale. Per uso improprio dei
cateteri, per scarsa igienizzazione degli ambienti e degli impianti
di aerazione. O perché non si fanno i tamponi in ingresso ai
pazienti fragili che possono così portare in corsia i super batteri
resistenti agli antibiotici, come la Klebsiella o il Clostridium
difficile. Fatto è che i nostri nosocomi sono molto meno sicuri di
quel che dovrebbero. A denunciarlo è un Rapporto dell'Aris,
l'associazione degli ospedali cattolici. Una pandemia silente che
per ogni 100 pazienti ricoverati – si legge nel rapporto- ne
colpisce 6,3, vittime di infezioni durante la degenza in ospedale.
Su un totale di oltre 10 milioni di ricoveri annuali oltre 600 mila
si infettano e almeno l'1%, ossia seimila e più di questi pazienti,
va poi incontro al decesso. Morti evitabili in oltre il 50% dei casi
con una corretta adesione alle linee guida di prevenzione, quelle
per le infezioni del sito chirurgico in particolare.
Se errori ed infezioni dilagano nei nostri ospedali, altrettanto
rapidamente lievitano i contenziosi giudiziari, che oramai marciano
al ritmo di 30 mila cause l'anno, mentre sono 3,8 milioni i casi
pendenti nei tribunali. Una mole di contenziosi che finisce per
costare 11 miliardi l'anno, spingendo verso la cosiddetta "medicina
difensiva", quella che per paura di incappare in una causa fa
prescrivere o operare ai medici anche quando non serve e li frena a
farlo quando invece servirebbe ma i rischi per i pazienti sono
troppo alti. —
04.10.24
la procura di firenze: non ha comunicato i 42 milioni in regalo
"Processate Dell'Utri per i soldi da Berlusconi" La procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per
Marcello Dell'Utri e per la moglie Miranda Ratti in relazione alla
mancata comunicazione delle variazioni patrimoniali, cosa cui Dell'Utri
era tenuto per la legge Rognoni-La Torre come condannato con
sentenza definitiva per concorso esterno in associazione di tipo
mafioso nel 2014. Le accuse, a vario titolo, sono di trasferimento
fraudolento di valori e di mancata comunicazione delle variazioni le
quali, nei saldi di un decennio, la Dda di Firenze ha stimato per un
ammontare di 42.679.200 euro. Nel marzo 2024 la Dda aveva ottenuto
il sequestro preventivo di 10,8 milioni di euro individuati nei
flussi nei conti correnti di Dell'Utri e di sua moglie. Per l'accusa
le movimentazioni di denaro da Berlusconi verso i conti di Miranda
Ratti erano in realtà a favore di Dell'Utri, ma lui non avrebbe
comunicato niente alle autorità.
LUIGI CHIAPPERO Parla l'avvocato che denunciò il racket per conto
della Juventus
"Stop al monopolio delle curve nel tifo bisogna vietare le trasferte
ai gruppi"
giuseppe legato
torino
In passato, ha assistito la Juventus in un lungo percorso di
denuncia a proposito di minacce e intimidazioni degli ultrà alla
società concluso con le condanne dei tifosi. Ed è dunque, l'avvocato
Luigi Chiappero un tecnico sul tema stadi e curve.
Cosa sta succedendo negli stadi italiani?
«Direi che finalmente ci si sta muovendo per capire cosa succede
all'interno delle strutture che non sono più zone franche. Il caso
di Milano si configura come un intervento quanto mai opportuno».
Dica la verità, le sembra un film già visto: ultrà che ricattano
personale delle società, criminalità comune e organizzata che
scalano le gerarchie del tifo…
«La fermo subito».
Per dire cosa?
«Che a Torino la chiarezza è stata fatta anni fa senza che ci
scappasse il morto per merito di un'azione congiunta di procura,
questura e società».
Perché siamo arrivati a questo punto?
«Sono state tollerate situazioni che in fondo andavano bene a tutti.
Perché fa piacere vedere le curve colorate che fanno festa negli
stadi. Ma è ora di cambiare mentalità».
E come si cambia la testa del tifoso?
«Comprendendo che il tifo non è appannaggio dei gruppi organizzati,
ma è di tutti. Mi passi la battuta: abbiamo in Italia una tradizione
canora internazionale e non mi pare il caso di appaltare a un ultrà
il lancio dei cori salvo poi sentire che il primo è "Noi non siamo
napoletani"? Io, il Napoli, lo voglio battere 4-0 sul campo».
Gli arresti risolvono da soli la questione?
«Le investigazioni hanno liberato gli spazi che ci erano stati tolti
per una nuova democrazia negli stadi. Sta a noi, tifosi comuni e
appassionati riappropriarci di essi. Serve un cambio culturale. E
poi c'è il tema trasferte»
Cosa c'entrano le trasferte?
«Ci vuole una uniformità di trattamento da parte di tutte le
questure d'Italia: per esempio a Torino c'è molta rigidità nel senso
che chi viene da fuori e non è in regola viene fermato fuori dallo
stadio».
E poi?
«E poi è impensabile che delle persone per bene, che stanno a Torino
e domenica prossima vogliono vedere il loro Cagliari in curva
debbano aspettare un'ora per uscire dallo stadio scortati da un
numero imponete di forze dell'ordine. Piuttosto si vietino le
trasferte ai gruppi organizzati».
Basta questo?
«Ovviamente no. Una volta fatti gli interventi che stiamo vedendo
bisogna essere in grado di mantenere la situazione regolarizzata.
Sento dire che qualcuno vuole dare più potere ai privati, non è
questa la strada».
Per intenderci: non basta aumentare il numero degli steward?
«Un ragazzo di 22 anni, anno più anno meno, pagato pochi euro l'ora,
euro più euro meno, non può fronteggiare situazioni che già sono
difficili per chi della tutela della sicurezza ne ha fatto un
mestiere».
Cosa devono fare le società?
«C'è un profilo tecnico oltre che di merito: devono mettere a
disposizione degli stadi moderni che abbiano tecnologie tali da
mettere gli inquirenti nelle condizioni di intervenire con fermezza:
e in Italia ci sono pochissime strutture attrezzate per questo».
Feletto, il titolare di una ditta di materiale elettrico
insospettito per gli ammanchi in magazzino La indagini dei
carabinieri hanno portato a perquisizioni e denunce: due uomini e
una donna
Dipendenti infedeli in fabbrica rubavano per rivendere sul web
alessandro previati
Avevano organizzato tutto nei minimi dettagli: dal furto dei
materiali fino alla vendita online sottoprezzo. A metterli nei guai,
prima ancora delle meticolose indagini dei carabinieri di Rivarolo,
ci ha pensato la frequenza stessa dei furti che, alla fine, ha
insospettito i responsabili dell'azienda.
Tre persone, due uomini di 33 e 44 anni e una donna di 46, sono
stati denunciati per ricettazione in concorso dai militari
dell'Arma. Uno dei complici è un dipendente di una ditta di Feletto,
la Zeca, alla quale, secondo le indagini, era solito sottrarre dai
magazzini, turno dopo turno, materiali elettrici di vario tipo. In
particolare torce, lampade, avvolgi tubi e cavi. Tutti oggetti
facili da rivendere via internet per i quali c'è sempre una grande
richiesta. L'indagine lampo è nata a seguito della denuncia del
titolare dell'azienda che, insospettito dagli ammanchi consistenti
nel magazzino della propria ditta, ha deciso di rivolgersi ai
carabinieri di Rivarolo. Ed è allora che i militari hanno
individuato l'autore dei furti in un dipendente della ditta in
questione, scoprendo quasi subito dei rapporti piuttosto stretti fra
questo ed un altro operaio, ex dipendente della stessa azienda. Una
serie di controlli a spot, nel corso delle ultime settimane, hanno
permesso di acquisire la certezza del coinvolgimento dei due. Così
l'altro giorno è scattata una perquisizione a carico del dipendente
dell'azienda di Feletto, proprio al termine del turno di lavoro. I
sospetti si sono concretizzati quando gli investigatori, nascosto
nell'auto, hanno ritrovato del materiale appena sottratto dal
magazzino. A quel punto sono scattate ulteriori perquisizioni, nelle
abitazioni dei due uomini e della fidanzata di uno dei due.
I militari hanno così potuto recuperare un'ingente quantità di
materiale sottratto precedentemente allo stabilimento di Feletto,
per un valore complessivo di circa 50 mila euro. Alcuni pezzi,
trovati a casa della donna, erano già impacchettati e pronti per
essere spediti a seguito della vendita on-line. Tutta la refurtiva è
stata sequestrata in attesa della restituzione al legittimo
proprietario. I tre, invece, incensurati e residenti in Canavese,
sono stati denunciati a piede libero alla procura di Ivrea. Secondo
le indagini la loro attività era iniziata già nella primavera dello
scorso anno ed ora sono in corso ulteriori accertamenti per
ricostruire la filiera dei clienti che (probabilmente) in buona
fede, attraverso alcune piattaforme online, hanno acquistato i
materiali rubati. Tutte transazioni probabilmente tracciate che
serviranno a chiarire il giro d'affari messo in piedi dai tre. La
facile vendita online, seppur a prezzi scontati, ha evidentemente
convinto i componenti della banda a continuare con i furti, forse
aumentando anche la frequenza dei «prelievi» non autorizzati dal
magazzino. Un errore perché in questo modo l'imprenditore di Feletto
si è accorto degli ammanchi e i carabinieri di Rivarolo sono
riusciti ad incastrarli.
03.10.24
Liste d'attesa
la grande illusione Paolo Russo
roma
«Decreto fuffa» lo aveva definito Elly Schlein, vista la pochezza di
risorse stanziate in piena campagna elettorale dal governo per
abbattere le liste di attesa. Ora a distanza di 4 mesi dal suo varo,
il DL venduto come toccasana per accorciare i tempi per visite e tac
è ancora fermo al palo, perché mancano tutti i provvedimenti
attuativi previsti per mettere le gambe al "piano Schillaci".
Tanto per cominciare non c'è traccia del provvedimento che dovrebbe
definire le modalità di applicazione della norma "salta code".
Nucleo centrale del decreto, nel quale si stabiliste il diritto
dell'assistito ad ottenere in automatico il rimborso delle
prestazioni ottenute dal privato quando il pubblico non rispetta i
tempi massimi stabiliti dal Piano nazionale liste di attesa. In
teoria un passo avanti rispetto a oggi, perché al momento prima si
anticipano i soldi e poi si chiede il rimborso con tanto di Pec e
prova documentale di non aver ottenuto la prestazione nei tempi
massimi stabiliti per legge. Un percorso arzigogolato che rende di
fatto inesigibile il diritto. Che tale resterà fino a quando non
verrà alla luce il decreto attuativo che spiega come saltare la fila
senza sborsare denaro. Anche perché nessuno a fino ad ora visto il
protocollo d'intesa Salute-Mef-Regioni che deve indicare come
impiegare le risorse non spese in passato per abbattere le liste di
attesa. Parte di 500 milioni, probabilmente insufficienti a
finanziare il "salta code", ma che così resteranno ancora chissà per
quanto inutilizzati. L'intesa era attesa entro 60 giorni dal varo
del decreto legge ma non ce n'è nemmeno traccia.
Missing è poi il decreto attuativo di un altro tassello
fondamentale, quello che fa scattare i poteri sostitutivi dello
Stato quando le Regioni sono inadempienti nell'applicare le misure
taglia liste. In un primo momento il provvedimento, fortemente
voluto da Schillaci, affidava al suo ministero poteri ispettivi e
sanzionatori, che arrivavano ad attribuire agli ispettori
ministeriali il compito di far scattare sanzioni e persino le
manette nei casi più gravi. Una stretta che aveva fatto insorgere i
governatori che erano riusciti ad ottenere da Giorgia Meloni il
depennamento della norma, mitigato però dai poteri sostitutivi dello
Stato, senza i quali anche il resto del castello rischia di
sgretolarsi, lasciando in ogni caso alle regioni il doppio ruolo di
controllori e controllati. La definizione dei poteri sostitutivi
doveva essere messa nero su bianco entro il 7 luglio ma ancora si è
in attesa di un testo. Così come manca il decreto, previsto entro 30
giorni, che dovrebbe provvedere alla «Classificazione e
Stratificazione della popolazione», ossia a programmare l'offerta
delle cure. Aspetto non trascurabile del piano taglia tempi di
attesa.
L'unico decreto attuativo messo per ora nero su bianco è quello che
contiene le linee guida per realizzare la piattaforma nazionale
sulle liste d'attesa, essenziale per monitorare i tempi di attesa
reali per visite specialistiche e accertamenti diagnostici, visto
che quelli riportati dai siti regionali risultano essere spesso poco
attendibili. Un tassello importante del piano, perché bisogna prima
sapere dove le cose non vanno per poter poi intervenire. Secondo il
decreto di giugno le linee guida dovevano essere adottate entro 60
giorni dal suo varo, ossia al massimo il 29 agosto. Da pochi giorni
abbiamo il testo che è però ben lungi dall'essere approvato dalla
Conferenza delle Regioni, che ne ha appena iniziato l'esame a
livello tecnico. Con il risultato che, secondo quanto ammesso dallo
stesso ministero della Salute, la piattaforma non sarà operativa
prima di gennaio, se non febbraio. Come dire che fino ad allora non
sarà possibile sapere chi rispetta i tempi e chi no e quindi nemmeno
mettere in atto le misure pensate per accorciare i tempi.
«Questo ritardo sul piano è inaccettabile, incomprensibile e
insostenibile per i cittadini che si misurano tutti i giorni con il
problema di attese troppo lunghe per curarsi. Se Regioni e governo
ritardano ancora bisogna pensare a un commissario straordinario per
le liste d'attesa», propone Tonino Aceti, presidente di Salutequità.
Tentando così di tirare fuori il decreto liste di attesa dalle
sabbie mobili in cui lo tiene impantanato la burocrazia.
L'affaire
Scajola
mattia mangraviti
imperia
Una nuova grana, fonte di più di qualche imbarazzo, si abbatte su
Claudio Scajola. La causa sull'ineleggibilità a sindaco di Imperia
approda davanti alla Cassazione. È l'ultimo capitolo di una vicenda
nata dal ricorso presentato da tre consiglieri comunali di
opposizione, Ivan Bracco, Luciano Zarbano e Lucio Sardi, contro
l'elezione dell'ex ministro dell'Interno e che rischia di
complicarsi ulteriormente per una recente pronuncia della Corte dei
Conti sull'ingresso del Comune di Imperia in Rivieracqua, società
consortile incaricata della gestione del servizio idrico in
provincia di Imperia. Un doppio incarico che potrebbe rivelarsi
incompatibile, un caso di conflitto d'interessi piuttosto
imbarazzante, almeno a detta della magistratura contabile.
Al centro della vicenda c'è l'incarico di commissario ad acta
assegnato a Scajola dalla Regione Liguria con decreto firmato dal
presidente Giovanni Toti: una nomina che, a detta dei ricorrenti,
era incompatibile con il ruolo di primo cittadino. In primo grado il
Tribunale di Imperia ha respinto il ricorso in quanto «non
ravvisabile alcuna forma di controllo istituzionale da parte del
commissario sul Comune di Imperia», accogliendo di fatto la tesi
difensiva del legale dell'ex ministro, il vice sindaco di Genova
Pietro Piciocchi. La causa è poi approdata in Appello dove la Corte,
a sorpresa, non è entrata nel merito e ha annullato la sentenza di
primo grado per un problema di notificazione rimandando gli atti al
Tribunale di Imperia. In sostanza i ricorrenti, secondo i giudici di
secondo grado, avrebbero erroneamente chiamato in causa Scajola in
quanto sindaco di Imperia e non come persona fisica. Da qui la
nullità dell'intero procedimento.
Ma è la Corte dei Conti a rimettere tutto in discussione. Dando il
via libera all'ingresso del Comune di Imperia in Rivieracqua, scrive
che l'operazione «è stata avallata dal commissario». Scajola che
avalla Scajola, insomma. E, ancora, che «sulla base delle proiezioni
fornite dal commissario (sempre Scajola, ndr) in esito
all'operazione il Comune di Imperia (e dunque nuovamente l'ex
ministro, ndr) dovrebbe acquisire una partecipazione in Rivieracqua
spa pari al 28,63%». Ma non è tutto. Perché anche la delibera con la
quale il Consiglio comunale ha approvato l'ingresso del Comune in
Rivieracqua lascia qualche dubbio. L'aula, infatti, trasmette l'atto
al commissario ad acta «per quanto di competenza» e «dichiara la
deliberazione immediatamente eseguibile al fine di rispettare il
termine del 30 aprile 2024 stabilito dal commissario ad acta». Il
Consiglio comunale presieduto da Scajola, insomma, invia gli atti a
Scajola per rispettare i termini stabiliti da Scajola.
Considerazioni che per lo meno aprono qualche interrogativo sul
fatto che non sia ravvisabile «alcuna forma di controllo
istituzionale da parte del commissario sul Comune di Imperia». Una
pronuncia che rischia di mettere più di un dubbio al Tribunale
nuovamente chiamato a esprimersi sulla presunta ineleggibilità del
sindaco.
Scajola in un primo momento si era lasciato andare a toni
trionfalistici: «Altra sconfitta per Bracco e Zarbano, la verità
viene sempre fuori». Ora ha deciso di impugnare la sentenza di
Appello davanti alla Cassazione. A oggi, però, la situazione risulta
radicalmente cambiata rispetto al passato dato che la pronuncia
della Corte dei Conti rischia di mettere il sindaco in una posizione
piuttosto scomoda, almeno sulla carta.
Per Scajola si tratta dell'ennesima querelle giudiziaria nel corso
di una lunga carriera politica contraddistinta da grandi successi e
rovinose cadute. Dalle polemiche per il G8 (era ministro
dell'Interno quando morì Carlo Giuliani) alla casa al Colosseo
pagata in parte a sua insaputa da un imprenditore (fu assolto in
primo grado e poi prosciolto per prescrizione), dal caso Biagi,
ucciso dalle Nuove Br (di lui disse «era un rompicoglioni»)
all'arresto per aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena
(condannato in primo grado a due anni di carcere, poi prosciolto per
prescrizione). Un percorso tortuoso che però non ha impedito all'ex
ministro di recitare a Imperia ancora un ruolo da grande
protagonista. Sindaco, presidente della Provincia e commissario
dell'autorità idrica, tira le fila della politica ponentina con
all'orizzonte un ritorno nei salotti che contano, tra i vertici
dell'amata Forza Italia dell'amico Tajani. —
02.10.24
L'incontro con Fink, ad del
fondo. Un comitato per gli investimenti su AI, energia e trasporti
Meloni chiede il soccorso della grande finanza
Cabina di regia a Chigi per i soldi di BlackRock ilario lombardo
roma
«No alla grande finanza internazionale» urlava Giorgia Meloni dal
palco di Vox a Marbella, il 12 giugno 2022. Due anni dopo, il
governo guidato dalla leader di Fratelli d'Italia apre il portone di
Palazzo Chigi e il mercato italiano al più grande fondo finanziario
del mondo. Il bagno di realtà del governo – e dei soldi a
disposizione – vale più delle promesse elettorali dal facile suono
populista. I soldi del Pnrr finiranno nel giro di un paio di anni e
le casse dello Stato saranno ancora più strizzate dalle nuove regole
fiscali europee. Il privato, anche se è lo squalo globalista,
vecchio nemico di tanti comizi di Meloni, torna molto utile oggi. Un
comitato composto dai principali collaboratori della premier sarà
l'interlocutore formale e istituzionale di BlackRock. È il risultato
dei 35 minuti di colloquio tra Meloni e Larry Fink, il numero uno
del fondo con sede a New York che gestisce oltre 9 trilioni di
dollari di patrimonio globale, 102 miliardi per conto di clienti
italiani. I due si erano già visti a Borgo Egnazia, nel corso del
G7, durante la Partnership for Global Infrastructure and Investment,
copresieduta dalla presidente del Consiglio e dal presidente degli
Stati Uniti Joe Biden.
Secondo una nota di Palazzo Chigi, il gruppo di lavoro che verrà
costituito a breve sarà una sorta di cabina di regia e avrà il
compito di individuare e «coordinare i progetti che andranno
sviluppati in collaborazione» con BlackRock. Dovrebbero farne parte
quasi sicuramente il consigliere diplomatico Fabrizio Saggio e il
capo di gabinetto Gaetano Caputi. Di fatto riguarderà società
partecipate e settori strategici, a partire ovviamente
dall'Intelligenza Artificiale, ambito a cui la premier italiana ha
dedicato importanti colloqui già durante la missione a New York, a
margine dell'Assemblea Onu, dove ha incontrato non solo il
supermiliardario Elon Musk, ma anche i vertici di Google, Open Ai,
Motorola. Meloni e Fink hanno analizzato i margini di investimento
nell'ambito di sviluppo di data center e delle correlate
infrastrutture energetiche di supporto. Si tratta di trovare enormi
bacini di alimentazione. Secondo fonti finanziarie vicine al fondo,
gran parte dell'incontro – al quale era presente anche il ministro
dell'Economia Giancarlo Giorgetti – si è focalizzato proprio su
questo, in particolare su come gestire i nuovi centri di
elaborazione sul territorio nazionale. È il cuore del business che
fa gola ai giganti digitali, compresa Microsoft che con BlackRock
sta già investendo su infrastrutture informatiche ed energetiche.
In tal senso, spiegano le stesse fonti vicine al dossier, «non si
può escludere una collaborazione con Enel, con il fine ultimo di
raccogliere la sfida energivora dell'AI». I dialoghi sono a un «buon
stadio d'avanzamento», ma l'intenzione di BlackRock è quella di
mantenere la massima prudenza. «Si tratta di un dossier molto
delicato, che ha richiesto una discussione dettagliata sui prossimi
passaggi».
Il colosso statunitense è già ampiamente presente, con i suoi
miliardi, in grandi aziende e banche italiane. E dal momento che è
il secondo azionista di Enel, dopo lo Stato italiano, circolano
indiscrezioni riguardo a un'ulteriore salita nel capitale della
società energetica guidata da Flavio Cattaneo. Oltre agli utilizzi
delle reti per pompare energia dentro i data center per l'AI, un
interesse particolare è quello delle colonnine di ricarica per i
veicoli a trazione elettrica. Un ambito che, salvo sorprese,
potrebbe essere discusso prima della fine dell'anno. Negli stessi
mesi in cui, dopo aver conquistato il 3 per cento di Leonardo,
dovrebbero finalizzarsi le trattative con Sace, gruppo
assicurativo-finanziario di sostegno alle imprese nazionali
controllato dal Ministero dell'Economia: in ballo c'è la gestione di
asset fino a 3 miliardi di euro. Ma gli obiettivi di Fink sono tanti
altri. Nel confronto con Meloni sono stati toccati possibili
partecipazioni pure nel settore idrico, nei trasporti (BlackRock è
già dentro Italo), in strutture portuali aeroportuali, e si è
discusso di un ruolo di primo piano all'interno del Piano Mattei.
Meloni cerca risorse per finanziare tutti i progetti di sviluppo che
faticano a essere avviati con i Paesi africani. E Fink ha già
un'idea su quali strumenti utilizzare. BlackRock sta lavorando a un
secondo fondo sulla finanza climatica, al quale vuole che partecipi
anche l'Italia. —
la fed punta a due tagli del
costo del denaro entro l'anno
Draghi: verso una stagione di tassi alti MARCO BRESOLIN
CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
L'epoca dei tassi d'interesse negativi non tornerà. Anzi, «vivremo
in un periodo in cui avremo pressioni da deficit troppo alti e un
eccesso di domanda», quindi «potenzialmente con livelli d'inflazione
più alti e tassi più alti». È la previsione di Mario Draghi, l'uomo
che per 8 anni ha gestito la politica monetaria a capo della Bce in
una fase critica per l'economia europea. Pur rispondendo con un «no,
grazie» a chi ha provato a rimetterlo per un attimo nei panni del
banchiere centrale, Draghi è tornato brevemente sulla questione
durante una discussione organizzata dal think tank Bruegel e
dedicata al suo rapporto sulla competitività realizzato per conto
della Commissione. Poche ore dopo, intervenendo al Parlamento
europeo, Christine Lagarde ha mantenuto le carte coperte sulla
decisione che sarà presa a ottobre dalla Bce, mente oltre
oltreoceano Jerome Powell, presidente della Fed, prevede altri due
tagli dei tassi, per un totale di 50 punti entro l'anno, visto che
l'economia Usa «è solida».
Draghi ha molto insistito sulla necessità di aumentare gli
investimenti, ricordando che la cifra di 800 miliardi annui citata
nel report è frutto di «una stima prudente». Ha ribadito che una
quota significativa dovrà essere costituita da fondi pubblici, ma
che gli Stati non hanno i mezzi per poterla sostenere e che
bisognerà agire a livello europeo. Se necessario, anche con
l'emissione di debito comune.
Alla luce delle reazioni negative in alcune capitali, il tema resta
controverso, ma Draghi avrà la possibilità di confrontarsi con i 27
leader Ue al vertice informale che si terrà all'inizio di novembre a
Budapest . L'appuntamento cadrà a poche ore dall'elezione del nuovo
presidente Usa e Draghi ha messo in guardia l'Europa dai rischi del
protezionismo. Quella dell'Ue, ha sottolineato, «è un'economia
aperta e se facessimo come gli Usa ci danneggeremmo da soli».
Su una cosa, però, è tornato a martellare: «Tutti i nostri Paesi
sono troppo piccoli per essere all'altezza delle sfide attuali».
Serve «una sovranità europea» perché «la sovranità nazionale è
troppo debole come concetto». Ed è in questa chiave che dovrebbe
maturare lo scambio già alla base del Next Generation EU: cessione
di una parte della sovranità (riforme concordate a livello europeo)
in cambio di risorse comuni. Anche perché, secondo Draghi,
«l'attuazione delle riforme ridurrà l'ammontare degli investimenti
necessari».
I nerazzurri intercettati
Marco Ferdico
" La mafia d i San Siro
I rossoneri intercettati
Gherardo Zaccagni
Andrea Beretta
Luca Lucci
monica serra
andrea siravo
milano
Parcheggi, biglietti, trasferte, merchandising. Ricchi business
criminali che garantiscono una montagna di soldi dentro e fuori San
Siro, e che con la passione sportiva non hanno nulla a che vedere.
Del resto, come diceva intercettato il capo ultrà nerazzurro Andrea
Beretta: «Lo sai benissimo. .. io non faccio le cose per lo
striscione... a me non me ne frega un emerito c…! Nessuno lavora per
il popolo». Affari milionari ottenuti con le botte e le minacce
(«Non mi tradire sennò mi tocca ammazzarti») che le Curve di Inter e
Milan si spartivano in base a un «patto di non belligeranza» che ha
moltiplicato i «comuni profitti». E ha fatto diventare il Meazza
«terra di nessuno» piegando i club a una «situazione di sudditanza
rispetto agli ultrà», come sottolinea il gip Domenico Santoro nel
provvedimento che, all'alba di ieri, ha azzerato i direttivi delle
Curve.
Sono 19 in tutto le misure cautelari: 16 in carcere, 3 ai
domiciliari nell'indagine della Dda, diretta da Alessandra Dolci. A
cui si aggiungono una pioggia di Daspo del questore Bruno Megale.
Tra gli arrestati figurano i capi della Nord, Andrea Beretta – già
in carcere per l'omicidio di Antonio Bellocco, ucciso con venti
coltellate il 4 settembre a Cernusco sul Naviglio – e Marco Ferdico
con il padre Gianfranco. Ma anche i capi della Sud, il narcos Luca
Lucci e il fratello Francesco. Sono accusati a vario titolo di
associazione per delinquere – in alcuni casi aggravata dalla
agevolazione mafiosa – dedita a una sfilza di estorsioni per fare la
cresta su biglietti, abbonamenti, ingressi gratuiti e mettere le
mani su servizi di catering e di vendita di bevande nello Stadio. Ma
anche aggressioni e pestaggi contro steward, tifoserie rivali,
bagarini e magliettari per imporre il loro predominio.
Pesanti pressioni sono state esercitate sulle società di Inter e
Milan che, come ha specificato il procuratore Marcello Viola sono
considerate «parti lese» in queste indagini. Ma che hanno più volte
ceduto alle intimidazioni e ora rischiano il commissariamento con
l'apertura di un procedimento di prevenzione e la nomina di due
consulenti della procura che le aiuteranno a munirsi dei «necessari
anticorpi per evitare che col cambio dei volti sulla balaustra la
situazione si ripeta», specifica il pm Paolo Storari che ha
coordinato le indagini con la collega Sara Ombra. Nonostante i
divieti di legge, negli atti dell'inchiesta della Squadra mobile
sono certificati i contatti dei capi della Nord con il calciatore
slovacco Milan Skriniar che hanno provato a convincere di restare
all'Inter mentre «tremava dalla paura». Ma anche con l'allenatore
Simone Inzaghi e l'ex calciatore ancora vicino alla squadra Marco
Materazzi. Emblematico l'episodio della finale di Champions contro
il Manchester City. I capi della Nord pretendono dal club 1.500
biglietti da rivendere. Sotto la minaccia di «non andare a Istanbul
e non tifare», Marco Ferdico telefona anche a Inzaghi e gli chiede
di intervenire: «Te la faccio breve mister...ci hanno dato mille
biglietti...noi abbiamo bisogno 200 in più per esser tranquilli...ma
non per fare bagarinaggio mister... arriviamo a 1200 biglietti?». È
l'allenatore a rispondere: «Parlo con Ferri con Zanetti con Marotta…
poi ti faccio sapere qualcosa... gli dico che ho parlato con te e
che tanto avevi già parlato con Ferri e Zanetti… Marco io mi attivo
e ti dico cosa mi dicono». Il capo ultrà chiede poi l'intercessione
di Materazzi che si impegna: «Fammi... fammi provà… fammi provà». È
sempre lui a rivelargli il motivo del dietrofront del club: «I
biglietti da 80 li rivendono a 900… questo mi è stato detto, tienilo
per te». Alla fine, la società cede a pochi giorni dal match.
Al direttivo nerazzurro viene anche contestata l'aggravante
dell'agevolazione mafiosa per aver favorito la cosca dei Bellocco di
Rosarno dopo l'omicidio dell'ex leader della Curva Vittorio Boiocchi,
con la scalata dell'erede Antonio Bellocco, Toto u'Nanu, che ha
garantito i guadagni alla famiglia in Calabria anche per finanziare
i detenuti fino alla morte, per mano di Beretta. Come accertato
dalla polizia, era stato Ferdico a procurargli casa e lavoro
fittizio col compito di arginare gli appetiti degli altri gruppi
criminali. Ma il potere assunto da Bellocco, lo «spacchioso
calabrotto» era sempre più ingombrante. Diceva Beretta intercettato:
«A parte che tu di stadio non capisci un c… devi solo firmare e
lascia fare a noi...tu fai quello che devi fare, cioè mandare via i
tuoi paesani…».
Capitolo a parte è quello relativo alla gestione dei parcheggi su
cui ha indagato anche la Gdf e gestito soprattutto da Giuseppe
Caminiti, legato al boss di 'ndrangheta Giuseppe Calabrò, u'dutturicchio.
Insieme hanno permesso all'imprenditore Gherardo Zaccagni con la
«società Kiss and Fly» di accaparrarsi i parcheggi dello stadio in
cambio del pagamento di un obolo di 4 mila euro al mese ai capi
della Curva. Un affare per cui è indagato anche il consigliere
regionale di centrodestra Manfredi Palmeri, ex manager di «M.I.
Stadio srl» ed ex componente della commissione antimafia del Comune.
È lui l'uomo identificato da Zaccagni per intercedere con la
dirigenza rossonera e ottenere la gestione dei parcheggi in cambio
di un quadro da 10 mila euro che ieri è stato sequestrato a casa sua
nel corso della perquisizione. Contro di lui si ipotizza la
corruzione tra privati.
«Non è giusto dire che tutti gli ultrà sono criminali – è il
commento del procuratore della Dna Giovanni Melillo – ma che una
componente non secondaria del mondo ultrà pratichi attività
criminali è sotto gli occhi di tutti. Bisogna smettere di far finta
di niente». —
Il cantante, non indagato,
fino a un paio di giorni fa si è fatto fotografare con due degli
arrestati
I legami di Fedez con narcos e picchiatori Il business dei concerti
in giro per l'Italia
monica serra
milano
Dai servizi di sicurezza all'intera organizzazione di eventi e
concerti in Italia e all'estero. Sono tante «le ambizioni
imprenditoriali» del narcos Luca Lucci, come emerge dall'indagine
dell'Antimafia che ha azzerato le Curve milanesi. «Il suo ruolo di
capo della Sud gli ha consentito di tessere, relazioni di carattere
lavorativo nel settore musicale con noti artisti italiani come Fedez,
Emis Killa, Lazza, Tony Effe, Cancun, Gue Pequeno» permettendogli di
moltiplicare «in maniera esponenziale e con pochissimi controlli i
guadagni» fino a gestire «i concerti di questi artisti, sia sul
territorio nazionale, sia internazionale». E ora il gip Domenico
Santoro chiede alla polizia di approfondire queste relazioni
pericolose.
Prima tra tutte, quella con Fedez, che in questa inchiesta non è
indagato ma che fino a due giorni fa si è fatto fotografare in un
hotel di Parigi in compagnia del suo bodyguard Christian Rosiello e
dell'amico picchiatore Islam Hagag, noto come Alex Cologno, dopo gli
scatti di quest'estate su un lussuoso yacht a Porto Cervo. Entrambi
sono finiti in carcere: frequentazioni compromettenti che anche l'ex
moglie, Chiara Ferragni, ha in più occasioni criticato.
Per il gip c'è un «rapporto consolidato» tra Federico Lucia e il
narcos Lucci (quello della stretta di mano con Salvini). A lui si
rivolge Fedez per avere un bodyguard, per introdurre a San Siro la
bibita Boem che promuove con Lazza. E sempre con lui progetta una
scalata (finita in nulla) per acquisire la discoteca Old Fashion,
tanto da assicurare al telefono: «Ho già chiamato Boeri», il
presidente della Triennale, proprietaria degli spazi del locale.
Fedez va a trovare Lucci anche due giorni dopo il pestaggio del
personal trainer dei vip, Cristiano Iovino, in via Traiano, dopo una
rissa al The Club, nata nell'ambito della disputa con Nicolò
Rapisarda, in arte Tony Effe, sfociata nel dissing delle ultime
settimane. Una spedizione punitiva a cui ha partecipato anche
Rosiello, tra botte e minacce di morte alla vittima: «Chiedi
scusa…devi chiedere scusa, noi torniamo e ti ficchiamo una
pallottola in testa…».
Il caso si è chiuso con una transazione stragiudiziale e Iovino -
che chiamano Jimmy palestra - non ha denunciato. È sempre Fedez a
spiegare la situazione a Lucci: «Son proprio stupidi, vabbè, quando
torna il Tony...niente dobbiamo e basta… – spiega Fedez intercettato
– è semplice la cosa frate! Tony ha un amico, tutti sanno che quello
è amico suo, l'amico di Tony si fa male e Tony siccome deve fare il
ragazzetto ghetto non può permettersi che si sappia che un suo amico
si è fatto male senza che lui poi l'abbia difeso! Perché, a casa
mia, lo difendi quando c'ha bisogno non dopo, però… adesso ha fatto
brutto a Lazza… far brutto a Lazza, vuol dire far brutto a mio
figlio, ti pare!?».
Ma c'è di più. E si è scoperto nelle pieghe dell'indagine. Facendo
leva sull'intraprendenza del suo fedelissimo Hagag e ai suoi
rapporti col mondo criminale calabrese, è stato Lucci a organizzare
una serie di concerti di Fedez ad agosto soprattutto nel Sud Italia.
Tanto che il nome del picchiatore Hagag «è comparso sul sito
ticketone.it in qualità di organizzatore del concerto di Fedez
previsto per il 6 agosto del 2024 al Calura di Roccella Jonica e di
tutti gli altri eventi previsti nel mese di agosto in quel locale e
in altri locali notturni calabresi, grazie alla mediazione della Why
Event di Lucci»
Il vicepremier nel 2018 era
stato immortalato con il capo della tifoseria Luca Lucci arrestato
ieri
Le amicizie pericolose che sfiorano Salvini "La violenza deve
restare fuori dagli stadi"
FRANCESCO MOSCATELLI
ANDREA SIRAVO
MILANO
Per Matteo Salvini l'inchiesta sugli ultras milanesi non è un bel
modo per cominciare la settimana del raduno leghista previsto per
domenica prossima a Pontida. Una settimana che, nelle sue
intenzioni, dovrebbe essere di rilancio dell'azione politica sui
fronti dell'immigrazione (il 18 ottobre a Palermo è attesa l'arringa
del suo legale Giulia Bongiorno nel processo Open Arms) e del
sovranismo (domenica sul «sacro pratone» ci saranno il premier
ungherese Viktor Orban e l'olandese Geert Wilders).Perché se è bene
chiarire che né il segretario né altri esponenti del Carroccio sono
stati anche solo sfiorati dalle indagini, è inevitabile che il blitz
della Dda milanese riporti a galla il legame tra Salvini e la Curva
Sud del Milan, a cominciare dalla celebre foto del dicembre 2018 in
cui l'allora ministro dell'Interno stringeva la mano a Luca Lucci,
il leader indiscusso dal 2009 del tifo organizzato rossonero con già
due condanne definitive per droga dopo gli arresti nel 2018 e nel
2021.
«Io ho fotografie con circa 100 mila persone - ha detto ieri mattina
Salvini a margine di un convegno sulla gestione idrica che si
svolgeva a Milano -. Vado allo stadio da quando sono piccino e con
milanisti ho alcune migliaia di foto, sperando che siano tutte
persone per bene. Però mi fido assolutamente delle forze
dell'ordine, penso anche agli scontri prima del derby di Genova. Io
sono un tifoso appassionato però la violenza e la mafia devono stare
assolutamente fuori dagli stadi». Quindi ha aggiunto: «Io vado allo
stadio da quando ho cinque anni e se qualcuno usa lo stadio per
farsi gli interessi suoi, poi con puzza di mafia, camorra e
‘ndrangheta, va assolutamente isolato, beccato e allontanato». Una
presa di distanza molto netta che a qualcuno, però, potrà sembrare
tardiva. Un anno e mezzo fa, infatti, il segretario e vice-premier
era tornato a far parlare del suo rapporto con gli ultras rossoneri
per aver difeso pubblicamente la protesta (vietata dalla giustizia
sportiva) andata in scena dopo una clamorosa sconfitta della squadra
allenata allora da Stefano Pioli allo stadio Picco di La Spezia.
«Penso e spero che ci siano cose più importanti di cui occuparsi»,
disse Salvini.
Tra i tifosi che avevano costretto giocatori e mister a un'umiliante
tirata d'orecchie sotto la curva degli ospiti c'era Francesco Lucci,
fratello di Luca arrestato ieri sulla pista di Orio al Serio appena
sceso da un volo che lo riportava in Italia da Dubai. La violenza è
il dna dei fratelli Lucci. «C'ho una sete di sangue che solo Dio lo
sa!», si rammarica Luca, detto il «Toro» tornando a San Siro nel
novembre 2023. Non sulla balaustra del secondo anello Blu ma in
tribuna. Quella che lo ha fatto resistere a tentativi di
detronizzazione di Giancarlo Lombardi, detto Sandokan. L'ex
fedelissimo divenuto nemico. «Gli dico "non dividiamo la curva"… eh
allora lui mi dice "Allora mi dai sotto come avevamo detto prima".
Ho detto: "Non ti do neanche sotto" … Io gli dico no su tutto», si
sfoga Lucci con Loris Grancini, capo del gruppo ultras dei Viking
della Juventus. Tra le preoccupazioni c'era anche quella di essere
nuovamente arrestato quando a luglio 2023 scopre un'ambientale in
casa sua: «Sicuro sono indagato per associazione, capirai questi
fino a che non mi massacrano non son contenti», profetizza ai suoi
parenti il Toro. —
Partite le audizioni
nell'inchiesta che ha condotto in carcere il dipendente della Filca,
Ceravolo I segretari nazionali della sigla (non indagati) saranno
sentiti come persone informate sui fatti
Mafia, tessere e sindacato i vertici della Cisl in procura
giuseppe legato
Nei prossimi giorni i vertici del sindacato Cisl (e Filca Cisl)
saranno sentiti in procura come persone informate sui fatti. La
cornice delle audizioni notificate a tre dei massimi rappresentanti
della sigla confederale è quella dell'inchiesta Factotum che ha
portato in carcere la scorsa settimana Domenico Ceravolo, dipendente
del sindacato edili a Torino e dallo scorso 13 febbraio componente
della segreteria provinciale. L'accusa per Ceravolo è quella di
associazione a delinquere di stampo mafioso. Di questo lo accusano i
pm Paolo Toso, Marco Sanini e Mario Bendoni titolari del fascicolo.
A Torino, in procura, arriveranno Mauro De Lellis, segretario
provinciale della Filca (da 4 giorni promosso responsabile
regionale), Ottavio De Luca e il segretario nazionale della Cisl
Luigi Sbarra (non indagati). La notizia delle convocazioni è emersa
da ambienti sindacali.
Considerato uomo vicino a Franco D'Onofrio, anche lui finito in
manette con l'accusa "di dirigere la rete della ‘ndrangheta in
Piemonte", Ceravolo, assistito dal legale Christian Scaramozzino, si
professa innocente. Il tema delle audizioni però non sarà questo. E
basta leggere gli atti finora pubblici su questa inchiesta per
cogliere come il focus il comportamento del sindacato nei suoi
confronti. Per i pm «è dimostrata la consapevolezza da parte dei
vertici Filca Cisl dell'appartenenza/vicinanza di Ceravolo al
contesto 'ndranghetistico». Lo dimostrerebbero i benefit che gli
vengono riservati come ad esempio il pagamento del viaggio per
andare in Calabria a deporre come teste della difesa di un boss
nell'aula bunker di Lamezia Terme per testimoniare nel maxi-processo
Rinascita Scott. Le spese di viaggio vengono "coperte" dal
sindacato. Gli investigatori sottolineano nel decreto di fermo che
«tale esborso, che non può di certo ritenersi una spesa attinente le
attività istituzionali dell'ente». Di più: che di questo «non è
stato tenuto all'oscuro il vertice romano dell'organizzazione
sindacale stessa». Ancora: «Che i nominati responsabili della Filca
Cisl (non indagati, ripetiamo) fossero a conoscenza del motivo
inerente la trasferta calabrese di Domenico Ceravolo. Con le
prossime audizioni si chiarirà un altro punto emerso agli atti che
riguarda il trojan (un virus informatico) inoculato dal Nucleo di
polizia economica della Finanza nel telefonino di Ceravolo. Secondo
gli inquirenti ci sarebbe stato «un accertato diretto interessamento
dei vertici sindacali a favore di Ceravolo allorquando sono emersi
chiari segnali di una possibile attività investigativa svolta nei
confronti di quest'ultimo». Ovvero: «Dopo l'inoculamento del trojan
sul telefono aziendale del dipendente è uno dei vertici della Filca
Cisl a contattare il gestore Vodafone «per rappresentare alcune
anomali che stava riscontrando su quel telefono: «Senta, la chiamo
per un problema che ha il proprietario, l'intestatario di questo
numero. Non riusciamo a disinstallare o quantomeno a bloccare un ...
un'applicazione che è "Assistenza in linea" che continua a lavorare
in background, volevamo capire se era possibile disattivarla tramite
il servizio o c'è qualche anomalia». Per gli investigatori «è un
chiaro segnale di aver compreso che si trattasse di un trojan».
Pochi giorni dopo a Ceravolo arriverà un cellulare nuovo: «Questo
costa 1300/1400 euro». Chiosano i pm: «Tale dispositivo, avrebbe
reso impossibile un nuovo tentativo di inoculazione». —
Il risanamento prevede la
decontaminazione del terreno dai veleni
Parte la maxi bonifica dell'ex area Thyssen Sei anni di cantiere
diego molino
Il futuro dell'ex Thyssenkrupp, una ferita ancora aperta sull'asse
di corso Regina Margherita, è tutto da scrivere. Un primo bagliore
di luce si intravvede adesso, visto che nei prossimi giorni
partiranno le opere di bonifica di tutta l'area. Un cambio di passo
annunciato dall'assessore all'Urbanistica Paolo Mazzoleni, nel corso
di una commissione che si è svolta ieri a Palazzo Civico, dopo una
serie di ritardi e rinvii sul cronoprogramma dei lavori. Non sarà un
processo breve: gli interventi di messa in sicurezza operativa
avranno una durata di sei anni e dovrebbero concludersi nel 2030,
mentre il costo complessivo sarà di 4,5 milioni di euro, a carico
degli attuali proprietari di Arvedi Ast.
Parte dunque l'iter per preparare il futuro di questa porzione di
città dove 17 anni fa, nella notte del 6 dicembre del 2007, scoppiò
un incendio all'interno della fabbrica che provocò la morte di sette
operai. La bonifica sarebbe dovuta partire già nello scorso luglio,
ma la proprietà aveva chiesto - e ottenuto – dal Comune una proroga
di tre mesi. Oggi invece Arvedi Ast ha comunicato alla Città di aver
individuato un operatore e un direttore dei lavori. Il piano di
risanamento del terreno prevede un mosaico di attività che sono
mirate alla riduzione della presenza di cromo esavalente e del
rischio che possa fuoriuscire dal perimetro dell'ex sito
industriale. Un'altra parte di opere serviranno al controllo delle
emissioni di acqua contaminata, all'eliminazione degli idrocarburi e
all'impermeabilizzazione di una parte scoperta del vecchio
stabilimento, per prevenire il rilascio di sostanze inquinanti
all'interno della falda.
Questo per ciò che riguarda le operazioni di bonifica dell'area. Al
contempo, però, si lavora anche per disegnarne la futura vocazione.
Nello scorso mese di marzo, il consiglio comunale decise di
approvare una delibera con cui si stabiliva una variante al piano
regolatore, prevedendo una successiva destinazione d'uso dei terreni
a parco urbano, che possa collegarsi alla vicina area del parco
della Pellerina. Un documento contro cui i proprietari di Arvedi
hanno presentato ricorso al Tar, come ha spiegato l'assessore
Mazzoleni in commissione: «In merito al ricorso la Città si è
costituita in giudizio, riteniamo che la delibera approvata sia
assolutamente solida e difendibile, anche se la variante non è
ancora stata approvata».
Nei mesi scorsi il progetto del "verde su soletta" aveva attirato
però anche diverse critiche di alcuni comitati di cittadini, che al
contrario chiedevano una bonifica in profondità dell'ex sito
industriale. Al momento non ci sono invece conferme sul fatto che
Arvedi abbia trovato un nuovo acquirente per l'area. —
01.10.24
FUOCO SOTTO IL VESTITO CINESE :
La BYD ha
avviato una procedura di richiamo per 97.000 auto elettriche
prodotte tra il novembre del 2022 e il dicembre del 2023: il
problema, che potrebbe portare a un rischio di incendio, riguarda un
difetto di fabbricazione relativo alla centralina del servosterzo
delle Dolphin e
delle Yuan Plus. Stando ai dati della China Association of
Automobile Manufacturers, l’associazione dei costruttori cinesi, nel
2023 i due modelli sono state le vetture più vendute dalla Casa,
forti di 750 mila unità.
Interventi già in corso. La Casa cinese sta richiamando nelle
proprie officine tutte le vetture coinvolte per risolvere il
problema con l’installazione di una nuovo componente. Al momento non
è ancora chiaro se il problema riguarda anche gli esemplari
esportati all’estero, ed eventualmente in quale percentuale. Per la
BYD si tratta del secondo richiamo nel giro di due anni: nel 2022
una piccola quantità di Tang plug-in aveva segnalato un difetto
nella batteria di trazione.
NON COMPRERI MAI QUESTE AUTO :
SONO A BORDO QUINDI LI HAI GIÀ PAGATTI - La connessione a Internet
delle auto moderne (grazie a una scheda sim, come quella dei
telefonini) ha aumentato il numero di servizi disponibili, fornisce
informazioni in tempo reale (per esempio sul traffico) e permette di
aggiornare l’elettronica di bordo senza passare in officina. Bello?
Sì, ma non sempre: le case, infatti, possono “gestire” alcuni
accessori a distanza, attivandoli solo a pagamento. L’auto può avere
i fari a matrice di led (ad abbaglianti accesi riconoscono la
presenza di altri veicoli e creano un cono d’ombra per non
accecare), ma che lavorano come luci “normali” a meno di pagare un
abbonamento. Stesso discorso per le sospensioni a controllo
elettronico e per il cruise control adattativo: potresti avere già a
bordo tutti gli elementi (e quindi, in pratica, averli pagati), ma
col software bloccato dalla casa.
E IN CASO D'INCIDENTE TI COSTA DI PIÙ - Se poi fai un incidente,
potresti trovarti a pagare cifre altissime e ingiustificate: un faro
a matrice di led (anche se non attivato) è molto più caro di uno
“passivo”. E anche i sensori del cruise adattativo sono cari da
riparare… Le case offrono queste funzioni per un certo periodo o per
sempre. Qui trovate alcuni esempi, col prezzo indicativo. Infatti,
soltanto dopo aver inserito il numero di telaio della propria auto
(nell’app o nel negozio virtuale) si può sapere cosa si può avere e
cosa no, e quanto costa.
AUDI: POCHI, SOFISTICATI “OPTIONAL”
L’offerta si concentra su tecnologie raffinate e dall’hardware
costoso (come i fari “intelligenti” o il sistema di parcheggio
automatico).
Fa eccezione lo Smartphone Interface: Android Auto e Apple CarPlay
senza filo. Un mese, per la Q5, costa € 18; per sempre, € 470 (€ 20
e € 550 rispettivamente per le A6, A7 Sportback e Q7). In auto di
questo tipo, l’accessorio dovrebbe essere di serie.
L’assistente al parcheggio, che aiuta nella manovra azionando in
automatico lo sterzo, nel caso della eTron e Q8 eTron costa € 9,99
al mese e 500 per sempre.
I fari matrix led (che attivano la luce abbagliante senza accecare
chi si incrocia o si segue) per la suv Q8 e-tron costano € 70 per un
mese; sbloccarli per sempre, € 2.240.
BMW: NEL NEGOZIO ONLINE C’È DAVVERO DI TUTTO
Le funzioni sono solo per le vetture con connessione a internet
Connected Drive. Qui mostriamo i prezzi del negozio online, ma
bisogna verificare costi e disponibilità per la propria auto.
Active Cruise Control con funzione Stop&Go: regola in automatico la
velocità e la distanza dal veicolo che precede, costa € 899 (per
sempre).
Aggiornamento mappe: il rinnovo è annuale: € 89. Assistente
abbaglianti (attivazione automatica): un mese, € 9; un anno, € 99;
tre anni, € 149; per sempre, € 199.
BMW drive recorder: riconosce gli incidenti e salva automaticamente
le immagini precedenti al sinistro. Un mese, € 15; un anno, € 59;
tre anni, € 129; per sempre, € 299.
Driving assistant plus, la guida assistita di Livello 2 (mantiene in
automatico velocità, corsia e distanza dal veicolo che precede). Un
mese costa, € 49; un anno, € 429; tre anni, € 649; per sempre, €
929.
Real Time Traffic Information: informa in tempo reale sul traffico.
Un anno: € 69.
Traffic camera information: gli autovelox fissi e i rilevatori di
semaforo rosso vengono segnalati sul display centrale. Rinnovo
annuale a € 39.
Gli ammortizzatori a controllo elettronico potrebbero essere già in
auto, ma non è detto che funzionino. Per attivarli: € 29 per un
mese; € 209 per un anno; € 429 per sempre.
DS: L’APP PER ELETTRICHE? € 40 ALL’ANNO
Il Connect Plus è di serie per i primi tre anni e comprende, fra le
altre, tre funzioni per le elettriche e le plug-in che restano
sempre attive: programmazione della ricarica, controllo
dell’autonomia e attivazione del “clima” via app. Dopo i primi tre
anni, il resto diventa a pagamento.
L’Intelligenza artificiale ChatGPT costa € 1,5 al mese o € 15
all’anno;
Le informazioni in tempo reale su traffico, autovelox e parcheggi, €
9,9 al mese o € 109 all’anno;
L’app E-Routes per la pianificazione del viaggio con suggerimento
delle soste per la ricarica, € 4 al mese o € 40 all’anno.
FORD: NELLE ELETTRICHE È QUASI TUTTO COMPRESO
Disponibilità e prezzi per il proprio veicolo si ottengono solo dopo
aver inserito il numero di telaio nel negozio virtuale o nella app.
Connettività premium: musica online e comandi vocali Alexa. Per le
Mustang Mach-E prodotte dal 2021 e le Focus dal 2022, 90 giorni di
prova gratuita e poi 4,99 €/mese.
Ford Secure: in caso di furto dell’auto, questo servizio la
localizza (per le Mustang Mach-E prodotte dal 2021 e le Focus dal
2022); un anno di prova gratuita, poi 5,99 €/mese.
Navigazione connessa: informazioni su traffico, prezzi e
disponibilità di colonnine, distributori e parcheggi. Dopo un anno
di prova gratuita, € 5,99 al mese; di serie per le elettriche.
MERCEDES: PACCHETTI SU MISURA
Per semplificare la scelta, la casa di Stoccarda propone il Connect
Package: costa € 14,90 al mese (ma i primi 30 giorni sono gratuiti),
oppure € 149,00 all’anno. Include, fra l’altro, Internet radio,
notifica di furto, rilevamento dei danni da parcheggio, previsioni
del tempo e giochi, nonché l’attivazione del “clima” e l’apertura di
finestrini e tetto in vetro dall’app.
Dalla primavera, le A, B, GLA ed EQA sono proposte anche in versione
Digital Edition: una serie speciale che costa 1.464 euro in più
rispetto all’auto “base”e che comprende 41 funzioni normalmente
attivabili online (a pagamento), comprese quelle del Connect Package
indicate qui sopra. A queste si aggiungono accessori di valore, come
il pacchetto di assistenza alla guida (cruise control adattativo,
monitoraggio dell’angolo cieco e altri aiuti elettronici); il
collegamento senza filo ad Android Auto o Apple CarPlay; il sistema
di parcheggio assistito con telecamere a 360° (l’auto sterza in
automatico e può entrare e uscire dal parcheggio senza guidatore a
bordo); il pacchetto Guard 360° (localizzazione della vettura e
supporto in caso di furto dell’auto). Nelle Digital Edition è di
serie anche la verniciatura metallizzata.
VOLKSWAGEN: UNA SOLA "CADUTA DI STILE"
Le possibilità di scelta sono limitate, perché quasi tutto è di
serie: è una scelta della Volkswagen Italia per semplificare la vita
dei clienti. In Germania, infatti, nel negozio virtuale ci sono
molti più accessori a pagamento.
Da noi si pagano solo il navigatore (685 euro per Polo, T-Cross,
T-Roc, Taigo e 679 euro per Passat e Tiguan) e i controlli vocali (€
275 per tutte, per sempre).
E comunque, dal momento che Android Auto e Apple CarPlay sono di
serie ed entrambi sono dotati di navigazione e comandi vocali
intelligenti, si può fare a meno di quelli della Volkswagen.
Il tasto per scaldare i sedili, € 97
La Passat e la Tiguan si possono avere con il Travel Assist
(aggancia la corsia e il veicolo davanti e può fare il sorpasso in
automatico, € 395 euro per sempre) e i sedili riscaldabili, € 96,9
per sempre. Nel caso dei sedili, non si paga nemmeno un software, ma
solo il tasto (virtuale) per attivarli
DOPO ANNI HANNO CAPITO LA SPIA CINESE :
QUESTIONE DI SICUREZZA - Mentre la Cina chiede all’Italia di
adottare Huwaei come fornitore di servizi di telecomunicazioni in
cambio di un investimento per la fabbrica della Dongfeng (qui per
saperne di più), l’Europa potrebbe presto seguire l’esempio degli
Stati Uniti, che pochi giorni fa hanno annunciato l’intenzione di
mettere al bando i software cinesi e russi dalle auto destinate al
loro mercato (qui la news). Anche Bruxelles starebbe infatti
pensando a introdurre blocchi verso tecnologie provenienti da paesi
considerati “nemici”. Condividendo le preoccupazioni di Washington,
la danese Margrethe Vestager, che nella commissione europea è a capo
delle questioni legate alla digitalizzazione, ha annunciato che “è
legittimo esaminare se quel tipo di tecnologia possa essere o meno
utilizzata in modo improprio quando si tratta di questioni di
sicurezza”. Le auto connesse, ha detto Vestager, possono registrare
e comunicare dati sensibili: per questi alla UE “stanno esaminando
la questione, anche con i nostri esperti di sicurezza economica”.
NON TUTTI SONO D’ACCORDO - Nelle prossime settimane i funzionari
europei per la sicurezza informatica presenteranno una bozza con le
misure proposte sulla connettività dei veicoli, che potrebbe
trasformarsi in un documento non vincolante, cioè dipendente in
larga misura dalla volontà da parte dei singoli governi di
trasformarli in restrizioni effettive. Sulla questione c’è però
dibattito, perché le aziende europee hanno avvertito che le misure
adottate negli USA potrebbero avere effetti negativi al settore
automobilistico del Vecchio Continente, obbligando le case a trovare
nuovi fornitori. Inoltre i costruttori hanno paura di irritare
Pechino, in particolare i marchi tedeschi che sul mercato cinese
fondano una buona parte dei loro ricavi.
PROTEZIONE DEI DATI - Intanto un’altra norma europea sulla sicurezza
informativa ha già avuto un impatto in Europa: infatti a luglio è
entrata in vigore una normativa secondo la quale i produttori
europei devono implementare un sistema di gestione della sicurezza
informativa per proteggere i dati degli utenti. Secondo l’analista
automobilistico Matthias Schmidt, subito si sono viste le
conseguenze del provvedimento, che ha intaccato presto le vendite di
auto cinesi: per esempio, afferma Schmidt, la MG (di proprietà della
cinese SAIC) a luglio non ha immatricolato alcun veicolo. La stessa
norma ha avuto ripercussioni anche sui costruttori europei: il
ritiro dal mercato della Porsche Macan con il motore a combustione
sarebbe legato proprio all’impossibilità di soddisfare i nuovi
requisiti.
Scuola
a pezzi Elisa Forte
Sessantanove crolli in 12 mesi: nelle scuole italiane questo numero
non era stato mai raggiunto negli ultimi 7 anni. Il record di crolli
(quasi 6 al mese) è un dato dello scorso anno scolastico. Oltre ai
danni e all'interruzione delle lezioni, sono rimasti feriti (per
fortuna senza gravi conseguenze) 9 studenti, 3 docenti, 2
collaboratori scolastici, un'educatrice e 4 operai. A dare ascolto
al racconto dei numeri, nella scuola le cose da migliorare paiono
davvero essere molte di più rispetto a quelle che funzionano.
L'ultimo dettagliato Rapporto ImparareSicuri di Cittadinanzattiva
non ha solo messo a nudo le crepe dell'edilizia scolastica. Dati,
raffronti, grafici e schede compongono una mappa del cattivo stato
di salute degli istituti. La diagnostica degli edifici scolastici,
in Italia sono 40.133, restituisce un quadro sconcertante se si
analizzano l'agibilità (il 59,16% non ha il certificato),
l'antincendio (la prevenzione è carente nel 57,68% degli istituti) e
il collaudo statico (manca nel 41,5% dei casi). E sono ancora troppo
poche (solo l'11,4%) le scuole progettate secondo le norme
antisismiche.
Poi, «se c'è di mezzo l'edilizia di scorporo, la situazione
peggiora. Se gli edifici sono stati costruiti con materiali
scadenti, non solo la manutenzione diventa costosa, ma, a volte,
cercare le cause di alcuni problemi comporta tempi lunghi», spiega
il preside Giovanni Cogliandro. Basta vedere quel che è successo
all'Istituto che dirige, il Comprensivo Mozart di Roma, in Viale
Castelporziano, poco distante dalla tenuta del Presidente della
Repubblica. In alcune classi pioveva. «Per risalire alle origini
delle infiltrazioni – racconta Cogliandro – il Comune, finora sempre
pronto a intervenire, ha dovuto fare decine di interventi. Alla fine
è stato scoperto che la guaina dell'intera scuola era stata montata
al contrario». «Colpa dell'edilizia di scorporo – precisa –. Se i
controlli latitano si costruisce al risparmio e i guai sono nostri.
Così noi presidi per proteggerci da eventuali danni intasiamo le pec
delle istituzioni con continue segnalazioni. Siamo costretti a
comportarci come si fa nella medicina difensiva».
C'è ancora tanto da fare anche per abbattere le barriere
architettoniche. «In questo nuovo anno scolastico sono 331.124 gli
alunni con disabilità (4,68% dei 7.073.587 del totale studenti), in
aumento rispetto al precedente in cui erano 311.201. Solo il 40%
delle scuole risulta accessibile per chi ha disabilità motorie.
Situazione ancora più grave per gli alunni con disabilità
sensoriali: le segnalazioni visive ci sono nel 17% delle scuole
mentre i percorsi tattili sono presenti solo nell'1,2%», commenta
Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.
I crolli record dell'ultimo anno sono stati 28 al Nord, 13 al Centro
e 28 al Sud. A La Spezia nella scuola media Fontana è rimasta ferita
una tredicenne per il crollo di intonaco nel bagno. Si stava lavando
le mani, quando un metro quadro di materiale si è staccato: ha
riportato escoriazioni alla fronte e al braccio. Un mese prima,
tragedia sfiorata a Chiavari: si è aperta una voragine di 12 metri
quadrati nel corridoio della scuola Della Torre. Fortunatamente
nessuno si è fatto male. Mancavano pochi giorni alla chiusura
dell'anno scolastico, era il 3 giugno scorso e a Venezia è crollato
il controsoffitto affrescato del '700 in un'aula del liceo Benedetto
Tommaseo. E un violento temporale ha fatto cedere il controsoffitto
alla Media di Cerro del Lambro in Lombardia.
A volte, fuori dalla scuola, se la manutenzione del verde non è una
priorità, si rischia di finire sotto un albero. A Rivalta, in
Piemonte, è venuto giù un cedro. Un grosso albero di pino si è
piegato davanti all'ingresso di una scuola ad Anzio. Mentre un altro
pino in Sardegna ha oltrepassato la recinzione della scuola e ha
abbattuto un palo dell'Enel. A Roma, il preside Cogliandro gioisce
perché «finalmente ha le facciate con l'intonaco nuovo» ma lotta
contro i parassiti degli eucalipti nel cortile. E nel Viale della
scuola stanno tramontando anche i pini marittimi, lascito dei
Savoia. «Sono altissimi e a volte cascano». La cura verde, dentro e
fuori la scuola, resta una chimera. «I bambini stanno perdendo ore
di studio, fanno dalle 8.30 alle 12.30, vanno a mensa e due ore dopo
escono. Da quasi un mese viene negato un diritto inalienabile».
Francesca Rizzi è la responsabile del comitato genitori della scuola
primaria Gino Capponi di Milano. Suo figlio frequenta la quinta
elementare in via Pestalozzi 13 e ancora non potrà fare lezione fino
alle 16.30.
La prima campanella è suonata da quasi quattro settimane ma il tempo
pieno stenta a partire in diverse scuole primarie milanesi, per il
ritardo con cui si stanno assegnando le cattedre. I genitori si sono
organizzati per pagare educatori che tengono i bambini a scuola fino
alle 16.30. Le 24 classi usciranno tutte alle 14.30 anche per questa
settimana» denuncia Francesca Rizzi. Le famiglie stanno pagando 50
euro a settimana per avere il servizio integrativo di WeMove, in
attesa del tempo pieno che non partirà almeno fino al 4 ottobre.
Alla Leonardo da Vinci fino a pochi giorni fa mancavano 5 cattedre.
«Per 13 giorni siamo dovuti ricorrere alla Cooperativa Bracco»
racconta Daniela Faggion, presidente dell'Associazione Amici della
Leonardo. Su 650 alunni, 300 famiglie hanno pagato 2,50 euro al
giorno. Non tutti hanno potuto aderire a causa della mancanza di
spazi. Sette aule sono inagibili per lavori che non riescono a
partire ma che hanno ridotto gli spazi.
«Abbiamo già iniziato le chiamate, due docenti arriveranno lunedì -
spiega il preside Antonio Re -. I tempi sono lunghi, quasi un mese,
tra il primo e il secondo turno di chiamata. In questo tempo non
abbiamo più potuto chiamare perché spettava all'Ufficio scolastico».
Alla base delle assegnazioni ci sono i bollettini pubblicati dagli
uffici scolastici regionali, il primo a fine agosto, il secondo a
fine settembre. «Con il secondo bollettino, i posti non coperti sono
stati restituiti alle scuole che ora devono fare la ricerca del
candidato - spiega Massimiliano Sambruna, segretario Cisl Scuola
Milano Lombardia -. Non è funzionale non lasciare l'autonomia alle
scuole di poter usare le proprie graduatorie di istituto dopo il
primo bollettino. La singola scuola così si prenderebbe in carico la
rinuncia e nominerebbe dalle proprie graduatorie di istituto». Il
secondo bollettino è stato pubblicato il 26 settembre e le nomine
dovrebbero arrivare questa settimana. A Milano, con 325 istituzioni
scolastiche, di cui 180 istituti comprensivi per il 95% a tempo
pieno, c'è anche un tasso di rinuncia della nomina del 40%.
«Basterebbe dire nell'ordinanza ministeriale che dopo il primo
bollettino spetta alle scuole e già si ridurrebbero i tempi»
conclude il segretario.
Nel giacimento di Bayan Obo, vicino alla Mongolia, si sviluppano
oltre 15 materie prime critiche per superconduttori, laser, magneti
e fibre ottiche
Alla Cina lo scettro delle terre rare Ha la metà della produzione
mondiale Lorenzo Lamperti
«Il Medio Oriente ha il petrolio, noi abbiamo le terre rare». È il
1987, Deng Xiaoping è in viaggio nella Mongolia interna, estremo
nord della Cina. Il piccolo timoniere visita Bayan Obo,
letteralmente «città del cervo». Già allora, quei terreni erano
dominio esclusivo di minerali critici oggi alla base dello sviluppo
di dispositivi tecnologici utili alla transizione energetica. Deng
intuisce che coltivare quelle terre rare, in un'era in cui la Cina
«nasconde la sua forza», può garantire un vantaggio strategico.
Oggi, Bayan Obo ospita il più grande giacimento di terre rare del
mondo ed è responsabile di circa il 50% della produzione globale.
Numeri mostruosi. Neodimio, lantanio, terbio e altri 14 elementi
diventati cruciali per la realizzazione di superconduttori, magneti,
laser, fibre ottiche. E soprattutto di veicoli elettrici, pilastro
delle «nuove forze produttive», il mantra dello sviluppo voluto da
Xi Jinping. D'altronde, attualmente Pechino produce circa il 60% dei
metalli delle terre rare del mondo e circa il 90% delle terre rare
raffinate presenti sul mercato. Un tempo non era così. Tra il 1965 e
il 1995, era la californiana Mountain Pass ad avere la leadership,
prima che la concorrenza dei fornitori cinesi coi loro prezzi al
ribasso la costringesse persino a chiudere per qualche anno.
La Cina non è l'unico Paese a possedere terre rare, visto che ne
ospita il 36% dei depositi, ma ha saputo costruire un sistema
integrato di estrazione e raffinazione senza eguali, dotato di
processi ormai completamente automatizzati. Il tutto chiudendo un
occhio sugli effetti collaterali del boom industriale. La
lavorazione delle centinaia e centinaia di fabbriche nei pressi dei
giacimenti sono molto inquinanti. Solo a Bayan Obo, ogni anno
vengono scaricati rifiuti da circa 7 milioni di tonnellate di
minerali. Costo del lavoro basso e normative ambientali meno severe
rendono sì la Cina uno dei principali inquinatori al mondo, ma anche
il grande burattinaio dei materiali utili alla transizione
energetica.
Secondo l'ultimo report di Global Energy Motor, tra marzo 2023 e
marzo 2024 la Cina ha installato più energia solare di quanta ne
abbia installata nei tre anni precedenti messi insieme, e più di
quanta ne abbia installata il resto del mondo messo insieme per il
2023. Pechino ha 339 gigawatt di energia solare ed eolica in
costruzione. Per avere un paragone, negli Stati Uniti i gigawatt in
costruzione sono 40. Tra l'altro, i dati si riferiscono soli ai
parchi solari con una capacità di almeno 20 megawatt, vale a dire
solo il 40% della capacità solare cinese.
Il dominio cinese si basa anche sul controllo degli snodi estrattivi
all'estero. Per esempio in Indonesia, che rappresenta oltre il 25%
della produzione mondiale di nichel, elemento cruciale delle
batterie agli ioni di litio che alimentano i veicoli elettrici e
immagazzinano le energie rinnovabili. Nel giro di un decennio, la
Cina ha investito nel Paese del Sud-Est asiatico circa 14,2 miliardi
di dollari, di cui 3,2 miliardi solo nel 2022. Nelle isole
indonesiane di Sulawesi e Halmahera, le aziende di Pechino hanno
costruito raffinerie, fonderie, una nuova scuola di metallurgia e un
museo del nichel. Controllando la catena di approvvigionamento del
nichel, la Cina è riuscita a ridurre i costi di produzione delle
batterie e ad aumentare la propria competitività sul mercato globale
dei veicoli elettrici. Nella Repubblica Democratica del Congo, le
aziende cinesi controllano l'80% della produzione di cobalto, poi
raffinato in patria e venduto ai produttori di batterie di tutto il
mondo. Negli ultimi anni, Pechino è entrata con decisione anche in
Sudamerica. Soprattutto in Bolivia, dove ha firmato accordi da quasi
2 miliardi per l'estrazione di litio.
L'Occidente ha scoperto, forse troppo tardi, che l'eccessiva
dipendenza da terre rare e minerali critici cinesi può portare a
seri rischi. Nonostante le indagini antidumping e l'innalzamento
delle tariffe, a oggi il 95% dei pannelli solari è di produzione
cinese. Il copione rischia di ripetersi, su percentuali inferiori,
coi veicoli elettrici. La Cina ha peraltro mostrato di essere
disposta a utilizzare le terre rare in guerre commerciali o
diplomatiche. Per esempio nel 2010, quando a causa delle tensioni
sulle isole contese Senkaku/Diaoyu, Pechino ha stoppato tutte le
esportazioni verso il Giappone. Nel settembre 2023 sono entrate in
vigore delle restrizioni all'export di gallio e germanio, due
metalli fondamentali per la produzione di microchip avanzati su cui
Pechino è arrivata a contare rispettivamente il 94 e il 75% della
produzione mondiale. Il prossimo 1° ottobre, invece, entrano in
vigore nuove norme che affermano che le terre rare appartengono allo
Stato. Scopo: proteggere le forniture in nome della sicurezza
nazionale, controllando in modo sempre più diretto il flusso verso
l'esterno. Bloccare alcuni di questi elementi potrebbe rappresentare
un'arma quasi definitiva sull'industria tecnologica verde.
Basti pensare ai magneti permanenti, fondamentali sia per la
mobilità elettrica sia per i sistemi di armamento come i jet da
combattimento: il 94% di quelli che arrivano in Unione Europea
provengono dalla Cina. L'Occidente sta provando a reagire
diversificando le catene di approvvigionamento e stimolando maxi
investimenti di estrazione tra Stati Uniti (dove Mountain Pass è
tornata a fornire il 14% della produzione mineraria globale di terre
rare) e Australia (6%). Anche l'Europa si muove, soprattutto al Nord
con progetti in Svezia ed Estonia. Ma per svincolarsi davvero dalla
dipendenza nei confronti della Cina potrebbe essere tardi.
A mancare sono i fondi per gli alberi
Il monito del Wwf sugli investimenti green "Ora l'Italia aumenti le
risorse del Pnrr"
Investire un miliardo di euro da dedicare al verde urbano ed
extra-urbano, triplicando gli investimenti previsti dal Piano
nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). È questa la richiesta che
il Wwf (World wide fund for nature) lancia in occasione di Urban
Nature. Aumentare la quantità di verde urbano e mantenerlo in
salute, è considerato fondamentale per la sicurezza la salute dei
cittadini. «Finora non è stato fatto abbastanza», ha spiegato
Alessandra Prampolini, direttrice generale di Wwf Italia. Con la
Nature Restoration Law, ha aggiunto, «gli Stati europei hanno
concordato di piantare fino a 3 miliardi di alberi entro il 2030, ma
ad oggi, in Italia, la cifra stanziata nel Pnrr (330 milioni di
euro) consentirà di intervenire solo su alcune città piantando 6,6
milioni di alberi, cifra lontana dall'obiettivo nazionale.
Pianificare investimenti in questa attività non è quindi più
rimandabile e la legge di Bilancio è il momento giusto per farlo».
Oggi e non domani.
Il Wwf spiega perché si tratta di un investimento. I finanziamenti
che lo Stato potrebbe integrare a quelli a oggi previsti da Pnrr
italiano possono essere prelevati dai 22,4 miliardi di euro di
Sussidi Ambientalmente Dannosi. Ovvero, da quei soldi pubblici che,
secondo le stime del Ministero dell'Ambiente, lo Stato utilizza in
attività economiche che hanno un impatto negativo sull'ambiente e
sulla salute.
Sardegna
Mario Tozzi controvento
C'è una straordinaria terra nel mezzo del mare Mediterraneo che
potrebbe essere la prima grande isola e la prima regione del mondo
ad abbandonare i combustibili fossili e a essere totalmente neutra
rispetto alle emissioni clima alteranti, la prima carbon-free, la
più bella. E la prima regione a non dipendere più da altro che non
da sé stessa. Un obiettivo che si potrebbe raggiungere coinvolgendo
profondamente i territori, generando informazioni corrette: tanto
per cominciare non guardando più al gas per paura dell'abbandono del
carbone, perché qui ci sono potenziali di vento e sole non
paragonabili ad altre regioni. E perché qui, a differenza del resto,
il gas non è mai arrivato e il nucleare non lo vuole nessuno. Un
obiettivo ambizioso, che comunque non si avvera, anzi, sembra
allontanarsi. Perché?
Eppure non dovrebbe essere così difficile scegliere: da un lato uno
scenario "fossile" con l'isola che lascia tutto così com'è, con la
produzione di energia elettrica da centrali a carbone (le peggiori
possibili) oppure a gas, con costi, a lungo termine, destinati
inevitabilmente ad aumentare. Con i trasporti che continuerebbero ad
essere inquinanti, le ferrovie che rimarrebbero quelle che sono e le
industrie, sostenute dai soldi pubblici, ancora più inquinanti. Con
le emissioni di gas serra che aumenterebbero e la qualità dell'aria
nei centri urbani o nelle aree industriali che non migliorerebbe.
In più, in Sardegna, sarebbe inevitabile la realizzazione di un
gasdotto (la "Dorsale", perché l'isola oggi non ha distribuzione di
gas) che costituirebbe una enorme spesa a carico dei contribuenti
(con le comunità locali che dovrebbero poi anche farsi carico, a
proprie spese, delle derivazioni necessarie per condurre il gas nei
propri paesi) e non porterebbe benefici ai cittadini sardi,
costringendoli a restare ancorati ai combustibili fossili per molti
decenni, e comportando la costruzione di rigassificatori costieri,
invece di poter scegliere da subito le fonti rinnovabili e
l'efficienza.
Nell'altro scenario ("rinnovabile"), si può immaginare che nel 2040
l'isola sarà alimentata solo da fonti rinnovabili, in cui
domineranno principalmente il fotovoltaico e l'eolico (soprattutto
off-shore, grazie all'elevato potenziale ventoso). Gli impianti
eolici off-shore galleggianti, oggi scagionati dall'essere killer di
uccelli (la caccia ne uccide molti di più), verranno situati a 25 km
dalla costa, evitando ogni tipo di impatto paesaggistico, e
obbligando alla istituzione di aree marine protette che
ripopoleranno il mare. Gli impianti idroelettrici verranno rinnovati
e si produrrà anche una piccola quota di energia elettrica da onde e
correnti marine. Le biomasse locali di filiera molto corta
giocheranno un ruolo importante nei sistemi di riscaldamento dei
piccoli centri. Entrerà in funzione una rete elettrica intelligente
e sostenuta da sistemi di accumulo diversificati. Si diffonderanno
sistemi di riscaldamento a pompa di calore, ma anche sistemi solari
termici integrati con caldaie ad alta efficienza, e la cottura dei
cibi avverrà con cucine a induzione. Si vedrà un massiccio
incremento di mezzi di trasporto collettivo elettrici e le industrie
energivore resteranno attive solo se compatibili con un modello
economico circolare, quale la produzione di alluminio da riciclo e
non dalla bauxite.
Questo scenario green comporterà benefici tangibili per la salute e
l'ambiente con una drastica riduzione dei gas serra. Con una
"Sardegna rinnovabile" si avranno molti più posti di lavoro rispetto
ai livelli di occupazione dell'obsoleto sistema fossile riducendo lo
spopolamento delle aree interne.
Verrebbe spontaneo scegliere il secondo scenario: il passaggio
diretto dall'energia da fonte fossile a quella da rinnovabile è
sempre la scelta migliore. Ma la transizione energetica nell'isola è
più complicata e conflittuale del previsto. Inoltre, in Sardegna,
forse più che altrove, c'è il timore che si faccia scempio di
paesaggio, tradizioni e identità attraverso un numero improponibile
di installazioni di pannelli e pale che sono già state avanzate.
Però non si può non denunciare chi, per interessi economici legati
all'energia fossile, sta cavalcando la protesta contro le
rinnovabili (diffondendo anche notizie false), confondendo richieste
con progetti operativi e puntando su un modello energetico in
continuità con quello attuale, dal carbone al metano, che non
risolve una situazione grave che vede oggi l'energia prodotta in
Sardegna provenire per il 75% da fonti fossili (con molto carbone).
L'isola ha uno dei mix energetici più sporchi d'Italia: le
rinnovabili sommate non vanno oltre il 25%, ma è anche
un'esportatrice netta di elettricità, con trasferimenti verso
penisola e Corsica che, sommati alle perdite, valgono il 40% del
totale prodotto. D'altro canto, la Sardegna oggi è la quinta regione
italiana per potenza eolica installata (1.186 MW, 2023) e al settimo
posto per kW eolico per kmq (49 kW/kmq, la media italiana è 41). Ha
618 impianti, ma poco più di una trentina sono quelli di grande
taglia, sopra al MW. Per dire che, finora, l'eolico non ha affatto
"infestato" la regione.
Non si può non dare ragione alla presidente Alessandra Todde, quando
dice che sulle energie rinnovabili bisogna andare avanti
salvaguardando il territorio. Questo vuol dire pianificare e quindi
individuare obiettivi e percorsi per raggiungerli, a partire dalla
identificazione delle aree idonee e da una diversa inclusione delle
voci del territorio. E vuol dire farlo subito, non in un anno e
mezzo. Ma il processo di decarbonizzazione non può essere più
rinviato, così come la pianificazione, non dimenticando che le
energie rinnovabili rimangono la prima e migliore risposta, perché
il cambiamento climatico è una priorità assoluta e, alla fine,
incide negativamente anche su biodiversità e paesaggio. Proprio al
fine di sostenere le energie rinnovabili, non va lasciato spazio a
processi speculativi che, in assenza di una pianificazione pubblica,
possono portare a localizzazioni sbagliate e ad un eccesso di
richieste: in Sardegna proprio questo eccesso, nonostante sia
evidente che la gran parte delle richieste avanzate non si
concretizzerà, ha finito per avvelenare il dibattito. Se tutte le
richieste infatti si trasformassero in impianti, si supererebbe di
undici volte il consumo elettrico isolano, calcolato sui consumi
attuali, e quindi al netto di future opere di elettrificazione. Uno
scenario difficilmente sostenibile.
C'è un'isola del Mediterraneo che si trova di fronte a un bivio:
fossili o rinnovabili? La sfida è frenare la speculazione senza
ritardare la transizione, ma deve essere chiaro che vanno comunque
abbandonati per sempre e il prima possibile i combustibili fossili.
30.09.24
Carabiniera suicida indagine archiviata Ma la famiglia presenta
reclamo «Non sono ravvisabili gli estremi di condotte penalmente
rilevanti che abbiano potuto determinare o rafforzare la
realizzazione del proposito suicidario». La gip del tribunale di
Firenze ha così archiviato l'inchiesta sul suicidio della
carabiniera di 25 anni avvenuto il 22 aprile nella Scuola dell'Arma
del capoluogo toscano che frequentava. La giudice ha accolto la
richiesta del pm che aveva aperto un fascicolo senza ipotesi di
reato. Ma nulla è ancora definito. «L'inchiesta è stata archiviata a
nostra insaputa - afferma l'avvocato dei parenti della 25enne,
Riziero Angeletti -. Non sono stato informato e non ho potuto
oppormi all'archiviazione». La difesa ha fatto reclamo. «Il pm ha
ritenuto di non avvisarmi. A suo parere, non avevo depositato la
memoria nel sistema. Ma poi ha usato anche gli argomenti nella mia
memoria per motivare la sua richiesta». E ora? «Il tribunale dovrà
deliberare sulla correttezza del comportamento del pm». —
Patti Smith a pranzo
La regina della cucina di Langa "Sono rinata con tajarin e
pallapugno Il mio segreto? Non cambiare mai"
I consigli della madre
Il taylorismo della raviola
Gemma Boeri
La beffa del Barolo Il miracolo si ripete tutti i giovedì mattina. Sbucano come
fantasmi in cima alla strada del paese. Avvolte in pesanti cappotti
e nella nebbia di Langa. Arrivano alla spicciolata, ognuna immersa
nei suoi pensieri. La magia è che nessuno le ha chiamate, nessuno le
chiama mai. Semplicemente ci sono. Si materializzano come
sacerdotesse di un rito antico e, soprattutto, immutabile. Gemma le
chiama «le mie ragazze».
Non si chiede l'età a una signora: «Te la dico io, così facciamo più
in fretta: 76 anni. Da 38 sono qui a fare a mano agnolotti e
tagliatelle. È il mestiere che mi piace di più». Il laboratorio
della sua osteria è in fondo alla sala. I clienti più curiosi
possono vedere dietro il vetro una piccola comunità al lavoro.
«Facciamo agnolotti e tajarin per tutta la settimana». Quanti? I
tajarin, le tagliatelle fini tipiche della cucina piemontese, non si
misurano a peso: «Noi le calcoliamo a uova. Le facciamo al mercoledì
e al giovedì pomeriggio: 360 uova e una sfoglia di pasta lunga dieci
metri tirata con il mattarello da mia nuora». Per gli agnolotti il
calcolo è diverso: «Lo ha fatto un nostro amico in base al peso:
ogni settimana, al giovedì mattina, produciamo a mano 11.000
agnolotti del plin». Ecco il senso del miracolo: una quindicina di
persone che in quattro ore, dalle otto a mezzogiorno, producono
11.000 agnolotti, tre al minuto per ciascuno. Il taylorismo
applicato alla cucina. «Ma è tutto fatto rigorosamente a mano, è
questa la differenza». Soprattutto per i tajarin: «Lì capisci tutto.
Mia nuora non è una macchina. Quando tira la sfoglia fa una gran
fatica ma non ha rulli, ha la forza fisica. E la pasta mantiene la
sua struttura, non si deforma. Ha un'altra consistenza e si impregna
di ragout in modo diverso».
Da ragazza Gemma Boeri voleva fare la sarta. Taglio e cucito, altro
che agnolotti: «Quello della sartoria è il mestiere che mi aveva
indicato mia mamma. Era una donna pratica e saggia. Diceva: "Gemma
devi lavorare, guadagnare dei soldi tuoi. Così quando sarai sposata
e vorrai comperarti un paio di calze non dovrai andare a fare
l'elemosina da tuo marito"». Ma per lavorare bisogna studiare. E per
studiare bisogna pagarsi i corsi: «Per questo sono andata a fare la
cameriera al ristorante che c'era qui sotto, il ristorante Gallo,
quello storico di Roddino». Una folgorazione? «Quasi. Ho scoperto
che il mestiere di cucinare era bellissimo. Ma intanto avevo
terminato il corso di sarta e sono andata a Torino, dove lavorava
mio marito, a tagliare e cucire. Ho messo su un negozio in borgo San
Paolo». Quella della città non è stata una bella esperienza: «Nel
frattempo era nato mio figlio. La Torino degli Anni Sessanta era
piena di smog. Dovevo mettere i teli quando stendevo le lenzuola dal
balcone per evitare che diventassero subito nere. Mio figlio aveva
la bronchite, non era una situazione accettabile. Così ho scelto di
tornare qui, tra le mie colline di Langa». Scelta controcorrente
negli anni del boom economico quando erano le povere campagne del
Cuneese a trasferirsi a Torino in cerca del lavoro sicuro
dell'industria. «Certo, controcorrente. Ma inevitabile. C'era di
mezzo la salute di mio figlio. Ho detto a mio marito: "Io torno a
Roddino". Lui all'inizio si è portato il lavoro qui, poi ha
cominciato a fare il pendolare».
Gemma torna al paese e cerca lavoro. All'inizio se la cava con
qualche riparazione di cucito «poi l'occasione della vita. Il
circolo Endas del paese cercava una cuoca che gestisse il
ristorante. Lì è cambiato tutto». Grazie alla pallapugno. Lo sport
nazionale della Langa, quello che si chiama anche pallone elastico e
che ha avuto i suoi campioni in Felice Bertola, da Grottasecca,
sulla montagna che si arrampica verso il confine ligure, e Massimo
Berruti, da Rocchetta Palafea, nel Monferrato. Sport che oggi si
pratica negli sferisteri: «Ma qui non c'era l'impianto. Negli Anni
Sessanta e Settanta si giocava nella cuntrà, nella strada del paese.
Veniva la gente a vedere le partite, a fare il tifo e poi arrivavano
all'osteria dell'Endas a mangiare le raviole», il nome langarolo
degli agnolotti. Meglio, degli agnolotti del plin, quelli più
piccoli «quelli che oggi molti preferiscono perché più croccanti.
Arrivavano a tutte le ore, anche alle due di notte: "Dai Gemma facci
un piatto di raviole". Poi stavano lì a raccontarsela, a bere una
bottiglia di vino fino alle quattro del mattino. Io mi sveglio
presto. Dormivo poche ore ma ne valeva la pena».
Perché in fondo le tagliatelle, gli agnolotti, il buon vino, sono
tutte scuse per la principale attività di questi paesi:
raccontarsela, come si dice da queste parti. Anche oggi, al giovedì
mattina, intorno ai grandi tavoli dove nascono gli agnolotti. Tra un
foglio di pasta, uno spruzzo di farina e una ciotola di ripieno
(«rigorosamente carne di vitello dei macellai del paese»), Alfio
racconta per l'ennesima volta l'incredibile cantonata del sindaco di
Sinio. Una di quelle storie che si raccontano ai bambini per
insegnare che prima di prendere una decisione è importante pensarci
bene. Alfio ricorda che «negli Anni Sessanta si stava creando il
consorzio dei Comuni del Barolo. Serralunga, che aveva allora poche
vigne e molti boschi, era entrata. Sinio, al confine, non voleva
entrare: "Non mi mischio con quelli di Serralunga", disse il sindaco
di allora e sdegnosamente rifiutò. Oggi una giornata di terra nei
paesi del Barolo vale 1,2 milioni di euro. Fuori da quel confine il
prezzo è di 25.000. Per molti anni quel sindaco è stata l'
imprecazione di tutto il paese».
Pur senza la ricchezza dei Comuni del Barolo, Roddino, 400 anime su
un cocuzzolo a 600 metri di altezza, sta conoscendo una vera e
propria rinascita. Anche grazie ai due figli di Gemma: Marco, oggi
sindaco, e Daniele che governa la complessa logistica dell'osteria:
«Abbiamo prenotazioni fin oltre Natale. A novembre faremo il
click-day per le domeniche di inizio 2025. In genere nei primi due
minuti arrivano 200-300 prenotazioni. L'unica possibilità, in
alternativa, è cercare di prenotare in settimana». Inconvenienti di
una fama ormai consolidata. Gemma non si monta la testa: «Io vivo
qui, faccio la vita che ho sempre fatto. Spesso arrivano personaggi
famosi che io non riconosco. Me lo dicono i miei figli o gli altri
clienti: "Hai visto chi è seduto a quel tavolo?". Così un giorno è
arrivata una signora già avanti negli anni. Con i capelli tutti
bianchi e lunghi. Vedevo che molti la fotografavano. Quando sono
andati via ho chiesto: "Ma chi è quella signora anziana? Era Patti
Smith"». Altre volte arrivano annunciati ed è più semplice. Alle
pareti ci sono le fotografie con Gino Paoli, Gerard Depardieu,
l'inossidabile maestro Vessicchio, Michael Hucknall, frontman dei
Simply Red. C'è anche Lady D, circondata da cuoca e personale
dell'osteria. Quando è venuta Diana? L'officina degli agnolotti è
attraversata da un mormorio allegro. Una signora solleva dal tavolo
due occhi che sorridono: «Lady D sono io. Diversi anni fa. Mi ero
fatta la stessa pettinatura. Con la somiglianza ci giocavo un po'"».
Grandi risate.
Gemma, perché vengono qui da tutti i continenti? Qual è il tuo
segreto? «Il mio segreto è non cambiare mai. In un mondo in cui
tutto è instabile, dove quel che è vero oggi diventa falso domani,
se resti uguale a te stesso vinci». Dunque un pubblico anziano?
«Niente affatto. Vengono tanti giovani. Magari gli altri giorni
della settimana mangiano al Mc Donald ma vengono qui per assaporare
il gusto della cucina della nonna». Non cambiare mai, la sintesi di
una vita. In fondo Gemma ci ha provato: è andata ad abitare in
città, ha tentato di trovare un nuovo mestiere. Ma alla fine un
elastico invisibile l'ha riportata qui, sul cocuzzolo. Non sei
stanca di proporre tutti i giorni lo stesso menù? «Ho provato a
cambiare sai? Ma mi sgridano. Ho provato a sostituire l'insalata
russa con l'insalata di pollo. I clienti protestano: ma come, sono
venuto fin qui per l'insalata russa».
Alla mezza il miracolo è finito. «Le ragazze» e i loro mariti hanno
stivato nel freezer una ventina di sacchi di agnolotti. È l'ora del
pranzo (come è tradizione nei paesi piemontesi) e la discussione
prosegue davanti ai mitici piatti di Gemma. La tavolata riceve con
quel pasto la paga di una mattinata di lavoro. Un baratto
prelibatissimo che si ripete ogni settimana. Racconta Gemma: «Era
cominciato tanti anni fa, quando mia mamma stava male. Avevo
lasciato l'osteria dell'Endas per mettermi qui in proprio. Ma dopo
la morte della mamma come facevo da sola? Allora amici e parenti
hanno cominciato a venire a dare una mano. E continuano ancora
oggi». Lo racconta Clelia, una vita a lavorare tra i bambini
dell'ospedale Regina Margherita di Torino: «Per molti di noi venire
qui è soprattutto un modo di stare insieme. Nelle campagne è sempre
stato così. Era un'altra vita, anche a tavola. Qui nessuno ha mai
saputo che cosa fosse l'impiattamento. E nei lavori della campagna
le famiglie si sono sempre aiutate. La difficoltà di uno può essere
la difficoltà di tutti». Arriva una coppia di turisti brasiliani.
«Non avete la prenotazione, siamo pieni mi dispiace», dice il
figlio. «Ma ci chiamiamo Boeri come la signora. E siamo venuti fin
qui per mangiare i tajarin e la carne cruda». Gemma, intenerita
trova un posto. Poi si gira e sussurra: «Visto? Perché dovrei
cambiare il menù?». —
Dopo la P38, ecco una semiautomatica 7.65 nascosta nella cantina del
capo 'ndrangheta D'Onofrio. Dei sei arrestati, cinque restano in
carcere
Nella casa del boss trovata un'altra pistola Confronto con le armi
dei delitti di mafia
giuseppe legato
Il 28 febbraio 2024, in via Bellini 12 a Moncalieri, nella casa del
signor Franco D'Onofrio, considerato dagli investigatori "un
dirigente della ‘ndrangheta in Piemonte", è in corso una
conversazione di interesse investigativo con l'ex rapinatore Claudio
Russo. Alle 15.28 la microspia ambientale registra Russo che fa le
lodi di qualcosa che D'Onofrio in mano: «È l'ultimo modello ed è
bella Franco» dice. Il rimando è ovviamente a una pistola che
D'Onofrio detiene nascosta in una zona di pertinenza del condominio.
"Compare Franco" la deve spostare perché – dice lui stesso – vicino
al luogo in cui la nascondeva «ho visto l'altro giorno che c'erano
degli operai». Il conciliabolo va avanti a lungo al fine di trovare
il miglior nascondiglio. Ma il bunker eretto dai due per nascondere
la semiautomatica 7.65 cade dopo due giorni di perquisizione no stop
da parte dei finanzieri del Gico (gruppo speciale del Nucleo di
Polizia economica della Finanza). È la seconda arma trovata nella
disponibilità di D'Onofrio, 64 anni, ex Colp (Comunisti organizzati
in lotta per il proletariato) transitato in una sliding doors
criminale nella mafia calabrese di cui negli ultimi 15 anni avrebbe
scalato a piè pari le gerarchie. E che fosse nel palazzo di via
Bellini gli investigatori lo avevano capito 48 ore prima quando
hanno trovato nascosta in un mattone forato del contro-soffitto dei
locali comuni della cantina e murata una P38 Smit&Wesson a tamburo,
perfettamente oliata carica coi proiettili. Nello slot ricavato per
nasconderla c'erano però altre 20 munizioni di una 7.65 ed è per
questo che la perquisizione si è protratta per giorni sempre in
locali attigui a quelli in cui è stata trovata la prima arma. Era
distante una decina di metri, in un foro nel muro. Segue – agli atti
– la ricostruzione di come D'Onofrio in quei giorni abbia lavorato
alacremente per ricavare il nascondiglio e della conferma definitiva
che la Finanza ottiene quando «si sente distintamente il rumore
dello scarrellamento».
A D'Onofrio la semiautomatica era stata consegnata da Russo.
«Portamela dopo Pasqua quella cosa così la porto là sotto e poso
pure quest'altra che ho» dice D'Onofrio. E l'altro: «Te la porto la
sera però perché con il buio è meglio». La consegna avverrà il 4
aprile, seguirà «interrogazione di D'Onofrio al comando vocale di
Google per comprendere – scrivono gli investigatori – se quella 7.65
si possa considerare un'arma da guerra». Richiesta è tutt'altro che
non lineare «se si considera il diverso trattamento sanzionatorio».
Poco dopo sempre D'Onofrio si recherà a una ferramenta di corso Roma
per comprare «uno scalpello largo, che non server a me – dirà al
commesso – ma a uno che me lo ha chiesti e non so cosa debba fare».
Compra anche due sacchetti di cemento a presa rapida da un chilo
«'che la porta del palazzo a furia di aprire e chiudere si è
scassata tutta».
Non servivano certo agli investigatori conferme sulla confidenza del
«dirigente della ‘ndrangheta» con le armi certificata da plurime
declaratorie di responsabilità a partire dagli anni Ottanta ad oggi.
Servirà invece capire se le due pistole sequestrate (e contestate) a
D'Onofrio possano configurarsi come cosiddette "parlanti", verranno
inviate agli specialisti per confrontarle e capire eventuali "match"
coi delitti di mafia (ma non solo) avvenuti a Torino (e non). E di
omicidi, fatti di sangue e misteri ancora avvolti dal buio è
costellata la storia criminale della città da decenni. Ieri i
giudici di Torino e Genova, all'udienza di convalida, hanno emesso
ordinanza nei confronti di D'Onofrio, del sindacalista Domenico
Ceravolo (difeso dal legale Christian Scaramozzino) e di Giacomo Lo
Surdo (legale Domenico Peila). Restano in carcere.
29.09.24
Nell'inchiesta della Dda spuntano insospettabili contatti tra
D'Onofrio e Cristoforo Piancone: un collegamento che risale agli
Anni di piombo
l'inchiesta sulle presunte infiltrazioni della 'ndrangheta
Il boss e il brigatista del delitto Casalegno due incontri segreti
dopo quasi 47 anni
La Filca Cisl promuove il capo di Ceravolo giuseppe legato
Un sinistro – e nemmeno tanto sottile – filo rosso continua a cucire
più di 40 anni di storia criminale di Torino. Mette insieme segmenti
distanti che non si sono mai toccati e che invece continuano a
parlarsi perlomeno in alcuni dei loro interpreti (o ex).
E al centro, come un abile sarto di relazioni, c'è Franco D'Onofrio,
64 anni, residente a Moncalieri, finito in manette nei giorni scorsi
per mano del Gico della Guardia di Finanza (pm Paolo Toso, Marco
Sanini e Mario Bendoni) con l'accusa di associazione a delinquere di
stampo mafioso «essendo – si legge agli atti - dirigente della
‘ndrangheta in Piemonte».
Se fosse un film sarebbe «Sliding doors» con le porte girevoli che –
perlomeno nei contatti anche recenti – lo vedono incontrare
affiliati alle ‘ndrine ed ex componenti della colonna torinese delle
Brigate Rosse. Uno di questi è Cristoforo Piancone (non indagato
ndr) già condannato per concorso in sei omicidi tra cui quello del
vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno. Fu lui dopo il barbaro
assassinio del giornalista, a telefonare all'Ansa per rivendicare il
delitto.
I militari del comando provinciale della Finanza guidati dal
Generale Carmine Virno, hanno tracciato due incontri tra D'Onofrio e
Piancone. Il 21 aprile e l'11 ottobre del 2023. Entrambi hanno avuto
luogo nella casa di D'Onofrio dove i militari hanno ritrovato anche
una Smit&Wesson calibro 38 con 5 proiettili nel tamburo. Di cosa
abbiano parlato non è noto nemmeno agli investigatori perché
nonostante siano riusciti a installare una microspia ambientale in
casa del presunto boss, le voci non si sentono. L'uomo di
collegamento tra i due è Claudio Russo che a sua volta figura
insieme a Piancone in una rapina commessa alla sede della MPS nel
2007 con la quale svelò al mondo come l'ex killer delle Br,
nonostante le brillanti relazioni dei tribunali di Sorveglianza che
ne lodavano il percorso carcerario con tanto di concessione della
semilibertà, non fosse rinsavito e avesse ancora una certa
confidenza con il crimine e con le armi. Che è poi la stessa che
viene riconosciuta da sentenze a Franco D'Onofrio, attivista dei
Colp (Comunisti organizzati nella lotta per il proletariato) negli
anni 80 e poi autore di una singolare scalata ai vertici della
malavita organizzata certificata dalla condanna definitiva nel
processo Minotauro. Per armi è stato condannato in un'inchiesta
stralcio della Dda (Pm Roberto Sparagna) che ha incrociato le
risultanze dell'operazione della Dda di Milano "Tramonto"), 2007, pm
Ilda Boccassini, sulle Nuove Brigate Rosse con le intercettazioni di
Minotauro. Nella prima indagine finì una conversazione tra due
sodali. Parlano di armi:. «Mi ha detto Franco, se ti interessano,
che ci sono dei Kala, sia piccoli che lunghi. Ce ne sono 10. Però
devi dirmelo entro giovedì» spiega uno. E l'altro: «Digli se può
tenerli. Quanto vuole?». Il pm annota: «Da questa conversazione si
ha conferma che Franco dispone di armi di elevata potenzialità
offensiva che è disposto a mettere nella disponibilità del gruppo».
Franco è Francesco D'Onofrio. Nel capo di imputazione contestato al
boss finisce un'altra conversazione maturata anni dopo nelle cuffie
dell'antimafia in cui un affiliato intercettato con il boss del
Canavese Bruno Iaria, confidava: «Io le ho viste le armi di compare
Franco. Gli sono arrivate con il camion dalla Macedonia». La
condanna è diventata definitiva il 13 febbraio 2023. Ma D'Onofrio
non incontra solo Piancone. Dalle ceneri del passato salta fuori
anche Pancrazio Chiruzzi (non indagato ndr), rapinatore leggendario.
Che D'Onofrio contatta, nel corso della presunta pianificazione di
una rapina, per chiedere consigli «su allarmi e centraline». Siamo
ad aprile 2024. I pm lo identificano come uno «dei più efferati
autori di reati contro il patrimonio». Ancora armi, ancora il
passato, ancora quel filo rosso.
NON CI CREDO CHE LE PORTE DEL GTT SARANNO APERTE PER UN CURIOSO, LO
SO PER ESPERIENZA SU FIAT: «Preferisco un giro in pullman a
una Porsche». La passione per il trasporto pubblico di Tommaso Di
Micco, 13 anni, è grande così. Ed è nata in Borgo San Paolo, «a
bordo di un bus della linea 56, quando di anni ne aveva appena tre»
racconta mamma Alessandra. «Per farlo felice bastava girare per la
città su un mezzo pubblico - spiega - E lui, ogni cosa che vedeva,
ci riempiva di domande».
La stessa scena si è ripetuta ieri, quando è stato ospite di Gtt
alla centrale operativa di corso Pastrengo a Collegno. Il suo
viaggio nel cervello della metropolitana è iniziato dopo che
l'amministratrice delegata del Gruppo Torinese Trasporti Serena
Lancione ha saputo del progetto per l'esame di terza media di
Tommaso: un modellino sulla metropolitana del futuro sotto casa sua,
in Borgata Lesna a Grugliasco, con tanto di mappa con le future
fermate. «La metro che ho ideato è composta da tre linee - ha
spiegato - e collega tutta la prima cintura, da Settimo a Orbassano,
da Moncalieri a Caselle ma anche Borgaro, Alpignano, Orbassano...».
E, ovviamente, «Grugliasco. Della fermata sotto casa mia ho creato
anche il modellino di legno insieme a mio nonno Silvio». «Questo
modellino ha un solo difetto - ha aggiunto un dipendente di Gtt -
manca uno dei nostri treni». «Rimedieremo presto», ha promesso
Lancione.
Per un pomeriggio Tommaso ha lasciato perdere i compiti assegnati
dai suoi insegnanti al liceo scientifico Curie-Vittorini di
Grugliasco, dove frequenta il primo anno, per presentare il suo
progetto con tanto di mappa proiettata su un maxischermo. Ha citato
i nomi delle fermate, le diramazioni, anche le piazze dove ha
previsto «i terminal per i bus extra urbani che permetteranno ai
viaggiatori di raggiungere anche i Comuni più lontani, senza metro».
E ha insistito sul collegamento «con l'aeroporto di Caselle, anche
se so che è stata appena inaugurata la linea del treno».
Dopo gli applausi dei presenti, la parola è passata a Lancione: «Ci
fa piacere aver invitato Tommaso perché siamo orgogliosi di
incontrare chi sogna in grande per il futuro del trasporto pubblico.
E quando si sogna, tutto inizia da qui: da un foglio bianco. Poi
arrivano gli studi di fattibilità, i calcoli sul costo-opportunità,
la ricerca dei finanziamenti. Ma Tommaso ha fatto un ottimo lavoro».
È l'ad a fare da Cicerone a Tommaso nei lunghi corridoi della
centrale operativa di Gtt. A partire dalle officine, dove i treni
della metropolitana arrivano per la manutenzione. «Non sapevo che
avessero delle ruote larghe un metro», dice chi ha accompagnato
Tommaso. I treni sono sollevati a cinque metri da terra, Tommaso va
sotto, osserva la scocca. Poi si arriva nel deposito, «dove presto
arriveranno quattro nuovi treni. E per la metro a Cascine Vica ne
chiederemo altri 12». «Quanto costano?», chiede Tommaso.
«Quattordici milioni l'uno».
Il momento clou è arrivato nella sala controllo: qui, su 24 monitor,
vengono costantemente monitorati il flusso dei treni e tutto ciò che
accade nelle stazioni della metro. Tommaso scopre chi risponde alle
chiamate d'emergenza dalle stazioni, come vengono affrontati i
problemi. «E abbiamo anche riorganizzato i vertici, dopo gli ultimi
problemi. Magari da grande ne farai parte anche tu», lo sfida
Lancione.
Tommaso osserva, attraversa i binari del «chilometro dove vengono
provati i nuovi treni», riempie di domande i vertici Gtt presenti.
Mille curiosità che porterà ai suoi compagni di classe e agli amici
della pallanuoto oggi, «anche se non tutti amano la metro come me»,
ha ammesso. «Io anche quando viaggio coi miei genitori, da
Copenhagen a Parigi, la prima cosa che voglio vedere è la
metropolitana». Prossima tappa? «Forse Londra». Sul lavoro da
grande, invece, non ha dubbi: «Progettare nuove metro». Le porte di
Gtt sono già aperte. —
28.09.24
L'ad Donnarumma apre ai sindacati: "Miliardi in sicurezza e
formazione" I dubbi della Corte di Cassazione sulla patente a punti:
in utile e dannosa
Strage di Brandizzo la svolta di Ferrovie "Freno ai subappalti" LEONARDO DI PACO
TORINO
«Per il prossimo piano industriale del gruppo ci siamo dati un
obiettivo: identificare quelle aree, relative agli interventi di
manutenzione, dove è opportuno avere in casa il know how tecnico e
tecnologico per intervenire piuttosto che affidarsi a soggetti
esterni». L'amministratore delegato e direttore generale del gruppo
Fs, Stefano Donnarumma, cerca di pesare le parole. Ma il messaggio è
chiaro: per evitare che si ripetano stragi sul lavoro come quella di
Brandizzo, Rfi cercherà di mettere un freno al sistema di appalti e
subappalti. Una tematica definita «delicata» dall'ad, anche perché
spesso legata «all'abbattimento dei costi, che per definizione non è
mai favorevole alla qualità».
La promessa di Donnarumma arriva durante il convegno «Brandizzo un
anno dopo. Manutenzione ferroviaria: cultura della sicurezza,
investimenti e sistema appalti» organizzato ieri a Torino da Filt
Cgil nazionale e regionale del Piemonte. Secondo il top manager di
Rfi, in carica dalla fine di giugno, «in materia di sicurezza
l'azienda ha una tradizione storica, con molte procedure e
investimenti ma siamo impegnati a cercare di migliorare ancora».
Questo si tradurrà «in un aumento dei controlli nei cantieri» e in
un piano industriale che destinerà «miliardi in formazione e nella
sicurezza industriale».
I sindacati incassano la promessa dell'ad. Ma rilanciano: «Sulla
salute e sicurezza sul lavoro nelle ferrovie serve una svolta anche
contrattuale, che promuova i lavoratori che rispettano le regole, e
non come spesso accade oggi penalizzandoli» dice il segretario
generale della Filt Cgil, Stefano Malorgio. «Inoltre – aggiunge
Malorgio – serve da parte di Fs un impegno sia nella
internalizzazione delle attività che nella cancellazione dei
subappalti e nella qualificazione delle imprese, perché mentre ci
sono stati passi avanti per quanto riguarda l'organizzazione del
lavoro, su questi temi bisogna concretizzare. Si tratta di capire
insomma se, ad un anno dalla strage di Brandizzo, siamo in grado di
imboccare la strada di un progetto che ci porti a far sì che le
cause che hanno provocato l'incidente non si ripetano più».
All'incontro sì è anche parlato del provvedimento, voluto dal
governo, che dal primo ottobre introduce una "patente a punti"
nell'edilizia come criterio fondamentale per valutare l'idoneità
dell'azienda nella partecipazione a gare d'appalto, bandi pubblici
per la concessione di incarichi, nonché per richiedere incentivi e
bonus. Un provvedimento che secondo Bruno Giordano, magistrato di
Cassazione ed ex direttore dell'Ufficio Nazionale del Lavoro, «è
inutile e dannoso» perché «nei requisiti per l'autocertificazione
non c'è nulla che riguardi gli appalti, il titolo IV o articolo 26
(del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, ndr). Strano che dopo
stragi accomunate da problemi legati a sistemi di appalti e
subappalti si chiede di autocertificare tutto tranne se un'azienda è
in regola in materia di appalti». Anche un altro magistrato e
giurista, Raffaele Guariniello, solleva dei dubbi sulla reale
utilità della misura «soprattutto in relazione al fatto che la legge
prevede l'obbligo della patente solo nei cantieri temporanei e non
negli appalti interaziendali».
Poi rilancia una vecchia proposta: l'idea di istituire una procura
nazionale deputata alla sicurezza sul lavoro. «È necessaria perché
In Italia ci sono oltre 120 procure, molte delle quali non sono
specializzate o non hanno le risorse sufficienti per gestire casi
come quelli di Brandizzo».
All'evento era presente anche Chiara Gribaudo, presidente della
commissione bicamerale sulle condizioni di lavoro e sulla sicurezza
nei luoghi di lavoro: «Serve uno sforzo in più, soprattutto in
termini di investimenti in tecnologia e di formazione professionale
affinché sia consapevole, provata non solo sulla carta, e
riscontrabile». ù
Sullo smartphone del delegato finito in manette era stata inserita
l'applicazione dagli investigatori. Lui se ne accorse e il cellulare
fu sostituito
Il giallo del trojan sul telefonino del sindacalista "I vertici
della Cisl chiesero aiuto per rimuoverlo"
giuseppe legato
Il 6 febbraio 2023 i finanzieri del Gico coordinati dalla Dda di
Torino sono così convinti che Domenico Ceravolo, 46 anni,
sindacalista della Filca Cisl edili finito in manette per
associazione a delinquere di stampo mafioso, c'entri più di qualcosa
con la ‘ndrangheta che decidono di "inoculare" un virus informatico
(un trojan) nello smartphone del dipendente della sigla confederale.
Pochi giorni prima (era il gennaio 2023) il sindacalista deve
recarsi in Calabria a tutti i costi. È stato convocato come teste
della difesa di un boss nell'aula bunker di Lamezia Terme per
testimoniare nel maxi processo Rinascita Scott, culminato con ben
345 arresti per mafia. Le spese di viaggio vengono – il dato è
singolare – sostenute dal sindacato. I pm sottolineano agli atti
come «di tale esborso, che non può di certo ritenersi una spesa
attinente le attività istituzionali dell'ente, non è stato tenuto
all'oscuro il vertice romano dell'organizzazione sindacale stessa».
Ma vi è anche di più: «Che i nominati responsabili della Filca Cisl
(non indagati ndr) fossero a conoscenza del motivo inerente la
trasferta calabrese di Domenico Ceravolo lo si coglie compiutamente
da una telefonata con cui lo stesso racconta a uno dei vertici
nazionali che lo avrebbe informato «dell'esito dell'udienza».
L'aria, al sindacato, non pare delle migliori perché a questa
notizia «si aggiungono – scrivono i pm Paolo Toso, Marco Sanini e
Mario Bendoni - le notizie stampa pubblicate a seguito della cattura
del latitante Pasquale Bonavota ove emerge come all'interno
dell'abitazione del boss sia stato rinvenuto, in uso a quest'ultimo,
il documento d'identità proprio di Domenico Ceravolo.
Per i magistrati che hanno coordinato gli investigatori si
tratterebbe «di un accertato diretto dei vertici sindacali a favore
di Ceravolo allorquando sono emersi chiari segnali di una possibile
attività investigativa svolta nei confronti di quest'ultimo». Di
cosa parlano gli inquirenti è presto detto: «Dopo l'inoculamento del
trojan sul telefono aziendale di Ceravolo è uno dei vertici della
Filca Cisl a contattare il gestore Vodafone «per rappresentare
alcune anomali che stava riscontrando su quel telefono: "Senta, la
chiamo per un problema che ha il proprietario, l'intestatario di
questo numero. Non riusciamo a disinstallare o quantomeno a bloccare
un ... un'applicazione che è "Assistenza in linea" che continua a
lavorare in background, volevamo capire se era possibile
disattivarla tramite il servizio o c'è qualche anomalia». Per gli
investigatori «è un chiaro segnale di aver compreso che si trattasse
di un trojan».
In contemporanea – aggiungono – si verifica un altro intervento di
un dirigente nazionale: «Quest'ultimo ha dato disposizione al
personale informatico della Filca Cisl che opera nella sede centrale
di Roma di avviare la pratica per l'acquisto di un nuovo cellulare
da dare in uso a Ceravolo. Il 4 marzo il sindacalista poi arrestato
entrerà in possesso di un nuovo smartphone: «Mi è arrivato ieri è un
Samsung S23 Ultra, l'ultimo è. Costa 1400 euro, l'hanno pagato
loro». Chiosano i pm: «Tale dispositivo, dunque, avrebbe non solo
sostituito quello sul quale era stato installato il trojan ma
avrebbe reso maggiormente complicato (se non impossibile) un nuovo
tentativo di inoculazione da parte della polizia giudiziaria atteso
che si tratta di un modello di ultimissima generazione. Stesso
acquisto sarà sostenuto dalle casse sindacali per "il braccio destro
di Ceravolo", un altro dipendente Filca Cisl. «Tale agire –
concludono i finanzieri del comando provinciale guidati dal Generale
Carmine Virno - è del tutto ragionevole ipotizzare che derivi
dall'intenzione di rendere quanto maggiormente complicata
l'intercettazione delle quotidiane conversazioni».
27.09.24
Al fronte col filantropo che aiuta l'Ucraina "Dai calzini ai
missili, ci penso sempre io"
Amed Khan
" Francesco Semprini
PAVLOGRAD (Ucraina)
Amed arriva all'appuntamento poco dopo mezzogiorno, il sorriso del
fare e il cronico entusiasmo fanno a pugni con la stanchezza lenita
solo da qualche ora di sonno. «Ieri – dice – siamo stati coi
"ragazzi degli Himars" sino a tarda sera». I "ragazzi degli Himars"
sono i militari delle unità delle forze armate ucraine che si
occupano del funzionamento di questi sistemi d'arma divenuti
centrali non solo sui fronti di battaglia, come qui in Donbass, ma
anche nel dibattito tra gli alti vertici politici e militari di Kiev
e degli Alleati occidentali. Amed invece è Amed Khan, filantropo
attivo nei teatri bellici e nelle aree di crisi, oggi principale
sostenitore privato della causa ucraina.
Il suo motto è «dai calzini ai generatori», qualsiasi cosa serva, a
militari e civili ucraini, la sua Fondazione provvede a fornirla.
«Faccio tutto da solo, a volte qualche amico partecipa a iniziative
– chiosa –, ma sono incline a non chiedere nulla a nessuno,
intervengo in maniera diretta, senza seguire complicati protocolli,
lavoro sulla velocità degli approvvigionamenti».
Amed va oltre gli esseri umani, talvolta si occupa di animali, come
Jack il pastore tedesco che ha resistito all'occupazione russa nell'Oblast
di Kharkiv, asserragliato in un sottoscala. «Quando lo abbiamo
trovato era depresso, malnutrito, spaventato, aveva trascorso troppo
tempo sotto i bombardamenti», dice il filantropo che si è preso
carico dell'animale sino a quando a chiederne l'affidamento è stato
l'amico Amos Bocelli (figlio di Andrea). Come sta Jack? «Ci ha
lasciato, era già su con l'età, ma almeno ha vissuto i suoi ultimi
anni come si deve, davanti al mare, nella tenuta di Forte dei Marmi
del Maestro».
Il suo legame con l'Ucraina ha radici più profonde del conflitto in
corso. Khan collabora col governo degli Stati Uniti dagli anni
Novanta, lavora nei campi dei rifugiati in Ruanda, poi con l'allora
presidente Bill Clinton ancora in Africa, e, successivamente, con la
Fondazione Clinton in altre zone disagiate. Vira quindi in finanza
per raccogliere fondi e crea la sua attività filantropica, da lì
inizia un nuovo percorso sui fronti caldi del Pianeta. «Sono stato
in Iraq, Siria, Somalia, ho accolto rifugiati, costruito case per
loro – racconta –, ho organizzato l'evacuazione degli afghani nel
2021 con sei voli charter miei, subito dopo l'arrivo dei talebani».
La sua frequentazione dell'Ucraina inizia dal 2005, vanta l'amicizia
con Vitali Klitschko, il «sindaco-pugile» di Kiev. Ed è con
l'ufficio del presidente Volodymyr Zelensky che ad agosto del 2021
organizza l'evacuazione degli afghani collaborando con le forze
speciali ucraine. Nei mesi successivi rimane in contatto con le
autorità di Kiev fungendo da collegamento ufficioso con alcuni
ambienti dell'amministrazione americana in merito a tematiche
umanitarie. «Il 24 febbraio scoppia la guerra – racconta – eravamo
preparati e avevamo già predisposto misure preventive per evacuare
diverse persone dal Paese, in particolare amici e personalità di
rilievo».
Da quel momento il suo impegno diventa incessante. «Ormai trascorro
molto più tempo qui che a casa mia a New York, ma a me piace così.
C'è chi ha lo yacht, l'elicottero, vetture di lusso e magioni in
giro per il mondo, io ho le missioni, crisi umanitarie o zone di
guerra, cerco di esserci sempre –, dice col ghigno di che esorcizza
sacrificio e fatica –. È tanto lavoro ma anche tanta gioia», come
quando una grande casa-famiglia femminile di ragazzine dai 7 ai 17
anni viene distrutta da un missile russo. «Sarebbero state tutte
separate, date in affidamento ad altre strutture nel Paese o fuori,
per loro significava essere strappate da quella che era diventata la
loro casa e la loro famiglia». Khan decide di provvedere alla
ricostruzione della struttura, ottiene i permessi, porta i materiali
e grazie al lavoro di volontari e professionisti ridona luce alla
struttura. «Le responsabili mi mandano costantemente i video di
bimbe e ragazze che studiano e giocano, prima o poi farò loro una
sorpresa».
Più in su con l'età sono invece i "ragazzi degli Himars" che Amed
sostiene fornendo loro vettovagliamento, ma anche mezzi per muoversi
e provvedere alla loro esigenze più immediate. Il buon samaritano
del Donbass ha persino provveduto a prendersi cura della moglie e
del figlio del soldato Artem. «Il bimbo, Damir, ha bisogno di
sostengo particolare, così ho fatto avere loro il visto, la mamma,
Oksana, lavora per la mia organizzazione e il ragazzino va a scuola
e fa sport seguito con tutte le attenzioni del caso». Ad oggi le
attività di Khan si concentrano in questa parte di Ucraina, tra la
Pokrovsk che i russi tentando di aggirare avanzando dal fianco
sud-est, mentre si incuneano verso la strada che collega Myrnograd a
Kramatorsk. Città chiave della regione di Donetsk presa di mira ieri
dai bombardamenti delle forze di Vladimir Putin che hanno causato
due morti e 15 feriti.
«Il problema – dice – sono le armi a lungo raggio, ci sono
postazioni al di là del confine che supportano le operazioni
militari di Mosca in questa regione, come le basi da cui partono i
cacciabombardieri con le bombe plananti (Fab). Per neutralizzarle
c'è bisogno di quelle armi e di utilizzarle a lunga gittata». Quando
si parla di politica, il "buon samaritano" diventa agguerrito: «Gli
Stati Uniti non vogliono che l'Ucraina perda, ma nemmeno che vinca,
è una constatazione, hanno calibrato tutte le forniture, non
vogliono nemmeno che collassi la Russia, vogliono mantenere lo
status quo». Ancor più impietoso è quando si parla di elezioni
americane. Cosa si aspetta? «La politica estera dell'establishment è
fatta da sapientoni delle Ivy League che non hanno esperienza di
come va il mondo. Non mi aspetto nulla quindi, comunque vada il 5
novembre». —
Torino, la procura chiede una relazione a Fastweb per capire che
cosa non ha funzionato
Roua e il giallo del braccialetto "Da chiarire il mancato allarme" ELISA SOLA
CATERINA STAMIN
TORINO
«La natura delle esigenze cautelari da soddisfare inducono a
ritenere necessario, laddove il presidio elettronico non fosse
reperibile o immediatamente installabile, ripristinare, ovvero
mantenere nelle more la massima misura cautelare carceraria,
richiesta dal pm». Abdelkader Ben Alaya, il muratore di 48 anni che
tre giorni fa ha ucciso a Torino la moglie Roua Nabi, era
«pericoloso». Così scriveva la gip Ersilia Palmieri il 2 luglio,
ordinando i domiciliari con l'obbligo di portare il braccialetto
elettronico. Ma quel dispositivo, così urgente e fondamentale tanto
da spingere la giudice a scrivere un'intera pagina riguardo ad esso,
di un'ordinanza di sei, non ha funzionato la notte in cui Roua è
stata ammazzata. Una sola coltellata vicino al cuore e davanti ai
suoi due bambini. Uno dei filoni dell'indagine sull'ennesimo
femminicidio punta dritto al nodo cruciale di una tragedia che forse
si sarebbe potuta evitare. Perché il braccialetto elettronico non ha
suonato? Il pm Giuseppe Drammis, titolare dell'indagine, ha ordinato
accertamenti di natura tecnica considerati dagli stessi inquirenti
di particolare complessità. La richiesta di una relazione è stata
inoltrata anche alla compagnia telefonica Fastweb.
Lo spettro delle ipotesi è ampio. Potrebbe essere subentrato un
problema tecnico, come l'assenza di segnale. Oppure l'indagato –
come a volte accade, anche se raramente – potrebbe essere stato in
grado di schermare il dispositivo, mandandolo in tilt. Ma c'è anche
chi ipotizza che il braccialetto, più banalmente, possa essere stato
difettoso per sua natura. È già capitato, a chi indaga, di incappare
in dispositivi "fallati". Se emergesse che invece lo strumento
funzionava, si aprirebbero altri fronti. E nuove domande. Era mai
stato attivato, quel braccialetto, quando venne assegnato a Ben
Alaya lo scorso luglio? E ancora. Se era attivo, le forze
dell'ordine come avrebbero dovuto controllare? Non si esclude la
pista dell'errore umano.
Tutti sentivano le urla tra le quattro mura di quel palazzo di
periferia dove Ben Alaya non avrebbe dovuto avvicinarsi, perché
glielo aveva imposto il giudice. Che gli aveva assegnato un
dispositivo dotato di una sim collegato alla centrale operativa
della Questura. Ogni segnale arriva lì. E così è stato anche lunedì
sera. Alla centrale il dispositivo manda una segnalazione quando
mancano circa due ore all'omicidio. Come da procedura, partono i
controlli incrociati per capire se l'uomo abbia superato i limiti
imposti dal giudice, i 500 metri di distanza. Una vicina racconta di
aver visto l'uomo nel palazzo intorno alle 18.30. «Non sapevo non
vivessero insieme, lui era sempre qui», dice Gaia Lo Nigro. Ma
intorno alle 21, dalla geolocalizzazione del braccialetto non
risulta che Abdelkader e Roua fossero insieme. Oltre due ore più
tardi il vicino di casa viene svegliato dai pugni sulla porta di una
bambina che chiede aiuto per sua madre. Il ragazzo apre la porta di
casa. Stesa a terra sul pianerottolo, in una pozza di sangue, c'è
Roua Nabi. Ha una ferita al torace che Salvato, su indicazione
dell'operatrice del 112, prova a tamponare con un asciugamano. Ma
tutto si rivela inutile, Roua muore al San Giovanni Bosco. E da
allora le domande si moltiplicano. Cosa non ha funzionato? Ieri
l'assassino, difeso dall'avvocato Gianluigi Marino, non ha risposto
alle domande del gip. È rimasto in silenzio.
ALICE RAVINALE Consigliera regionale di Avs "Qui come altrove serve
più coraggio sull'ambiente"
"Protesta legittima condivisa da tanti La Città adesso continui il
dialogo" ANDREA JOLY
«Chi amministra, qui come in tutta Italia, deve avere più coraggio
nel fare politiche ambientaliste». La consigliera regionale di
Alleanza Verdi e Sinistra Alice Ravinale, già capogruppo di Sinistra
Ecologista in Comune, è finita nel mirino di chi protesta per il
parco del Meisino: «Prendo atto e capisco la frustrazione. Ma noi
portiamo avanti le istanze ambientaliste in politica, per cambiare
lo status quo».
È scontro tra Città e attivisti. Da che parte state voi?
«Quando si arriva a questo livello di incomunicabilità tra le parti,
con tanto di presenza delle forze dell'ordine in cantiere, è una
sconfitta per tutti. In Piemonte dovremmo saperlo bene, dopo la Tav.
Ed è lo stesso copione visto con le alberate in corso Belgio».
L'assessore Carretta mente quando dice che le interlocuzioni sono
durate due anni?
«È vero che ci sono stati confronti ma su un progetto che, a causa
dei paletti del Pnrr, di fatto era già deciso. E si poteva
discuterne prima, almeno in una riunione di maggioranza».
Quindi da che parte state?
«Chi protesta vuole mantenere la vocazione naturalistica del Meisino
senza trasformarlo in una cittadella dello sport. È un punto di
vista che va tenuto in considerazione».
E cosa avreste proposto voi?
«Di concentrare i fondi Pnrr per lo sport altrove, magari in un
campo da calcio libero per tutti non esistendone più in tutta la
città. O in una piscina».
E il centro per l'educazione ambientale?
«Quello è un elemento giusto che apprezziamo, ma il resto del
progetto ha un impatto. E la sua prima versione è stata cambiata non
poco dopo le modifiche richieste dall'ente parco. Ora sembra
rispettare i parametri, ma può migliorare».
Pronti a ricevere nuove accuse di ipocrisia?
«La nostra posizione l'abbiamo sempre espressa e accettiamo le
critiche. Cerchiamo di svolgere un ruolo di dialogo e di ponte. È
difficile, ma necessario. Si sbaglierebbe a tirare dritto, oggi,
senza provare ad apportare quelle modifiche migliorative che
chiedono in tanti, non solo chi protesta».
Pochi attivisti, però, interrompono i lavori. Condividete questo
metodo di protesta?
«Le proteste non violente sono ovviamente legittime e dobbiamo
difendere il diritto al dissenso, soprattutto di fronte al ddl
sicurezza del governo Meloni. Ed è sbagliato derubricarla a protesta
di pochi: sempre più torinesi hanno perplessità sul futuro del
Meisino».
Il Pd in Comune sbaglia politica ambientalista?
«Non do patenti di errori, ogni partito ha la sua linea. Noi
vorremmo più radicalità e nettezza. Sul limite dei 30 chilometri
orari in città e le restrizioni ai veicoli, Parigi e Londra sono
state rivoluzionate in pochi anni. Noi vorremmo andare a quel ritmo.
Anche in risposta al governo regionale di destra: basta vedere lo
scempio che sta facendo la giunta Cirio sul piano di qualità
dell'aria». Manifestanti ai cancelli fin dall'alba. Le opere
proseguiranno per qualche giorno all'interno della Cascina
Malpensata
Ennesimo blitz degli attivisti al Meisino Fermati i lavori nell'area
verde del parco
Pierfrancesco caracciolo
Sono stati sospesi, ieri mattina, i lavori all'aperto nel parco del
Meisino. In queste aree, su cui gli interventi erano in corso dal 6
settembre, gli operai non metteranno più mano almeno per qualche
giorno. Il mini stop deciso dalla città bloccherà, per il momento,
una parte del progetto - da 11,5 milioni di euro - per la
costruzione di un centro per l'educazione sportiva e ambientale nel
parco. Quella, cioè, che prevede la realizzazione di 20 strutture
sportive immerse nel verde.
La sospensione arriva 24 ore dopo un altro stop al cantiere
«imposto» da una quarantina di attivisti del Comitato Salviamo il
Meisino. Erano stati loro, martedì, a bloccare gli operai incaricati
di intervenire lungo un prato, quello accanto a corso Sturzo, lato
Est del parco.
Gli operai, scortati dalla Digos, hanno proseguito i lavori nell'ex
galoppatoio. Si tratta di una ristrutturazione che ha come
l'obiettivo trasformare la struttura nella base operativa del nuovo
centro sportivo-ambientale. Mentre nell'edificio proseguiranno le
lavorazioni, nelle prossime ore, la Città valuterà come riprendere
le attività all'esterno. L'obiettivo è evitare altre incursioni di
cittadini e attivisti. Per tre volte, finora, hanno rallentato
l'esecuzione delle opere. Una protesta, la loro, dettata dalla
volontà di proteggere quella che definiscono «una riserva naturale
ricca di biodiversità».
A riprova della sospensione dei lavori all'aperto, ieri è stata
smantellata l'area di cantiere nel verde lungo corso Sturzo,
approntata 24 ore prima. Da quel punto, dove martedì gli attivisti
avevano bloccato gli operai, sono state rimosse transenne e mezzi di
cantiere. Ciò nonostante non sono mancati i momenti di tensione. A
inizio mattinata gli operai hanno trovato la strada sbarrata quando
si sono diretti verso l'ex galoppatoio. Con un gruppo di
contestatori in presidio all'ingresso della struttura. Per
allontanarli è intervenuta la polizia.
Quella scattata ieri è la seconda sospensione (di una parte)
dell'attività cantieristica negli ultimi dieci giorni. La prima è
del 16 settembre, quando la Città aveva ordinato alle maestranze di
sospendere la rimozione di verde e ramaglie in uno scorcio di parco
dietro l'ex galoppatoio. Lo aveva fatto dopo aver ricevuto una
diffida dei contestatori, che segnalavano la presenza in quell'area
di centinaia di ricci, che le ruspe avrebbero spazzato via.
Il ruolo di Domenico Ceravolo nell'indagine. I pm: "Tante tessere
perché contiguo ad ambienti criminali. I vertici della Filca Cisl
parevano consapevoli"
La strana scalata del sindacalista dei boss "Portava iscritti e
favoriva la 'ndrangheta"
giuseppe legato
Il 23 febbraio scorso, quando le indagini della Dda di Torino erano
abbondantemente avanti nel tempo (e negli esiti) e già lo
individuano come presunto affiliato alla ‘ndrangheta calabrese,
Domenico Ceravolo, nato a Torino 47 anni fa, veniva nominato membro
della segreteria della Filca Cisl edili. Una scalata di tutto
rispetto, iniziata quattro anni prima quando era venuto via dalla
Calabria perché «erano cominciate a emergere le sue contiguità con
ambienti mafiosi» e finita sul sito della sigla confederale (che lo
ha immediatamente sospeso, ieri, dopo la notizia del fermo) con
tanto di annuncio dei nuovi incarichi e foto di rito coi vertici.
Secondo i pm Paolo Toso, Marco Sanini e Mario Bendoni è un affiliato
a tutto tondo. «Nel nostro territorio – si legge nel provvedimento
di fermo che dovrà essere convalidato (o no) domani - si è messo al
servizio dei boss». E agli occhi degli investigatori del Gico del
Gico della Finanza il primo grave campanello d'allarme era suonato
durante un pedinamento del 2019.
Seguivano Onofrio Garcea, il boss originario di Vibo Valentia che a
luglio di quell'anno metterà nei guai l'ex assessore regionale di
Fratelli D'Italia Roberto Rosso per voto di scambio politico
mafioso. Un altro membro di rango dell'organizzazione lo
accompagnerà negli uffici della Filca Cis proprio da Ceravolo. Non
sono passati inosservati altri fatti: ad esempio i 47 contatti
telefonici in pochi mesi che l'insospettabile garante dei diritti
dei lavoratori aveva intrattenuto in pochi mesi con un boss di
rilevante livello come Salvatore "Turi" Arone recentemente
condannato a una dura pena nel processo Carminius.
Scrivono i militari che quel giovane sindacalista intratteneva
rapporti con membri storici dell'organizzazione (Raffaele e Antonio
Serratore) legati al violento clan Bonavota. Dalle cuffie della
Finanza non uscirà più per ritrovarlo anni dopo in via Bellini 12 a
Moncalieri a casa di Franco D'Onofrio, per gli inquirenti «dirigente
della ‘ndrangheta in Piemonte», a discutere di affari, edilizia e
mafia. Nel dettaglio: il sindacalista e membro della segreteria
della Filca - Cisl, contribuiva al «controllo del settore edile da
parte del sodalizio, favorendo interessi delle imprese ad esso
contigue rispetto ai lavoratori iscritti, procurando presso queste
imprese l'assunzione di soggetti d'interesse del sodalizio, fornendo
indicazione di imprese per affidamento di appalti/sub-appalti e
procurandone ad imprese di interesse della ‘ndrangheta». Non solo:
si è prestato «a presentare la domanda fraudolenta di reddito di
cittadinanza a favore di Antonio e Raffaele Serratore e di Salvatore
Arone». Ancora « forniva ausilio per favorire alcuni affiliati nel
controllo e nella gestione di attività economiche, procurava
occasioni di lavoro per ditte operanti nel settore edilizio
controllate o gestite occultamente dai fratelli Artone e – per non
farsi mancare nulla – ha fatto da prestanome sulla metà delle quote
di una società di un altro rilevante esponente della cosca e ha
fornito copia del proprio documento d'identità al latitante Pasquale
Bonavota». Un'obbedienza – così pare – talmente virtuosa da non
necessitare di ulteriori dimostrazioni di fedeltà. Alle quali si può
aggiungere una denuncia per falsa testimonianza nel maxi processo
Rinascita Scott che sarebbe stata prestata in favore di un affiliato
di rango. E si torna a D'Onofrio «per conto del quale – questa
l'accusa dei pm – organizzava incontri con altri appartenenti alla
‘ndrangheta del Piemonte per favorire lo scambio di comunicazioni».
Quando, ancora, viene contattato «da un impresario edile vibonese
che si era aggiudicato alcuni appalti al Nord (lavori pubblici in
provincia di Alessandria, a Balzola)» a caccia di nominativi di
imprese edili disponibili ad acquisire quei cantieri in subappalto «Ceravolo
interpella D'Onofrio al quale è spettato il compito di individuare
l'impresa che ha quindi realizzato in subappalto il cantiere
pubblico».
La sua attività sindacale – si legge agli atti – viene ricompensata
«in una logica di utilità doppia» sua e del sindacato del quale i pm
elencano i vantaggi «consistenti essenzialmente nella sua capacità
di tesserare lavoratori, in particolare tra le imprese riconducibili
a soggetti di origine calabrese, garantita dalla contiguità dello
stesso Ceravolo all'ambiente 'ndranghetistico, circostanza di cui De
Lellis Mario e De Luca Ottavio appaiono consapevoli». Chi sono
questi ultimi? Sono alti dirigenti della sigla confederale. Non
indagati, ma rivestono il ruolo rispettivamente di segretario
provinciale di Torino (De Lellis) e segretario nazionale (De Luca).
Avrebbero «deciso e gestito in favore di Ceravolo utilità e favori
del tutto anomali e non giustificati dall'ordinaria attività di
operatore sindacale». Rimborsi spese, carte di debito. Dirà lo
stesso Ceravolo, quando dovrà andare a rendere (falsa) testimonianza
in Calabria «per screditare il pentito Andrea Mantella» su
indicazione di D'Onofrio, che «Ottavio mi ha detto una cosa che se
ci penso mi emoziono: "Non ti preoccupare che se c'è bisogno ti
metto io un buon avvocato", hai capito?». Le ambientali della
Finanza registrano: «Mentre Ceravolo confida questo gesto, piange
davvero». —
26.09.24
Andrea Castaldo Difensore di Laudati
Le tappe della vicenda
Inchiesta dossier scaricati 200mila atti Spiati politici e vip irene famà
inviata a perugia
Al tenente Pasquale Striano bastava anche un unico accesso per
riuscire a scaricare migliaia di atti. Duecentomila solo tra il 2019
e il 2022 e solo dalla banca dati della Direzione nazionale
antimafia. Verbali di interrogatori, informative, ordinanze. Poi ci
sono gli altri: quelli recuperati da Serpico, il sistema
dell'Agenzia delle entrate dove confluiscono transazioni bancarie e
dichiarazioni dei redditi e investimenti, e dallo Sdi, Sistema di
indagine, banca dati delle Forze dell'ordine dove si trova il
profilo di ognuno. Lo raccontano le annotazioni del Nucleo di
polizia valutaria della Guardia di finanza depositate ieri dalla
procura di Perugia durante l'udienza davanti al tribunale del
Riesame sul caso dei dossier.
Si tratta di nuovi documenti che parlano di decine di accessi, il
triplo di quelli già individuati nella prima fase delle indagini, e
che ricostruiscono nel dettaglio il quadro degli atti scaricati
ufficio per ufficio dalla banca dati della Dna. Gli "obiettivi"
delle ricerche? Centinaia. Tra politici, imprenditori, dirigenti
della pubblica amministrazione, sportivi. Ricerche, ad esempio, sul
ministro Guido Crosetto o sull'ex premier Giuseppe Conte e la sua
compagna, o ancora sul presidente della Figc Gabriele Gravina. E
della questione si stanno occupando anche la Commissione
parlamentare Antimafia e il Copasir.
La vicenda ruota intorno ad accessi abusivi ai sistemi informatici e
alla divulgazione di informazioni riservate. Gli indagati
principali? L'ex finanziere Pasquale Striano e Antonio Laudati,
magistrato campano in pensione in forza alla Direzione nazionale
antimafia e all'epoca coordinatore del gruppo Sos, Segnalazioni di
operazioni sospette.
Per la procura di Perugia, guidata dal procuratore capo Raffaele
Cantone ieri presente in aula, per i due indagati dovrebbe scattare
la misura cautelare degli arresti domiciliari. Richiesta che era
stata messa nero su bianco in oltre duecento pagine in cui si
paventava anche l'inquinamento delle prove e il pericolo di
reiterazione del reato. Diversa l'interpretazione del gip, che aveva
respinto l'istanza. Poi il ricorso della procura. E così ora si
discute davanti ai giudici del Riesame. La procura deposita due
memorie, due informative e anche un'annotazione trasmessa dal
Procuratore Nazionale antimafia Giovanni Melillo. Le difese
obiettano. «La mole di documenti depositati è consistente - spiega
l'avvocato Massimo Clemente, difensore di Striano insieme al collega
Tommaso Fusillo - Ci siamo opposti all'acquisizione per questioni
che riguardano le tempistiche». Non solo. «Questo non è un
procedimento di merito, ma sull'applicazione o meno delle misure
cautelari». E l'avvocato Andrea Castaldo, che assiste Laudati,
aggiunge: «Abbiamo ritenuto che si trattasse di atti inutilizzabili,
per cui ci siamo opposti. Il clima è stato costruttivo, valuteremo
dichiarazioni spontanee».
Mentre i giudici decideranno o meno se far scattare i domiciliari
(l'udienza è stata rinviata al 12 novembre), le indagini proseguono.
Secondo le accuse, gli accertamenti al centro dell'inchiesta non
muovevano da nessuna Segnalazione di operazione sospetta di cui si
doveva occupare la Dna nell'ambito di attività d'indagine
autorizzate. Insomma, accertamenti illegittimi. —
Secondo i consulenti del gip la morte del giornalista, malato di
cancro, sarebbe collegata alle ischemie confuse con metastasi
Purgatori, la perizia inguaia i medici "Una catastrofica sequela di
errori " VOLUTI ! Grazia Longo
Roma
Una carrellata di sbagli fatali da parte dei medici indagati. «Una
catastrofica sequela di errori ed omissioni». È impietosa la perizia
dei consulenti del gip, sulle responsabilità dei medici sotto
inchiesta per la morte del giornalista Andrea Purgatori, il 19
luglio 2023.
Nel registro degli indagati della procura, per omicidio colposo,
sono iscritti il radiologo Gianfranco Gualdi, il suo assistente
Claudio Di Biasi e la dottoressa Maria Chiara Colaiacomo, entrambi
appartenenti alla sua equipe, e il cardiologo Guido Laudani.
E ora la relazione disposta dal gip per stabilire le cause della
morte del conduttore tv è un lungo elenco di critiche nei loro
confronti. Perché è vero che Purgatori aveva il cancro ma, secondo
gli esperti, sarebbe vissuto più a lungo se avesse ricevuto cure
adeguate e se non ci fosse stata una diagnosi sbagliata. In altre
parole se le ischemie che lo colpirono non fossero state confuse con
metastasi che, a quanto risulta dalla perizia, non c'erano affatto.
Nelle conclusioni della perizia medico-legale disposta lo scorso
marzo, nell'ambito di un incidente probatorio, si ribadisce infatti
che «i neuroradiologi indagati refertarono non correttamente l'esame
di risonanza magnetica dell'8 maggio del 2023 per imperizia e
imprudenza e quelli del 6 giugno e dell'8 luglio per imperizia. Il
cardiologo Laudani effettuò approfondimenti diagnostici
insufficienti» e da lui in particolare ci fu una «catastrofica
sequela di errori ed omissioni». Il motivo? «Interpretò non
correttamente i risultati dell'esame holter, giungendo alla
conclusione che l'embolizzazione multiorgano fosse conseguenza di
fibrillazione atriale. Inoltre non valutò adeguatamente il quadro
clinico e gli effetti della terapia anticoagulante che aveva
impostato».
Per i periti, inoltre, «un corretto trattamento
diagnostico-terapeutico avrebbe consentito al paziente Purgatori un
periodo di sopravvivenza superiore a quanto ebbe a verificarsi. La
letteratura scientifica considera il tasso di sopravvivenza a un
anno in misura dell'80% qualora l'endocardite venga tempestivamente
adeguatamente trattata». Nel documento si afferma che l'endocardite,
che fu la causa del decesso di Purgatori, «avrebbe potuto essere
individuata più tempestivamente, per lo meno all'inizio del ricovero
dal 10 al 23 giugno del 2023, od ancora prima, nella seconda età di
maggio 2023 qualora i neuroradiologi avessero correttamente valutato
l'esito degli accertamenti svolti l'8 maggio».
Nel documento viene inoltre ricostruita anche la gestione clinica
del paziente e in riferimento al ricovero del luglio del 2023 i
periti affermano che Purgatori «viene dimesso apparentemente senza
visionare i risultati di un prelievo effettuato il giorno 19, dove
si rileva la severa anemia che avrebbe controindicato la
dimissione».
L'avvocato Alessandro Gentiloni Sileri, che segue i familiari del
giornalista, osserva: «La perizia conferma la tesi da subito
sostenuta dai miei assistiti: è stato curato per delle metastasi al
cervello inesistenti. In realtà si trattava di varie ischemie che si
sono susseguite e non sono state né diagnosticate né curate».
La trincea del Meisino
pier francesco caracciolo
Si sono frapposti fra le gru e l'area di cantiere. Un presidio
pacifico partito alle 8,30 e finito al tramonto. Così ieri un gruppo
di residenti e attivisti del Comitato Salviamo il Meisino ha
bloccato i lavori nel parco. Lo stop è avvenuto nel verde tra via
Nietzsche e corso Sturzo. Un angolo fino al quale gli operai,
presenti dal 6 settembre, non si erano ancora spinti. L
ostruzionismo degli attivisti ha bloccato il via alle opere
propedeutiche alla realizzazione di una delle venti aree attrezzate
per il centro di educazione sportiva e ambientale che sorgerà nel
2026. Ed è da valutare se oggi i lavori riprenderanno: i
"contestatori" promettono di tornare all'alba per un nuovo presidio.
«Siamo intervenuti per impedire la devastazione di questa riserva
naturale», il messaggio recapitato ieri. Il riferimento, in questo
caso, è all'intero parco del Meisino, location secondo gli attivisti
tutt'altro che adatta ad ospitare strutture sportive. Un polmone
«ricco di biodiversità», abitato «da centinaia di specie diverse di
animali e piante, che il passaggio delle ruspe spazzerebbe via»
sottolinea Roberto Accornero. Ha queste caratteristiche anche il
tratto tra via Nietzsche e corso Sturzo, ieri al centro della
contestazione. Per questo gli attivisti sono intervenuti in massa.
Erano una quarantina, alle 8,30, quando si sono appostati davanti
alla ruspa. Gli operai, al Meisino da un'ora, avevano rimosso una
striscia di verde lunga un centinaio di metri. All'arrivo dei
contestatori si sono fermati e sono scesi dalla gru. Gli agenti
della Digos, nel parco dall'alba, non hanno forzato il blocco.
Il cantiere, ieri, non si è fermato in toto. Gli operai hanno
proseguito le lavorazioni in un altro punto del Meisino:
all'interno, cioè, della cascina Malpensata, destinata a diventare
la sede operativa del nuovo polo sportivo open air. Si sono invece
tenuti alla larga da un altro tratto di verde, nei pressi dell'area
umida del parco. Si tratta del punto in cui, dal 16 settembre, i
lavori sono stati messi in stand-by dal Comune per non mettere a
repentaglio la vita di centinaia di ricci. Una sospensione arrivata
dopo una diffida ricevuta da Massimo Vacchetta, veterinario del
centro di recupero ricci di Novello (Cuneo). Era stato lui a
segnalare la presenza degli animali nel parco.
Il progetto prevede la nascita di un "centro per l'educazione
sportiva ed ambientale" nel parco. Un'operazione da 11,5 milioni di
euro, fondi in arrivo dal Pnrr. Un lavoro che, salvo intoppi, si
chiuderà tra 15 mesi. La cascina Malpensata, in stato di abbandono
da vent'anni, ospiterà attività didattiche, sportive e ambientali
rivolte soprattutto alle scuole. Tutto intorno, a distanza le une
dalle altre, sorgeranno le venti attrezzature sportive, comprese
aree giochi e fitness. Su di esse sarà possibile praticare dodici
discipline, tra cui arrampicata, corsa campestre, tiro con l'arco,
ciclocross e cricket. Prese singolarmente occuperanno il 10% del
parco, ma sorgeranno su un'area di 393 mila metri quadri (pari
all'87% del Meisino, ampio 450 mila metri quadri).
Quella di ieri è stata la terza operazione di ostruzionismo di
residenti e attivisti, che si presentano quotidianamente al Meisino
per monitorare il cantiere. Il 6 settembre, giorno dell'apertura dei
lavori, avevano bloccato per tre ore gli operai, prima di essere
sgomberati dalla Digos. Il 16 settembre, invece, avevano interrotto
le lavorazioni per mezz'ora.
Manette a Franco D'Onofrio, ras di Moncalieri e a un referente della
sigla confederale degli edili che faceva incetta di iscrizioni: "Ha
favorito le 'ndrine"
Tessere sindacali e cosche: cinque fermi per mafia C'è il capo del
Piemonte: voleva scappare all'estero
giuseppe legato
Il blitz del Gico della Guardia di Finanza è scattato all'alba e le
pattuglie degli investigatori del comando provinciale guidato dal
Generale Carmine Virno hanno puntato subito verso la cintura sud di
Torino. In via Bellini a Moncalieri, nei pressi di piazza Bengasi,
hanno suonato senza indugi al campanello della casa di Francesco
D'Onofrio, 64 anni, originario di Mileto (Vibo Valentia), vecchia
conoscenza della procura (non solo di quella di Torino).
Lo hanno arrestato. O meglio hanno eseguito un fermo per indiziato
di delitto per associazione a delinquere di stampo mafioso con il
grado di «dirigente della rete della ‘ndrangheta in Piemonte». Un
capo, dunque, accusa dalla quale il presunto boss era riuscito a
sottrarsi nel maxiprocesso Minotauro (concluso con una condanna
definitiva a 5 anni di carcere come partecipe) e che ora torna nel
lungo elenco delle contestazioni mosse dalla Dda di Torino. (pm
Paolo Toso, Marco Sanini e Mario Bendoni)
La perquisizione si è protratta per ore e alla fine è saltata fuori
una pistola calibro 38 che è stata immediatamente inviata agli
specialisti della balistica per capire se, dove e quando, abbia
sparato. Magari anche in degli omicidi. D'Onofrio avrebbe «promosso,
favorito e partecipato a incontri tra associati di diverse
articolazioni calabresi e piemontesi per intese, alleanze,
spartizioni del territorio, richieste di interventi di mediazione o
recupero crediti e per autorizzazioni a commettere delitti». E il
fermo è scattato perchè aveva chiesto - pare - di eliminare il
divieto di espatrio dal passaporto. Pericolo di fuga, dunque.
Colpisce tra gli altri cinque fermi eseguiti ieri mattina - che
qualificano un articolazione dedita «al controllo di attività
economiche nel settore edilizio, immobiliare, dei trasporti e della
ristorazione» - quello di Domenico Ceravolo, sindacalista in rampa
di lancio, membro della segreteria Filca Cisl di Torino (e Canavese).
Era stato eletto lo scorso 13 febbraio «a stragrande maggioranza –
si legge sul sito della sigla confederale – alla presenza dei
vertici nazionali». Sul suo profilo "X" riposta interventi e
promesse di vigilare sulla sicurezza sul lavoro, sul rispetto dei
diritti degli operai, sulla trasparenza. Eppure, secondo la Dda una
fotocopia di un suo documento di identità sarebbe stata trovata nel
covo del superboss Pasquale Bonavota arrestato a Genova il 23 aprile
2023 al termine di una lunga e misteriosa latitanza. Forse, Bonavota
avrebbe usato l'identità di Ceravolo per sottrarsi alla cattura. Sia
come sia il ruolo del sindacalista non si sarebbe fermato a questo.
Avrebbe avuto «un ruolo rilevante ai fini dell'attività
dell'associazione» scrive il procuratore di Torino Giovanni
Bombardieri in una nota. Pare anche tesserando diversi "edili" al
sindacato attingendo in ditte legate alle cosche. La Filca ha fatto
sapere di aver «immediatamente sospeso in via cautelativa Ceravolo».
Dettagli non sono ancora noti in attesa dell'udienza di convalida
davanti al gip che si terrà entro 48 ore, ma le condotte dovrebbero
riguardare la gestione della manodopera in alcuni cantieri. In
manette è finito anche Antonio Serratore, altro nome di un certo
peso nella galassia dei Vibonesi in Piemonte. Già soldato dei
temibili fratelli Adolfo e Aldo Cosimo Crea (prima ristretti al 41
bis e ora in libertà dopo aver scontato condanne non brevi come capi
dell'ala violenta delle ‘ndrine sotto la Mole), Serratore «si è
adoperato – scrivono i magistrati - per fornire sostegno finanziario
e assistenza logistica a favore del latitante Pasquale Bonavota,
ritenuto appartenente di spicco dell'omonima cosca del Vibonese». È
dunque altamente probabile che Bonavota (che dopo l'arresto di
Matteo Messina Denaro era diventato il latitante in cima alla lista
dei "wanted" del Ministero) sfuggito alla cattura nel maxi blitz
della procura di Catanzaro Rinascita Scott, sia passato dal
Torinese.
Tra i fermati figura anche una persona che ha fornito sul territorio
di Carmagnola protezione a imprenditori nel corso di dissidi con
altri operatori economici incassando – per questo ruolo – soldi cash
destinati poi ad altri boss ristretti in carcere e un altro complice
che «ha anche concordato versioni testimoniali da rendere in
processi sulle cosche conditi da una serie di menzogne "per
screditare un collaboratore di giustizia».
25.09.24
RAZZA FREGONA : (ANSA) - Grappa, vino e parmigiano comprati
con i soldi del Pnrr che avrebbero invece dovuto finanziare la
partecipazione a fiere e mostre internazionali da parte delle
piccole e medie imprese. E' soltanto uno degli episodi contestati
dai militari della Guardia di Finanza di Gallarate a tre
imprenditori (amministratori di una società con sede in zona) per i
quali la Procura di Busto Arsizio ha chiesto il rinvio a giudizio.
L'indagine dei finanzieri del Comando provinciale di Varese, guidati
dal generale Crescenzo Sciaraffa, ha sventato una frode al Pnrr del
valore di 700mila euro. L'attività svolta dalle Fiamme Gialle della
Compagnia di Gallarate ha avuto inizio con la verifica fiscale nei
confronti della società che aveva usufruito di oltre 700 mila euro
di crediti d'imposta, dal 2018 al 2023, finanziati dal Pnrr a
partire dal 2022, inerenti a Formazione 4.0., Ricerca e Sviluppo e
Acquisto di beni strumentali nuovi; tutti istituti introdotti per
diverse finalità e che prevedono specifici requisiti per poterne
beneficiare.
La Polizia economico-finanziaria ha individuato subito diverse
anomalie. La società, infatti, risultava aver inserito in attività
di ricerca e sviluppo costi relativi a numerosi lavoratori, quasi
tutti addetti alla produzione e che nulla avevano a che fare con
l'innovazione o lo sviluppo di nuovi prodotti.
Non è stata inoltre trovata documentazione che comprovasse
l'avvenuta formazione per i dipendenti. Sono infine stati rilevati
quei finanziamenti anche a fondo perduto finiti direttamente sul
conto di uno degli amministratori e usati per acquistare cibo e
bevande di pregio invece che per finanziare la partecipazione
dell'azienda a fiere e mostre internazionali. Chiuse le indagini
l'Autorità giudiziaria ha chiesto il rinvio a giudizio per i tre
imprenditori. La società ha deciso per il ravvedimento operoso
speciale versando, a ora, circa 300 mila euro all'erario.
palazzo chigi deve rispettare il patto nato. e strasburgo vuole 5
miliardi per kiev
Scoppia il caso delle spese per la Difesa Crosetto batte cassa:
servono due miliardi FRANCESCO OLIVO
ROMA
Fra le fatiche della scrittura della manovra se ne aggiunge
un'altra: trovare (almeno) due miliardi per aumentare le spese per
la Difesa. Il ministero di Guido Crosetto ha chiesto questi fondi al
collega di Via XX Settembre, ma Giancarlo Giorgetti non ha ancora
svelato le carte. Anche Palazzo Chigi preme per trovare le risorse
necessarie, anche perché c'è un impegno formale assunto da Giorgia
Meloni al vertice Nato dello scorso luglio a Washington. Davanti ai
leader dell'Alleanza Atlantica la premier ha promesso: «Nel 2025
faremo più investimenti e il bilancio della Difesa raggiungerà
l'1,6% del Pil». Si tratta di un incremento importante in termini
finanziari, attualmente la spesa militare rappresenta circa l'1,45%
del prodotto interno lordo e lo 0,15% in più costerà sacrifici.
Quella di quest'anno è una tappa di un percorso che dovrebbe portare
nel 2028 all'obiettivo posto dalla Nato, in particolare dagli Stati
Uniti: il 2%. La maggior parte degli Stati dell'Alleanza è andato in
questa direzione, compresa la Spagna guidata dal socialista Pedro
Sánchez e la Svezia, l'ultima arrivata del club, che nei giorni
scorsi ha annunciato lo stanziamento di altri 1,2 miliardi di euro.
Crosetto da tempo insiste nel chiedere alla Commissione di
scomputare questi investimenti dal patto di stabilità. Ma il nuovo
patto di stabilità varato a gennaio non prevede questo tipo di
deroghe. La speranza del governo è che ciò possa avvenire con la
nuova Commissione, anche se bisognerà passare dal custode del rigore
Valdis Dovmbroskis.
Lo sforzo non sarà soltanto economico, ma anche politico. Nel
governo si conta sulla lealtà della Lega, ma nel Carroccio in
versione "pacifista" qualcuno inizia a pensare che quelle risorse
debbano andare ad altri capitoli, come la previdenza. Chi è pronto
ad alzare le barricate è l'opposizione, o parte di essa. Alla marcia
della Pace di sabato scorso il tema dell'aumento della spesa
militare è stato evocato spesso. Uno dei leader presenti in Umbria,
Nicola Fratoianni di Avs chiede al Pd di unirsi alla lotta:
"Possiamo dire tutti nel campo progressista che spendere il 2% del
Pil in più per le armi in Italia è una follia ed agire di
conseguenza nei comportamenti nelle aule parlamentari?". Il
Movimento 5 Stelle è altrettanto netto nel chiedere di non spendere
un euro in più per gli armamenti.
Per rispettare gli impegni internazionali, in realtà, i due miliardi
non basterebbero. Una mozione del Parlamento europeo, approvata
giovedì scorso, chiede agli Stati membri di fornire lo 0,25% del Pil
per l'Ucraina. Per l'Italia il conto sarebbe di circa 5 miliardi. La
richiesta fa parte della risoluzione approvata giovedì scorso a
Strasburgo, che ha fatto molto discutere per l'articolo 8,
sull'utilizzo delle armi "europee" in territorio russo. Ma il
capitolo successivo, il 9, chiede un investimento finanziario più
alto. I parlamentari italiani della maggioranza tutti d'accordo nel
bocciare la fine dei vincoli sugli armamenti, si sono, invece divisi
sul nuovo finanziamento: Fratelli d'Italia ha votato no, come la
Lega, mentre Forza Italia ha detto sì. La risoluzione (non
vincolante) è stata approvata nel suo complesso con il voto
favorevole di FdI e FI e il no del Carroccio.
Sentenza nei confronti Roberto Guenno, assolto invece dall'accusa di
aver caldeggiato ai Cinquestelle la nomina di Graziosi a
sovrintendente
L'ex corista del Regio condannato a otto mesi "Bando su misura per
una ditta di marketing" ludovica lopetti
I buoni uffici del corista Roberto Guenno per far nominare William
Graziosi sovrintendente del Teatro Regio ai tempi in cui il
Consiglio d'indirizzo era a guida 5 Stelle non furono frutto di un
patto di mutuo aiuto, né di pressioni illecite. Per questo il tenore
dalla carriera-lampo ieri è stato condannato a 8 mesi di carcere
(con pena sospesa e non menzione nel casellario) per la sola
turbativa d'asta, in relazione a un bando cucito su misura per una
ditta di marketing milanese. La procura lo accusava anche di
interferenze illecite, ma da quell'addebito è stato assolto con
formula piena, «perché il fatto non sussiste». Dovrà inoltre versare
400 euro di multa e risarcire con 7mila euro la Fondazione Teatro
Regio, una cifra ben lontana dai 30mila euro di danni «non
patrimoniali» chiesti con la costituzione di parte civile dall'ente
lirico. Alla scorsa udienza il pm Elisa Buffa aveva chiesto una
condanna a 1 anno e 600 euro di multa, ritenendo provate entrambe le
contestazioni.
Per la procura Guenno, sindacalista già candidato per il Movimento 5
Stelle alla Regione Piemonte e al Comune di Torino, avrebbe
caldeggiato la nomina di Graziosi a sovrintendente del Teatro Regio
presso i politici 5 Stelle (tra cui l'allora sindaca Chiara
Appendino, cui spettava la scelta in veste di presidente del
Consiglio di Indirizzo) e in cambio avrebbe ottenuto promozioni e
avanzamenti di carriera per sé. Il tenore, al Regio sin dal Duemila,
è stato prima in servizio come corista, poi nel 2018 è passato a un
contratto tecnico-amministrativo per diventare assistente del
sovrintendente nel 2019. Incarichi per i quali, secondo le indagini,
non aveva titoli né competenze. Nella veste di tecnico, poi, avrebbe
collaborato alla stesura di un bando da 190mila euro per un appalto
a una società di marketing, che secondo gli investigatori fu viziato
da un accordo sottobanco per scalzare la concorrenza e favorire la
ditta di un imprenditore milanese. Le procedure però vennero
bloccate prima dell'aggiudicazione definitiva. Dal primo addebito
tuttavia è stato assolto con formula piena. L'imputato ha sempre
negato prebende e clientelismi: «Graziosi mi scelse perché trovava
interessante la mia esperienza - ha assicurato - Tutto quello che ho
fatto l'ho fatto per spirito di servizio. E quando ho cambiato
mansioni, il mio stipendio è rimasto invariato».
Per gli stessi fatti l'ex sovrintendente Graziosi resta indagato ad
Ancora insieme ad Alessandro Ariosi, manager di celebrità nel mondo
della musica lirica. Secondo gli inquirenti, tra i due ci sarebbe
stato un accordo corruttivo per promuovere l'agenzia del manager e
farle ottenere l'esclusiva sugli ingaggi. Un "patto" che sarebbe
rimasto immutato dal 2014, quando Graziosi era direttore generale
della fondazione di Jesi, per poi andare in Kazakistan, ad Astana, e
infine a Torino. —
24.09.24
In Tv: "la pista di Londra è la più importante"
Il fratello di Emanuela Orlandi "L'ex Nar Baioni il carceriere" Sarebbe stato uno dei "carcerieri" di Emanuela Orlandi,
incaricato di fare la spesa e di sbrigare altre attività pratiche
per la "gestione" della ragazza nascosta a Londra. È l'uomo che ha
contattato il fratello Pietro Orlandi oltre un anno fa, rivelandogli
poco a poco sempre maggiori particolari sul destino della sorella.
Ieri, ospite a Verissimo, Orlandi ha rivelato pubblicamente il nome
di quella "gola profonda" che dopo un dialogo serrato su piattaforme
digitali è scomparso nel nulla: «È un ex Nar, amico di persone come
Fioravanti e altri coinvolti nella strage di Bologna, si chiama
Vittorio Baioni». Il fratello della ragazza scomparsa ha anche
spiegato di non sapere se attualmente l'uomo sia vivo e dove si
trovi: «Non lo so – afferma – per questo speravo che qualcuno se ne
occupasse, per cercarlo e capire se lui era effettivamente la
persona che mi ha contattato o era solo uno che aveva usato il suo
nome, comunque presumo che sia vivo». A Verissimo Orlandi, pur
esprimendo molta fiducia nel lavoro della Commissione bicamerale di
inchiesta sulla scomparsa di Mirella Gregori e di Emanuela Orlandi,
che sta indagando insieme a due procure, quella romana e quella
vaticana, ha lamentato una sostanziale inerzia, proprio sulla pista
di Londra, quella a suo parere «più importante in assoluto».
E sull'uomo che gli avrebbe rivelato tanti dettagli decisivi,
afferma: «Siccome nessuno lo cerca, faccio io il nome». «È dura
veramente – ha esordito il fratello della donna –, dopo 41 anni non
riesco proprio a capire perché più si cercano cose e più arrivano
ostacoli». Secondo la pista inglese i pezzi del puzzle sarebbero da
cercareanche nelle chat tra Francesca Immacolata Chaouqui e
monsignor Vallejo Balda. Emanuela sarebbe stata a Londra sotto falsa
identità in un convitto, dall'83 fino almeno al '97.
23.09.24
Intrigo
sotto i
mari riccardo arena
palermo
I contorni della spy story c'erano sin dall'inizio, ma ora il timore
che interessi più o meno occulti e indicibili possano attirare sul
relitto del Bayesian l'attenzione di Paesi stranieri si fanno
concreti. Al punto che la Procura di Termini Imerese ha disposto il
rafforzamento dei controlli e della vigilanza sullo specchio di mare
di Porticello, vicino Palermo, sui cui fondali, 50 metri sotto la
superficie, giace dal 19 agosto il relitto del veliero Bayesian del
miliardario britannico Mike Lynch, morto nell'imbarcazione con altri
cinque passeggeri, tra cui la figlia diciottenne Hannah, oltre al
cuoco di bordo. Quindici i sopravvissuti, sui 22 a bordo, e tre gli
indagati: il comandante James Cutfield, il direttore di macchina Tim
Parker Eaton e il marinaio Matthew Griffiths.
Una nave della Marina militare staziona da settimane all'altezza del
punto in cui si trova il Bayesian. Sulla poppa della nave italiana
c'è una camera iperbarica, che consente alle squadre di sommozzatori
di immergersi più volte al giorno, ufficialmente per il recupero di
attrezzature già riportate a galla, come i sistemi di
videosorveglianza e di rilevazione meteorologica; una volta esaurito
questo tipo di interventi, però, l'apparato di vigilanza non è stato
disattivato, ancora ufficialmente per le operazioni preliminari al
recupero del veliero. Ma in verità il procuratore, Ambrogio Cartosio,
ha chiesto il rafforzamento della vigilanza agli investigatori
delegati alle indagini, Capitaneria di porto di Palermo e vigili del
fuoco, sollecitando anche le altre forze dell'ordine e suscitando
così l'attenzione della Cnn. Circostanza confermata, al network
televisivo di Atlanta, da Francesco Venuto, uno dei responsabili
della Protezione civile siciliana, altro ente coinvolto nei
controlli.
Perché – anche se non si può mettere nero su bianco negli atti
giudiziari – i materiali (e gli interessi) sommersi con questa
piccola nave di 56 metri proiettano verso scenari imprevedibili,
dato che Lynch avrebbe tenuto sempre con sé, in casseforti a tenuta
stagna, due hard disk crittografati con sistemi molto avanzati,
contenenti dati riservatissimi relativi ai rapporti delle sue
società di cybersecurity (in particolare la Darktrace –
letteralmente traccia oscura – acquisita in aprile dalla società di
private equity Thoma Bravo, sede a Chicago) con alcuni dei Servizi
più importanti del mondo, MI5 (Regno Unito), Nsa (Stati Uniti) e le
agenzie israeliane.
Lynch era stato superconsulente su questioni di altissima sicurezza
tecnologica anche di due premier britannici, Cameron e May. Cosa che
significa che dall'altra parte, interessatissimi a carpire i segreti
più top che possano essere in circolazione, potrebbero esserci russi
e cinesi. Solo teorie da film di spionaggio? Nella sorveglianza
dello specchio di mare, secondo quanto risulta da fonti consultate
da La Stampa, non sono però coinvolti né i Servizi italiani né il
Ros, dunque gli inquirenti della piccola Procura termitana, a cui è
toccata questa indagine degna di una vicenda alla 007, si servono
degli investigatori già delegati. Lynch si portava sempre dietro i
dispositivi, dato che non si fidava delle "nuvole" del cloud, in cui
gli accessi indesiderati sono complicatissimi ma non impossibili.
Per questo il timore di intrusioni subacquee non fa dormire sonni
tranquilli.
Finora si è accertato che i coniugi Bloomer e Morvillo non sarebbero
annegati ma, rimasti senz'aria nella bolla che si erano ricavati in
cabina, sarebbero morti per mancanza di ossigeno. Sicuro
l'annegamento del cuoco, Recaldo Thomas, qualche dubbio in più per
Lynch e la figlia. Mentre non ci sono i risultati degli esami
tossicologici: non si sa cioè se le vittime fossero stordite da
droghe, sonniferi o alcol.
Ciò che però continua a essere la madre di tutte le suggestioni è la
fine, quanto meno anomala nella sua quasi-contemporaneità,
dell'avvocato inglese Stephen Chamberlain, morto lo stesso giorno
del naufragio, lunedì 19 agosto, dopo essere stato investito, sabato
17, mentre faceva jogging vicino casa, in Inghilterra. Chamberlain
era il socio di Lynch. L'altra suggestione è che nella tragedia del
Bayesian in fondo sono morti tutti coloro che festeggiavano il
successo nella causa in cui in qualche modo erano coinvolti, quella
tra il magnate britannico e la Hp sul software Autonomy: il
testimone Bloomer, presidente di Morgan Stanley, e l'avvocato
Morvillo, legale del tycoon nel processo civile. Tutti e tre erano
così pure potenzialmente a conoscenza dei segreti di Autonomy,
Darktrace e dei rapporti con le intelligence occidentali.
Come Chamberlain, l'avvocato ucciso da un'automobilista distratta,
nella lontana (da Porticello) Inghilterra.
L'ex operaio Sigifer sulla strage ferroviaria: "Parlo per aiutare
quei cinque poveri ragazzi a trovare pace con la verità. Se la
Procura mi chiama io vado"
"Anche noi sui binari come a Brandizzo Mi opposi e la ditta non pagò
le ore di lavoro"
giuseppe legato
inviato a Desana (Vc)
Desana, 8 km da Vercelli viaggiando verso Trino su una lingua
d'asfalto che taglia in due sterminate colture di riso. In questo
borgo di poche anime c'è un uomo che ha una storia da raccontare
sulla più grave strage ferroviaria italiana degli ultimi 15 anni. Ne
è stato testimone diretto. Ha lavorato fino al 2022, con tre delle
cinque vittime investite da un treno di 15 convogli vuoti che
viaggiava a 150 km/h la notte del 30 agosto 2023 mentre stavano
lavorando sul binario senza interruzione di linea
Si chiama Alessandro Cantamessa, ha 43 anni, sposato, due figli: «La
mia - premette - non è una vendetta verso nessuno anche se in
quell'azienda ho avuto una vertenza, ora chiusa, per una mano che ha
perso il 45% di funzionalità. Ma devo a quei ragazzi la verità,
almeno la mia e sono pronto ad andare in procura a confermare ciò
che sto per dire».
Allora dica...
«Punto prima: non era un'eccezione che si scendesse a lavorare sui
binari senza interruzione di linea. Il mio caposcorta era Gibin (uno
dei due principali indagati per i fatti di Brandizzo ndr)».
Se non era una rarità cos'era?
«Una prassi».
Cosa vi veniva chiesto e chi ve lo chiedeva?
«Gibin, col quale ho lavorato più volte, era il nostro capo cantiere
per Sigifer. Accadeva spesso che ci dicesse di iniziare le
lavorazioni preliminari».
Sarebbe a dire?
«Sbullonare, scavare: questo insomma».
Con interruzioni di linea?
«Senza».
C'era anche il responsabile della sicurezza di Rfi durante le
lavorazioni?
«Certo, c'era anche lui. Ci dicevano: prima iniziamo e prima ce ne
andiamo. Cosi scendevamo sui binari fiduciosi della loro promessa».
Che in soldoni era?
«Quando vi dico di uscire vuol dire che c'è un treno che deve
passare. E noi risalivamo sulla banchina».
Perché nessuno si è mai opposto a questa indicazione?
«Molti erano inconsapevoli. E poi in azienda erano stati chiari:
fate quello che dice Gibin».
Qualcuno si è mai opposto a questa presunta abitudine?
«Io una notte mi sono opposto. Gli ho detto che non sarei sceso
sulla massicciata perché lui stesso aveva detto in presenza del
caposcorta Rfi che non avevamo interruzione di binario».
Che risposta ottenne?
«Mi disse che avrei potuto andarmene sul furgone e che non mi
avrebbe segnato le ore».
Cioè non l'avrebbe pagata?
«Esattamente».
E andò così?
«Le ore non furono messe a conteggio per la busta paga».
Rappresentò in azienda quanto accaduto?
«Si e mi dissero che si doveva fare quello che diceva Gibin. Sui
pagamenti poi, in generale molte ore sparivano dal cedolino».
Cioè lavoravate di più di quanto venivate pagati?
«Diciamo che trascorrevamo in servizio 220/230 ore e ne venivano
retribuite 160».
Quante ore lavoravate?
«Capitava spesso che dopo aver fatto il turno del mattino, una volta
tornati a casa il pomeriggio ti chiamassero per dirti: stasera ci
servi. E così si proseguiva fino al mattino dopo».
Come mai ha deciso di parlare adesso e non prima?
«Ho incontrato al cimitero il padre di Kevin (la più giovane vittima
dell'incidente ferroviario ndr). È pieno di rabbia, vuole giustizia.
Intendo solo fare la mia parte, per quanto posso, affinché venga
accertata la verità».
Alcuni penseranno che la sua possa essere una vendetta per i cattivi
rapporti che aveva in azienda?
«Non è così. Ho perso la funzionalità di una mano per i pesi enormi
che dovevo sollevare. Sono stato indennizzato. Adesso ho un altro
lavoro e mi occupo di compostaggio di rifiuti. Non ho bisogno di
parlare per me, ma per Kevin e gli altri operai che non ci sono
più». —
22.09.24
L'ENERGIA SERVE PER LE CRIPTOVALUTE NON A NOI :
RIAPRE CENTRALE NUCLEARE THREE
MILE ISLAND, PER MICROSOFT
(ANSA) - WASHINGTON, 20 SET - Il gruppo energetico americano
Constellation ha annunciato la riapertura di un'unità di Three Mile
Island in Pennsylvania, dove nel 1979 è avvenuto il più grave
incidente nucleare nella storia degli Stati Uniti, per fornire
elettricità ai data center di Microsoft. Secondo il comunicato
stampa, l'accordo firmato con il colosso americano dell'informatica
ha una durata di 20 anni e consentirà di rilanciare l'unità 1,
vicina a quella teatro dell'incidente.
Estratto dell’articolo di Antonio
Fraschilla e Giuseppe Colombo per “la Repubblica”
Non erano stati informati né
Palazzo Chigi né il ministero dell’Economia. Eppure i contatti tra
Sace e BlackRock erano in fase avanzata. Così intensi da arrivare a
definire anche l’importo dell’accordo: 3 miliardi di euro. I due
soggetti hanno interloquito per un paio di mesi, spiegano fonti
finanziarie di primo livello: un dialogo volto a sondare la
possibilità per il fondo Usa di gestire una parte della liquidità
della società controllata direttamente dal ministero dell’Economia.
Poi però qualcosa è andato storto, complice anche l’imbarazzo del
governo tenuto all’oscuro. [...]
Il 9 settembre è Bloomberg a svelare l’avvicinamento. «BlackRock -
informa l’agenzia di stampa- è in trattativa con la società statale
italiana di credito commerciale per gestire fino a 3,3 miliardi di
dollari di asset, una mossa che potrebbe rafforzare la posizione del
gestore patrimoniale statunitense nella terza economia della zona
euro».
Sace smentisce, il Mef chiede spiegazioni alla sua controllata.
L’amministratore delegato Alessandra Ricci assicura a Giancarlo
Giorgetti che la vicenda non esiste. Per il titolare del Tesoro, la
storia finisce qui. Ma in realtà i contatti con il fondo americano
vanno avanti. Fino a pochi giorni fa, come spiegano fonti interne
alla società.
E nelle ultime ore le voci del riavvicinamento sono iniziate a
circolare con insistenza in ambienti finanziari. Non solo quelle sui
dettagli sulle interlocuzioni operative. A tenere banco ci sono
anche le indiscrezioni su un possibile stop del governo. Palazzo
Chigi fa muro. Fa sapere che «è totalmente priva di fondamento il
fatto che Palazzo Chigi abbia ostacolato il dialogo tra Sace e
BlackRock, circostanza che non avrebbe alcun senso anche perché il
governo italiano ha sempre guardato con grande favore gli
investimenti di realtà estere, per di più di nazioni amiche, sul
territorio italiano».
Ma le fonti interpellate da Repubblica tengono il punto e legano
l’imbarazzo del governo alla postura assunta da Sace. In tempi di
legge di bilancio, con il governo Meloni impegnato a raschiare il
fondo del barile per trovare le risorse, la notizia della trattativa
- è il ragionamento - non è piaciuta affatto.
Il caso sbarcherà in Senato: i dem Nicola Irto e Antonio Misiani
hanno presentato un’interrogazione urgente chiedendo di informare il
Parlamento sui movimenti attorno ad «asset strategici nazionali» e
per cifre così elevate, per di più di una società di Stato chiamata
a sostenere le imprese italiane.
Da Sace precisano a Repubblica: «Nessun accordo specifico è stato
preso, né siamo in trattativa. Ciò premesso, ricordiamo che è prassi
consolidata per una realtà come Sace quella di dialogare con più
partner per una migliore gestione finanziaria della propria
liquidità». Ma il Pd insiste. Chiede di sapere «quali comunicazioni
abbia dato Sace al ministro Giorgetti nel merito delle suddette
trattative e se lo stesso abbia richiesto chiarimenti». [...]
Estratto dell’artcolo di Gabriele Carrer
per “Italia Oggi” Racconta Il Secolo XIX che,
«mentre le istituzioni liguri erano alle prese con l’inchiesta
giudiziaria che ha travolto i vertici di Regione e Autorità
portuale, una delegazione di Lingang ha visitato Genova». Lingang è
la zona economica speciale creata dal governo cinese nel porto di
Shanghai. Alla guida della delegazione c’era Liu Wei,
vice-presidente dello Shanghai lingang economic development group,
la società statale che promuove lo sviluppo di Lingang.
La visita nel capoluogo ligure si è svolta il 22 luglio scorso,
ovvero la settimana prima della visita a Pechino in cui Giorgia
Meloni, presidente del Consiglio, ha firmato un piano d’azione
triennale per rilanciare il partenariato strategico globale dopo il
mancato rinnovo del memorandum d’intesa sulla Belt and road
initiative, la cosiddetta Via della Seta.
Carlo Golda, presidente di Liguria International, la società
regionale che promuove l’internazionalizzazione delle imprese
liguri, ha spiegato al quotidiano locale che la delegazione cinese
ha incontrato «dirigenti pubblici locali, di Regione, Comune,
Autorità portuale, oltre agli agenti marittimi, agli spedizionieri e
a Confindustria». È proprio nella cornice del rilancio dei rapporti
dopo la fine della Via della Seta che va letta la missione.
[…] Sempre Il Secolo XIX racconta che giovedì 26 settembre si terrà
un incontro a porte chiuse, con imprese liguri, alla Camera di
commercio di Genova. A capo della delegazione ospite sarà il China
council for the promotion of international trade, braccio operativo
governativo in materia di commercio estero che sarà anche a Milano e
Piacenza. A organizzare l’incontro è, insieme a Liguria
international, Renai Chan, storico rappresentante della comunità
cinese a Genova, delegato del Ccpit in Italia.
Il memorandum del 2019, firmato dal governo gialloverde guidato da
Giuseppe Conte, era stato accompagnato da una serie di accordi
commerciali, compresi due che sia il porto di Genova sia il porto di
Trieste avevano concluso con l’impresa statale cinese China
communications construction company.
Le – anche recenti – mire cinesi su Trieste hanno fatto drizzare le
antenne a molti, anche oltre Atlantico, considerato che lo scalo può
diventare il terminal europeo del corridoio India-Medioriente-Europa
(Imec) lanciato un anno fa a margine del G20 di Nuova Delhi, in
India. Non è certo meno strategico il porto di Genova. Basti pensare
al sistema di cavi BlueRaman, a cui partecipano Sparkle, Google e
altri operatori, per collegare Italia, Francia, Grecia e Israele (Blue
System) e Giordania, Arabia Saudita, Gibuti, Oman e India (Raman
System).
ASSALTO ALLA DILIGENZA: Palazzo Chigi rilancia la riforma Foti che
limita la responsabilità dei funzionari pubblici: "Superare la paura
della firma"
Corte dei conti nel mirino del governo Danno erariale soltanto in
caso di dolo
luca monticelli
roma
Il centrodestra riprende in mano il dossier sui poteri della Corte
dei conti. Dopo aver tolto ai magistrati contabili il "controllo
concomitante" sul Pnrr e garantito a funzionari e amministratori lo
"scudo erariale" – che scade il 31 dicembre di quest'anno – il
governo mette al centro del dibattito politico la proposta di legge
Foti sulla riforma delle funzioni di controllo della Corte. È stato
il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano a
rilanciare il progetto firmato dal capogruppo di Fratelli d'Italia,
con la scusa di voler seguire l'appello di Confindustria contro la
burocrazia. Citando il leader degli imprenditori Emanuele Orsini,
Mantovano dice: «C'è un'Italia che va avanti superando ostacoli di
ogni tipo, e c'è un'Italia che invece frappone ostacoli, che si
nasconde dietro la burocrazia. Spero che non sia considerato
blasfemo chiedere al Parlamento di quale Italia desideriamo che
faccia parte la Corte dei conti».
La proposta di legge di Fdi all'esame delle commissioni Affari
costituzionali e Giustizia della Camera si basa principalmente su
due misure. La prima riguarda il controllo preventivo sugli atti
che, se positivo, garantisce una liberatoria per gli amministratori.
In sostanza, qualora un determinato atto amministrativo abbia
superato il controllo preventivo di legittimità della Corte, non
sarà più possibile sottoporre a giudizio per responsabilità erariale
i funzionari che lo hanno adottato. «Sono salvi i casi di dolo –
spiegano dalla maggioranza – viene riconosciuto il fatto che il
dipendente possa aver commesso un errore in buona fede». Limiti
vengono messi anche alle sanzioni. In caso di colpa grave
l'amministratore infedele rischia al massimo due annualità di
trattamento economico. E qui veniamo al secondo pilastro della
riforma Foti: secondo Palazzo Chigi l'introduzione del tetto alla
responsabilità colposa è lo strumento più adeguato per affrontare la
paura della firma. Su questo argomento oggi opera lo "scudo
erariale", approvato con l'alibi del Pnrr per restringere ai casi di
dolo le contestazioni della Corte. Nonostante l'abuso d'ufficio sia
stato abrogato recentemente da questo Parlamento, si vuole comunque
rendere strutturale lo scudo erariale, limitando, appunto, a due
anni di stipendio la sanzione patrimoniale del funzionario
responsabile del danno erariale.
L'ultima proroga dello scudo ha già fatto polemizzare l'associazione
dei magistrati della Corte dei conti, che pubblicamente ne ha
denunciato il carattere «ingiustificato» e il rischio di esporre il
Paese «allo spreco di denaro pubblico».
La riforma proposta dalla maggioranza lascia tanti dubbi alle toghe
contabili, c'è la sensazione che si voglia depotenziare la Corte.
C'è chi fa notare che nonostante i quattro anni di scudo erariale
per eliminare la paura della firma, «un evidente miglioramento
dell'efficienza dell'amministrazione non c'è stato». L'opposizione
aveva annunciato le barricate, ora il Partito democratico procede
guardingo, cercando di cogliere gli umori degli stessi magistrati,
favorevoli a un rafforzamento dei controlli preventivi. Al convegno
di due giorni fa in Senato, il presidente del Copasir Lorenzo
Guerini, esponente dell'area riformista dei dem, ha auspicato «un
confronto vero», in primis per risolvere quei problemi che in questi
ultimi anni sono stati messi al riparo proprio con l'escamotage
dello scudo erariale, introdotto dal governo Conte II durante la
pandemia.
L'inchiesta della procura europea contro due imprenditori e una
società: sottratti a Bruxelles contributi per oltre un milione e
300mila euro
La truffa del super drone per i medicinali "Finanziato dall'Ue, non
ha mai volato"
elisa sola
Alla dimostrazione del volo del prototipo del drone, avevano
invitato anche la direttrice della banca a cui avevano chiesto i
primi 800mila euro di prestito. E il drone, perlomeno quello del
grande evento che si era svolto in pompa magna, aveva volato.
Presentando il velivolo radiocomandato, i dirigenti della società
Apr Aerospace, presunta "start up innovativa del settore aeronautico
avanzato", avevano detto che sarebbe stato in grado di coprire, per
il trasporto di medicinali e organi per trapianti, la distanza tra
Milano e Torino in soli 20 minuti.
Ma sarebbe stata tutta una grande truffa. Apr una sorta di società
vuota. Il drone un fantasma. La start up una finta. L'unica cosa
vera, della grande operazione dei droni super veloci progettati e
poi spariti nel nulla, sarebbero stati i soldi. Un milione e 300mila
euro chiesti alle banche e ottenuti dall'Unione europea per
costruire qualcosa che non è mai esistito. E il denaro è svanito nel
nulla.
Il procuratore europeo delegato Stefano Castellani ha chiesto il
giudizio immediato per Fabio Angeleri, pilota di linea di Tortona ed
esaminatore dell'Ente nazionale per l'Aviazione civile e per Fabio
Franzosi, considerato dall'accusa amministratore della Apr Aerospace.
Anche la società, che ha sede a Torino in via Duca degli Abruzzi, è
indagata. Angeleri e Franzosi sono ai domiciliari da questa estate.
Tra i reati contestati a entrambi, la truffa all'Unione europea, che
aveva concesso alla società Apr tre finanziamenti per progettare e
costruire il fantomatico drone super veloce. Il presunto raggiro si
sarebbe protratto, secondo la Guardia di finanza, dal 2021 al 2023.
«Si tratta di un convertiplano dotato di cinque motori elettrici ad
alta efficienza» aveva dichiarato Angeleri durante il battesimo
dell'aria del prototipo. «Il drone rappresenterà un'innovazione
fondamentale nel settore dei trasporti leggeri e sarà in grado di
trasportare un carico pagante fino a 10 chili». Ma secondo gli
inquirenti, sarebbero state tutte menzogne. Scuse per incassare
soldi. L'idea, ai due indagati, era venuta durante la pandemia del
2020. «L'aeromobile è costruito in carbotanio, il materiale più
resistente al mondo - spiegava Angeleri - pesa non più di sei chili
ed è in grado di volare ad oltre 350 chilometri orari compiendo
tragitti di lungo raggio, fino a 100 chilometri e ritorno, su
aerovie dedicate, in condizioni di massima sicurezza». Il fatturato
promesso era di 13,5 milioni di euro, la capacità produttiva di 600
pezzi all'anno. Il costo di ciascun esemplare dai 6mila ai 20 mila
euro. Ma sarebbero state soltanto parole. Il fantomatico
«convertiplano in fibra di carbonio e kevlar», gli investigatori lo
hanno visto solo sulla carta. O meglio, su presunti documenti falsi
creati ad hoc per ottenere i finanziamenti . Gli indagati, difesi
dagli avvocati Mario Almonda, Paolo Pacciani e Roberto Tava,
avrebbero comprato il know how da una società di Milano, con
un'altra intermediaria, senza pagare nulla. Avrebbero assunto
qualche ingegnere, all'inizio. Poi avrebbero smesso di pagare lo
stipendio anche a loro.
«Il primo finanziamento - ha testimoniato la direttrice della banca
raggirata - era per la progettazione della messa a punto del drone.
Il secondo serviva a costruirlo e a renderlo commercializzabile. Io
ho visto volare un prototipo». Di chi fosse il velivolo della prova,
non è chiaro. Ad accorgersi della truffa, una società di ingegneria
specializzata nel settore aeronautico incaricata da Apr per la
realizzazione del drone. Secondo la Guardia di finanza la stessa Apr
sarebbe stata una scatola vuota. Nel 2021 e 2022 non risultano
incassi. Quelli del 2023 ammontano a 2.952 euro.
21.09.24
STESSI RISULTATI CON LE RINNOVABILI A COSTI INFERIORI, SOLE VENTO
SONO A COSTO 0, E PRODUZIONI ILLIMIMITATA E RISCHI E TANGENTI
0: "Con il nucleare 34
miliardi di risparmi Legge entro l'anno, produzione dal 2030"
Gilberto Pichetto Fratin
L'energia
Le scorie
"
luca monticelli
roma
Dopo il grido di allarme del presidente di Confindustria Emanuele
Orsini, che chiede al governo una scelta coraggiosa perché il costo
dell'energia è diventato insostenibile per le aziende italiane, il
ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto
Pichetto Fratin annuncia che varerà un disegno di legge per il
rilancio del nucleare. Così «il nostro Paese risparmierà fino a 34
miliardi di euro l'anno». Nel 2030 si passerà «dalla sperimentazione
alla produzione dei nuovi moduli nucleari».
Secondo gli imprenditori il Green Deal europeo mette a rischio
l'industria italiana, lei è d'accordo?
«La posizione dell'Italia è sempre stata chiara sul Green Deal: non
abbiamo mai messo in dubbio gli obiettivi finali, cioè di
raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, ma gli strumenti
imposti per farlo. Per due motivi essenzialmente: il primo è che non
si è mai vista, se non nell'Unione Sovietica dei piani quinquennali,
la politica che pretende di imporre i tempi e le tecnologie alla
scienza. Il secondo è dato dalla natura profondamente diversa dei
Paesi che compongono l'Europa. L'Italia quindi non mette in
discussione né gli obiettivi di decarbonizzazione né i traguardi del
2030 e del 2050. Abbiamo invitato soltanto ad abbandonare
l'ambientalismo ideologico che per tanti anni è stato alla base di
molte scelte europee. Più realismo e meno idealismo».
La premier Meloni ha promesso che l'esecutivo lavorerà per cambiare
le regole che prevedono lo stop alle emissioni. Cosa avete
intenzione di fare concretamente se la scadenza del 2050 sulla
neutralità climatica non si tocca?
«Il governo lavorerà, soprattutto con la nuova Commissione e il
nuovo Parlamento europeo, per raggiungere gli obiettivi comuni di
decarbonizzazione proponendo un percorso compatibile con le
politiche economiche e sociali del nostro Paese. Due esempi su
tutti: le auto e le case green. Sulle prime la posizione italiana è
chiara: fermo restando che quello elettrico con ogni probabilità
sarà il motore del futuro, non possiamo stabilire con legge,
quindici anni prima, che dal 2035 non dovranno più essere prodotti i
motori endotermici. Anche con l'utilizzo dei biocarburanti questi
motori saranno in grado di garantire emissioni ridotte. Altrimenti
vuol dire che non si fa la battaglia sul fine ma sul mezzo. La
stessa cosa è sulle case green: l'obiettivo è costruire tutte le
nuove case a emissioni zero e fare un piano ventennale di intervento
sui vecchi edifici. Ancora una volta non mettiamo in dubbio
l'obiettivo comune finale della neutralità climatica al 2050, ma
chiediamo di poterlo raggiungere difendendo gli interessi delle
famiglie e delle imprese italiane».
Uno dei temi principali posti dagli industriali riguarda il costo
dell'energia. L'unica soluzione è il nucleare?
«In questo momento si, l'unica soluzione è il nucleare di nuova
generazione da affiancare all'energia prodotta dalle rinnovabili
tradizionali. Per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione
dobbiamo eliminare progressivamente il carbone, il petrolio e infine
il gas. Con le tecnologie di oggi non possiamo contare soltanto
sulle rinnovabili perché non sono continuative e non abbiamo ancora
le sufficienti capacità di accumulo, si sprecherebbe troppo per
trasportare l'energia dal luogo in cui si produce a quello in cui
principalmente si consuma. Ecco perché con una domanda di energia in
continuo aumento abbiamo voluto nel nostro mix energetico del futuro
il nucleare di ultima generazione che, ricordo, è stato inserito
nella tassonomia europea come fonte green di produzione energetica».
Quanti anni ci vogliono per tornare al nucleare?
«Un anno fa, quando nessuno parlava ancora di questo tema, il
ministero dell'Ambiente e della sicurezza energetica ha avviato la
Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile. I tecnici ci
dicono che per i primi anni Trenta ci sarà la possibilità di passare
dalla sperimentazione alla produzione dei nuovi moduli nucleari. Noi
stiamo lavorando, senza alcun ritardo, per consentire all'Italia di
farsi trovare pronta e preparata. Con la collaborazione del
professor Giovanni Guzzetta penso che saremo pronti a presentare un
disegno di legge di riordino della materia per la fine di
quest'anno. Conto che possa essere discusso e approvato entro il
2025».
I piccoli reattori modulari di nuova generazione che impatto avranno
sull'economia?
«Avranno un grande impatto perchè ci sono aziende italiane alla
guida dei principali e più avanzati progetti di ricerca, attivi nel
mondo nel campo della fissione avanzata e dell'energia da fusione. E
poi perché saremo in grado di garantire energia al nostro sistema
industriale a un costo concorrenziale: non possiamo più andare
avanti con l'energia che costa il doppio rispetto al resto d'Europa.
È una battaglia che abbiamo iniziato un anno fa per le famiglie e
per le imprese italiane. Con grande soddisfazione vediamo crescere
il consenso intorno alla nostra iniziativa. Con il 22% di nucleare
nel nostro futuro mix energetico nazionale, potremo far risparmiare
al nostro Paese fino a 34 miliardi l'anno».
Come si farà a smaltire le scorie? Lei ha un piano?
«Le vecchie scorie potremmo lasciarle ancora in Francia e in
Inghilterra, continuando a pagare un affitto, in attesa di portarle
in un deposito geologico che sarebbe bello se fosse unico e europeo.
Il vero problema sono i rifiuti di bassa e media intensità,
soprattutto di origine sanitaria, che produciamo quotidianamente.
Per quelli abbiamo il dovere di trovare la soluzione con uno o più
depositi nazionali».
FIAT TORINO CAVALLO DI TROIA CINESE : Nel polo di
interscambio del Drosso le verifiche sui Suv C10 in attesa del
debutto sul mercato italiano: coinvolti una trentina di addetti in
cassa
A Torino le prime auto dei cinesi di Leapmotor Gli operai di
Mirafiori curano la messa a punto
leonardo di paco
Il debutto sul mercato europeo delle auto cinesi di Leapmotor,
azienda guidata da Stellantis in quote 51:49, passa da Mirafiori.
Dopo essere salpati a fine luglio da Shanghai alla volta dei porti
europei, i primi veicoli dei Suv C10, circa 300, una volta arrivati
in Europa sono stati portati a Torino. Come comunicato con una nota
dall'azienda «nell'ambito del consueto processo di verifica finale,
per assicurare la piena soddisfazione dei clienti, Stellantis
mobiliterà per un breve periodo alcune decine di lavoratori dalle
Carrozzerie di Mirafiori e dal polo di interscambio di Drosso».
Ossia dove di solito si svolgono tali attività per tutti i marchi
del gruppo. Questa attività, che consente nella verifica dei
documenti ma anche in messe a punto dal carattere più tecnico,
coinvolgerà al momento una trentina di addetti dello stabilimento di
Mirafiori.
«Tale iniziativa - ha proseguito il gruppo - consente anche di
ridurre parzialmente gli effetti dell'utilizzo degli ammortizzatori
sociali attualmente necessari in relazione al calo della domanda di
mercato». Troppo presto, per adesso, ipotizzare che questo tipo di
attività possa diventare strutturale all'interno del comprensorio
torinese. Anche perché le prime spedizioni nel Vecchio Continente
rappresentano solo il punto di partenza di una collaborazione a
lungo termine fra le due aziende che «mira a trasformare le mobilità
elettrica in Europa e non solo». Nei prossimi tre anni è prevista la
commercializzazione di almeno un modello all'anno.
Il messaggio lanciato dal gruppo, nato dalla fusione fra Fca e Psa,
è comunque da non sottovalutare: le competenze dei dipendenti dello
stabilimento potrebbero assegnare a Mirafiori un ruolo di primo
piano nei futuri sviluppi della joint venture. In attesa che
riprendano gli ordini della 500 elettrica e che cominci, a partire
da inizio 2026, la produzione della 500 ibrida come confermato pochi
giorni fa dall'amministratore delegato Carlos Tavares .
A ottobre 2023, le due società avevano annunciato l'investimento da
parte di Stellantis di circa 1,5 miliardi di euro in Leapmotor, per
l'acquisizione di circa il 21% delle quote dell'azienda
automobilistica classificata nel 2023 tra le prime 3 start up cinesi
di veicoli elettrici. Il Suv C10 è il primo prodotto di Leapmotor
studiato per il mercato globale, in linea con gli standard
internazionali di progettazione e sicurezza. La C10, che dovrebbe
avere un'autonomia di 420 chilometri, è una vettura appartenente al
segmento D completamente equipaggiata e pensata per la famiglia, con
un'esperienza di guida definita "premium".
Nel frattempo, è stato attivato il sito europeo di Leapmotor, anche
in lingua italiana, per permettere ai potenziali clienti di farsi
un'idea dell'offerta in attesa del debutto nei canali di
distribuzione di Stellantis.
La nota diffusa dal gruppo contro la gestione della trasformazione
della grande area verde
Meisino, sinistra ecologista all'attacco "Ostacolato il diritto di
manifestare"
«Quello che vediamo da giorni nel parco del Meisino è l'ennesima
prova che la direzione che il nostro Paese sta prendendo, in termini
di limitazione al diritto di esprimere dissenso, è inaccettabile. La
prassi di affiancare le forze dell'ordine agli operatori di
cantiere, allo scopo di ostacolare il legittimo diritto di
manifestazione, va interrotta al più presto».
Questa è la nota diffusa nelle ultime ore da tutto il gruppo di
Sinistra Ecologista, che peraltro fra i banchi del consiglio
comunale siede tra le fila della maggioranza. Un segno di rottura,
in questo caso, per le modalità con cui l'amministrazione sta
gestendo la trasformazione della grande area verde nella zona di
Sassi, dove alla fine del 2025 sorgerà il nuovo "Centro per
l'educazione sportiva e ambientale".
Negli scorsi giorni un gruppo di persone, attivisti e contestatori
dell'opera, avevano organizzato un presidio per cercare di impedire
l'inizio degli interventi con le ruspe. Motivo per cui si è deciso
di far scortare gli operai dalla Digos, per ragioni di sicurezza e
per consentire la regolarità del cantiere. Una scelta che però fa
levare voci contrarie anche all'interno di Sinistra Ecologista, come
spiega la consigliera della Circoscrizione 7 Ilaria Genovese: «Chi
si oppone al progetto lamenta anche la mancanza di coinvolgimento
della cittadinanza – dice – L'intera operazione è stata varata senza
autentiche possibilità di discussione pubblica, nemmeno da parte del
consiglio comunale». E aggiunge: «Se c'è un danno che il progetto
del Meisino ha già fatto, è quello di spezzare la fiducia nelle
istituzioni, da parte di cittadine e cittadini che oggi protestano.
Anche per questo motivo, invitiamo nuovamente a un confronto sul
progetto il comitato e tutte le persone che sono interessate al
futuro di quell'area».
L'appuntamento è fissato per mercoledì prossimo, alle 18, 30, nella
sede di Sinistra Ecologista in piazza Moncenisio. Sarà un momento di
scambio e di confronto, quello che secondo il gruppo è mancato
finora. «Il parco del Meisino è un'area a protezione speciale
sottoposta a vincoli naturalistici e paesaggistici – dicono da tutto
il gruppo – In linea di principio, ogni attività che possa avere un
impatto tale da intaccarne la conservazione, come quelle dello sport
agonistico, andrebbe evitata».
Il progetto di restyling prevede la riqualificazione della Cascina
Malpensata, che si trova in uno stato di abbandono da almeno
vent'anni e, a fasi alterne, è oggetto di alcune occupazioni
abusive. Saranno poi allestite una ventina di attrezzature sportive,
nessuna ancora al terreno. Fra queste ci sono le strutture per
l'arrampicata sportiva, tiro con l'arco, disc golf, ciclocross,
piste di pump track e skills bike appoggiate su delle pedane in
legno. Un progetto da 11, 5 milioni, finanziato con le risorse del
Pnrr. Per fare spazio a tutte le installazioni, l'ipotesi è di
abbattere circa 200 alberi, ma per compensare il Comune prevede di
metterne a dimora altri 600, più 400 arbusti.
20.09.24
Per lasciare ai possessori il tempo di impugnarli. Polemica tra
Taiwan e Ungheria sulla provenienza
I cercapersone riempiti di esplosivo L'innesco è uno squillo di 10
secondi Nello Del Gatto
Gerusalemme
Prima i cercapersone e poi i walkie talkie. L'ondata di esplosioni
che ha interessato per due giorni i dispositivi di comunicazione
nelle mani dei miliziani e dei comandanti di Hezbollah nelle
roccaforti del gruppo in Libano e Siria, lascia sul campo
interrogativi su chi sia stato e come. Certo è che l'operazione non
solo è stata studiata nei minimi dettagli, ma ha richiesto tempo.
«Forse anche più di un anno e mezzo», spiega Eyal Pinko, ex membro
dell'intelligence, esperto
di sicurezza del Begin-Sadat Center for
Strategic Studies della Bar Ilan University. Nessuno è ancora in
grado di spiegare come sia potuto accadere che migliaia di
dispositivi nuovi siano esplosi allo stesso momento, anche perché di
questi sono state fatte circolare solo fotografie. Le intelligence
di tutto il mondo se li stanno contendendo per analizzarne i dati.
L'esplosivo posto all'interno
Di certo, secondo Pinko e gli altri esperti, non si è trattato
dell'esplosione delle batterie a litio presenti nei dispositivi, sia
nei cercapersone che negli altri, che sono normali batterie. Non
avrebbero potuto provocare quei danni. È successo invece che nel
processo di fabbricazione o in quello logistico (conservazione,
spedizione, consegna) si abbia avuto il tempo di aprire i
dispositivi e inserire uno o due grammi di esplosivo al loro
interno. Lo stesso, TNT o qualcosa di superiore, è stato collegato
alla batteria e a una microscheda elettronica che conteneva
l'istruzione.
Il messaggio fatale
È bastato inviare un messaggio unico e univoco, un codice stabilito
(come, ad esempio, una sequenza numerica particolare nel caso dei
cercapersone, un impulso per il walkie talkie) che dovesse essere
diverso da quelli che normalmente vengono inviati, per farsi
riconoscere dalla scheda elettronica e provocare la detonazione.
Il suono prima dello scoppio
Secondo molti testimoni, i dispositivi hanno risuonato per una
decina di secondi prima di esplodere. Questo perché chi ha pensato
l'attentato, ha fatto in modo che gli appartenenti a Hezbollah
avessero il tempo di prendere il dispositivo tra le mani, per
massimizzare i danni. I cercapersone, modello AR-924, sono
fabbricati dalla taiwanese Gold Apollo Ltd. ed erano arrivati cinque
mesi fa, dopo la decisione di Nasrallah di evitare le comunicazioni
telefoniche per non essere intercettati. I cercapersone, infatti,
sono strumenti considerati perfetti ai fini della sicurezza.
La società taiwanese ha negato che quelli esplosi siano stati
prodotti nei suoi capannoni, spiegando che vengono realizzati su
loro licenza da una società ungherese, la Bac Consulting KFt, al cui
indirizzo di sede a Budapest, c'è una normale palazzina, non
strutture industriali. Da Taiwan fanno sapere di non aver mai
venduto e spedito in Libano.
Qualche analista, ricordando l'episodio del 31 luglio nel quale
Ismail Haniyeh, l'ex capo politico di Hamas, è stato ucciso a
Teheran in una palazzina delle Guardie rivoluzionarie, impossibile
da portare a termine senza l'aiuto di qualcuno sul posto, ha
avanzato l'ipotesi che proprio in Iran gli apparecchi possano essere
stati manomessi.
I sospetti di Hezbollah
La decisione di farli esplodere martedì, secondo fonti
d'intelligence, sarebbe stata presa dopo che si è avuta la
sensazione che qualcuno in Hezbollah stesse avanzando dubbi sulla
sicurezza della fornitura. Da qui anche la decisione di far detonare
ieri i walkie talkie che, con i cercapersone, condividono alcune
frequenze radio. È probabile infatti che qualcuno in Hezbollah abbia
potuto decidere di controllare tutte le forniture ordinate e
arrivate nello stesso periodo.
"Riconosciuta la forza dei sovranismi ma il compito dell'Europa è la
pace"
Lucia Annunziata
Per Lucia Annunziata c'è un punto fondamentale nella nuova
risoluzione sull'Ucraina che andrà al voto oggi al Parlamento
europeo: «È il punto tre, dove finalmente c'è la parola pace:
l'impegno a lavorare per un piano credibile, la possibilità di un
summit europeo». Quanto alla commissione Von der Leyen, la
presidente «ha dato a ogni Stato quello che voleva. Ha trattato con
i capi di governo. Ha riconosciuto la forza dei sovranismi».
Che tipo di Commissione sta nascendo vista da vicino, con gli occhi
di una parlamentare europea del Pd?
«Se vogliamo parlare di politica, è una Commissione che ha preso
atto dell'esistenza dei sovranisti, che ha di fatto spostato l'asse
dell'Unione. L'Europa va sempre osservata da due punti di vista,
quello dell'Italia, dei nostri interessi nazionali, e quello più
largo che comprende tutti. Il sistema è molto semplice perché è
completamente duale. Il Parlamento europeo è il più grande porto
politico del mondo. Votato con le preferenze, quindi col sistema più
diretto che ci sia rispetto ai cittadini. Ma un europarlamentare che
arriva qui si mette in una stanza e aspetta che qualcuno indichi i
top jobs e a cascata le commissioni».
Come?
«Nonostante quelle cariche si possano poi approvare o bocciare,
vengono decise nei rapporti con i capi di governo. Quando si è
dimesso il francese Thierry Breton, ha fatto una cosa inedita. Ha
detto: me ne vado perché Ursula voleva sminuire il mio lavoro. Ha
quindi voluto esporre un cambiamento nel modo di lavorare della
Commissione, ma anche esprimere una protesta nei confronti di Macron».
E Von der Leyen cosa ha risposto?
«Che non intendeva dare spiegazioni. Né rivelare se ci fossero
accordi di qualche tipo con la Francia, perché - ha sostenuto -
tutti i colloqui sono secretati visto che avvengono tra presidente e
capi di Stato».
È possibile che Meloni e Von der Leyen avessero un accordo fin dal
principio per dare un ruolo di peso a Raffaele Fitto?
«Non si tratta di questo, ma di guardare alla situazione in cui
entrambe si sono trovate. Subito prima del voto si è formato il
gruppo dei Patrioti di Orban, che ha galvanizzato l'azione politica
della destra al Parlamento europeo. Facendo una campagna così forte
contro Von der Leyen da far sì che ce ne fosse una altrettanto forte
a sinistra: è a quel punto che il Pse e i Verdi dicono: nessun voto
dalla destra, sennò non ti votiamo. Se Meloni avesse votato Von der
Leyen, la sua base si sarebbe infuriata, è vero. Ma anche se Von der
Leyen avesse preso i voti di Meloni, avrebbe avuto problemi».
Nonostante questo, Fitto è vicepresidente esecutivo e Meloni appare
soddisfatta.
«Era chiaro che non ci sarebbe potuta essere alcuna "punizione".
L'Italia è un Paese fondatore e l'Europa non viene "à la carte". Ne
fanno parte 27 Paesi, ogni mattina vedo 27 buongiorno scritti in
lingue diverse sui cartelloni. Tu puoi anche volere un certo modello
di Europa, ma quella viene come viene: non puoi chiedere solo
filetto e niente grasso».
Traduco dalla metafora culinaria: era inevitabile che l'Italia fosse
accontentata, anche se due partiti della maggioranza di governo non
hanno votato per la commissione.
«Credo che Von der Leyen si sia trovata molto in difficoltà. Il
colore politico dell'Europa e dei suoi vari governi nazionali è
cambiato. Il Ppe è andato bene, è ancora la prima forza, ma ha
bisogno degli altri. Tu hai ancora una maggioranza progressista in
Europa ma piccola piccola, per cui in un momento puoi perdere un
gruppo e aver bisogno della destra, o della sinistra. Von der Leyen
ha guardato a qual era la fonte del suo potere, gli Stati nazionali.
E ha trattato con quelli: vuoi lo spumone o il babbà?».
Ha dato a ogni Stato quel che voleva?
«Più o meno sì, e la vicenda Breton lo dimostra perché lascia più
spazio d'azione a Macron e al nuovo premier Barnier. I Paesi
dell'Est hanno avuto le deleghe che hanno più a che fare con
l'Ucraina. L'estone Kaja Kallas ha preso il posto di Borrrel come
Alto rappresentante per la politica estera. Il Lituano Andrius
Kubillus ha avuto Difesa e Spazio».
Una scelta pericolosa?
«Chi è appena fuori dalle porte della Russia tende a spingere per
una guerra con la Russia. Ma continuiamo: c'è l'ungherese Oliver
Varheli che ha avuto come delega Salute e animali, e si sa che si
tratta di un simpatizzante No vax. Altro punto interessante è la
delega all'Immigrazione all'austriaco Magnus Brunner, vista la
totale chiusura di Vienna sui migranti. La Spagna, che è molto
forte, si è presa una delle deleghe più importanti con Teresa
Ribera, che oltre a essere vicepresidente esecutiva ha avuto le
deleghe a Transizione pulita, giusta e competitiva. A una lettura
maliziosa, ognuna ha preso il suo».
E Von der Leyen cosa guadagna?
«Guadagna cinque anni ancora».
C'è davvero il tentativo di staccare la destra di Fratelli d'Italia
e dei conservatori dall'ultradestra di Orban e della tedesca Afd?
«Lo dicono tutti, ma non ho le prove. Quello che so è che questo
modo di trattare che non segue la maggioranza, ma gli interessi di
ciascun Paese, salva la Commissione ma riconosce la forza sovranista».
Fitto sarà confermato dal voto?
«Intanto arriva con deleghe più leggere di quelle di cui si era
parlato all'inizio. Ma ha i fondi di Coesione, che riguardano tutti
i Paesi. Il che ha fatto sobbalzare la sinistra italiana: la
Coesione a un rappresentante del governo che ha varato l'Autonomia
differenziata? Le due cose sono in evidente contraddizione perché
quei finanziamenti - e si tratta di miliardi di euro - sono nati per
unire l'Europa, mentre l'Autonomia è stata approvata per dividere
l'Italia».
Come voterà il Pd?
«Farà l'unica cosa ragionevole. Intanto è un italiano, e sarebbe ben
strano che degli italiani gli votassero contro in questo contesto.
Ma il sì arriverà dopo che avrà presentato un progetto, dopo aver
fatto un patto con il Parlamento, e dopo che avrà fatto capire di
accogliere almeno tre punti del programma della sinistra. Sul piano
generale, dovrà far capire se sta più vicino all'antieuropeismo di
Ecr o alla sua matrice d'origine, che era europeista: la stessa di
Tajani».
L'Europa attraversa uno dei momenti più critici della sua storia,
tra la guerra in Ucraina, quella in Medio Oriente, lo spettro di
Donald Trump negli Stati Uniti. Questa Commissione è all'altezza?
«Se mi chiedi se ci sono sette Churchill, dico: forse no. Sette
Hitler? Sicuramente no. Ma non è una domanda a cui si può rispondere
perché essere o non essere all'altezza, lo si vede dagli eventi.
Dico solo questo: l'Europa è nata per la pace. Se in questo
quinquennio non richiude il file della guerra in Ucraina e in Medio
Oriente, non ci sarà più un'Europa perché fallirebbe il suo compito
principale. Le risoluzioni al voto oggi sono, se si guarda bene al
lavoro fatto sulle parole, più caute tanto sulle armi che sul
possibile ingresso di Kiev nella Nato. Non c'è scritto da nessuna
parte che è ineluttabile, perché quella poteva sembrare una
provocazione».
Com'è stato il discorso di Draghi davanti al Parlamento?
«Ho avuto l'impressione che fosse molto distaccato. È venuto, ha
fatto il suo intervento che è stato accolto bene - conservatori e
patrioti a parte - ha parlato con simpatia, come sa fare, ma era la
relazione di un banchiere. Composto, distaccato, senza quel fuoco
politico che tante volte ha saputo dimostrare».
MIOPIA CONFINDUSTRIA . Patto
anti-green deal
Luca Monticelli
Roma
«Se l'Europa deve cambiare marcia anche l'Italia è chiamata a nuove
scelte coraggiose». Il messaggio è del presidente di Confindustria
Emanuele Orsini alla sua prima assemblea annuale. Davanti a tutto il
governo schierato in prima fila, il leader degli imprenditori punta
il dito contro l'Europa: «Non dobbiamo dimenticare che oggi le
transizioni – energetica, ambientale e digitale – pongono
fondamentali quesiti industriali, politici ed etici che non possiamo
più ignorare». Il problema è il Green Deal, continua Orsini, che è
«impregnato di troppi errori, l'industria è a rischio. La
decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della
deindustrializzazione è una debacle». Un attacco durissimo che trova
la sponda della presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Sono
d'accordo, il governo prende l'impegno per correggere queste
scelte». È la prima di tante altre promesse che la premier farà nel
corso del suo intervento.
Orsini si aspetta dal Piano strutturale di bilancio del governo
«quelle riforme e quegli investimenti che sono assolutamente
necessari, politiche industriali serie e incentivi rilevanti in
risposta al post Pnrr». Il leader ha in testa la «spinta» di
Industria 5. 0, il pacchetto di incentivi all'innovazione che nei
mesi scorsi è stato al centro delle polemiche tra aziende ed
esecutivo: «Senza rischiamo lo stallo o, addirittura, un passo
indietro». Nell'agenda delle priorità di Orsini ci sono i conti
pubblici – «apprezziamo la barra dritta del Mef» – la produttività,
la sburocratizzazione a costo zero, il nucleare e il piano Draghi
considerato «vitale» per il cambio di passo dell'Europa e «le sfide
ciclopiche» sul fronte della competitività.
Un passaggio del discorso è riservato alle relazioni industriali:
«Con i sindacati abbiamo tanto da fare insieme, siamo pronti ad
avviare un'azione comune per contrastare i troppi contratti siglati
da soggetti di inadeguata rappresentanza. Come alcuni sembrano non
voler ricordare, Confindustria prevede retribuzioni ben più elevate
del salario minimo per legge. Noi – aggiunge Orsini – difendiamo il
principio che il salario si stabilisca nei contratti, trattando con
il sindacato». Ma la vera preoccupazione, il chiodo fisso, resta il
Green deal: «La filiera italiana dell'automotive è in grave
difficoltà, depauperata del proprio futuro dopo aver dato vita alle
auto più belle del mondo e investito risorse enormi per
l'abbattimento delle emissioni. Stiamo regalando alla Cina il
mercato dell'auto». Il feeling con Meloni nasce qui: la premier
definisce lo stop ai motori endotermici nel 2035 «autodistruttivo»
per l'economia europea. E apre le porte agli imprenditori: «Con me
avrete un confronto leale e regole certe, non andremo sempre
d'accordo ma l'Italia può ancora stupire se lavoreremo insieme». Le
critiche per la cancellazione del Superbonus per la premier sono
acqua passata: «Abbiamo detto dei no perché non si buttano dalla
finestra i soldi dei cittadini, è finita la stagione dei bonus».
Ora, insiste, è il momento della lotta comune alla burocrazia – «mi
sento come uno di voi quando vedo gente che fa di tutto per non
risolvere i problemi»– e occorre aumentare la produttività del
lavoro. «L'obiettivo della crescita all'1% è a portata di mano»,
ribadisce la presidente del Consiglio: «Ogni trionfalismo sarebbe
infantile ma non era scontato vedere l'Italia crescere più della
media europea, dopo anni in cui eravamo in fondo alle classifica».
Meloni non entra nel merito della manovra, l'unico riferimento è il
sostegno alle famiglie con figli che, assicura, non è dettato da
«una scelta etica, ma da una necessità economica». L'invito al
confronto lanciato da Orsini viene colto anche dal segretario della
Cgil Maurizio Landini, pronto a parlare di sicurezza e di
rappresentanza per cancellare i contratti pirata. Tuttavia Landini
mette in guardia sia Meloni sia Orsini: «Non abbiamo intenzione di
essere la parte che ascolta quello che discute il governo con
Confindustria. Non siamo disponibili a fare da spettatori o a fare
il bancomat per qualcun altro, ci siamo stancati».
PADRONI E BASTA SENZA VAPORE E SENZA FERRIERE:Dai manager fiducia a
tempo "Giorgia rispetti gli impegni"
Un'apertura di credito che andrà verificata nel breve periodo con le
misure in manovra, poi il confronto si sposterà sui progetti di
medio e lungo respiro, come il nucleare. La sensazione a caldo dei
tanti imprenditori che ieri hanno partecipato all'assemblea di
Confindustria a Roma è quella di aver trovato nella presidente del
Consiglio una interlocutrice disposta ad ascoltare le istanze delle
aziende, quindi il suo intervento non può che essere giudicato
«positivo». Però la pancia di Confindustria si aspetta i fatti.
La priorità per la prossima manovra è «l'accelerazione degli
investimenti», sottolinea l'amministratore delegato di Intesa
Sanpaolo Carlo Messina, che aggiunge: «La spesa del Pnrr va
migliorata e poi va mantenuto il rigore assoluto sui conti pubblici
perché il debito va ridotto».
Emma Marcegaglia, ex leader dell'associazione, sottolinea come
Meloni si sia «impegnata per cambiare la visione europea sul Green
deal e ha garantito un dialogo continuo». Marcegaglia ricorda che la
richiesta che gli imprenditori fanno al governo è di «mantenere il
taglio del cuneo fiscale e cominciare a ragionare anche sull'Irap».
Il costo dell'energia, continua, «è un problema enorme, è un tema di
competitività decisivo, mi pare che la presidente Meloni abbia
aperto una discussione anche su questo». Quanto al nucleare,
sottolinea l'ex presidente, è «per noi veramente un tema importante,
crediamo nella decarbonizzazione ma va fatta in modo non
ideologico». Il nucleare è un tasto che tocca anche Paolo Lamberti,
presidente di Acimac, l'associazione dei produttori di tecnologie
per la ceramica: «Ci vuole un approccio nuovo sul nucleare, non è
solo un modo per abbattere i costi dell'energia, ma è una questione
di innovazione, di cambiamento del processo tecnologico». Lamberti
ribadisce i tre temi fondamentali che devono essere nell'agenda
politica: «Ambiente, energia, burocrazia. Mai come in questo momento
abbiamo chiare le cose da fare, Meloni l'ha detto e mi ha stupito
positivamente, è il momento di affrontare questi nuovi tempi, siamo
entrati in un'éra nuova».
Secondo Roberto Bozzi, presidente di Confindustria Romagna, «occorre
anticipare i problemi e sostenere gli investimenti, soprattutto
sull'intelligenza artificiale e sul nucleare». Bozzi è preoccupato
dal fatto che possa arrivare una nuova crisi: «La politica deve
anticipare i problemi e pensare alle prossime mosse». Le imprese
criticano la transizione ecologica dell'Europa e chiedono risposte,
però il presidente di Federacciai Antonio Gozzi sostiene che
«l'Italia è in pole position per essere la prima nel mondo a fare
acciaio completamente green». Luc. Mon . —
LOGGIA UNGHERIA INDISTRUTTIBILE ANCHE PER CROSETTO ? l
titolare della Difesa: "I Dem mistificano la realtà. Siamo alla
follia e al delirio" Il Comitato per la Sicurezza potrebbe ascoltare
nella prossime udienze anche Carta
Inchiesta spionaggio il Pd attacca Crosetto Il Copasir lo convoca
Come previsto, il caso Crosetto, tra inquietanti dossieraggi e
fibrillazioni negli apparati, è troppo clamoroso perché il Copasir
non se ne occupi. Il ministro stesso annuncia di essere pronto. In
verità, la giornata era cominciata molto male per il ministro,
arrabbiatissimo perché alcuni parlamentari del Pd avevano chiesto a
Giorgia Meloni di riferire in Parlamento su una presunta spaccatura
nel governo. E perciò, ecco una nota puntuta di Crosetto: «Se
l'interesse del Pd è davvero la verità, sarò ben lieto di dire tutto
ciò che ho riferito a Cantone al Copasir, ovvero in una sede
vincolata al segreto, dove si scoprirà che non c'è, né ci sarà, mai
nulla su cui poter fare speculazione politica o inventare contrasti
nel Governo, ma solo circostanze serie e circostanziate che ogni
cittadino ha il dovere di denunciare». E ancora: «Mi sorprende che
un gruppo parlamentare e un partito come il Pd, nella cui tradizione
c'è un lungo elenco di denunce e vesti stracciate per antichi e
nuovi dossieraggi che hanno minato e inquinato la storia della
Repubblica, non sia minimamente interessato o scandalizzato da una
vicenda (quella dei dossier) che una personalità come Luciano
Violante ha definito gravissima».
In effetti, quelli del Pd, ovvero tutti i parlamentari presenti in
commissione Antimafia (Walter Verini, Peppe Provenzano, Debora
Serracchiani, Andrea Orlando, Vincenza Rando, Anthony Barbagallo,
Franco Mirabelli e Valeria Valente), avevano stigmatizzato che
«dalla destra al governo, dopo mesi di vaghe denunce di complotto,
non c'è stato alcun esercizio di responsabilità. In un momento di
drammatica crisi geopolitica è accettabile uno scontro tra le due
figure di governo e i soggetti istituzionali che più di tutti
dovrebbero garantire per la nostra sicurezza?». E siccome
l'Antimafia ha avuto le carte dell'inchiesta, ma obiettivamente
c'entra molto poco, precisavano: «Noi, in ogni sede, senza
ovviamente interferire con le indagini della magistratura, chiediamo
si faccia chiarezza su quanto fin qui emerso: e cioè l'estrema
vulnerabilità delle nostre reti cibernetiche e delle banche dati
riservate, la possibile esistenza di un mercato di informazioni
riservate, del quale occorre scoperchiare ogni responsabilità di
esecutori e possibili mandanti».
Toccherà insomma allo speciale Comitato parlamentare sulla
sicurezza, presieduto da Lorenzo Guerini, Pd, ex ministro della
Difesa, sentire i diretti interessati a partire dall'attuale
ministro e poi tutti gli altri soggetti interessati. Potrebbero
decidere anche, sulla base di quel che emergesse, di convocare l'ex
direttore dell'Aise, il generale Luciano Carta, il cui nome aleggia
da più giorni in questa vicenda ed è stato evocato anche ieri nel
corso di una seduta del Comitato. Oltretutto ci sono alcuni
misteriosi siti che alimentano sospetti sull'ex direttore, citano
questo o quel funzionario dell'Aise, raccontano di presunte filiere
deviate, insomma gettano veleni nell'aria e così facendo si muovono
con le tipiche modalità del settore. Val la pena approfondire.
Sono due le questioni su cui il Copasir intende fare luce. Se ci
siano collegamenti tra il principale indagato di questa indagine, il
luogotenente della Gdf Pasquale Striano, autore conclamato della
maggior parte degli accessi abusivi alle delicatissime banche-dati,
con esponenti dei servizi segreti.
Un filo è già saltato fuori, altri potrebbero venire dal prosieguo
delle indagini. E sarebbe gravissimo che ci siano stati opachi
rapporti tra 007 con le violazioni della privacy ai danni di uomini
politici e non.
Ma c'è anche molto altro da chiarire. La frase del ministro sui
«problemi per la sicurezza nazionale» dovuti a mancata
collaborazione dell'Aise con la Difesa, citata nel verbale a
Cantone, apre una questione molto seria. Quindi, delle due l'una: o
era un'iperbole del ministro e allora il caso finisce qui, oppure ci
sono casi concreti su cui è bene andare a fondo.
IL CONTROLLO E' USA COME SEMPRE DA QUANDO MUSSOLINI HA PERSO LA
GUERRA: Attenti all'ira di Guido Crosetto, il ministro della
Difesa, l'omone che sembra rodato alle tempeste, ma se troppe gocce
fanno traboccare il vaso tutto può succedere. Del ministro che è
stato il motore dell'inchiesta sui dossieraggi, si sapeva negli
ambienti del governo che era sempre più arrabbiato. Innanzitutto con
i giornalisti. Dice chi gli è vicino: «È talmente schifato da un
certo modo di fare informazione che ha deciso, da più di un mese,
quindi ben prima che uscissero sui giornali in modo del tutto
illegittimo e abusivo i verbali dell'inchiesta di Perugia, di
limitare al massimo le sue uscite pubbliche». Ma c'è di più. Molto
di più.
Ieri, quando ha visto una nota ufficiale del Pd che chiedeva a
Giorgia Meloni di relazionare in Parlamento «su uno scontro
istituzionale in corso che ha superato il limite», ha preso carta e
penna per replicare: «Sono stupito e incredulo. Mistificate la
realtà». E siccome però nei capannelli del Transatlantico si parla
molto di una presunta rottura con la premier e con il
sottosegretario Alfredo Mantovano, si è sfogato con i suoi perché si
sappia: «Ove mai si ritenesse privo di fiducia e stima, nel governo,
dal suo vertice fino al partito cui si onora di appartenere, pur
nelle differenze delle storie e dei percorsi personali, ne trarrebbe
le conseguenze».
È stata la giornata dell'ira, al piano nobile del ministero della
Difesa. L'uscita del Pd lo ha indispettito quantomai. Scrive: «Come
si permettono di commentare in modo così strumentale la denuncia –
coraggiosa, come molti hanno detto – all'autorità giudiziaria da
parte di un cittadino, pro tempore ministro, su una vicenda così
torbida e pericolosa? ». Ma è con i suoi collaboratori che si sfoga
un attimo dopo: «Lo ritenevo un partito serio e responsabile».
Proprio loro che in altri casi erano insorti e invece in questa
storia, che ai suoi occhi è di prima grandezza, li vede timidissimi.
«Potrei citare il caso Sifar, il caso Gladio, il caso Mitrokhin».
Ce n'è anche per i giornalisti, "rei" di inventare retroscena che
non esisterebbero. Qui è un fiume in piena, e da diversi giorni.
Dicono sempre dal suo staff: «Capisce che alcuni centri di
informazione e commentatori, magari legati a interessi e poteri
specifici, vogliano mettere in ridicolo questo governo,
legittimamente eletto, e la sua azione quotidiana, cercando di
screditarla ogni giorno e a ogni occasione».
Epperò il problema che più gli sta a cuore, ciò che sente di dover
smentire con forza, è la distanza con palazzo Chigi e con gli
apparati di intelligence. C'è quel verbale di testimonianza del
gennaio scorso che parlerebbe fin troppo chiaro: con l'Aise,
l'agenzia di informazioni e sicurezza per l'estero, i rapporti non
filavano lisci.
Crosetto è arrivato a dire al magistrato: «I miei rapporti con l'Aise
in precedenza non erano particolarmente buoni perché ho contestato
in più di una occasione mancate informazioni al ministero della
Difesa che avrebbero potuto anche creare problemi alla sicurezza
nazionale».
Quando queste parole sono divenute di dominio pubblico sul sito de
Il Fatto Quotidiano, il sottosegretario Alfredo Mantovano, che ha la
delega ai servizi segreti, ha fatto una nota per dire che
assolutamente no, c'è massima fiducia nell'Aise e nel suo direttore,
ma quali mancate informazioni, «fanno un lavoro straordinario». E
tutti hanno concluso che i due vanno in direzioni diverse.
Ecco, è su quella giornata che Crosetto anche ieri si è sfogato con
i suoi, che sintetizzano così: «Il ministro capisce che, purtroppo,
i retroscena dei giornali e i giornalisti "di penna" non amino i
comunicati "ufficiali", ma può garantire, sul suo onore, che la nota
di Mantovano sui Servizi di sabato scorso è stata concordata con lui
fino nelle virgole e che, ad essa, non si è "allineato" né che l'ha
"subita" obtorto collo, ma che è stata da lui pienamente condivisa e
che dunque la sua fiducia in essi non è mai venuta meno».
Certo, è fin troppo noto che non sono tutte rose e fiori in questo
Esecutivo. Lo riconosce anche Crosetto nei suoi colloqui. «Magari,
dentro il governo, ci sono diversità di vedute, su alcuni temi, ma
su questo punto la concordia tra il ministro, Mantovano, la premier
e i Servizi stessi è assoluta. A tal punto che, prima di portare la
nomina di Caravelli a prefetto dentro il consiglio dei Ministri
(accadeva due giorni fa, ndr), lo stesso Mantovano ha sottoposto al
ministro la nomina per averne il gradimento, gradimento che è stato
pieno e immediato».
Il ministro andrà dunque al più presto al Copasir per dire la sua
sul caso dei dossieraggi. Per il momento non fa nomi. Si limita al
solito accenno alle "mele marce". Vuole che si sappia che lui non ha
mai fatto il nome dell'ex direttore dell'Aise, il generale Luciano
Carta, "il quale si è giustamente risentito". Per concludere,
sempre, con i più diversi interlocutori: «Il rapporto con la
presidente del Consiglio è saldo e costante, nella franchezza
reciproca, che non è loro mai mancata». Perciò lui «sorride di chi
cerca di mettere zizzania tra loro, delegittimare lui, lei o
entrambi, alla ricerca di "crepe", al fine di inventare spaccature
nel governo che non esistono». Però sia chiaro: se sentisse che la
fiducia di Giorgia Meloni è venuta meno, adieu.
SE QUESTO E' UN EROE ?Sono settanta gli episodi contestati. Il
dirigente del Regina Margherita di Torino è indagato per truffa: in
attesa delle indagini sollevato dal servizio
"Shopping e parrucchiere durante i turni" l'ospedale sospende il
medico dei bambini
gianni giacomino
torino
Per due anni e mezzo, invece di essere presente sul posto di lavoro
come direttore della Struttura semplice del Dipartimento di
pediatria e scienze pediatrico nel reparto di Subintensiva allargata
della prima infanzia dell'ospedale infantile Regina Margherita di
Torino, avrebbe fatto i suoi comodi.
Così il dottor Francesco Savino, 63 anni originario di Borgomasino,
nell'Eporediese - pediatra molto conosciuto e apprezzato -
nonostante il suo ruolo dirigenziale abbandonava l'ospedale
nell'orario di lavoro per fare altro. O meglio, da quello che sono
riusciti a ricostruire i carabinieri del Reparto operativo – Nucleo
investigativo, con indagini incrociate, il professionista avrebbe
effettuato visite da pazienti privati, sarebbe andato a sostituire i
pneumatici della sua Bmw, in un atelier da uomo per acquistare delle
camicie, in banca, dal parrucchiere, al supermercato e anche a casa
sua. Assenze che potevano durare una mezz'oretta fino a due, tre ore
e anche di più. Per questo il medico è accusato di truffa ai danni
dell'azienda ospedaliera per aver falsificato la sua presenza in
servizio. Un notizia che ha lasciato parecchio perplessi e increduli
molti colleghi del pediatra, considerato al top e al quale, da
sempre, si rivolgono tante famiglie importanti della Torino bene. Il
meccanismo adottato dal dottor Savino per "sparire" dal reparto era
abbastanza semplice. E non è la prima volta che viene utilizzato da
dipendenti o contrattualizzati nel settore pubblico che devono
"bollare".
Secondo l'accusa una volta entrato in ospedale - dove aveva un
contratto fino al 2026 - certificava la sua presenza sul posto di
lavoro strisciando il badge. Poi si allontanava senza ripassare la
tessera magnetica che invece veniva di nuovo utilizzata per l'uscita
definitiva dal Regina Margherita, più o meno verso le 19,30.
In totale, i carabinieri hanno accertato oltre 70 episodi, tutti al
vaglio dell'autorità giudiziaria per circa 157 ore lavorative.
Probabilmente il 63enne era sicuro di non venire scoperto e,
infatti, si sarebbe mosso disinvoltamente.
Le indagini sarebbero state innescate in seguito a delle
segnalazioni anche abbastanza dettagliate. Gli investigatori,
coordinati dalla pm Giulia Rizzo, hanno così iniziato a controllare
le celle alle quali si agganciava il telefonino cellulare in uso
esclusivo al medico. E, dai tabulati, è risultato agganciare -
soprattutto con il Gps installato all'interno della sua auto - celle
molto lontane dall'ospedale torinese dove avrebbe dovuto trovarsi.
Gli investigatori hanno poi anche pedinato il dottor Savino
riuscendo a pizzicarlo sia in auto che a piedi, lontano dal Regina
Margherita dove invece lui avrebbe dovuto essere in servizio anche
perché era il suo orario di lavoro. Una volta il medico dei bambini
è stato addirittura sorpreso dai carabinieri a Collegno, una città
distante qualche chilometro dal capoluogo. Le intercettazioni e i
pedinamenti sono poi anche stati supportati dai fotogrammi delle
videocamere che sorvegliano il parcheggio intorno al Regina
Margherita e da altre sistemate all'esterno di istituti bancari. E
così gli occhi elettronici hanno ripreso il professionista mentre si
allontanava illegittimamente dal posto di lavoro dove avrebbe dovuto
garantire la sua presenza per 38 ore la settimana. Tra l'altro
risulta che, in determinati giorni e orari, il dottore in accordo
con la Città della Salute poteva svolgere attività ambulatoriale
all'interno dell'ospedale oppure nel suo studio di Borgomasino. In
tutto, con le sue assenze, il pediatra avrebbe usufruito di un
ingiusto profitto per oltre 5.200 euro. Al termine delle indagini i
carabinieri del Reparto operativo hanno notificato al medico una
misura cautelare: Savino ha l'obbligo di restare a Torino e non
potrà assolutamente allontanarsi dalla sua abitazione dalle 20 fino
alle 7,30 del mattino.
La misura cautelare è stata decisa dal giudice per le indagini
preliminari.
Intanto l'Azienda Città della Salute di Torino, in quanto parte
lesa, appena ha ricevuto la notifica da parte dei carabinieri, ha
immediatamente aperto il procedimento disciplinare e sospeso in via
cautelativa il professionista interessato dall'inchiesta. Questa
nell'attesa dei successivi sviluppi giudiziari. —
LEGGEREZZA SU LEGGEREZZA : SUVVIA ! Le motivazioni della condanna
dell'ex sindaca .Il legale Chiappero: "Tutta colpa solo sua?
Suvvia!"
La Cassazione " Finale Champions Chiara Appendino sottovalutò i
rischi"
L'ex sindaca di Torino Chiara Appendino «non si è limitata a ideare
la proiezione della partita di calcio, ma ha dato impulso alle
scelte riguardanti il luogo di svolgimento e l'ente deputato ad
organizzare la manifestazione, senza preoccuparsi di valutare la
sostenibilità in termini di sicurezza di tali scelte. Ha, inoltre,
mancato negligentemente di adottare la cosiddetta "ordinanza
antivetro", circostanza che ricade nella fase organizzativa
dell'evento, con innegabili conseguenze sulla sicurezza della
manifestazione». Ancora: «La mancata adozione di tale provvedimento,
a cui invece altri sindaci della città avevano fatto ricorso in
passato, unitamente agli inefficaci controlli ai varchi e alla
mancata pulizia dei varchi da parte dell'Amiat, ha contribuito a
realizzare le conseguenze dannose».
Lo scrivono i giudici di Cassazione nelle motivazioni della sentenza
con cui hanno disposto un nuovo processo di appello nei confronti di
Appendino sui gravissimi fatti accaduti in piazza San Carlo la notte
del 3 giugno 2017 durante la proiezione della finale di Champions
Juventus-Real Madrid (1500 feriti e due donne morte), per
ricalcolare la pena, riducendola. L'ex prima cittadina, difesa dai
legali Franco Coppi e Luigi Chiappero, accusata di omicidio,
disastro e lesioni colpose, era stata condannata a 18 mesi. Lo
scorso 17 giugno i magistrati avevano dichiarato irrevocabile la
responsabilità penale per Appendino e Paolo Giordana, ex capo di
gabinetto. Il ricalcolo al ribasso è legato al fatto che la «Corte
d'appello, pur avendola prosciolta con riferimento ai reati di
lesioni in danno di una decina di feriti non ha ridotto la pena,
così incorrendo in una palese violazione del divieto di reformatio
in peius».
Per la Cassazione «l'azione dolosa (quella dei baby rapinatori che
hanno utilizzato spray urticante scatenando il panico tra la folla
ndr) ha costituito "solo l'innesco, come tale perfettamente
fungibile e non caratterizzante del decorso causale, determinando
l'esito di un evitabile e certamente prevedibile fenomeno di panico
collettivo». Viene ancora rimarcata «la ristrettezza dei tempi
ovvero si rimprovera alla Appendino di avere «deciso
l'organizzazione della manifestazione in tempi incompatibili con una
gestione meditata, completa ed efficiente dell'evento».
La Cassazione aggiunge che sono «numerose le circostanze indicate
dai giudici di merito suscettibili di rivelare la superficialità
della preparazione della manifestazione e la sottovalutazione dei
rischi a cui erano esposti gli spettatori in ragione della scarsità
del tempo impiegato per l'organizzazione della proiezione» della
partita. Gli ermellini ricordano che «la scelta del luogo nel quale
effettuare la proiezione avrebbe dovuto essere preceduta da una
riflessione ponderata, che avesse tenuto conto della peculiare
conformazione della piazza e del numero dei partecipanti». Il legale
di Appendino, Luigi Chiappero, non ci sta: «È una sentenza che non
condividiamo, soprattutto per quel che riguarda l'imprevedibilità di
quanto accaduto. Equiparare le diverse cause che possono provocare
il panico come se tutte fossero identiche significa non guardare in
faccia la realtà: non si era mai verificato prima del 3 giugno 2017
che l'utilizzo di uno spray al peperoncino, in luogo pubblico, da
parte di un gruppo di rapinatori provocasse quello che è accaduto
quella sera. Sulla ordinanza antivetro - aggiunge - la Corte di
Cassazione, a nostro sommesso ma fermo avviso, sembra non conoscere
il diritto costituzionale. Un sindaco non ha il potere di emettere
sempre e comunque un'ordinanza. Lo ha detto chiaramente la Corte
Costituzionale nel 2011. Meno che mai può emettere un'ordinanza se
manca l'istruttoria degli uffici comunali». Conclude: «Ma poi, detto
chiaro: quel che è successo è tutta colpa del Sindaco e del capo dei
vigili? Suvvia!
DOPO 20 ANNI CHE LO DICO , LA FOGLIETTA FINALMENTE RAGIONA
DOPO AVERMI FATTO CENSURARE DA 2 ANNI: Per i costi delle
coperture si pensa anche a sponsor privati come a Milano Da ottobre
una task force Gtt-InfraTo-Poli controllerà le 142 scale mobili
Un concorso di architettura con la Soprintendenza
per le pensiline della metro
Paolo Varetto
Dopo la débâcle del 2 settembre - con 32 impianti fermi alla
riapertura della linea 1 dopo un mese di stop per lavori - e le
pubbliche scuse dell'amministratrice delegata Serena Lancione, il
Gtt passa al contrattacco schierando una task force di tecnici
insieme con InfraTo e Politecnico per valutare lo stato di salute
delle 142 scale mobili che servono la nostra metropolitana,
immaginando anche un concorso di idee tra architetti per progettare
le pensiline per gli accessi alle 23 stazioni. Perché se la fermata
Bernini ha fatto registrare 76 guasti in 7 mesi (ed è solo un
esempio) è perché catene e ingranaggi sono esposti alla pioggia e
alle intemperie, oltre che alle foglie secche, al sale antigelo
d'inverno, al pulviscolo atmosferico e al particolare più
grossolano. Fattori esterni ostili che potrebbero essere
parzialmente neutralizzati appunto sistemando una copertura.
«Ma questa volta - anticipa il presidente di InfraTo, il professor
Bernardino Chiaia - vogliamo coinvolgere fin da subito la
Soprintendenza, per evitare di incorrere nel diniego che bloccò la
loro installazione nel progetto originario. Dovranno essere
installazioni sì di pregio, ma che possano armonicamente inserirsi
in contesti aulici quali il liberty di corso Francia o i portici di
corso Vittorio».
Soprattutto dovranno essere strutture funzionali e facili da
manutenere, con un occhio alla sostenibilità economica, visto che ad
oggi di finanziamenti certi non ce ne sono mentre i costi si
aggirano intorno ai 250 mila euro per ogni fermata. «Un percorso
ancora tutto da costruire - ammette Chiaia - ma per il quale non ci
precludiamo nessuna strada. Se guardiamo a Milano, esistono già
delle stazioni sponsorizzate da Trussardi e Unicredit. Una
possibilità che potremmo valutare anche noi, ovviamente a valle dei
ragionamenti con le Belle Arti».
Da ottobre sarà invece operativa la squadra interforze che
controllerà tutte le scale mobili della linea 1 con la consulenza
del professor Aldo Canova del Politecnico. «Partiremo con una
puntuale verifica delle loro condizioni meccaniche ed
elettrotecniche - specifica il presidente di InfraTo -, anche perché
si tratta di apparecchiature con caratteristiche diverse. L'età
media è di 17 anni, ma quelle inaugurate con il troncone
Carducci-Bengasi sono nettamente più recenti. Eppure proprio quella
del capolinea Sud ci sta dando tra i problemi più frequenti».
Per il Comune, come annunciato dall'assessora alla Mobilità Chiara
Foglietta e confermato dal sindaco Stefano Lo Russo, la soluzione
più pratica è anche quella più radicale: sostituire tutte le 50
scale mobili esterne, statisticamente più soggette ai guasti. Costo
dell'operazione, almeno 15 milioni di euro. Uno dei compiti della
task force annunciata ieri nell'incontro tra Lancione, Chiaia e
Canova sarà appunto quello di capire se alcuni impianti potranno
continuare a rimanere in servizio, ricevendo un più blando upgrade
tecnologico della componentistica elettrica che eviti blackout a
catena come quello del 2 settembre. «Una ricognizione puntuale -
aggiunge Chiaia - che ci permetterà anche di capire quali sono i
difetti di funzionamento più ricorrenti, così da poterli prevenire
organizzando un primo magazzino ricambi delle parti più soggette
all'usura».
19.09.24
"Traditi da fornitori egiziani" La rabbia dei militanti a Beirut francesco semprini
Le piste che l'intelligence di Hezbollah sta seguendo in merito
all'attacco elettronico condotto dagli israeliani sono due. La prima
è che una spedizione di "pager" sia stata intercettata e armata con
piccole cariche di esplosivo attivate successivamente da un timer o
dall'invio di un segnale codificato o attraverso una frequenza
specifica. La seconda è che i guru informatici delle Forze armate
israeliane abbiano sviluppato un modo per surriscaldare le batterie
agli ioni di litio, causandone incendio e successiva esplosione,
sebbene gli esperti sostengano che «il danno causato sia stato
troppo ampio».
Le immagini circolate sui social sono impietose e raccontano una
catena di mini-deflagrazioni che a partire dalle 15 e 30 locali
hanno attraversato diverse zone del Libano allungandosi sino alla
Siria. Abitazioni, mercati, automobili, negozi, ovunque i possessori
dei dispositivi si trovassero sono stati raggiunti dall'onda d'urto
della nuova offensiva cyber dello Stato ebraico. La notizia
dell'attacco ha causato il panico nei quartieri e nelle aree del
Paese in cui sono presenti funzionari e agenti di Hezbollah, la
gente presa dal panico ha iniziato a chiamare i familiari e dicendo
loro di scollegare router e altri dispositivi potenzialmente
offensivi. Alcuni sono riusciti a liberarsi del dispositivo in
tempo, messi in allarme dal surriscaldamento o da messaggi "non
convenzionali" apparsi sul display. Secondo Saberin News, media
affiliato al Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica
iraniano, sette membri di Hezbollah sono stati uccisi nel quartiere
di Seyedah Zeinab a Damasco, una roccaforte sciita.
Il bilancio nella serata di ieri continuava a salire, tra le vittime
una bambina di otto anni della Valle di Bekaa. I feriti risultavano
essere almeno 4000. Le esplosioni hanno infatti coinvolto non solo i
membri del Partito di Dio, ma anche i familiari e le persone che si
trovavano accanto ai bersagli individuati dai cyber-cecchini
israeliani. Ecco perché l'operazione sarebbe stata soprannominata
"sotto la cintura". Il primo ministro libanese Najib Mikati ha
tenuto una riunione di gabinetto dopo le esplosioni simultanee che
si sono verificate nel Paese.
Il governo ha «condannato all'unanimità l'aggressione criminale
israeliana, che viola palesemente la sovranità del Libano». Secondo
fonti locali la partita dei cercapersone (il modello dovrebbe
corrispondere al Gold Apollo AR 924 di fabbricazione taiwanese) era
di recente dotazione agli Hezbollah, vista l'assoluta diffidenza del
movimento guidato da Hassan Nasrallah nei confronti degli "smart
phone", che lui stesso ha definito «il peggior nemico della
Resistenza». Anche il predecessore del cellulare si è in realtà
dimostrato un avversario letale. "L'acquisto sarebbe stato fatto o
agevolato da commercianti egiziani", con cui l'ufficio commerciale
del Partito di Dio aveva già concluso alcune transazioni.
La pista della "penetrazione della catena di rifornimento" con
l'inserimento di una componente esplosiva e di un meccanismo di
attivazione a distanza, «presuppone la complicità di complici e
basisti, i rivenditori egiziani, ad esempio o intermediari al libro
paga del Mossad», spiega Elijah Magnier, esperto di intelligence e
di tecnologie militari, ce ha lavorato a lungo a Beirut. «Riteniamo
il nemico israeliano pienamente responsabile di questa aggressione
criminale», tuona la dirigenza di Hezbollah, secondo cui è
l'ennesima provocazione di Benjamin Netanyahu per ampliare il
conflitto aprendo un secondo (o terzo se si considera anche la
Cisgiordania) fronte di lotta, nell'ambito di quello sforzo di
«rimettere ordine nella regione» tanto sostenuto dai falchi della
destra israeliana.
«Non è escluso che si possa trattare di una "shaping operation",
ovvero il primo atto di un'operazione di dimensioni più ampie che
prevede una penetrazione in territorio libanese da parte dell'Idf -
suggerisce a La Stampa M. Magnano, analista nel ramo della sicurezza
internazionale - Non certo un'operazione facile, ma senza dubbio è
già rivoluzionario quello che è stato fatto». Al punto tale che «la
catena di Comando e Controllo di Hezbollah è piegata», spiegano
fonti libanesi, tradendo una lacuna che avrà ricadute sull'intero
apparato di sicurezza dell'organizzazione.
Nato nella città di Moro ha guidato la Puglia, è incappato in
inchieste giudiziarie e ha virato a destra
Fitto, l'uomo che si è rialzato otto volte la lunga marcia dalla Dc
ai vertici Ue Alessandro Barbera
Roma
Dice il proverbio giapponese: cadi sette volte, rialzati otto.
Raffaele Fitto ha perso il conto. Nato il 28 agosto 1969 nella città
che diede i natali ad Aldo Moro, è il figlio d'arte a cui la sorte
impone di crescere in fretta. Il padre Salvatore, allora presidente
della Regione Puglia, muore in un incidente stradale quando ha
diciannove anni. A venti è consigliere regionale per la Democrazia
cristiana, a trenta siede nella poltrona che fu del padre. L'indole
democristiana non l'ha mai abbandonata, la tessera sì. È l'uomo più
vicino a Giorgia Meloni con la storia politica più lontana possibile
da Giorgia Meloni. Non è populista, non alza mai la voce, non prende
(quasi) mai di petto gli avversari, tratta allo sfinimento. Tenterà
di tornare presidente in Puglia due volte, battuto da due tribuni
della sinistra: Nichi Vendola e Michele Emiliano. Con Giorgia
condivide un difetto che talvolta è una qualità: la tigna. «Sono
riuscito a levarmi di dosso il fango delle inchieste giudiziarie,
figuriamoci se non sono in grado di affrontare il resto», va dicendo
spesso. Ne ha dovute affrontare diverse. Nel 2012, prosciolto per
prescrizione in un caso di turbativa d'asta, si oppone alla
prescrizione. Un anno dopo, condannato per corruzione, è assolto in
appello. Quando la Cassazione riconosce alla Regione il
risarcimento, si oppone in giudizio.
La sua storia politica è una lunga marcia verso destra: lascia il
Partito Popolare per aderire ai Cristiano democratici uniti, passa
ai Cristiano democratici per la libertà, aderisce a Forza Italia, e
lascerà anche Forza Italia. Nel 2015 a spingere Fitto al gesto meno
democristiano della vita sono altri due noti tribuni: Silvio
Berlusconi e Matteo Renzi. Fitto non manda giù il patto del
Nazareno, e il Cavaliere dissimula: «In passato qualcuno se ne è
andato e non è finito bene». Non aveva calcolato il fattore Giorgia.
L'incontro fra i due è nei banchi del quarto governo di Re Silvio.
Lui è il giovane ministro delle Regioni, lei la giovanissima
ministra della Gioventù. Dieci anni dopo Fitto passerà a Fratelli
d'Italia.
Quando arriva a Palazzo Chigi, Giorgia fa di lui il ministro più
influente. Sottrae a Giancarlo Giorgetti i duecento miliardi del
Recovery Plan che assomma alla gestione degli altri fondi europei.
Fitto impiega mesi per rivedere i poteri di gestione, che ora lascia
a Palazzo Chigi. Farà quel che potrà da Bruxelles per allungare i
tempi di un piano che l'Italia non è in grado di rispettare. Prima
di andarsene, ha risolto una grana con l'Europa che si trascinava da
vent'anni: quella dei balneari. E lo fa convincendo Bruxelles a
concedere l'ennesima proroga, al 2027. Potere dell'indole.
Fuga da Azione, via Gelmini e Carfagna
Si svuota Azione: se ne vanno la presidente, la vicesegretaria e una
senatrice. Sono Mara Carfagna, Mariastella Gelmini e Giusy Versace.
Le tre parlamentari del partito di Carlo Calenda non hanno digerito
l'adesione al campo largo per le prossime Regionali.
Impossibile per loro stare in «un'alleanza che comprende il
Movimento 5 Stelle e la sinistra di Bonelli e Fratoianni». Gli addii
seguono quello di Enrico Costa, nemmeno 48 prima. Dura la risposta
del partito: «Rispettiamo le scelte personali ma riteniamo grave e
incoerente passare dall'opposizione alla maggioranza a metà
legislatura contravvenendo al mandato degli elettori». Tutte
sarebbero in procinto di trovare approdo nel centrodestra, accolte
in Noi Moderati di Maurizio Lupi.
Gelmini parla di un «confronto sereno e leale» con il leader di
Azione, ma «non provengo dalla sinistra e non intendo aderirvi
adesso». Versace rivela: «Già prima dell'estate avevo manifestato a
Calenda il mio disagio e disappunto rispetto all'ipotesi di aderire
a un campo largo anche in Liguria. Le scelte politiche, benché
legittime, portano il partito in una direzione che non è quella che
auspicavo. Il campo largo non è la mia casa».
L'addio di Carfagna è ufficializzato dal partito prima ancora che da
lei. «È una decisione che stavo maturando», ammette. Poi, esprime il
suo «dissenso per l'apertura di un dialogo "esclusivo" con la
sinistra» sulle Regionali: una strategia che «prelude a intese più
generali». Il partito, con disappunto, ricorda a tutte di averle
«accolte e valorizzate in un momento particolarmente critico del
loro percorso politico».
Le uscite di Carfagna e Gelmini fanno scendere a quota dieci i
deputati di Azione: il gruppo alla Camera resiste ma sul filo. Tra
amarezza e sollievo il ragionamento che filtra dall'entourage di
Calenda: «Oggi si è compiuta giornata di chiarezza. Erano due mesi
che uscivano retroscena non smentiti e che negoziavano con tutto il
centrodestra in parallelo. Il partito non ne poteva più»
Un Salone a tutto gas
gianni giacomino
Non solo la Lancia 037 guidata da Barbara Riolfo, ma anche altre
potenti autovetture, non avrebbero rispettato il limite dei 30
chilometri orari, velocità massima per una "parata", da mantenere
durante le sfilate al Salone dell'Auto.
Di questo se ne sarebbero accorti e lamentati diversi spettatori.
Poi hanno sollevato la questione in consiglio due membri
dell'opposizione e si evincerebbe anche da alcuni filmati. Girati
non solo dalle migliaia di smartphone degli spettatori, ma anche
dalle videocamere che sorvegliano quella fetta del centro 24 ore su
24. Sequenze che ora, poco per volta, saranno analizzate anche dalla
polizia locale per appurare se davvero qualche pilota non si è
attenuto al regolamento.
Gli investigatori tra l'altro sono impegnati a completare le
indagini sull'incidente innescato dalla 037 che, entrando in piazza
San Carlo, a causa di un'accelerazione improvvisa, si è schiantata
contro una transenna ferendo una dozzina di persone. Tra le quali
tre bambini. Al momento, sono già state presentate alla polizia
locale quattro denunce per lesioni colpose. «E anche noi la
inoltreremo perché mia figlia continua ad essere sofferente e dovrà
essere sottoposta a delle nuove radiografie» – avverte Fabio
Triffiletti, il papà della 23enne rimasta contusa. Ieri è anche
stato dimesso dal Mauriziano il 51enne che era stato ferito ad un
testicolo ed è stato sottoposto ad un piccolo intervento chirurgico.
Dopo le querele la Procura potrebbe aprire un fascicolo per lesioni
colpose e capire se, tra gli organizzatori dell'evento, qualcuno ha
delle responsabilità in merito all'incidente.
L'assessore alla Sicurezza Marco Porcedda è categorico. «Sul rigido
rispetto delle regole siamo stati molto chiari fin da subito con
l'organizzazione, se poi qualcuno non le ha rispettate e ha corso un
po'troppo non è nostra responsabilità». Dalla società con sede tra
Torino e Venaria che ha gestito l'evento nessun commento: «Ci sono
indagini in corso, non è opportuno». L'incidente ha scatenato,
soprattutto sui social, una ridda di roventi polemiche. Con una
domanda su tutte: è il caso di proporre anche eventi di questo tipo
in centro città? «L'amministrazione comunale autorizza e disciplina
gli eventi, per cui è legittimo che faccia le sue valutazioni più
opportune al riguardo – specifica il prefetto Donato Cafagna –.
Sulla base delle scelte fatte, come è avvenuto in passato, verrà
garantita la cornice di ordine e sicurezza pubblica».
Sembra invece risolto il mistero della Lancia 037 che all'Aci
risulta demolita il 13 dicembre 1983 dopo essere stata immatricolata
sei mesi prima e aver corso tre rally ufficiali con il pilota
Attilio Bettega. In pratica della 037 sarebbe stata demolita la
targa e poi l'auto avrebbe continuato ad "esistere" partecipando
anche ad altre corse minori su circuiti con targhe prova, come è
avvenuto domenica.
«Infatti non è la prima volta che partecipavano ad un evento con la
037 – spiega Ivano Toppino, il proprietario della Lancia con livrea
Martini Racing che, anni fa, ha aperto la "Toppino restyling",
laboratorio di restauro di veicoli storici a Pocapaglia nel Cuneese,
diventando un nome nel settore –. Ovviamente ci spiace per chi è
rimasto ferito. Io li avrei incontrati subito, ma non ci hanno mai
detto i nomi. Ma lo faremo presto e li risarciremo tramite la nostra
assicurazione».
I vandali distruggono anche l'ultimo gioco nel giardino "Cena"
Ritorno a scuola amaro per gli alunni dell'elementare Cena, nel
cuore del quartiere Barca. Il giardino in strada San Mauro, che
sorge accanto all'istituto, è infatti rimasto senza giochi a
disposizione dei bambini. È quanto gli studenti hanno scoperto la
scorsa settimana, al suono della prima campanella. A lasciare
sguarnita l'area verde è stato un atto vandalico che, nel corso
dell'estate, ha messo fuori uso l'attrezzo in legno con lo scivolo.
Si trattava dell'ultimo ancora utilizzabile all'interno del
giardino, dove negli ultimi tempi erano stati rimossi (e non
sostituiti) un dondolo e l'unica altalena, a loro volta oggetto di
danneggiamenti. A sollevare il problema sui social, l'altro giorno,
è stata Elisa Garnero, mamma di un alunno: «Questo è l'unico punto
di incontro per i nostri bambini nei pressi della scuola» ha
scritto.
L'atto vandalico sul gioco con lo scivolo ha interessato una delle
pedane in legno. Alcune assi, in particolare, sono state spaccate,
rendendo pericoloso il percorso per i bambini. Per questo i tecnici
della Circoscrizione 6, venuti a sapere del danneggiamento, avevano
messo in sicurezza il gioco, proteggendolo con una rete da cantiere.
Il dondolo a molla, invece, era stato smantellato la scorsa
primavera. Risale ad alcuni anni fa, infine, la rimozione
dell'altalena. A intervenire, anche in questi due casi, era stata la
Circoscrizione. Non aveva proceduto con le riparazioni, era stato
chiarito a suo tempo, per mancanza di risorse.
«Il nostro ufficio tecnico sta elaborando, in questi giorni, il
bando di gara per la manutenzione dei giochi delle aree per bambini»
spiega Valerio Lomanto, presidente della Circoscrizione 6. Si
tratterà di un investimento di 25 mila euro, che non basterà per
riparare i tre giochi del giardino in strada San Mauro. Con questi
fondi, infatti, la Circoscrizione metterà mano a tutti gli attrezzi
danneggiati sul proprio territorio. «La nostra Circoscrizione – dice
Lomanto – è tra le più colpite, i fondi che ci destina il Comune
sono insufficienti
18.09.24
GLI ERRORI CHE AVEVO PREVISTO E DETTO A VOLKSWAGEN NEL 2008:
(ANSA) - I vertici della
Volkswagen potrebbero decidere la chiusura di stabilimenti anche
senza passare dal voto del Consiglio di sorveglianza e con essa
aprire la strada al taglio di oltre 15.000 posti di lavoro. Lo
afferma un report di Jefferies ripreso da Bloomberg.
Secondo gli analisti in passato i vertici la casa automobilistica
tedesca sono stati frenati dal Consiglio nei progetti di
ristrutturazione, ma oggi la mossa potrebbe mettere pressione sui
sindacati, che vorrebbero trattare immediatamente sulle ipotesi di
chiusura di stabilimenti in Germania, cosa mai avvenuta finora nella
storia della Volkswagen.
Secondo il report, i sindacati possono scioperare per questioni
salariali ma non potrebbero farlo sulla chiusura di stabilimenti, a
meno che questo non sia previsto contrattualmente.
17.09.24
Il centrodestra firma l'accordo distruttivo con Bandecchi Arianna
Meloni: in Emilia miracolo possibile Fratelli d'Italia e il centrodestra si lanciano nella corsa
verso le Regionali. A partire dalla costa romagnola, dove Arianna
Meloni, capo segreteria politica di FdI, dà il via al suo tour
elettorale. Dopo l'intervento alla festa di Lido degli Estensi, è il
momento del pranzo con i militanti al Grand Hotel di Cesenatico. Ad
attenderla, circa 300 sostenitori. E lei, accanto alla candidata
civica Elena Ugolini, fa arrivare il suo sostegno a tutta la
comunità locale del partito coinvolta nel forcing elettorale. «Se
andiamo casa per casa e raccontiamo la nostra storia e quello che
stiamo facendo, - dice in un passaggio del suo discorso durante il
pranzo - in Emilia-Romagna il miracolo si può fare». Poco dopo il
suo intervento, i responsabili dei partiti di centrodestra
annunciano un «accordo politico nazionale» con Alternativa Popolare
di Stefano Bandecchi, sindaco di Terni. «Grazie a questa intesa -
spiegano - Ap porterà il proprio contributo per le prossime
regionali in Liguria, Umbria ed Emilia-Romagna». Si allarga così il
perimetro della coalizione di centrodestra, che nelle tre Regioni al
voto parte da un vantaggio di due a uno. E la sorella della premier,
scelta da FdI come "frontwoman", non lascerà nessun territorio fuori
dall'agenda. Ai militanti romagnoli, assicura: «Tornerò».
Luigi Bisignani
"Meloni ha problemi con i Servizi ma io non c'entro niente"
FRANCESCO OLIVO
ROMA
L'uomo che sussurrava ai potenti oggi è a Eurodisney con i nipoti.
Ma Luigi Bisignani, ex giornalista, lobbista, sempre al centro di
reti di relazioni, ha letto su La Stampa che da Palazzo Chigi vedono
la sua mano dietro una serie di trame ostili e vuole dire la sua
tornando da Parigi.
Bisignani, c'è lei dietro ai complotti così temuti da Palazzo Chigi?
«Questa cosa mi fa molto ridere».
Nel governo ridono meno. Ci sono episodi inquietanti.
«Chi è stato vittima di un complotto sono io e il mio collega Paolo
Madron».
Un complotto di Meloni contro di lei e perché mai?
«Io e Madron nella primavera del 2023 abbiamo pubblicato un libro, I
Potenti ai tempi di Giorgia, che racconta, tra l'altro, una serie di
cose sulle persone vicino a Giorgia Meloni. Il saggio è andato bene,
per primi abbiamo parlato del mercato delle intercettazioni, ma ce
ne hanno fatte di tutti i colori».
Cosa le hanno fatto?
«Le faccio degli esempi. Avevamo in programma una presentazione ad
Avellino con il ministro Matteo Piantedosi e un'altra a Capalbio con
Guido Crosetto, entrambe sono saltate all'ultimo per un diktat
partito da Palazzo Chigi. Rainews24 mi ha fatto una lunga
intervista, ma non l'hanno mandata in onda. Silenzio assoluto anche
su Mediaset».
Non è che lei ha il dente avvelenato con Meloni perché per la prima
volta un governo non le dà retta?
«Lei crede che io abbia tutta questa voglia di accreditarmi con
queste persone?».
Il dubbio può sorgere.
«Guardi io sono andreottiano e tengo molto alla mia autonomia. Poi
certo, nei palazzi ho delle fonti che mi raccontano delle cose e
questo, immagino, non piace a Meloni che vorrebbe controllare
tutto».
Ogni volta che si parla di nomine esce il suo nome, stavolta però,
come ha detto Meloni «affaristi, lobbisti e compagnia cantante con
noi non stanno passando un bel momento».
«Ma lei ha visto chi hanno messo nelle partecipate? Francamente non
farei una bella figura ad essere associato a certe figure, con le
dovute eccezioni».
Ci vuole dire che non ha mai chiesto un appuntamento alla premier o
al sottosegretario Fazzolari?
«Mai».
Nessun contatto con Meloni?
«Ci scambiavamo dei messaggi in passato, ma poi non ho avuto
contatti. Io peraltro ho una buona opinione di Meloni, ne apprezzo
il percorso e mi è simpatica. Solo che questa sindrome di
accerchiamento la porta ad arroccarsi. Lei vede che non sorride
più?».
Forse è anche colpa sua…
«So che aver scritto di Andrea Giambruno prima che l'ex compagno
della premier diventasse un personaggio noto non mi ha giovato. Nel
nostro libro abbiamo rivelato che scriveva su Il Tempo commenti
politici con uno pseudonimo».
Cosa pensa di quello che ha raccontato La Stampa, strani furti,
timori di complotti...
«Meloni ha una passione sfrenata per i Servizi, quasi un'ossessione,
come tutti i neofiti di Palazzo Chigi legge con grande attenzione i
report che le finiscono sul tavolo al mattino. Ma se ti impicci
troppo poi finisci per essere vittima di quelle veline che i Servizi
scrivono con finalità autoreferenziali».
Non è che è un altro dei suoi pizzini?
«Al contrario: lo dico per lei. Giorgia dovrebbe volare più alto.
Invece vedo che c'è un problema con i Servizi».
Come fa a dirlo?
«Mi limito a osservare. La vicenda di Maria Rosaria Boccia è
emblematica: quella signora era conosciuta da molti, erano anni che
girava in Parlamento, i Servizi avrebbero dovuto avvisare la
presidente del Consiglio e forse le avrebbero evitato alcune brutte
figure, come quando ha difeso Sangiuliano o ha aspettato vari giorni
per cacciarlo».
Nel retroscena pubblicato da La Stampa si cita una voce che circola
negli ambienti di Palazzo Chigi: lei agirebbe di concerto con l'ex
agente segreto Marco Mancini e l'ex premier Matteo Renzi. È così?
«Figuriamoci».
Conosce Mancini?
«L'ho conosciuto anni fa, ma non lo vedo né lo sento da molto
tempo».
E Renzi?
«Il mio libro I potenti ai tempi di Renzi non gli piacque affatto.
Poi con il passare degli anni il rapporto è molto migliorato».
Con Crosetto parla?
«Con lui sì. Con tutti gli ex dc ho un rapporto».
Cosa pensa della vicenda del dossieraggio e delle sue accuse all'Aise?
«In un Paese normale dovrebbero dargli una medaglia: ha denunciato
lo scandalo del dossieraggio. E invece dicono che è colpa sua:
incredibile». —
Castellitto si difende: "Sto lavorando gratis do fastidio perché
smuovo acque stagnanti"
Claudia Catalli
Quando si accetta un incarico di responsabilità si mettono in conto
le critiche. Forse però Sergio Castellitto, presidente del Centro
Sperimentale di Cinema, non si aspettava «la raffica di attacchi
subiti in questi giorni». Quelli di Grimaldi, vicepresidente di
Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera e dei 5stelle, a cui ha
risposto in una lettera al Corriere della sera. «Sono
sistematicamente attaccato solo perché sto cercando di fare ordine e
probabilmente ho smosso acqua stagnante da molti anni. Nella vita ho
incontrato conflitti e armonie ma combatterò sempre la ferocia
travestita da indignazione. Lavoro con tutto il mio impegno a titolo
completamente gratuito. E questo non l'ho mai visto scritto da
nessuna parte».
Nega di aver licenziato i 17 lavoratori: «Questi collaboratori,
verso i quali ho il massimo rispetto, avevano un contratto a tempo
determinato, per un progetto di digitalizzazione, in scadenza a
luglio». Sul dirigente Stefano Iachetti specifica: «Con
un'iniziativa autonoma ha inviato un contratto di assunzione a i 17.
Decisione che spetta solo al direttore generale dietro approvazione
del Cda e del presidente, che devono rispettare bandi di selezione e
verificare se la Fondazione abbia le coperture finanziarie». Dopo
l'apertura di un procedimento disciplinare, il cda ha preso
«all'unanimità» la decisione di rimuovere il dirigente «perché
venuto meno il vincolo fiduciario».
Sulle pellicole incendiabili: «La loro precarietà è un problema
sempre esistito, come testimoniano i molteplici incendi del passato.
Dopo l'ultimo episodio di giugno, ho adottato misure di vigilanza e
ottenuto dal ministero uno spazio idoneo all'interno del
Comprensorio militare polmanteo di Tor Sapienza». Risponde poi sulle
consulenze, ricordando che «tutti i presidenti che mi hanno
preceduto hanno assunto consulenti e avvocati di loro fiducia». I
contratti nuovi hanno sostituito i vecchi in scadenza: «Ho chiamato
lo studio di consulenza Kpmg che ha lavorato insieme ai dirigenti
interni e ai consulenti per ristrutturare il precedente piano del
Pnrr che era stato considerato inadeguato. Dopo mesi di lavoro
abbiamo ottenuto poche settimane fa il nullaosta del Mef sul nuovo
piano». Lo considera un successo: il Csc potrà beneficiare di oltre
25 milioni e mezzo di euro «da investire in formazione, eventi,
ristrutturazione urbanistica, tecnologia e attrezzature».
Non si tira indietro sul coinvolgimento di sua moglie Margaret
Mazzantini, che ha preso parte alla manifestazione Diaspora degli
artisti in guerra, in relazione all'incontro con David Grossman. Il
Csc aveva proposto un altro nome, ma «non c'è stato un accordo.
Mazzantini è stato nome gradito a Grossman, tra i due autori
esisteva una conoscenza pregressa». Nessun favore: «Ha percepito 4
mila euro lordi come tutti gli altri ospiti. Non svolge nessuna
attività di consulenza presso il Csc». Lui stesso, prosegue, ha
rinunciato a partecipare ai festival di Berlino e Cannes: «Ho
ritenuto superfluo il costo delle mie trasferte». Quanto a Venezia
ha rinunciato «alla camera a mia disposizione all'Hotel Excelsior e
deciso di soggiornare, con la mia famiglia, a Villa Gallo affittata
come base operativa del Centro Sperimentale». Scende in dettagli:
«All'inizio del mio mandato mi è stata consegnata una carta
corporate che ho usato per la prima volta a Venezia dopo quasi un
anno dall'insediamento, per il pagamento di 4 pasti singoli e 4
taxi-barca, per un totale di 731,50 euro. Molti trasferimenti li ho
fatti in vaporetto». Agli attacchi finora ha resistito «per amore
degli studenti», ma non sa per quanto ancora lo farà: «Resterò fino
a quando sarà necessario per ricomporre un clima di dignità e
indipendenza da qualsiasi strumentalizzazione. Anche in difesa di
tutti i docenti, dirigenti, dipendenti preparati e perbene che
lavorano da anni per rendere il Csc un'eccellenz
16.09.24
GIOVANNI ALBERTO AGNELLI MI AVEVA DETTO CHE A DIO NON CHIEDEVA NULLA
DI PIU' CHE LA PIAGGIO E VARRAMISTA ECCO PERCHE' E' IN PARADISO:
Si trova tra Firenze, Pisa e il mare ed è un vero
gioiello di instimabile valore storico e di rata eleganza. È la
tenuta appartenuta alla famiglia Agnelli-Piaggio, che è stata ora
messa in vendita. Si tratta di un luogo magico, immerso nel verde,
testimone storico e silenzioso del susseguirsi di tante epoche, che
ha custodito i segreti di grandi personaggi di spicco provenienti da
tutto il mondo. La proprietà è in esclusiva nel portfolio di Lionard
Luxury Real Estate, azienda leader in Italia nel settore immobiliare
di lusso, con asking price (prezzo richiesto) di 16 milioni di euro.
Antonella Bechi Piaggio Umberto Agnelli
Si estende per oltre 400 ettari circondando la
meravigliosa villa padronale del XV secolo, per lungo tempo
residenza della famiglia Agnelli-Piaggio. Ma oltre alla villa c'è
molto di più. Svariati casali di cui quattro completamente
ristrutturati e tre dotati ciascuno di piscina privata. A questo si
aggiungono due cantine vinicole, una cappella privata, una limonaia,
alloggi per il personale e numerosi altri annessi e rustici, per una
superficie interna totale di oltre 14.500 metri quadrati.
La sua costruzione
tenuta di varramista agnelli piaggio 8
Fu progettata da Bartolomeo Ammannati, celebre
scultore e architetto della corte medicea che lavorò alla
trasformazione di Palazzo Pitti e alla realizzazione della Fontana
del Nettuno in Piazza della Signoria a Firenze. La villa fu
completata nel 1589 con la data impressa da alcune incisioni sul
tetto.
I terreni in cui sorge furono donati dalla
Repubblica di Firenze a Gino di Neri Capponi, come ricompensa per la
sua vittoria contro Pisa nel 1406, che ne divenne così
sovrintendente. Una posizione di potere che ben si esprime nella
maestosità e nelle dimensioni della villa padronale. […]
L'arrivo degli Agnelli
Negli anni '50 la proprietà fu poi acquistata da
Enrico Piaggio, secondogenito del fondatore di quella Piaggio che
stava rivoluzionando il mondo delle due ruote nel dopoguerra
italiano. La villa diventa la residenza di campagna di tutta la
famiglia: un luogo di relax e svago, con maneggio privato.
Antonella Bechi Piaggio Umberto Agnelli
Anche in questo caso, la magione ospita
grandissimi personaggi di spicco, dal marchese e stilista Emilio
Pucci di Barsento, l'attore Marcello Mastroianni, il conte Clemente
Zileri dal Verme degli Obbizi e la contessa Franca Spalletti
Trivelli. Fu proprio qui che vennero celebrate le nozze tra
Antonella Bechi Piaggio duchessa Visconti di Modrone e Umberto
Agnelli, fratello dell'Avvocato Gianni Agnelli e nipote del
fondatore della FIAT.
Gli anni '90
Giovanni Alberto Agnelli, negli anni '90 la
scelse come residenza, avendo per quel luogo del cuore una vera e
propria passione. Fu proprio grazie a questo amore che in quel
periodo comincia la la riconversione dei vigneti, che eleggono il
Syrah a vitigno d’eccellenza della tenuta, e l'affinamento del
processo di produzione dei suoi vini pregiati. Qui festeggia anche
il suo matrimonio con Frances Avery Howe nel 1996.
I giardini
tenuta di varramista agnelli piaggio 7
Un favoloso giardino all’italiana impreziosisce
lo spazio di fronte alla villa e dà accesso alla limonaia con
adiacente struttura suddivisa in quattro appartamenti per il
personale. Dalla villa storica un sentiero di siepi porta alla
cappella privata consacrata, circondata dal verdeggiante giardino
dietro al quale sono presenti un labirinto e un campo da tennis.
I 25 ettari di giardino sono arricchiti da
camelie japoniche, macchie di bambù e numerose piante centenarie tra
cui un maestoso platano dal tronco largo sei metri. Il giardino
ospita inoltre un laghetto naturale e un ippodromo. Dei numerosi
casali, tre sono immersi tra i vigneti e finemente ristrutturati in
stile rustico tipico della campagna toscana. I casali sono composti
da un corpo principale, il fienile e 3 piscine, contando un totale
di 13 appartamenti ognuno con accesso indipendente. […]
I PADRONI DELL'ECONOMIA NON PAGANO MAI LE TASSE:
La Corte Europea il 10 settembre ha condannato Apple per evasione
fiscale. L’azienda di Cupertino, la cui sede europea è in Irlanda,
tra il 2003 e il 2014 non ha pagato 13 miliardi di euro di tasse
grazie a uno speciale accordo fiscale col Paese. A ottobre 2021, per
frenare le mosse di elusione delle tasse da parte delle
multinazionali, su iniziativa dell’Ocse, dell’amministrazione Biden
e della Ue, 139 Paesi (a cui se ne sono aggiunti poi altri otto)
hanno firmato un accordo che prevede un meccanismo più stringente,
al fine di costringere queste società a versare almeno una quota
minima a partire dal 2023. Vediamo di cosa si tratta e cosa è
successo da allora in poi.
Perché le multinazionali pagano poco
Il gioco per pagare meno tasse si chiama «Base Erosion and Profit
Shifting» e consiste nello spostare i profitti in Paesi a tassazione
ridotta o nulla. Si tratta, per lo più, di azioni legali e, proprio
per questo, difficili da contrastare.
Basta, ad esempio, stabilire la sede fiscale dove le tasse sono più
basse, oppure fatturare in un Paese estero con fiscalità agevolata o
ancora utilizzare il «transfer pricing», le transazioni economiche
(spesso fittizie) all’interno di un gruppo multinazionale (come
prestiti, cessione di marchi o brevetti, servizi assicurativi), il
tutto gestito da una controllata che ha sede in un paradiso fiscale.
I più gettonati fino ad oggi sono Porto Rico, Panama, Andorra,
Lichtenstein, Svizzera, Monaco, Bahrein, Seychelles, Mauritius, i
Territori d’Oltremare del Regno Unito e i centri offshore asiatici
(Hong Kong, Singapore, Macao). E poi ci sono i nemici casalinghi,
quelli nel cuore dell’Europa come Irlanda, Lussemburgo, Cipro, Paesi
Bassi, Belgio, Ungheria, Bulgaria.
Colossi dell’economia mondiale come Apple, Pfizer, Microsoft,
General Electric, Ibm, Johnson & Johnson, Cisco System, Google,
Nestlè, Stellantis, Volkswagen che nel 2022, secondo i calcoli
dell’Osservatorio Ue sulle tasse, hanno realizzato utili mondiali
per 16.000 miliardi di dollari di cui 2.800 al di fuori del Paese
dove ha sede la multinazionale […]
Di questi 2.800 miliardi il 35%, circa 1.000 miliardi, sono stati
spostati verso i paradisi fiscali. Con questi meccanismi, secondo i
calcoli dell’Osservatorio Ue sulle Tasse, dal 2015 al 2020 in Italia
per esempio le multinazionali hanno evitato di pagare tasse per
quasi 37 miliardi di euro.
I due «pilastri» della global minimum tax
Il sistema di contrasto elaborato nel 2021 prevede due misure: 1)
una nuova imposta minima del 15% applicabile a tutte le
multinazionali con un fatturato annuo di almeno 750 milioni di
dollari in tutti i Paesi che hanno firmato l’accordo (definito
«Pillar two»); 2) un meccanismo di ripartizione degli utili verso i
Paesi dove le multinazionali vendono i loro servizi: le aziende con
fatturati superiori ai 20 miliardi di euro dovranno ridistribuire
una quota dell’utile eccedente il 10% nei Paesi dove effettivamente
hanno venduto i lori beni e servizi, e dove sarà tassato dal fisco
locale. Questo secondo principio coinvolge soprattutto le big tech
[…]
Cosa succede oggi
Facciamo alcuni esempi concreti. In Italia la principale tassa per
le aziende è l’Ires che ha un’aliquota del 24%, ma non è dovuta se
si hanno risultati negativi. Fca Italy nel 2022 ha fatturato nel
nostro Paese 24 miliardi di euro, con un passivo di 375 milioni e
pertanto non ha pagato alcuna Ires (ed è così dal 2019). Gli utili,
lo stesso anno, li ha fatti invece la capofila Stellantis: 23,3
miliardi su 179,6 di ricavi, che ha però sede in Olanda dove le
tasse per le società, grazie a meccanismi di sgravi e detrazioni,
scendono fino al 2,5%.
Nel 2023 Google ha registrato un fatturato globale 307,4 miliardi di
dollari di cui quasi la metà negli Stati Uniti: 146,29 miliardi. Gli
utili sono stati di 85,72 miliardi e le tasse di 11,92 miliardi. Con
la global minimum tax il colosso di Montain View avrebbe pagato
almeno 12,86 miliardi.
A che punto siamo
Come abbiamo detto doveva entrare tutto in vigore nel 2023 e secondo
l'Ocse avrebbe generato un gettito fiscale aggiuntivo di 220
miliardi di dollari a livello mondiale. A condizione che il
meccanismo fosse applicato da tutti i Paesi coinvolti. Non è andata
così.
Per l’anno fiscale 2024, scrive l’Ocse, solo 45 Paesi hanno adottato
misure per implementare l'Imposta minima globale sugli utili delle
grandi imprese multinazionali. Ci sono Norvegia, Australia, Corea
del Sud, Giappone, Canada, Bermuda. C’è il Regno Unito che però non
potrà imporre nulla ai suoi territori d’oltremare (come Isole
Vergini, Cayman, etc) che fiscalmente sono autonomi.
Per l’Unione Europea la commissione ha diramato una direttiva nel
2022 (la 2523) che obbligava l’adozione delle nuove misure nel 2024:
19 Stati l’hanno fatto (Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia,
Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia,
Ungheria, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Romania, Slovacchia,
Slovenia e Svezia), quattro hanno avuto il via libera a differirla
nel 2030 perché hanno meno di 12 multinazionali presenti (Estonia,
Lettonia, Lituania, Malta) e ad altri quattro è stata inviata una
lettera formale di messa in mora: Cipro, Portogallo, Polonia e
Spagna, anche se queste ultime due hanno pubblicato una bozza di
legge per il recepimento dal 2025.
Grandi assenti invece la Cina, che ha firmato l’accordo, e
soprattutto gli Stati Uniti che sono stati tra gli ispiratori della
misura.
Il Grande Assente: gli Stati Uniti
Grazie alla riforma Trump, dal 2018 le più grandi aziende americane
hanno pagato meno tasse. L’Institute on taxation and economic policy
(Itep) ha pubblicato a maggio un report secondo il quale, in seguito
alle modifiche fiscali del Presidente Trump, 296 grandi aziende
americane tra il 2018 e il 2021 hanno «risparmiato» oltre 250
miliardi di dollari di tasse e la loro aliquote fiscali effettiva è
scesa da una media del 22% al 12,8%.
Le grandi società che avevano pagato aliquote fiscali inferiori al
10% erano aumentate da 56 a 95. Alcuni esempi: Verizon ha registrato
un calo delle tasse di 10,7 miliardi, Walmart e AT&T entrambi di 9
miliardi, Meta di 8 e Intel di 7,7 miliardi.
Fin dalla sua elezione Biden aveva chiesto agli americani più ricchi
e alle grandi aziende di pagare la giusta quota, annunciando una
riforma.
Già da quest’anno l’aliquota sui redditi dei cittadini superiori a
400 mila dollari torna al 39,6% (Trump l’aveva abbassata al 35%) e
la tassazione sui redditi di impresa generati negli Stati Unti è
stata portata al 28% (Trump l’aveva tagliata al 21%), ma il vero
tema sono le deduzioni che permettono alle grandi aziende di
abbassare la loro quota di tasse sotto il 13%. Biden aveva promesso
di introdurre la global minimum tax al 15%, come previsto
dall’accordo Ocse, ma per farlo ha bisogno del voto del Senato, che
controlla, e della Camera dei rappresentanti, in mano ai
repubblicani che invece sono contrari. Quindi addio global minimum
tax e addio redistribuzione degli utili (una parte consistente delle
grandi multinazionali ha sede proprio negli Usa). Almeno per il
momento. Deciderà il prossimo presidente.
Biden aveva promesso di introdurre la global minimum tax al 15%,
come previsto dall’accordo Ocse, ma per farlo ha bisogno del voto
del Senato, che controlla, e della Camera dei rappresentanti, in
mano ai repubblicani che sono contrari.
In Italia cambierà poco
In Italia l’introduzione della global minimum tax da quest’anno ha
cancellato la digital tax. L’allora ministro dell’Economia, Daniele
Franco, aveva spiegato che la sostituzione tra la vecchia e la nuova
imposta non avrebbe impattato sul gettito fiscale annuo delle big
tech, circa 250 milioni di euro.
Bisognerà capire, invece, cosa succederà con le multinazionali
italiane e straniere degli altri settori (Finmeccanica, Pirelli,
Generali, Unicredit, Stellantis, Bmw, Wolkswagen, Toyota etc) che,
adottando strategie di «tax planning» finora legittime, dichiarano
almeno una parte dei profitti all’estero. Secondo le stime
dell’Osservatorio Ue sulle tasse per l’Italia si parla di un
extragettito di oltre 6 miliardi di euro all’anno.
Dati puntuali sono contenuti nel report di Mediobanca, ma riguardano
solo le software e webcompanies. Dentro ci sono Adobe, Google,
Amazon, Booking, Microsoft, Meta, ma non Apple. Sono 26 aziende in
totale che, nel 2022, hanno fatturato nel nostro Paese 9,3 miliardi
di euro e hanno pagato tasse per 162 milioni, con un’aliquota del
28,3% rispetto agli utili dichiarati. Ma il tema è quello di
individuare i profitti effettivi e non quelli dichiarati.
Osservatorio tasse Ue: non è abbastanza
Anche quando il sistema andasse a regime, secondo l’Osservatorio Ue
sulle tasse «Non c'è una ragione chiara per cui le multinazionali
debbano pagare meno delle aziende nazionali di medie o piccole
dimensioni», scrive nel rapporto 2024. L’Osservatorio suggerisce due
misure: riformare l'accordo internazionale sulla tassazione minima
delle imprese per applicare un'aliquota del 25%, eliminando le
scappatoie che favoriscono la concorrenza fiscale, e introdurre una
tassa minima globale per i miliardari pari al 2% della loro
ricchezza.
E fa i calcoli: nel mondo ci sono 2.756 persone che hanno un
patrimonio personale miliardario che, sommato, vale 12.916 di
dollari. Oggi, per quel patrimonio, tutti assieme pagano 44 miliardi
di dollari di tasse: appena lo 0,34%. Con un’aliquota del 2% ne
pagherebbero 258.
Per avere un’idea: un anno di tasse dei miliardari mondiali al 2%
vale come dodici anni di aiuti europei per lo sviluppo dell’Africa.
Intanto accontentiamoci almeno del fatto che in Olanda, Irlanda e
Lussemburgo si paghi «almeno» il 15% e non più lo zero virgola, come
è stato fino a qualche mese fa.
LA LOGGIA UNGHERIA INVINCIBILE: Tra i 17 indagati il tenente Striano
e l'ex magistrato Laudati. Cantone: "Mercato di informazioni"
Vip e politici spiati da dentro l'Antimafia a Perugia l'inchiesta
che ha svelato il sistema
giuseppe legato
torino
Le indagini della procura di Perugia guidata dal magistrato Raffaele
Cantone scaturiscono da una denuncia presentata alla procura di Roma
dall'attuale Ministro della Difesa, Guido Crosetto, per alcuni
articoli di stampa pubblicati tra luglio e ottobre del 2022,
riportanti informazioni sensibili concernenti la propria posizione
reddituale.
I protagonisti
Gli accertamenti, in un primo momento delegati all'Arma dei
carabinieri, hanno consentito di accertare, attraverso l'analisi dei
log eseguiti sulla banca dati Anagrafe Tributaria (la principale
banca dati contenente le informazioni reddituali utilizzate
dall'editoriale che ha pubblicato gli articoli oggetto di denuncia),
l'effettuazione di accessi al sistema da parte del tenente Pasquale
Striano in date precedenti e, comunque, a ridosso dell'uscita degli
articoli di stampa. All'epoca dei fatti il tenente della Finanza,
principale indagato dell'inchiesta (in totale ne figurano 17 che
rispondono a vario titolo di accesso abusivo aio sistemi
informatici, rivelazione di segreto, abuso d'ufficio e falso), era
in servizio presso il cosiddetto "Gruppo S.O.S."(Segnalazioni
operazioni sospette) istituito presso la procura Nazionale Antimafia
e Antiterrorismo. In Via Giulia lavorava insieme al magistrato
Antonio Laudati, responsabile dell'unità Sos. Anche quest'ultimo
finisce nel registro degli indagati ed è questo il motivo per cui
l'indagine, da Roma, transita a Perugia che è quella competente per
le inchieste che coinvolgono i magistrati capitolini. Cantone si
coordina anche con Francesco Melillo, da maggio 2022 nuovo capo
della procura nazionale antimafia.
I vip nel mirino
Salta fuori che le ricerche effettuate da Striano – in ipotesi
d'accusa illecite - nelle banche dati della procura nazionale
antimafia sono migliaia. Tra queste figurano numerosi personaggi
della politica, del mondo dei vip, dei manager: dall'ex premier
Giuseppe Conte e la sua compagna, al ministro delle Infrastrutture
Matteo Salvini e a Matteo Renzi, dall'ex presidente della Juventus
Andrea Agnelli, fino a Fedez, Cristiano Ronaldo. Oltre a Guido
Crosetto e ai colleghi di esecutivo Adolfo Urso e Francesco
Lollobrigida.
Il sistema
Nell'inchiesta figurano indagati anche tre giornalisti del
quotidiano "Domani". L'accusa è di concorso in accesso abusivo al
sistema informatico con Striano. Cantone e Melillo, nel marzo
scorso, vengono auditi presso la commissione parlamentare antimafia
e dal Comitato per la sicurezza della Repubblica. Il capo della Dna
ha definito l'inchiesta di Perugia una «terribile vicenda». Ha
aggiunto: «Per estensione e sistematicità, la raccolta di
informazioni che è attribuita a Striano ha caratteristiche che
difficilmente ricorrono a iniziative individuali. Se esiste un
perimetro di responsabilità più ampio lo scoprirà la procura di
Perugia». L'audizione di Cantone è invece durata circa tre ore: il
capo dei pm di Perugia ha definito un «verminaio» quanto emerso
dalle indagini. Parlando di un «mercato delle informazioni
riservate», che non si sarebbe arrestato neanche dopo le prime
notizie sull'inchiesta. Nel merito dell'inchiesta ha definito
"mostruoso" il numero di accessi sulle banche dati, ringraziando
infine il ministro Crosetto che con la sua denuncia ha dato il via
all'indagine.
La richiesta di arresti
Nelle scorse settimane Cantone ha chiesto gli arresti domiciliari
per Striano e Laudati che sono state respinte dal gip che - pur
condividendo i gravi indizi nel merito - non ha ravvisato la
sussistenza di esigenze di custodia cautelare. Pende Appello al
Riesame proposto dai pm di Perugia: l'udienza si celebrerà il
prossimo 24 settembre. Con quel documento – e con atti inviati alla
commissione parlamentare antimafia – si è materializzata parziale
discovery sugli atti di indagine.
Da questi sono emersi rapporti tra Striano e membri dei Servizi
segreti sui quali la procura di Perugia sta approfondendo. Un uomo
degli apparati di sicurezza è indagato in concorso con il tenente
per aver chiesto – e ottenuto – informazioni su un Monsignore che
aveva avuto ruoli di rilievo in passato nella Segreteria di Stato
vaticana.
L'ECONOMIA PIEMONTESE E' AL COLLASSO : L'indagine di
Unioncamere: regge il tessile e il comparto alimentare
Battuta d'arresto per l'export piemontese "Tessuto produttivo messo
a dura prova"
Battuta d'arresto per l'export piemontese che nel primo semestre del
2024 ha registrato un valore delle merci esportate pari a 31,4
miliardi, in calo del 4,6% rispetto all'analogo periodo del 2023. La
contrazione del 2,1% segnata già nel primo trimestre, ha visto un
ulteriore calo vendite oltre confine nel periodo aprile-giugno 2024
(-6,8%), secondo i dati diffusi dal centro studi di Unioncamere
Piemonte. Nello stesso periodo il valore delle merci importate è
stato pari a 23,7 miliardi, il 10,2% in meno rispetto al semestre
gennaio-giugno 2023, portando il saldo della bilancia commerciale
regionale a +7,7 miliardi di euro, +6,5 sull'anno precedente. In
questo contesto, il Piemonte si conferma la quarta regione
esportatrice, con una quota pari al 9,9% dell'export nazionale, pur
avendo registrato un risultato complessivamente più negativo del
dato nazionale (-1,1%).
A pesare la crisi dell'auto. I mezzi di trasporto rappresentano,
anche nel periodo gennaio-giugno 2024, il settore più rilevante per
il commercio estero piemontese, generando poco meno di un quarto del
totale delle esportazioni (23,2%). «Il dato ci impone una
riflessione attenta e profonda. È evidente che il contesto economico
internazionale stia mettendo a dura prova il nostro tessuto
produttivo. Nonostante questo scenario sfavorevole, il Piemonte
dimostra una certa resilienza, grazie alla buona performance dei
settori alimentare e tessile. Questi comparti, storicamente legati
al nostro territorio, confermano la loro vitalità e la capacità di
adattarsi ai cambiamenti del mercato globale. È però necessario
mettere in campo azioni immediate e coordinate per sostenere le
imprese piemontesi, in particolare quelle più esposte alla crisi»
afferma Gian Paolo Coscia, presidente di Unioncamere Piemonte.
PERCHE' TUTTO CIO' ?I lavori, da programma, andranno avanti per
quindici mesi : si parte con la riqualificazione della cascina
Malpensata , poi le attrezzature sportive
Meisino, domani tornano camion e ruspe Gli operai saranno scortati
dalla Digos
pier francesco caracciolo
Dopo un fine settimana di riposo, domani mattina gli operai
torneranno nel parco del Meisino. Lo faranno intorno alle 7,30, a
bordo di camion e ruspe. Si presenteranno nel polmone di Sassi per
proseguire i lavori per la realizzazione di una cittadella dello
sport, avviati dieci giorni fa nel cuore del verde. Saranno scortati
dalla Digos, come accade dal giorno dell'apertura del cantiere. A
monitorare il loro lavoro promettono di esserci anche alcune decine
di attivisti e contestatori dell'opera, che dalla posa del primo
jersey presidiano quotidianamente, da mattina a sera, l'area del
cantiere.
I lavori, da programma, andranno avanti per quindici mesi. Salvo
rallentamenti, insomma, si chiuderanno alla fine del 2025. In questo
lasso di tempo, al Meisino, gli operai realizzeranno quattro tipi di
interventi. Riqualificheranno la cascina Malpensata, in stato di
abbandono da vent'anni; installeranno venti attrezzature sportive in
altrettanti punti del parco, comprese tre aree giochi e due per il
fitness; renderanno più fruibile l'area «umida», oggi visitabile
solo in condizioni precarie; costruiranno una passerella
ciclopedonale, così da rendere il parco accessibile anche ai
disabili.
Si tratta di un progetto da 11,5 milioni, fondi l Pnrr. Coinvolge,
stando alle planimetrie, un'area di 393 mila metri quadrati (dato
riportato sul sito Torino Cambia). Il parco del Meisino, nel
complesso, è ampio 450 mila metri quadri (dato riportato sul sito
del Comune). Tradotto: l'87 percento del polmone di Sassi sarà
interessato dal progetto. Eppure la Città assicura da sempre che il
piano d'intervento coinvolgerà un'area di parco pari al 10 percento
del totale. La discrepanza nasce dal fatto che le diverse
attrezzature, prese singolarmente, occuperanno superfici minime.
Saranno distribuite, però, su un'amplissima fetta di parco.
Il progetto prevede la nascita di un «Centro per l'educazione
sportiva ed ambientale». Così viene definito, sul proprio sito, dal
Comune. La sede operativa sarà la cascina riqualificata, a più
riprese occupata abusivamente negli ultimi decenni. Ospiterà
attività didattiche, sportive e ambientali rivolte soprattutto alle
scuole, dalle materne alle superiori. Sarà dotata di una sala
riunioni, di una segreteria, di bagni e spogliatoi, di una piccola
area ristoro con distributori automatici. All'interno, inoltre,
ospiterà un punto informativo per la ciclovia Eurovelo 8 e Vento. A
gestirla, quando sarà pronta, sarà una fondazione controllata dal
Comune (non un privato, dunque).
Tutto intorno sorgeranno le attrezzature sportive, nessuna ancorata
al terreno. Su di esse sarà possibile praticare dodici discipline
sportive: arrampicata sportiva (lead e boulder), corsa campestre,
tiro con l'arco, orienteering, disc golf, ciclocross, mountain bike,
pump track, skiroll, biathlon, cricket, fitwalking cross. Le piste
di pump track e skills bike, chiarisce il Comune, saranno realizzate
mediante la collocazione di pedane in legno. La pista di ciclocross,
invece, con la sistemazione dei tracciati esistenti.
E il verde? Il Comune ipotizza di abbattere 200 alberi. Saranno
scelti in base alle condizioni di stabilità, ma non solo. Saranno
rimossi anche dove sarà necessario inserire attrezzature sportive,
come passerelle o pedane. Per bilanciare l'effetto del
disboscamento, arriveranno mille piante in più. Nel dettaglio, 600
alberi più 400 arbusti, tutti autoctoni: saranno messi a dimora nei
filari e nei prati alberati.
LA DISTRUZIONE PIEMONTESE CONTINUA: la petizione on-line ha toccato
quota 10 mila adesioni
"La riserva naturale sarà devastata" In 200 per dire no al nuovo
complesso
In 200 per dire no alla cittadella dello sport progettata dal Comune
nel parco del Meisino. Tanti sono stati i partecipanti alla
manifestazione di protesta tenutasi ieri, dalle 15 alle 18, nel
quartiere Sassi. Partiti da piazza Modena, hanno sfilato in corteo
fino all'area di cantiere, allestita da dieci giorni nel cuore del
polmone nella periferia Nord-Est di Torino. Un serpentone composto
dai cittadini del comitato «Salviamo il Meisino», che da un anno e
mezzo si battono contro il progetto, e non solo.
Con loro residenti in zona, ambientalisti, attivisti dei centri
sociali, qualche politico. Tutti convinti che il piano del Comune
avrà l'effetto di una «devastazione» per il Meisino. «Danneggerà
irrimediabilmente una riserva naturale ricchissima di biodiversità»
spiega Bruno Morra, esponente del comitato. Le strutture pianificate
dalla Città, secondo chi contesta, trasformeranno il parco in
un'«area giochi» all'aperto, che sconvolgerà un ecosistema abitato
da migliaia di animali.
Tra questi, oltre duecento specie di uccelli, che da anni nidificano
al Meisino, e animali anfibi, attratti dalle aree paludose del
parco. E poi ancora «volpi, ricci, tassi» sottolinea Roberto
Macario, veterinario. «Per realizzare il progetto il Comune taglierà
centinaia di alberi» aggiunge Roberto Accornero, uno degli
attivisti.
Ieri la petizione on-line contro il progetto, lanciata a novembre
2022, ha toccato quota 10 mila adesioni. Lunedì scorso una trentina
di attivisti, per tre ore, avevano bloccato gli operai diretti al
cantiere. Un'operazione di ostruzionismo che, in quel caso, si era
risolta con lo sgombero da parte degli agenti della Digos e della
polizia. Anche nei giorni successivi gli attivisti avevano
presidiato l'area dei lavori, scortata dalla Digos. Una
contestazione che domattina proseguirà: l'appuntamento è alle 6,30
al parcheggio delle Cento Lire. Sarah Di Sabato e Alberto Unia,
consiglieri regionali grillini, presenti al corteo, annunciano
invece un'interrogazione ad hoc: sarà depositata nelle prossime
settimane.
15.09.24
Direttore licenziato, polemica alla Cineteca "E il Centro aumenta
spese e consulenze" Eleonora Camilli
Roma
Licenziato in tronco, dopo 41 anni di servizio e alla soglia della
pensione. Non nasconde l'amarezza, Stefano Iachetti, direttore
amministrativo della Cineteca nazionale. Ieri, nel giorno del suo
62° compleanno, ha ricevuto la lettera che formalizza la fine del
rapporto di lavoro col Centro sperimentale di cinematografia,
presieduto dall'attore e regista Sergio Castellitto. E Avs attacca:
scelte anti-sindacali e «spese inopportune».
Al centro della vicenda c'è un contenzioso legato al futuro
professionale di 17 collaboratori. Iachetti annuncia già una
battaglia legale: «Contesterò il provvedimento e lo impugnerò, il
mio avvocato Pierluigi Ferrari è già al lavoro» spiega. «La mia
colpa è solo aver voluto preservare il personale qualificato,
entrato nella struttura attraverso una selezione pubblica. Figure
che noi abbiamo formato e che avevano il contratto in scadenza lo
scorso 31 luglio. Mi sono preoccupato di non mandarle via,
sensibilizzando i vertici del Centro, la direttrice generale, il
presidente e il conservatore. Senza avere risposte».
L'ex dirigente spiega di aver «solo» mandato delle mail ai
lavoratori con i moduli da compilare, visto che i tempi erano
stretti: «Avrei poi atteso l'eventuale autorizzazione per veicolare
le proposte di contratto». Ma questa mossa è stata considerata
impropria, come se Iachetti avesse voluto scavalcare il Cda. E così
è arrivato il licenziamento per giusta causa. Un provvedimento che
suona particolarmente amaro all'indomani del prestigioso premio
ricevuto a Venezia per il restauro di "Ecce Bombo". E il caso ora
diventa anche politico. Il vicepresidente di Alleanza Verdi e
Sinistra, Marco Grimaldi, ha annunciato un'interrogazione al neo
ministro della Cultura Alessandro Giuli. E attacca direttamente il
presidente del Centro per la stretta sul personale a fronte di una
mano assai più leggera sulle proprie note spese: «Castellitto
licenzia Iachetti, che ha svolto un ruolo importante nella difesa
dei lavoratori precari. Ossia si libera di un dipendente che lavora
da 40 anni nel Centro sperimentale di cinematografia e ha avuto il
coraggio di sostenere i 17 collaboratori lasciati a casa, gli stessi
che hanno fatto fare al Centro il salto di qualità
nell'informatizzazione e nella digitalizzazione». Tagli a senso
unico, incalza Grimaldi, perché mentre riduce il personale «il
Centro aumenta consulenze, avvocati, nuovi fedeli e spese
inopportune come quelle fatte a Venezia».
Approfondimenti dell'Autorità anticorruzione sulla società
controllata dal ministero del Turismo Nel mirino i contributi alla
corsa rosa, alle Olimpiadi invernali del 2026 e al concerto de Il
Volo
Santanché e i guai dell'Enit Il faro Anac sui soldi al Giro e sui
viaggi in Cina e a Parigi
niccolò carratelli
grazia longo
roma
C'è una storia che racconta bene come Daniela Santanché sia sempre
più ai margini del governo Meloni. Al punto che nessuno, nella
maggioranza di centrodestra, si dispererà se, tra meno di un mese,
la ministra del Turismo dovesse essere costretta a dimettersi perché
rinviata a giudizio per il caso Visibilia e l'accusa di truffa
aggravata all'Inps sulla cassa integrazione Covid. È una storia
ambientata dentro l'Enit, che un tempo era l'Ente nazionale del
turismo e, da pochi mesi, è diventata una società in house del
ministero. Con l'obiettivo, proclamato dalla stessa Santanché, di
essere «il braccio operativo nell'attuazione delle politiche di
promozione del made in Italy nel mondo».
In realtà, fin qui, l'Enit Spa ha collezionato soprattutto indagini
e accertamenti da parte della Corte dei conti e dell'Autorità
anticorruzione. Azioni avviate sulla base di segnalazioni di cui non
è stata esplicitata la provenienza, ma che vanno inquadrate in un
clima di scontro latente all'interno di Enit, dove l'amministratrice
delegata, Ivana Jelinic (ex Fiavet), scelta da Santanché, è ai ferri
corti con la presidente, Alessandra Priante (in passato all'Onu),
voluta da Giorgia Meloni in persona. Secondo le voci più maliziose,
messa lì per controllare la gestione della società, forse per una
fiducia non proprio granitica nell'operato della ministra e dei suoi
dirigenti. A questo bisogna aggiungere il fuoco amico contro
Santanché, le critiche sulla gestione di Enit arrivate dagli alleati
di governo, in particolare da Forza Italia, con il deputato
Francesco Maria Rubano che ha annunciato (ma non ancora depositato)
un'interrogazione parlamentare, per ottenere chiarimenti sulle
iniziative dei magistrati contabili e degli esperti
dell'anticorruzione.
Se i primi si sono concentrati su aumenti di stipendio sospetti o
rimborsi poco chiari a vantaggio di dirigenti o componenti del cda
della società, l'Anac ha chiesto spiegazioni su consulenze e
collaborazioni esterne, finanziamenti e sponsorizzazioni di eventi,
ma anche su alcuni viaggi all'estero a cui ha partecipato Santanché
con i suoi collaboratori. A inizio luglio l'Autorità ha inviato una
richiesta scritta per ottenere spiegazioni sulla «natura dei servizi
conferiti ai vari professionisti» e «sulle modalità seguite
nell'individuare il professionista incaricato». La lente
d'ingrandimento della Guardia di finanza, delegata dall'Anac, si
fissa anche su un viaggio in Cina di esattamente un anno fa, dal 17
al 24 settembre 2023, con una piccola delegazione di imprenditori e
diplomatici al seguito della ministra. Una settimana, con tappa
anche a Seul in Corea, costata in tutto 155 mila euro. Non è l'unica
trasferta su cui sono stati chiesti approfondimenti: c'è anche
quella del gennaio 2023 a Parigi, per promuovere il nostro turismo
termale. Quindi, le sponsorizzazioni, come quella da 7 milioni per
le Olimpiadi invernali di Cortina 2026 o quella per il concerto de
Il Volo nella Valle dei Templi di Agrigento: 150mila euro per uno
spettacolo che verrà trasmesso in tv anche negli Stati Uniti (a
Natale, pur essendo stato girato ad agosto). O, ancora, quella per
il Giro d'Italia, con un contributo di 3 milioni e 300mila euro a
Rcs sport&events.
Da Enit spiegano di aver risposto a tutti i rilievi di Anac,
fornendo la documentazione necessaria a provare la regolarità delle
varie operazioni. Sottolineano come «per le Olimpiadi invernali
sarebbe curioso se non attivassimo la sponsorizzazione», mentre «il
Giro d'Italia è sempre stato finanziato, anche con altri vertici e
altri governi». Da quanto risulta, però, prima del governo Meloni la
sponsorizzazione massima era stata di 2 milioni e 600 mila euro. Il
sospetto, che anima l'indagine, è che Enit venga usata dalla
politica un po' come bancomat, per foraggiare amministrazioni locali
amiche e territori elettoralmente sensibili. Ci sono, infatti, tanti
contributi più ridotti, come quello al festival "Filming Italy" in
Sardegna o quello per la festa della macchina di Santa Rosa a
Viterbo.
Negli uffici dell'Anac stanno esaminando tutti i documenti, per la
conclusione dell'indagine potrebbero volerci settimane. Forse, a
quel punto, Daniela Santanché avrà già svuotato la sua scrivania al
ministero del Turismo.
La pena sarà convertita in lavori socialmente utili. La reazione del
Pd: "Nessun complotto, si ammette che i reati sono reali"
Toti patteggia 2 anni e un mese "Sono sollevato e amareggiato"
Marco Fagandini
Tommaso Fregatti
Matteo Indice
Genova
La svolta si è materializzata ieri mattina. Dopo giorni di colloqui
frenetici tra avvocati e magistrati, e qualche momento di tensione.
A sorpresa, nell'inchiesta sulle tangenti in porto e in Regione l'ex
presidente della Liguria Giovanni Toti ha chiesto di patteggiare una
pena per corruzione e finanziamento illecito ai partiti, i reati per
i quali era stato arrestato il 7 maggio scorso durate la retata
della Guardia di finanza. Il politico, contro ogni aspettativa e
dopo aver proclamato la propria innocenza e la voglia di affrontare
un dibattimento pubblico «per chiarire tutto», rinuncia a qualsiasi
difesa nel merito e al processo con rito immediato il cui inizio era
previsto per il 5 novembre. La Procura di Genova ha dato parere
positivo alla proposta di 2 anni e un mese da scontare con i «lavori
di pubblica utilità», sebbene l'ultimo via libera debba essere
concesso da un giudice, nel corso di un'udienza che sarà fissata
nelle prossime settimane sarà un giudice a dare l'ultimo via libera.
Il patteggiamento è l'istituto giuridico per il quale lo stesso
ministero della Giustizia, sul proprio portale, pone come
«presupposto» «l'implicita ammissione di colpevolezza da parte
dell'imputato».
Toti ribadisce di provare in questo momento «amarezza e sollievo»
per la conclusione della vicenda giudiziaria. Potrebbe chiudere le
sue pendenze convertendo i due anni in 1.500 ore di «lavori di
pubblica utilità», non potendo beneficiare della condizionale. E con
il pagamento del prezzo delle tangenti, circa 84.100 euro: è
ritenuto responsabile d'aver incassato mazzette dal Gruppo Spinelli
e dal manager Francesco Moncada, all'epoca dei fatti contestati
membro del consiglio di amministrazione del colosso della grande
distribuzione Esselunga. Come premesso la Procura, che in questo
modo vedrebbe confermato il proprio impianto accusatorio, ha dato
parere favorevole. Se questo scenario diventerà realtà, la Regione
Liguria, benché identificata dai pm come «parte offesa», non potrà
chiedere risarcimenti a Toti per via penale. Sull'ex presidente
regionale pende ancora l'accusa di voto di scambio per aver promesso
favori in cambio d'un pacchetto di preferenze alle Regionali 2020,
che lo avevano visto riconfermato alla guida della giunta ligure.
«Di fronte a questo finale credo appaia chiara a tutti la reale
proporzione dei fatti avvenuti e della loro conclusione - commenta
Toti, tramite il suo legale - Si pone fine alla tormentata vicenda
che ha pagato un'istituzione, oltre alle persone coinvolte, e che
lascia alle forze politiche il dovere di fare chiarezza sulle troppe
norme ambigue di questo Paese, dalle quali sono regolati aspetti che
dovrebbero essere appannaggio della sfera politica e non di quella
giudiziaria. Tutte le transazioni suscitano sentimenti opposti: da
un lato l'amarezza di non perseguire fino in fondo le nostre ragioni
di innocenza, dall'altro il sollievo di vederne riconoscere una
buona parte».
Pronta la reazione del Pd che con la vicepresidente Chiara Gribaudo
chiosa: «Toti con il patteggiamento di oggi ha riconosciuto che non
c'è nessun complotto della magistratura e che i reati a lui ascritti
sono reali». Nessun accanimento: «Un metodo politico».
Al processo fissato per il prossimo 5 novembre non ci sarà quasi
certamente neppure Paolo Emilio Signorini, l'ex presidente di
Autorità Portuale ed ex amministratore delegato di Iren (poi
licenziato), anche lui arrestato il 7 maggio scorso. Come ampiamente
filtrato nei giorni scorsi, anche il manager, difeso dagli avvocati
Enrico e Mario Scopesi, ha depositato la sua proposta di
patteggiamento, con l'ok dei pubblici ministri. È l'unico dei tre
imputati tuttora in arresto, ai domiciliari. Chiuderà le sue
pendenze, se il giudice accoglierà la richiesta, concordando una
pena di 3 anni e 5 mesi di reclusione e la restituzione alla
giustizia di 104 mila euro, già sequestrati e che sarebbero
confiscati. Per il periodo corrispondente all'ammontare della pena
detentiva, sia Toti sia Signorini sarebbero poi sottoposti alle pene
accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e inibiti da
qualsiasi contrattazione con la pubblica amministrazione.
Diversa è la posizione di Spinelli, che al momento e in caso di
assenso del giudice ai patteggiamenti, risulta l'unico imputato al
processo fissato per il 5 novembre. «Alla luce della decisione di
Toti e Signorini - spiega Alessandro Vaccaro, che difende Spinelli
insieme ad Andrea Vernazza - siamo stati convocati dalla Procura,
che ci ha fatto una proposta di patteggiamento. Ci siamo riservati,
abbiamo tempo fino a lunedì per presentare l'istanza e decideremo
nelle prossime ore». La sensazione è che alla fine si arrivi a una
pena concordata pure per il terminalista, magari di poco superiore
ai 3 anni e accompagnata a una confisca di quasi 400 mila euro.
Chiudendo in poco più quattro mesi una delle più delicate e
importanti indagini degli ultimi anni in materia di corruzione.
Il Ros notifica i domiciliari a Gian Carlo Bellavia coinvolto nel
blitz sulla Torino-Bardonecchia Nel mirino degli investigatori i
rapporti con le potenti 'ndrine dei Greco, Agresta e Bonavota
Arrestato l'impresario dei boss "Li ha fatti entrare negli appalti"
Quarantottore fa il Ros dei carabinieri di Torino si è presentato a
casa dell'imprenditore Gian Carlo Bellavia per eseguire a suo carico
gli arresti domiciliari così come stabilito dal Tribunale del
Riesame a fine luglio. L'accusa è pesante: concorso esterno in
associazione mafiosa contestata a partire dal 2021 e fino a oggi.
Il 21 maggio 1996 fu arrestato a seguito della rapina di 937 mila
franchi ovvero 855 milioni di vecchie lire messa a segno in danno
della Vierofin SA diColdrerio, Palazzo Pindo (Cantone del
Ticino).Tornato in Italia già nel 2001 iniziò la sua personale
scalata che lo porterà a entrare nelle grazie di Roberto Fantini
accusato a sua volta di agevolare l'ingresso dei boss di San Luca
nei cantieri Sitaf. Scrive il pm Valerio Longi titolare
dell'inchiesta che «Bellavia dispone di diverse società a lui
riconducibili in modo diretto e indiretto attraverso le quali nel
tempo trasferiva risorse acquisite dai principali clienti, Sitalfa
(concessionaria di Sitaf e responsabile dei lavori di manutenzione
dell'arteria) e Gruppo Cogefa, a soggetti appartenenti o contigui a
sodalizi di 'ndrangheta, pagando le relative fatture».
«Sul piano storico-oggettivo – si legge nel provvedimento di arresti
domiciliari- è emerso come per plurimi anni Bellavia, in qualità di
storico appaltatore gravitante intorno all'universo Sitaf/Fantini,
abbia consentito a mafiosi accertati e presunti, di inserire le
proprie imprese – sovente intestate a prestanomi - nelle commesse
ottenute nei settori della manutenzione stradale e dell'edilizia
(soprattutto per carpenteria e guardiania) grazie alle società dei
Fantini (Sitalfa e Cogefa) e della Mattioda (Simco), peraltro agendo
egli stesso mediante propri fiduciari e prestanomi». Ergo: «Ciò si è
tradotto in forme di costanti agevolazioni a favore della rete di
subappaltatori e fornitori occulti delle imprese con cui
l'imprenditore aveva rapporti diretti, ricevendo a sua volta altre
opportunità di ampliare il proprio business». Chi sarebbe stato
favorito "costantemente" da Bellavia è noto ai giudici: «In primo
luogo la ‘ndrina Greco, disarticolata e condannato in via definitiva
nel processo San Michele con inserimenti più sporadici di un
componente della famiglia Mandaradoni» di Moncalieri collegata alla
‘ndrina Bonavota egemone nella cintura sud di Torino. Ancora affari
avrebbe fatto Bellavia «coi Pasqua, in ipotesi d'accusa
articolazione di ‘ndrangheta spalleggiata dalle potenti famiglie
Nirta-Pelle di San Luca che bene si erano infilati nei subappalti
dell'autostrada A32» Torino-Bardonecchia. «Ma l'agevolazione più
costante e sistematica – scrivono i giudici - è emersa con
Gianfranco Violi, avamposto delle famiglie di Platì dislocate da 50
anni a Volpiano (già condannato a 5 anni in Appello per associazione
mafiosa nell'inchiesta Platinum) «con ruolo di collettore economico
della (potentissima ndr) famiglia Agresta con la quale mantiene la
piena condivisione degli interessi economici e criminali, attraverso
numerose società dallo stesso controllate molte delle quali
intestate fittiziamente a terzi». Infine: «Ciò si è tradotto in una
permeabilità di Bellavia a costanti infiltrazioni mafiose proseguite
nonostante le plurime ondate di arresti subiti dai sodali dei clan».
Inquieta dell'uomo d'affari «la fiducia che ha carpito negli anni
presso alcuni dei più potenti committenti del territorio nel settore
edile che ancora ad oggi intrattenevano rapporti con lui»
14.09.24
ERA ORA CHE VENISSSE FUORI: La Prefettura sul colosso dei cantieri
"Ci sono rischi di infiltrazione mafiosa" gianni giacomino
Un autentico tsunami potrebbe abbattersi sulla società Cogefa,
colosso imprenditoriale nel settore delle infrastrutture (dalla A32
Torino-Bardonecchia, alla A4 Torino-Milano, alla statale 23 di
Cesana, ai diversi viadotti sulle principali arterie piemontesi)
nata negli anni Settanta e – dal 2009 – importante contractor
nell'edilizia commerciale, residenziale e nel terziario del Nord
Ovest. Nelle scorse settimane la Prefettura di Torino, dopo un lungo
e articolato lavoro di analisi del gruppo interforze che svolge
controlli sui possibili condizionamenti mafiosi ha notificato a
Cogefa un documento che si potrebbe definire una sorta di avvio di
procedimento finalizzato a interdire la società dalla white list,
l'elenco delle aziende che possono lavorare in appalti assegnati in
regime pubblico o misto pubblico/privato. Motivo: secondo gli
analisti della Prefettura, investigatori di primo livello nella
lotta al crimine organizzato declinato sul versante economico,
insisterebbero rischi di infiltrazione della ‘ndrangheta che
potrebbe condizionare gli indirizzi strategici della società in
questione.
Quanto stiamo raccontando è strettamente – anzi unicamente –
collegato agli esiti dell'inchiesta Echidna, articolata indagine del
Ros dei carabinieri coordinata dalla Dda di Torino che nei mesi
scorsi ha portato a una serie di arresti e a svelare le
contaminazione di ditte ricollegabili all'organizzazione mafiosa di
origine calabrese nella manutenzione dell'autostrada A32
Torino-Bardonecchia. E tra i destinatari delle misure cautelari
concesse dal gip c'è anche Roberto Fantini, in passato (dal 2007 al
2020) amministratore della società Sitalfa controllata da Sitaf che
nei fatti gestisce come concessionaria la autostrada A32, che in
ipotesi d'accusa avrebbe permesso a una società indiziata di
gravitare nell'orbita della ‘ndrangheta (Autotrasporti Claudio di
Domenico Pasqua) di sovra-fatturare, lavorare nei subappalti legati
al movimento terra e di continuare a prestare i propri servigi anche
quando – all'incirca nel 2020 – la stessa Prefettura emise nei
confronti della società di Pasqua un'interdittiva antimafia. I
Pasqua sono finiti pesantemente nella rete dell'inchiesta della
procura e del Ros. Secondo gli atti sarebbero famiglia centrale
nelle dinamiche di ‘ndrangheta della provincia di Torino, con
epicentro a Brandizzo. I loro rapporti con le famiglie di èlite di
San Luca in Aspromonte (Nirta-Pelle) e di Volpiano (legate alla
roccaforte mafiosa di Platì) ne avrebbero accresciuto la caratura
criminale negli ultimi anni. E – sempre nella prospettiva di
inquirenti e investigatori – proprio grazie a Fantini sarebbero
riusciti a infiltrarsi in numerosi cantieri di manutenzione
dell'autostrada A32 Torino-Bardonecchia oltrechè – stavolta senza
Fantini – in appalti privati di edifici rinomati del centro di
Torino.
In questo quadro si inserisce l'iniziativa della prefettura su
Cogefa, capitale sociale pari circa a 10 milioni di euro, oggi
governata al 40% dalla società Fante srl della sorella di Roberto
Fantini, il restante 60% è in capo alla Fcv Holding è intestata ai
figli di Roberto Fantini.
Nell'ordinanza di custodia cautelare vengono ricostruiti anche i
rapporti tra il padre di Fantini, Teresio, fondatore di Cogefa nel
lontano 1973 e soggetti ritenuti problematici ai fini
dell'iscrizione nella white list. Come Antonino "Tonino" Esposito
che comparve sulla scena criminale ormai decenni fa quando venne
indagato e infine condannato per associazione a delinquere
finalizzata all'usura insieme a Rocco Lo Presti, un ras delle cosche
in Valsusa la cui iperattività (declinata sul versante criminale)
sul territorio concorse – insieme ad altre valutazioni – allo
scioglimento per infiltrazione del Consiglio comunale di
Bardonecchia, primo in Italia nel 1995. —
TANTO NON CONTROLLANO : Da lunedì
stop ai diesel Euro 3 e Euro 4 I divieti sono in vigore fino al 15
aprile
Lunedì 16 settembre scatterà il blocco per auto e furgoni con motore
diesel Euro 3 e Euro 4. Questi veicoli non potranno circolare dal
lunedì al venerdì, dalle 8 alle 19. Si tratta di un provvedimento
che resterà in vigore fino al 15 aprile 2025. È una delle misure
antismog disposte dal Ministero, in accordo con le Regioni del
bacino padano. Si somma ai provvedimenti strutturali, in vigore 365
giorni l'anno, che prevedono il divieto di circolazione per auto e
furgoni (benzina e diesel) Euro 0, 1 e 2. Sempre da lunedì, inoltre,
sarà vietata tutti i giorni la circolazione di moto e motorini Euro
0 e 1. Le misure antismog in partenza lunedì potranno inasprirsi nel
corso dei mesi. Succederà in caso di sforamento del limite
giornaliero di Pm10 nell'aria di Torino.
13.09.24
Bruxelles invita a usare più fonti rinnovabili. La Corte dei Conti
Ue: "I Pnrr meno green del previsto"
L'Ue avvisa Roma: "Accelerate sulle case verdi" Fabrizio Goria
La Commissione europea invita l'Italia ad accelerare sulle case
green. Deve «aumentare il tasso e l'intensità della ristrutturazione
degli edifici, in particolare quelli con le prestazioni peggiori»,
sottolinea Bruxelles nel rapporto annuale sullo stato dell'Unione
dell'energia. Un monito netto in ottica futura.
Le rinnovabili segnano il passo, l'installazione di pompe di calore
è in calo mentre salgono i costi sociali di una transizione a
rilento. La Commissione ha segnalato come «nel 2023 il 4,1% delle
popolazione italiana ha avuto difficoltà a pagare le bollette e il
9,5% non poteva mantenere la casa calda durante l'inverno». Nel
report di Palazzo Berlaymont si segnala che l'80% del consumo
energetico finale degli edifici in Italia è rappresentato da
riscaldamento e raffreddamento, con le rinnovabili che forniscono
appena il 21% del consumo energetico finale lordo. Numeri troppo
bassi, si evidenzia.
Il contesto è importante, in quanto gli Stati Ue dovranno presentare
entro giugno 2025 il piano nazionale sociale per il clima, per
l'accesso ai finanziamenti del Fondo sociale per il clima che tra
2026 e 2032 mobiliterà 86,7 miliardi di euro su interventi mirati di
ristrutturazione degli alloggi sociali. L'Italia potrebbe ottenere
fino a 7,8 miliardi.
Intanto, però, sulle misure ambientali interviene anche la Corte dei
Conti europea per segnalare come il contributo "verde" dei Piani di
ripresa e resilienza nazionali dei diversi Paesi sia inferiore a
quanto dichiarato dalla Commissione europea. Secondo gli auditor
europei le misure a sostegno degli obiettivi climatici sono
sovrastimate per 34,5 miliardi di euro. Ci sono, inoltre, «debolezze
nei traguardi e obiettivi» delle azioni per il clima e nella
rendicontazione delle spese sostenute.
DA DOVE PARTE IL DANNO POLITICO AGLI ELETTORI :
Titolare di un autonoleggio, assessore a
Frosinone, ha poi lavorato in Regione dove incontrò Arianna Meloni
L'AZIENDA
Tagliaferri dal centrosinistra a Fratelli d'Italia così il
"camaleonte" è arrivato al vertice di Ales
Grazia Longo
Inviata a Frosinone
Di lui raccontano che abbia grandi capacità di comunicazione,
attitudine a collaborare sia con la destra sia con la sinistra e,
soprattutto, le amicizie giuste dentro Fratelli d'Italia. È questo
il mix vincente che, secondo alcuni, ha portato Fabio Tagliaferri
dal guadagnare 10. 484 euro all'anno nel 2022, come risulta dalla
sua dichiarazione dei redditi pubblicata dal Comune di Frosinone
dove era assessore ai Servizi sociali, ai 146 mila euro di oggi
grazie all'incarico di presidente e amministratore delegato di Ales.
La sigla sta per "Arte Lavoro e Servizi" Spa, la società in house
del ministero della Cultura, che controlla biglietterie, parchi,
edifici storici e decine di musei sparsi in giro per l'Italia, con
88 milioni di euro annui di ricavi e oltre 7 milioni di utili annui.
Un ruolo importante ottenuto dall'ex ministro della Cultura Gennaro
Sangiuliano. «Resta un mistero – si domanda un consigliere
d'opposizione di Frosinone – come abbia fatto a ottenere un lavoro
così impregnato di cultura, nonostante nel suo curriculum non ci
siano precedenti in questo settore. Tagliaferri ha una società di
autonoleggio, la Greylease Automotive. Che c'azzeccano le automobili
con i musei?».
Per questa società, peraltro, sempre nel 2022 l'esponente di Fdi non
ha dichiarato neppure un euro: risulta titolare e amministratore
unico, ma ha sostenuto di non aver guadagnato nulla da questa
attività che ha ricevuto anche una sovvenzione di 100 mila euro da
"Lazio innova", finanziaria della Regione.
I quasi 11 mila euro denunciati due anni fa al fisco corrispondono
alla metà dello stipendio da assessore, perché ha donato l'altra
metà in beneficenza come stabilito dall'ex sindaco Nicola Ottaviani.
Poi Tagliaferri si è dimesso da assessore e poco dopo è arrivata la
nomina all'Ales. Una "promozione" che se sorprende alcuni, non
scompone altri, anche tra le fila dell'opposizione del capoluogo
ciociaro. Il capogruppo consiliare Pd, Angelo Pizzutelli, ad
esempio, si spertica in lodi del rivale politico: «Non abbiamo le
stesse idee, ma è una persona che stimo e che si impegna molto. Da
adulto si è laureato in Economia e ha lavorato anche parecchio in
Regione. È stato scelto alla presidenza di Ales per volontà di Fdi e
io non guardo cosa succede in casa d'altri. Di sicuro Fabio
Tagliaferri è un uomo valido, che si dà da fare». Pd e Fdi, del
resto, governano insieme alla Provincia di Frosinone e al Consorzio
Apef (Agenzia provinciale energia Frosinone).
E che Tagliaferri si dia da fare è evidente anche dalla sua facilità
di dialogare pure con la sinistra. Nel 2002 si candidò al consiglio
comunale in una lista di centro sinistra a sostegno del sindaco poi
eletto Domenico Marzi. Ma dopo circa due anni è passato con
Francesco Storace, che all'epoca non era solo governatore del Lazio
ma anche consigliere a Frosinone. «È stato Storace che l'ha portato
in Regione – ricorda sempre il consigliere d'opposizione che vuole
restare anonimo – dove poi ha ottenuto un lavoro a tempo
indeterminato. In un primo momento, nel 2004, aveva ottenuto una
collaborazione per la "Comunicazione pubblica e istituzionale" che è
il titolo della tesi della su laurea in Economia, non si sa in quale
università, conseguita quell'anno». Nel 2005 ottiene in Regione un
contratto a tempo indeterminato che lascia nel 2017.
Mentre è in Regione approfondisce l'amicizia con Arianna Meloni (che
nell'amministrazione del Lazio ha lavorato per circa 20 anni da
precaria). Una vicinanza proseguita anche dopo la conclusione del
suo impegno in Regione. Ma né su questo aspetto, né sulla nomina ad
Ales, Tagliaferri risponde ai nostri interrogativi. Ci dirotta al
suo ufficio stampa che precisa: «Il presidente ha già risposto
esaustivamente a queste domande sia in questi giorni sia nel periodo
successivo alla sua nomina. Riteniamo che non ci sia nulla da
aggiungere rispetto a quanto già dichiarato».
In altre parole continua a prendere le distanze dall'ipotesi di un
suo incarico figlio dell'amichettismo. E il deputato Massimo
Ruspandini, referente di Fdi per la provincia di Frosinone
ribadisce: «Quella sulla presidenza di Tagliaferri ad Ales è una
polemica strumentale».
Titolare di un autonoleggio, assessore a
Frosinone, ha poi lavorato in Regione dove incontrò Arianna Meloni
L'AZIENDA
Tagliaferri dal centrosinistra a Fratelli d'Italia così il
"camaleonte" è arrivato al vertice di Ales
Grazia Longo
Inviata a Frosinone
Di lui raccontano che abbia grandi capacità di comunicazione,
attitudine a collaborare sia con la destra sia con la sinistra e,
soprattutto, le amicizie giuste dentro Fratelli d'Italia. È questo
il mix vincente che, secondo alcuni, ha portato Fabio Tagliaferri
dal guadagnare 10. 484 euro all'anno nel 2022, come risulta dalla
sua dichiarazione dei redditi pubblicata dal Comune di Frosinone
dove era assessore ai Servizi sociali, ai 146 mila euro di oggi
grazie all'incarico di presidente e amministratore delegato di Ales.
La sigla sta per "Arte Lavoro e Servizi" Spa, la società in house
del ministero della Cultura, che controlla biglietterie, parchi,
edifici storici e decine di musei sparsi in giro per l'Italia, con
88 milioni di euro annui di ricavi e oltre 7 milioni di utili annui.
Un ruolo importante ottenuto dall'ex ministro della Cultura Gennaro
Sangiuliano. «Resta un mistero – si domanda un consigliere
d'opposizione di Frosinone – come abbia fatto a ottenere un lavoro
così impregnato di cultura, nonostante nel suo curriculum non ci
siano precedenti in questo settore. Tagliaferri ha una società di
autonoleggio, la Greylease Automotive. Che c'azzeccano le automobili
con i musei?».
Per questa società, peraltro, sempre nel 2022 l'esponente di Fdi non
ha dichiarato neppure un euro: risulta titolare e amministratore
unico, ma ha sostenuto di non aver guadagnato nulla da questa
attività che ha ricevuto anche una sovvenzione di 100 mila euro da
"Lazio innova", finanziaria della Regione.
I quasi 11 mila euro denunciati due anni fa al fisco corrispondono
alla metà dello stipendio da assessore, perché ha donato l'altra
metà in beneficenza come stabilito dall'ex sindaco Nicola Ottaviani.
Poi Tagliaferri si è dimesso da assessore e poco dopo è arrivata la
nomina all'Ales. Una "promozione" che se sorprende alcuni, non
scompone altri, anche tra le fila dell'opposizione del capoluogo
ciociaro. Il capogruppo consiliare Pd, Angelo Pizzutelli, ad
esempio, si spertica in lodi del rivale politico: «Non abbiamo le
stesse idee, ma è una persona che stimo e che si impegna molto. Da
adulto si è laureato in Economia e ha lavorato anche parecchio in
Regione. È stato scelto alla presidenza di Ales per volontà di Fdi e
io non guardo cosa succede in casa d'altri. Di sicuro Fabio
Tagliaferri è un uomo valido, che si dà da fare». Pd e Fdi, del
resto, governano insieme alla Provincia di Frosinone e al Consorzio
Apef (Agenzia provinciale energia Frosinone).
E che Tagliaferri si dia da fare è evidente anche dalla sua facilità
di dialogare pure con la sinistra. Nel 2002 si candidò al consiglio
comunale in una lista di centro sinistra a sostegno del sindaco poi
eletto Domenico Marzi. Ma dopo circa due anni è passato con
Francesco Storace, che all'epoca non era solo governatore del Lazio
ma anche consigliere a Frosinone. «È stato Storace che l'ha portato
in Regione – ricorda sempre il consigliere d'opposizione che vuole
restare anonimo – dove poi ha ottenuto un lavoro a tempo
indeterminato. In un primo momento, nel 2004, aveva ottenuto una
collaborazione per la "Comunicazione pubblica e istituzionale" che è
il titolo della tesi della su laurea in Economia, non si sa in quale
università, conseguita quell'anno». Nel 2005 ottiene in Regione un
contratto a tempo indeterminato che lascia nel 2017.
Mentre è in Regione approfondisce l'amicizia con Arianna Meloni (che
nell'amministrazione del Lazio ha lavorato per circa 20 anni da
precaria). Una vicinanza proseguita anche dopo la conclusione del
suo impegno in Regione. Ma né su questo aspetto, né sulla nomina ad
Ales, Tagliaferri risponde ai nostri interrogativi. Ci dirotta al
suo ufficio stampa che precisa: «Il presidente ha già risposto
esaustivamente a queste domande sia in questi giorni sia nel periodo
successivo alla sua nomina. Riteniamo che non ci sia nulla da
aggiungere rispetto a quanto già dichiarato».
In altre parole continua a prendere le distanze dall'ipotesi di un
suo incarico figlio dell'amichettismo. E il deputato Massimo
Ruspandini, referente di Fdi per la provincia di Frosinone
ribadisce: «Quella sulla presidenza di Tagliaferri ad Ales è una
polemica strumentale».
Il Csm sospende la consigliera Rosanna Natoli
Con 22 voti favorevoli,6 contrari e 2 bianche, il Plenum ha votato
la sospensione dal Csm di Rosanna Natoli, la consigliera laica in
quota Fdi, finita al centro del salvataggio pilotato della giudice
catanese Maria Fascetto Sivillo e indagata dalla procura di Roma per
violazione di segreto e abuso d'ufficio. «Tornerò a fare la nonna»,
ha detto Natoli. Che ieri, a Palazzo Bachelet, ha tenuto un lungo
intervento. «Contro di me una campagna di fango. Sono stata
presentata come il consigliere del presidente La Russa. Non sono
stata eletta da lui, ma dal Parlamento in seduta comune». L'incontro
con la magistrata che avrebbe dovuto giudicare? «C'è stato, ma nel
merito risponderò alla procura». Natoli ha attaccato gli inquirenti
su indagini e competenza territoriale: «Il colloquio è avvenuto a
Paternò, in Sicilia».È la prima volta che il Csm prende un tale
provvedimento.
Scuola
senza
sostegno
Elisa Forte
torino
I supplenti, le cattedre assegnate e quelle che restano nel limbo.
Il dossier "sostegno", tra precariato, turn over e specializzazioni
(poche rispetto al fabbisogno), ad ogni inizio di anno scolastico
resta quello più spinoso. Il copione si ripete: tra i precari i
supplenti del sostegno sono la maggioranza. Stando ai dati del
ministero sono 108mila su 165mila. Molti arrivano in classe alla
spicciolata lasciando per settimane, se non per mesi, gli studenti
senza un insegnante. «Ci sono cattedre scoperte anche fino a Natale,
a volte anche fino al nuovo anno» denunciano genitori e sindacati.
Sì, è vero che a lezioni avviate occorre censire i nuovi certificati
medici che si aggiungono a quelli già dichiarati. Possono esserci
nuovi casi di disabilità. E ci sono i ricorsi al Tar da parte delle
famiglie che non considerano accolte le richieste di sostegno per i
propri figli. Ma riguardano solo una piccola quota dei supplenti.
Quel che non cambia (ancora) è che molti dirigenti scolastici sono
in emergenza.
Poi, ci sono i numeri. I docenti in organico sul sostegno sono 126
mila. Fin qui mettono tutti d'accordo: sono incontrovertibili. Ma ci
sono anche i numeri della discordia. Sono quelli che incasellano i
docenti precari del sostegno: anche loro – al pari dei titolari di
cattedra ma con meno certezze rispetto ai primi- si occuperanno dei
loro studenti speciali, quelli che spesso non tengono il passo e
disturbano le lezioni. Quelli che arrivano in classe con storie di
vita difficili. Complicate.
Per il ministero dell'Istruzione e del Merito i supplenti del
sostegno del nuovo anno scolastico saranno al massimo 108 mila. Cisl
Scuola e Uil Rua sono in linea con questa stima. Sostengono che
saranno 100 mila i posti (ancora) assegnati ai precari. Con una
buona probabilità di aumento, ma di qualche migliaio di unità. Dati,
dunque, che combaciano con quelli ministeriali. Non è della stessa
idea Flc-Cgil: ne conta di più, 130 mila. «Un dato falso»: dal
dicastero di Viale Trastevere rimandano al mittente questa
previsione. I conti non tornano neanche sul numero complessivo dei
precari. Cgil conferma 250 mila precari mentre dal ministero hanno
fornito cifre diverse. «Sono 165 mila – ha ribadito nei giorni
scorsi il ministro Giuseppe Valditara – e scenderanno a 155mila
entro dicembre». A fare chiarezza con La Stampa sui contratti di
supplenza ci pensa Carmela Palumbo, Capo dipartimento per il Sistema
educativo di istruzione e di formazione del ministero
dell'Istruzione e del Merito.
«I supplenti sul sostegno nell'anno scolastico 23/24 sono stati su
posti interi circa 108 mila, numero che si dovrebbe confermare
sostanzialmente anche per l'anno scolastico 2024-25– sottolinea -
Invece, i precari totali sono 165 mila. Quindi, la previsione della
Cgil di 130 mila supplenti sul sostegno e 250 mila precari totali
appare del tutto errata e certamente sovrastimata». «Probabilmente –
ragiona Palumbo - Cgil considera anche gli spezzoni di due -tre ore
che completano le cattedre, come gli spezzoni generati da part time.
Si tratta di dati che non fotografano reali disponibilità di
organico non coperte con personale di ruolo». Gianna Fracassi,
segretaria nazionale Flc-Cigil conferma la bontà dei conti fatti. E
si mostra preoccupata perché «una gran parte delle supplenze - dice
- saranno assegnate a docenti che non hanno la specializzazione».
Docenti non qualificati. Docenti non sempre in grado di accogliere
la complessità del ruolo. C'è sicuramente ancora tanta strada da
fare. Ma almeno la novità voluta dal ministro Valditara rende - per
la prima volta – protagoniste anche le famiglie. «La scelta del
genitore per confermare il docente di sostegno precario potrà essere
fatta già quest'anno in modo che la conferma del docente avverrà dal
prossimo anno scolastico», fa sapere Carmela Palumbo. Se il prof di
sostegno piace, ci sarà una sorta di mini stabilizzazione. Questa è
un'antica richiesta dei genitori con figli disabili. Parte da
lontano. Una decisione che il ministro Valditara ha introdotto come
una delle leve per cercare di garantire "continuità didattica" agli
studenti disabili. Ma per i prof che aspirano al ruolo la strada
resta (ancora) in salita.
La denuncia di una mamma di Vercelli: "L'insegnante è stata
trasferita e il posto è scoperto"
" Mio figlio ora non ha più la sua maestra per affrontare l'ultimo
anno di elementare"
francesca rivano
vercelli
L'ultimo anno di elementari doveva rappresentare la conclusione di
un percorso verso l'autonomia, portato avanti con fatica e impegno.
Invece, per Teo (il nome è di fantasia), 12enne autistico non
verbale che convive con una forma di epilessia farmacoresistente e
con l'artrite idiopatica giovanile, il ritorno in classe si è
trasformato in una corsa a ostacoli. Ad accoglierlo, nella scuola
del comune vercellese in cui vive, non c'era la maestra di sostegno
che lo aveva accompagnato nelle piccole e grandi conquiste verso
l'autonomia. Non c'era alcuna insegnante dedicata a lui, perché
quella cattedra, per ora, è scoperta.
Venire a capo del cortocircuito per il quale Teo è rimasto senza
docente di sostegno è quasi impossibile. Un rimpallo di
responsabilità che non serve a risolvere il problema e accresce
l'amarezza di mamma Federica. «Ho chiesto io che Teo potesse
fermarsi alle elementari per concludere il percorso avviato due anni
fa con la sua insegnante – racconta –. A inizio mese, quando la
docente mi ha telefonato in lacrime, dicendo di essere stata
trasferita, è stato impossibile preparare Teo a questo cambiamento
imprevisto. Per facilitarlo, avrei dovuto presentargli la nuova
maestra attraverso una storia sociale, ma come potevo farlo, visto
che nemmeno io sapevo cosa sarebbe accaduto?».
Così, dopo settimane in cui il ragazzino aveva ripreso con
entusiasmo lo zaino, «allenandosi» per il ritorno in classe, la
mattina di ieri è stata complicata e faticosa. Per superarla, le
altre insegnanti hanno messo in campo tanta delicatezza e
professionalità. «In attesa che si trovi la docente di sostegno –
racconta mamma Federica – le due colleghe della classe fanno
compresenza per seguire mio figlio. Le maestre che già lo
conoscevano lo hanno aiutato, dopo un'ora trascorsa all'esterno, a
entrare in classe. E, anche Teo, a modo suo, è stato strepitoso».
Ma, guardando al percorso che attende il suo ragazzo, la donna è
preoccupata: «Avevamo coordinato l'impegno di insegnante, terapisti
e famiglia, mettendo al centro le esigenze di Teo. La sua insegnante
si era messa a disposizione per accompagnarlo in quest'anno di
transizione, aiutandolo a conoscere l'ambiente e le persone delle
medie. Ora tutto questo è stato stroncato».
Nel vercellese, dove rispetto al 2023 gli alunni con disabilità sono
aumentati di quasi il 10%, le graduatorie a esaurimento per il
sostegno nel primo ciclo scolastico sono vuote e, per coprire i
posti, occorre pescare da graduatorie nazionali, con prevedibile
allungamento dei tempi e dei disagi. E visto che i docenti
specializzati sono pochi, la gran parte dei posti va a personale
«senza titolo». La conferma arriva dai dati dell'Ufficio scolastico
regionale: in Piemonte, la percentuale dei posti di sostegno coperti
da docenti specializzati è del 18,6% ma con una forte polarizzazione
tra primo e secondo ciclo scolastico. Alle materne è specializzato
il 4,8%, alle elementari solo il 3,4%; alle medie e superiori le
percentuali sono del 17,8% e del 44,29%.
birmana
Giungla
Il basco nero, la barba incolta, sulle braccia un tatuaggio con il
simbolo della pace, alle spalle, in una piccola capanna nel cuore
del giungla birmana, la bandiera con impresso il disegno del pazi,
il tradizionale tamburo del popolo Karenni divenuto il simbolo del
Kndf, Karenni Nationalites Defense Force. Maui ha solo 31 anni, una
laurea in geologia, molteplici studi all'estero e un lavoro da
agronomo nella città di Loikaw, ma tutto questo appartiene al suo
passato. Oggi, Maui, il generale Maui, è il leader militare di uno
dei gruppi guerriglieri maggiormente attivi tra le forze
rivoluzionarie birmane che, dal 2021, stanno combattendo contro la
giunta militare golpista del generale Min Aung Hlaing. «Quando è
avvenuto il golpe, noi giovani birmani siamo scesi in strada.
Abbiamo dimostrato in tutte le città del Paese con le mani alzate
rivendicando libertà, diritti e democrazia: tutto ciò che ci
apparteneva prima del 1 febbraio 2021. La giunta, alle nostre
richieste pacifiche, ha risposto aprendo il fuoco, massacrando
donne, uomini e studenti. È stato dopo la repressione militare che
abbiamo deciso di andare sui monti e iniziare la guerriglia".
Per incontrare il generale Maui e addentrarsi nel Kayah State, il
cuore della rivoluzione birmana, occorre attraversare di notte, a
bordo di piccole lance, la frontiera tra la Thailandia e la Birmania
e poi, a piedi, in fuori strada e a dorso di elefante, intraprendere
un viaggio di diversi giorni, guadando torrenti in piena e superando
erte e forre, nell'inferno verde della giungla tropicale del sud-est
asiatico. Il Myanmar, o Birmania, da oltre tre anni è sconvolto da
un conflitto civile che ha provocato più di 55 mila vittime e che
vede da un lato le truppe dello State Administration Council (nome
della giunta militare) che hanno preso il potere con un colpo di
stato e che, col supporto di India, Russia e Cina, hanno instaurato
una delle dittature più brutali e repressive a livello globale,
dall'altro lato vi sono le forze rivoluzionarie birmane, composte da
giovani di vent'anni che hanno lasciato le città per dare vita alla
resistenza e dalle organizzazioni etniche che da decenni lottano per
i propri diritti e per l'autonomia politica. Il movimento
rivoluzionario sebbene non abbia mezzi, armi e fondi a sufficienza,
controlla però più della metà del Paese e questo soprattutto grazie
al supporto incondizionato della popolazione che, nell'assoluta
precarietà del conflitto, una salda certezza l'ha conservata: non
tollerare più alcuna presenza dell'esercito nell'esecutivo.
La Birmania, dal 1962, per oltre 50 anni, ha vissuto sotto il giogo
di regimi militari. Nel 2015, dopo anni di proteste, arresti e
sparizioni, si sono tenute le prime libere elezioni che hanno visto
la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia, e così, dal 2015
al 2021, l'ex colonia britannica ha attraversato un breve ma
irremeabile periodo di democrazia che, seppur imperfetta, ha
permesso però alle nuove generazioni di aprirsi al mondo, conoscere
l'altrove, comprendere con piena contezza il significato delle
parole libertà e diritti.
«Stiamo combattendo per un Paese in cui vi sia rispetto per le
minoranze indigene, in cui la forma di governo sia quella del
federalismo democratico, dove le parole d'ordine siano giustizia,
pace e lavoro - racconta il generale Maui -. Non stiamo facendo
questa guerra per una bandiera, non vogliamo il modello americano,
europeo o cinese, noi vogliamo vivere in pace e in armonia con la
nostra terra. Ma tutto questo lo stiamo facendo per chi verrà dopo
di noi. Per noi, ora, non c'è futuro, c'è solo il presente, e il
presente è la guerra».
Una chiamata arriva dalle prime linee, le forze della giunta stanno
attaccando sul fronte di Loikaw. I guerriglieri si preparano, sono
tutti ragazzi, ma nella gioventù sono viandanti di passaggio, i loro
volti sono esausti, sporcati dalla terra e da una tenera peluria,
negli sguardi hanno perso l'innocenza e nell'animo i sogni, sono
stati tutti infettati dal conflitto e della loro miglior età ne
conservano solo uno sbiadito ricordo. «Non abbiamo avuto alternative
se non intraprendere questa guerra, ma la guerra è una mostruosità.
Io ho perso un fratello di 19 anni ucciso dai militari, e non c'è
istante che non pensi a lui, ma penso anche al soldato a cui ho
sparato e che ho ucciso. E da quel giorno ho smesso di ridere».
Pasqwar Let ha 21 anni, viaggia insieme ad altri 15 compagni su un
pick-up, la prima linea è ormai prossima e lui si concede un'ultima
confessione: «Ogni volta che vado in battaglia prego Dio affinché
possa dare a mia madre la forza di perdonarmi per il dolore che le
provocherei se dovessi morire».
I colpi dei fucili automatici fischiano tra le case e i campi di
Loikaw, poi un'esplosione, tremano le case di bambù e rafia, i
combattenti del Kndf si acquattano tra l'erba e i cespugli, poi si
rialzano e riprendono a sparare. Passano pochi minuti e un
lanciarazzi Grad scarica una sequenza di colpi. Alcuni guerriglieri
cercano riparo in un piccolo rifugio, un giovane viene colpito da
una scheggia in un occhio, un altro giace riverso con un frammento
di ordigno nel collo. Barellieri e infermieri provano a soccorrere i
feriti, alcuni vengono trasportati nel solo ospedale della regione,
il corpo di Kyaw Thu invece viene adagiato in un sacco nero.
All'indomani, durante il funerale, tre spari di commiato celebrano
il ricordo del giovane rivoluzionario caduto per la libertà, le
lacrime della madre invece rivelano il dolore per la morte di suo
figlio: un ragazzo di vent'anni morto per la vita, all'alba della
vita. —
12.09.24
ENERGIA RINNOVABILE GIA' IN ESUBERO MA ANTITANGENTE , TRANNE CHE
PER L'EOLICO GESTITO DALLA MAFIA :
energia
Il buco
dell'
PAOLO BARONI
roma
A fine anno, salvo sorprese, ci fermeremo a quota 56 miliardi di
euro, una cifra notevole, ma nulla in confronto con gli oltre 100
miliardi di due anni fa. Per quanto in calo non basta infatti il
boom delle rinnovabili, che anno dopo anno stanno aumentando il loro
peso rispetto alla produzione nazionale di energia, a ridurre il
nostro deficit energetico. Perché l'Italia in questo campo sempre
fortemente dipendente dall'estero, innanzitutto per le forniture di
gas; ma anche sul fronte della produzione e dei consumi di
elettricità visto che una quota significativa viene coperta grazie
alla produzione delle centrali nucleari francesi e con le
importazioni da Svizzera e Austria. In media negli ultimi anno
abbiamo importato tra il 13 ed il 15% dell'elettricità che
consumiamo, un po' meno questa estate quando siamo scesi all'11,5%.
Il risultato, come hanno potuto toccare con mano tutti gli italiani,
è che siamo continuamente esposti alle fluttuazioni delle quotazioni
di gas e petrolio, ai tanti fattori geopolitici ed in primo luogo
alle guerre.
La curva del nostro disavanzo energetico sale e scende come fossimo
sulle montagne russe. A conti fatti anche l'anno passato l'Italia ha
dovuto mettere in conto un esborso notevole: rispetto al record
assoluto di 114,2 miliardi di euro, toccato nel 2022 all'apice
dell'impazzimento dei mercati per la guerra in Ucraina, nel 2023 il
conto si è ridotto di un buon 43%, ma siamo pur sempre rimasti a
quota 66,5 miliardi (3,2% del Pil). Una spesa decisamente ingente,
nonostante la flessione dei consumi dovuta alle condizioni
climatiche favorevoli ed al rallentamento delle quotazioni dei
prezzi sui mercati internazionali.
Secondo i dati diffusi a luglio dai petrolieri dell'Unem quest'anno
la nostra fattura energetica, salvo sorprese, dovrebbe scendere
ancora: dovremmo attestarci a quota 56 miliardi di euro, ovvero 10
miliardi in meno del 2023 «quasi interamente dovuti alla componente
gas». Un salasso comunque.
Sul bilancio del 2023, rispetto all'anno precedente, ha pesato
soprattutto il dimezzamento dell'incidenza di gas (in buona parte
destinato alle centrali elettriche) e quindi dell'elettricità con la
spesa per gli approvvigionamenti netti dall'estero di gas calati di
33,7 miliardi (-54%) a quota 28,3 miliardi, e le importazioni
elettriche scese a quota 6,1 miliardi di euro (-6,4 miliardi e
-51%).
Le bollette, esposte alle continue fluttuazioni dei mercati,
continuano però a restare significativamente pesanti dopo la fine
degli sconti e degli incentivi previsti dai governi nella fase più
acuta dell'ultima crisi. Questo vale per le famiglie (comprese
quelle con contratti "tutelati"), ma soprattutto vale per le
imprese, che continuano a pagare l'energia anche il 50% in più dei
loro concorrenti esteri. É di lunedì, ad esempio, la notizia che il
gruppo Arvedi ha deciso di fermare uno dei due altiforni delle
acciaierie di Terni proprio a causa dei costi eccessivi delle
forniture, cosa che nel sito Umbro non accadeva da 140 anni.
Appena insediato il nuovo presidente di Confindustria Emanuele
Orsini ha lanciato l'allarme sul caro-energia spiegando che «abbiamo
interi settori come quello del vetro, dell'acciaio, della carta e
della ceramica che sono messi in grandissima difficoltà» in questa
fase. Per questo a suo parere vanno potenziate le garanzie pubbliche
e le misure a sostegno soprattutto delle piccole e medie imprese. E
poi bisognerebbe puntare ad un prezzo unico dell'energia, per
evitare che i vari paesi europei si facciano con concorrenza tra
loro, e quindi investire sul nucleare di nuova generazione. A
livello europeo, invece, la proposta avanzata da Mario Draghi
nell'ambito delle misure per rilanciare la competitività prevede di
fissare un tetto unico comune alle tasse da applicare all'energia
Le rinnovabili, pur contribuendo agli obiettivi di decarbonizzazione,
da sole al momento non bastano a tirar fuori l'Italia dalla
dipendenza estera (Algeria, Azerbaigian e Usa in primis per il gas,
i nostri confinanti per l'elettricità). Gli ultimi dati sulla
produzione di energia green, però, fanno ben sperare: nonostante i
tanti ostacoli, che via via il governo ha cercato di superare, la
quota di rinnovabili sulla produzione nazionale è infatti passata
dal 35,5% del 2022 al 43,8% dell'anno passato. Quest'anno, stando ai
dati di Terna, la società che gestisce la rete elettrica di
trasmissione nazionale, nei primi sei mesi dell'anno la produzione
da fonti rinnovabili è aumentata del 27,3% rispetto al 2023 e con
una quota del 52,5% toccata a giugno, ha superato per la prima volta
la produzione da fonti fossili, che ha registrato una flessione del
19% (-77,3% la quota di produzione a carbone). Da gennaio a giugno
2024, in particolare, la produzione idroelettrica rinnovabile ha
raggiunto un risultato record (pari a 25,92 TWh, +64,8% rispetto
allo stesso periodo del 2023) grazie ad una notevole disponibilità
di idraulicità al Nord. La produzione degli impianti eolici è
aumentata del 29,2%) mentre il fotovoltaico ha messo a segno un
+18,2% grazie all'aumento della capacità in esercizio (+803 GWh).
Tra giugno 2023 e giugno 2024 la capacità installata di fotovoltaico
ed eolico è aumentata di 6.831 Mw (+17,3%), raggiungendo i 46.321 Mw
complessivi.
Previsioni di qui alla fine dell'anno? Difficile farne. Certamente
l'Europa dovrà fare i conti con lo stop definitivo delle
importazioni di gas russo, che per quanto ridotte ai minimi sembra
non sia facilissimo rimpiazzare, con la guerra in Ucraina e le
tensioni in Medio Oriente e magari sperare nell'ennesimo inverno
mite. —
LA CHIMERA OSTAGGIO DEGLI INTERESSI NUCLEARISTI: «Il piano di
Mario Draghi ha dato importanza al nucleare di nuova generazione,
considerandolo come una tecnologia che può aumentare la
competitività dell'Europa». Per Stefano Buono, fondatore e ceo di
Newcleo, azienda italo-britannica di reattori di ultima generazione,
l'Italia è rimasta indietro ma può recuperare «Il governo sta
lavorando bene ed entro fine anno dovrà annunciare la strategia sul
nucleare e la riforma dell'Isin, l'ente regolatorio che può dare
l'avvio alle procedure per costruire centrali nucleari».
Mentre parla al telefono, Buono è a Brasimone sull'Appennino
bolognese. Al centro di ricerche dell'Enea, insieme ai tecnici
dell'istituto, ha incontrato i rappresentanti del governo e degli
enti regolatori francesi Asn e Irsn, slovacchi e del Mase per
mostrare le sperimentazioni in corso sui nuovi reattori. «Un anno e
mezzo fa abbiamo avviato l'iter autorizzativo per costruire in
Francia un reattore da 30 megawatt elettrici e un altro da 200
megawatt. Il primo entrerà in funzione nel 2031».
In Francia c'è interesse per il nucleare e la tecnologia di Newcleo
ma in Italia a che punto siamo?
«Abbiamo intenzione di avviare una procedura per costruire reattori
in Italia, ma aspettiamo che il governo annunci entro fine anno la
strategia nazionale sul nucleare e che vari la riforma dell'ente
regolatorio Isin, dotandolo delle funzioni per avviare le procedure
e assegnandogli più personale».
Avete partner italiani con cui lavorate già?
«Sì, ci sono molti operatori coinvolti nell'industria nucleare. In
particolare, abbiamo tre alleanze strategiche sulle applicazioni di
nostri reattori: con Fincantieri e Rina nel settore navale, con
Maire Tecnimont nella chimica verde e nell'idrogeno e con Saipem
studiamo la possibilità di mettere i nostri reattori su piattaforme
galleggianti. Inoltre, abbiamo collaborazioni con Enel e Ansaldo che
in futuro potrebbero dare buoni frutti».
Che tipo di centrali si potrebbero realizzare in Italia?
«Penso a piccoli reattori modulari Amr al piombo, la quarta
generazione, con potenze da 200 megawatt elettrici che per esempio
potrebbero dare energia a una piccola città, o a un grande
datacenter, a un'industria ceramica o a un produttore di acciaio».
È possibile creare strutture che uniscano più reattori come avviene
all'estero?
«Sì, perché sono impianti abbastanza piccoli, di sei metri di
diametro e sei metri di altezza. Si possono creare complessi che
uniscono anche quattro reattori assieme. Una centrale da 800
megawattora può dare energia a una città come Roma e potrebbe avere
costi contenuti, circa 3,2 miliardi».
Quali sono i principali ostacoli al nucleare nel nostro Paese? La
paura dei cittadini? La burocrazia? La sicurezza?
«La resistenza maggiore è la paura dei cittadini che in parte deriva
da una narrativa del passato difficile da modificare».
Beh dall'incidente di Fukushima sono passati tredici anni, il
ricordo è ancora vivo nella mente delle persone.
«Sì, ma va detto che i nuovi reattori non permettono più incidenti
come Chernobyl e Fukushima e che il nucleare è il sistema più sicuro
di produzione di energia elettrica. I giovani, che si informano
molto sui temi ambientali, sanno queste cose e perciò sono più
favorevoli al nucleare rispetto alle generazioni più mature».
Ai giovani il nucleare piace perché può ridurre le emissioni di Co2.
Ma quali altri benefici ci sono rispetto agli altri tipi di energia?
«Il nucleare è una forma di energia decarbonizzata che ha il
vantaggio di essere a basso costo, 55 euro a megawattora. In questo
modo l'Europa sarà più competitiva rispetto a Cina e Usa, dove i
prezzi del gas sono fino a 5 volte più bassi».
Qual è l'approccio degli altri Paesi europei? Dopo Fukushima, non
solo l'Italia ma anche altri Stati hanno frenato.
«Vero, ma ci sono dei cambiamenti in corso. Belgio, Svezia, Olanda e
Svizzera che avevano rinunciato ora stanno tornando al nucleare. Poi
ci sono Norvegia e Polonia, che non lo hanno mai avuto e invece ora
stanno lanciando nuovi impianti. L'opposizione al nucleare rimane
dove la classe politica è stagnante: in Spagna e in Germania, dove
però gli industriali stanno conducendo una battaglia per riaverlo».
Il deficit di energia dell'Italia è oltre i 55 miliardi e importiamo
dall'estero il 13-15% di energia nucleare soprattutto da Francia,
Svizzera e Slovenia. Cosa si può fare per colmare questo divario?
«Con il ritorno al nucleare il gap delle importazioni si può
ridurre, ma dipenderà anche da quanto gas continuiamo a produrre e
in quanto tempo verranno sostituite le centrali a gas da quelle
nucleari. È un bilancio difficile da fare e dipende da tanti
fattori, uno tra questi sono le rinnovabili. È un'energia pulita i
cui investimenti però sono costosi».
Secondo il piano nazionale integrato energia e clima, varato dal
ministro dell'Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin entro il 2050
dovremmo coprire tra l'11 e il 22% dei consumi col nucleare. Sono
obiettivi credibili?
«Sì, sono abbastanza ragionevoli: diciamo che l'11 è un traguardo
modesto, mentre il 22% è più ambizioso. Ma è la stessa crescita che
si prefiggono Francia e Regno Unito. Forse ci metteremo qualche anno
in più ma con l'accordo della politica e dei cittadini è una meta
alla nostra portata». —
Il procuratore Pacileo: le aziende capiscano che le precauzioni
convengono
Pochi ispettori e incidenti in aumento Sicurezza sul lavoro, dieci
reati al giorno
«Ogni giorno riceviamo in Procura una decina di notizie di reato su
violazioni in merito alla prevenzione anti-infortunistica». Le
parole del Procuratore del Tribunale di Torino Vincenzo Pacileo
ritraggono la profonda spaccatura tra il ricco quadro di norme sulla
sicurezza nei luoghi di lavoro e «un'applicazione molto
frammentaria». Ieri Pacileo era ospite della festa della Fiom allo
Sporting Dora di corso Umbria, il tema erano i trent'anni della
legge 626, che mise l'Italia alla pari con gli altri Paesi europei
in fatto di leggi sul lavoro. Dal palco, il procuratore ha spiegato
che spesso le violazioni sono «molto formali, senza impatto diretto
sul presidio di sicurezza. Ma sono significative di quanto sia
diffusa la mancanza di rispetto della normativa di base, che serve a
tutelare il lavoratore».
Spesso le aziende sanano le irregolarità dopo aver pagato una
sanzione ridotta. «L'obiettivo – ha spiegato Pacileo – è
regolarizzare e non punire». Altre volte il procedimento va avanti,
ma col rischio che la prescrizione arrivi prima della sentenza. «Il
Tribunale ha faticato, la Corte d'Appello ancora di più» ha
commentato il procuratore. L'azione della giustizia resta
fondamentale anche in materia di prevenzione: «Ciascun processo
dovrebbe avere una funzione di monito per le imprese, per capire che
rispettare le regole di sicurezza conviene».
L'altro nodo critico riguarda la carenza di ispettori del lavoro.
Gli organici si sono assottigliati nel corso degli anni: dai 165 del
2018 ai 148 di fine 2022. Di questi, solo 128 hanno la qualifica di
ufficiali di polizia giudiziaria, indispensabile per gli
accertamenti sui luoghi di lavoro. «Se le aziende sanno che l'organo
di vigilanza non ci sarà, l'azione deterrente insita nei controlli
viene automaticamente meno» ha commentato il medico del lavoro
Annalisa Lantermo. Così crescono non solo gli incidenti sul lavoro
(che in Piemonte segnano un +4% nei primi cinque mesi del 2024
rispetto all'anno precedente) ma anche i morti, che in Piemonte nel
2023 sono stati 75. Eppure, come ha illustrato l'ex segretaria Fiom
Francesca Re David, «i lavoratori percepiscono la sicurezza e la
formazione come valori centrali».
11.09.24
BORIS L'OPACO : BORIS
JOHNSON COGLIE L’ATOMO – L’EX PREMIER BRITANNICO È STATO NOMINATO AL
VERTICE DI UNA SOCIETÀ CHE SI OCCUPA DELL'USO DEL NUCLEARE CIVILE
NELLA TRANSIZIONE ENERGETICA – LA “BETTER EARTH LIMITED” È DI
PROPRIETÀ DEL MAGNATE DELL'URANIO AMIR ADNANI, CANADESE DI ORIGINI
IRANIANE, CHE IN PASSATO HA AVUTO RAPPORTI STRETTI CON STEVE BANNON,
L'EX IDEOLOGO DI TRUMP – I DUBBI SULLA TRASPARENZA DELL'OPERAZIONE…
(ANSA) - L'ex premier conservatore Boris Johnson è stato messo al
vertice di una società creata per la promozione dell'uso del
nucleare civile nella transizione energetica, la Better Earth
Limited, di proprietà di un magnate canadese dell'uranio, di origini
iraniane e con interessi d'affari negli Usa, Amir Adnani,
accreditato dal Guardian di aver avuto in passato anche relazioni
strette con Steve Bannon, l'ex ideologo di Donald Trump, e di
esserne stato sostenuto.
L'ex primo ministro britannico risulta essere direttore e
co-presidente della società a partire dal primo di maggio, come
emerge sul registro ufficiale delle imprese sul sito del governo.
Insieme a lui, all'interno di Better Earth ci sono due suoi
fedelissimi: l'ex viceministro Nigel Adams e Charlotte Owen, una
giovane assistente di Downing Street con solo pochi anni di
esperienza lavorativa nominata da BoJo per un seggio alla Camera dei
Lord lo scorso anno all'età di 29 anni (un record), con le
inevitabili polemiche.
L'intera operazione ha sollevato una serie di dubbi di trasparenza
rispetto alla natura e ai tempi del rapporto tra Johnson e Adnani.
E' emerso infatti che BoJo aveva incontrato Scott Melbye,
vicepresidente esecutivo della Uranium Energy Corp - la società
principale del tycoon canadese - alla Camera dei Comuni nel maggio
2022 quando era ancora primo ministro. Alla luce dell'incarico in
Better Earth sono stati anche rivisti dal Guardian i provvedimenti
presi dall'ex premier Tory in favore dell'energia nucleare nel
periodo a Downing Street.
10.09.24
Un automobilista ha vinto una causa da 6mila euro. La compagnia non
voleva rimborsarlo perché non si era rivolto a un carrozziere
convenzionato
L'assicuratore non paga i danni da grandine Il tribunale lo condanna
al risarcimento elisa sola
La compagnia di assicurazioni non può rifiutarsi di pagare i danni
da grandine soltanto perché l'automobilista ha fatto riparare la
macchina da un carrozziere diverso da quelli convenzionati con la
stessa compagnia. Lo ha stabilito il tribunale di Torino - sezione
civile - che ha condannato un noto assicuratore a risarcire di
10mila euro (di cui seimila di carrozziere e 4mila di spese di lite)
il proprietario di una Fiat Doblò rovinata dalla grandine.
La sentenza è del 29 luglio e si riferisce ai danni di un violento
temporale che risale al 17 giugno 2020. Il provvedimento del
tribunale, se diventerà definitivo, potrebbe marcare in maniera
ancora più profonda la via, già tracciata in giurisprudenza, sulla
tutela dei consumatori che a causa del maltempo si sono ritrovati
con le auto quasi distrutte. Un evento capitato sempre più spesso
negli ultimi mesi nella nostra città, colpita da una raffica di
grandinate.
Il torinese che ha vinto la causa aveva spiegato: «Dopo quella
brutta grandinata ho dovuto pagare 6080 euro di tasca mia. Pensavo
che fosse solo un anticipo. Avevo stipulato con la mia compagnia una
polizza che comprendeva anche i rischi legati a danni da eventi
naturali. Quindi ero tranquillo».
«E per essere ancora più sereno - aveva precisato il proprietario
del Doblò - avevo chiamato l'ufficio sinistri, annunciando che mi
sarei rivolto dal mio carrozziere di fiducia. E a voce, dalla
compagnia, mi avevano detto che mi avrebbero coperto. Al momento di
rimborsarmi però, l'assicurazione si è rifiutata. Mi ha detto che
siccome non ero andato da un carrozziere convenzionato, non avrei
avuto diritto a niente».
La giudice Claudia Gemelli ha dato ragione al cittadino. «La
clausola del contratto che prevede la decadenza dall'indennizzo in
caso di riparazione presso altro centro di autoriparazione è nulla -
c'è scritto nella sentenza - perché è una clausola vessatoria per lo
squilibrio di obblighi e diritti derivanti dal contratto, non
oggetto di specifica trattativa individuale, e non conoscibile in
ragione della modalità di redazione del modulo contrattuale in
violazione dell'articolo 166 del codice di assicurazioni».
I legali della compagnia avevano ribadito che la clausola della
decadenza dell'indennizzo fosse nota.
Ma per il tribunale non ci sono dubbi: includere nella polizza una
clausola per cui si obbliga l'automobilista a rivolgersi a
determinati carrozzieri non sarebbe lecito. Perché è una clausola
che «determina a carico del consumatore un significativo squilibrio
dei diritti e degli obblighi». Non solo. La polizza sarebbe stata
scritta in maniera ingannevole. «Il contratto deve essere redatto -
precisa la giudice - dando particolare evidenza alle clausole che
indicano decadenze o limitazioni delle garanzie, in applicazione dei
principi di trasparenza, diligenza e correttezza».
Invece, l'assicurazione avrebbe usato «una tecnica redazionale poco
trasparente e del tutto inidonea a porre l'attenzione
dell'assicurato sul rischio di non vedersi riconosciuto
l'indennizzo, pur a fronte del verificarsi di un rischio assicurato
in vigenza di polizza e del regolare pagamento del premio». «Deve
ritenersi inefficace nei confronti dell'attore - è la conclusione
della sentenza - la clausola volta ad escludere l'indennizzo per
l'ipotesi di riparazione in centro diverso da quelli convenzionati
con l'assicurazione».
La protesta di una trentina di cittadini contrari alla realizzazione
di una Cittadella dello sport . I manifestanti sgomberati dalla
polizia
Tensione per i lavori al parco del Meisino "Verrà danneggiato un
ecosistema unico "
Pier Francesco Caracciolo
Per oltre tre ore hanno bloccato gli operai, impedendo loro di
raggiungere il cantiere. Lo hanno fatto occupando, con la loro
presenza, l'unica strada sterrata diretta all'area dei lavori. Così
ieri, dalle 7, 30 alle 10, 30, una trentina di cittadini hanno
rallentato le operazioni per la realizzazione della Cittadella dello
sport pianificata dal Comune all'interno del parco del Meisino.
Un'operazione di ostruzionismo che si è risolta con lo sgombero da
parte degli agenti della Digos e della polizia, questi ultimi in
tenuta antisommossa. Sono stati loro, prendendo di peso gli
attivisti, a liberare la strada e consentire il passaggio degli
operai, a bordo di camion e ruspe.
Gli agenti hanno operato al termine di una mattinata di tensione.
Fin dalle 6, 30 i cittadini, guidati dal comitato "Salviamo il
Meisino", avevano occupato via Nietzsche, la strada diretta all'area
dei lavori. All'arrivo degli operai, hanno camminato a passo lento
dall'ingresso del parco fino al cantiere, costringendo camion e gru
a fermarsi alle loro spalle. Una volta al fondo di quel tratto di
via, hanno allestito un banchetto e iniziato a fare colazione. È
stato quello il momento in cui, dopo aver intimato loro di lasciare
la strada, i poliziotti sono interventi, liberando la strada.
«Abbiamo cercato, senza violenza, di impedire che il cantiere
procedesse – dice Elena Sargiotto, del comitato – La giunta comunale
si sta accanendo contro il verde di Torino: il Meisino è un'area
protetta, con una eccezionale ricchezza sul piano della
biodiversità».
Si è alzato così il clima di tensione che, da giovedì, si respira al
Meisino. Quel giorno, per la prima volta, gli operai si erano
presentati nel parco per allestire il cantiere. Un gruppo di
attivisti, dialogando con loro, ne aveva rallentato le operazioni.
Venerdì gli operai erano tornati al Meisino e avevano dato il via al
posizionamento di jersey e transenne, operazione propedeutica
all'avvio dei lavori. Gli attivisti, presenti anche quel giorno, si
erano limitati a presidiare l'area. «Difendiamo il Meisino» hanno
invece urlato ieri, a più riprese, gli attivisti. I residenti del
comitato dallo scorso anno si battono a suon di petizioni e
manifestazioni in strada contro la realizzazione del progetto.
Un'opposizione dettata dal fatto che, a loro dire, «un parco
dall'alto valore ambientale verrà irrimediabilmente danneggiato
dalle strutture sportive». I lavori, al Meisino, prevedono la
realizzazione di un «Centro per l'educazione sportiva e ambientale».
Si tratta di un progetto da 11, 5 milioni di euro, finanziato con
fondi Pnrr, i cui lavori dureranno poco più di un anno. Nel verde
saranno montate attrezzature che consentiranno di praticare diverse
discipline, tra cui arrampicata, corsa campestre, tiro con l'arco e
ciclocross.
Quanto successo ieri rappresenta un déjà-vu dei fatti dello scorso
febbraio in corso Belgio, a Vanchiglietta. In quel caso un gruppo di
residenti era sceso in strada per bloccare gli operai, inviati dal
Comune per abbattere gli oltre duecento aceri presenti. Il progetto,
dopo di allora, è stato messo in stand-by dal Comune. —
Torino è la prima grande città italiana in cui "Letismart" viene
sperimentato
Il bastone smart per ciechi che dialoga con i semafori
Un bastone intelligente per persone cieche o ipovedenti. In grado di
«dialogare», cioè, con i semafori (e non solo), così da rendere più
sicure le camminate di chi, per problemi di vista, in strada fatica
a orientarsi. Si chiama Letismart: all'apparenza è un normale
bastone bianco, ma ha al suo interno un mini-computer. Una
tecnologia grazie alla quale è in grado di far entrare in contatto
la persona che lo impugna con il mondo che lo circonda, agevolandone
gli spostamenti. Un'operazione che avviene grazie all'installazione,
lungo le strade della città, di piccoli radiofari, che trasmettono
gli impulsi captati dal bastone smart.
Il bastone intelligente, prodotto a Trieste dall'azienda Scen, ieri
è sbarcato a Torino. La nostra è la prima grande città italiana in
cui viene sperimentato (dopo i test nella stessa Trieste e a
Mantova). È stato presentato nella sede torinese dell'Unione Ciechi
(Uici), in corso Vittorio Emanuele II 63, nel cuore di Torino. Un
appuntamento cui sono intervenuti il presidente provinciale dell'Uici,
Giovanni Laiolo, e l'assessora all'Innovazione di Torino, Chiara
Foglietta.
Da qualche giorno, viene sperimentato in corso Vittorio, nel tratto
tra corso Re Umberto e la stazione di Porta Nuova. Si tratta di
un'area con cinque incroci, regolati complessivamente da cinquanta
semafori. All'interno dei semafori, con l'aiuto dei tecnici di Iren,
sono stati installati cinquanta radiofari. Quando una persona
ipovedente, passeggiando sul marciapiede, si avvicina a uno di
questi semafori, il bastone lo avverte con un messaggio vocale: «Tra
venti metri c'è un semaforo sonoro».
I radiofari possono essere installati anche in punti strategici
della città. A Torino ne è stato posizionato uno all'ingresso di
corso Vittorio 63. Avvicinandosi alla porta d'entrata, il bastone fa
scattare il messaggio vocale: «Sei a venti metri dalla sede
dell'Unione ciechi, trovi l'ingresso sulla destra». Se chi impugna
il bastone vuole raggiungerla, preme un pulsante sul bastone stesso.
A quel punto dall'ingresso di corso Vittorio 63 parte un cicalino,
che aiuta la persona ipovedente a orientarsi. «Ci auguriamo che -
dice Laiolo - la rete infrastrutturale torinese necessaria al
funzionamento di questo strumento venga ampliata
09.09.24
GLI ERRORI DI JAKY DELL'ELETTO DA DONNA MARELLA IL DISCEPOLO DI
MARCHIONNE : Dietro
le recenti operazioni industriali e le scelte strategiche nel
settore automobilistico sembrano celarsi manovre politiche ed
economiche volte a indebolire l’industria italiana a favore di altri
Paesi europei, in particolare Francia e Polonia. L’acquisizione di
Fiat da parte del gruppo francese PSA, che ha portato alla creazione
di Stellantis, rappresenta un esempio emblematico di come la Francia
abbia ottenuto una significativa influenza su un’importante azienda
italiana, con la possibilità di orientare le decisioni aziendali a
beneficio degli interessi francesi.
Questa situazione potrebbe portare a una diminuzione del peso e
della competitività dell’industria automobilistica italiana. La
strategia sembra implicare il potenziamento degli impianti
produttivi in Polonia, dove i costi di manodopera sono più bassi,
favorendo così la crescita della produzione in quel Paese a
discapito degli stabilimenti italiani. Nel frattempo, gli
stabilimenti francesi verrebbero tutelati da riduzioni di personale,
mantenendo intatta la capacità produttiva e la competitività
dell’industria automobilistica francese. Questa dinamica rischia di
danneggiare il settore industriale italiano, portando a una
riduzione dei posti di lavoro e a una possibile perdita di
competenze tecnologiche.
Un parallelo interessante è rappresentato dal “triangolo di Weimar“,
un forum di cooperazione politica tra Germania, Francia e Polonia,
concepito per rafforzare la collaborazione tra questi paesi. In
questo contesto, il triangolo di Weimar può essere visto come un
mezzo per controbilanciare l’influenza economica e politica della
Germania in Europa, con Francia e Polonia impegnate a consolidare la
loro posizione geopolitica. In questo scenario, l’Italia potrebbe
essere percepita come un concorrente industriale, con alleanze e
decisioni economiche orientate a ridurre il suo peso economico e
industriale a favore di altri Paesi europei.
Le decisioni aziendali e le strategie di mercato sembrano essere
guidate non solo da logiche economiche ma anche da obiettivi
politici e militari, mirati a ristrutturare l’equilibrio del potere
industriale in Europa. Il rafforzamento di specifici settori
industriali in Polonia e Francia, con un contemporaneo indebolimento
dell’industria italiana, potrebbe essere parte di una strategia
geopolitica più ampia, con conseguenze significative per l’economia
e l’occupazione in Italia. Perché a questo punto possiamo allora
parlare in termini legittimi di guerra economica?
L’idea di una “guerra economica” in questo contesto si riferisce
all’uso di strategie economiche e commerciali per ottenere vantaggi
geopolitici e indebolire i concorrenti senza ricorrere a conflitti
armati. Nel caso specifico descritto, le manovre attuate attraverso
l’acquisizione di Fiat da parte del gruppo PSA e la creazione di
Stellantis potrebbero essere viste come parte di una strategia più
ampia per rimodellare l’industria automobilistica europea a
vantaggio di alcuni Paesi, come la Francia e la Polonia, a scapito
dell’Italia.
Questa “guerra economica” si manifesta attraverso diverse tattiche:
potenziando la produzione in Polonia e mantenendo intatti i posti di
lavoro in Francia, mentre si riducono gli investimenti e
l’occupazione in Italia e si indebolisce il sistema industriale
italiano.
Questo potrebbe portare a una perdita di competitività e a una
dipendenza crescente dalle decisioni prese da altri Paesi, riducendo
la capacità dell’Italia di influenzare le dinamiche del settore
automobilistico europeo. Acquisendo una quota significativa di
controllo su un’azienda chiave come Fiat, la Francia, tramite PSA e
Stellantis, ottiene un’influenza diretta su una parte importante
dell’industria automobilistica italiana. Questo controllo consente
di dirigere le decisioni aziendali secondo gli interessi francesi,
limitando l’autonomia italiana nella gestione delle proprie risorse
industriali.
Un’Italia indebolita industrialmente potrebbe avere meno voce in
capitolo nelle decisioni politiche ed economiche dell’UE, mentre la
Francia e altri Paesi alleati rafforzano la loro posizione. In
sintesi, considerare queste azioni come una forma di “guerra
economica” implica riconoscere che le dinamiche economiche e
commerciali vengono utilizzate come strumenti per raggiungere
obiettivi di potere e influenza geopolitica. Queste strategie non
implicano necessariamente un confronto diretto o violento, ma mirano
comunque a ottenere un vantaggio strategico significativo su un
avversario economico attraverso mezzi economici, piuttosto che
militari.
Rania, la regina per Gaza "La pace in cinque punti basta razzismo
anti Palestina" Francesco Spini
Inviato a Cernobbio (como)
Era il 2005 l'ultima volta che Rania di Giordania aveva varcato
l'elegante portone di Villa d'Este. E sembra passato un secolo: «Non
avrei mai immaginato di guardare indietro a quei giorni e pensare:
"Erano tempi più semplici"». Ora la regina torna al Forum di
Cernobbio organizzato da Teh-Ambrosetti e propone cinque punti,
cinque proposte per favorire la pace tra Israele e Gaza e mettere
fine a quello che sua maestà chiama «razzismo anti-palestinese».
Parte rievocando il fatidico 7 ottobre quando «Israele è stato
attaccato da Hamas», con una «escalation violenta che ha scioccato
il mondo». Ma racconta anche la risposta di Israele che ha portato
il suo blocco su Gaza «a nuovi livelli disumani». Dettaglia con i
numeri «una sofferenza civile inimmaginabile», che «viene
normalizzata ogni giorno. Ma vi chiedo: provate a immaginare cosa
deve essere non essere riuniti qui accanto al bellissimo lago di
Como, ma essere un genitore a Gaza…», dove «hai seppellito un
figlio… un altro ha perso una gamba e metà del suo peso. Tutta la
tua famiglia sta morendo di fame», è il racconto, terribile, della
regina di Giordania. E ancora: «Nessun ospedale. Nessuna scuola.
Nessuna università ancora in piedi. Quasi ogni quartiere è in
macerie».
Due pesi e due misure, secondo Rania, quelle che il modo applica
quando parla di sicurezza per Israele e di sicurezza per Gaza.
«Questa svalutazione della vita deve essere chiamata per quello che
è: razzismo anti-palestinese», declama di fronte a manager,
imprenditori, banchieri e politici che affollano la sala. Si chiede
se ci si aspetterebbe da qualunque popolazione occidentale di
«tollerare decenni di occupazione, oppressione e violenza». È
perentoria nel rivolgersi alla platea di Cernobbio: «Il bagno di
sangue si deve fermare». Perché «cosa dovrebbe pensare il Sud
Globale quando vede l'Occidente sostenere il popolo ucraino
lasciando invece i civili innocenti a Gaza sotto una punizione
collettiva senza precedenti?».
Secondo la sovrana è necessario ora superare e respingere tali
«doppi standard» e «trovare un percorso comune verso la pace». I
piani per risolvere la situazione non decollano ma non vuole
rassegnarsi «a una realtà intollerabile». Propone quindi una «base
condivisa, che si fondi su una serie di principi fondamentali su cui
tutti possiamo concordare e a cui possiamo aderire». Cinque principi
«indiscutibili» che «dovrebbero sostenere tutte le vere iniziative
per la pace».
Punto primo: «Il diritto internazionale deve prevalere, senza
eccezioni». Del resto, ammette, «non sono neutrale. Suppongo che
nessuno di noi lo sia veramente, per quanto ci sforziamo. Ecco
perché abbiamo bisogno della legge». Anzitutto «far rispettare le
risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e
rispettare le opinioni e le sentenze dei tribunali internazionali,
anche quando sono politicamente scomode». Secondo: «L'autonomia, la
dignità e i diritti umani sono universali e assoluti». Dunque la
pace «non può essere creata adottando le maniere forti contro una
parte più debole costringendola ad accettare condizioni sfavorevoli.
Israeliani e palestinesi hanno pari diritto alla sicurezza e
all'autodeterminazione. Alcuni Paesi europei hanno riconosciuto
questo diritto riconoscendo lo Stato palestinese. Spero che altri
Paesi in Europa e altrove facciano lo stesso».
Terzo punto: «Affinché la giustizia prevalga, bisogna assumersi le
responsabilità» delle proprie azioni applicando controlli al potere,
sanzionando gli illeciti. «A Gaza, vediamo le conseguenze
catastrofiche di questo squilibrio: una nazione potente, che crea
condizioni di fame e sfollamento di massa, affronta poche
contestazioni». Il rovescio della medaglia della responsabilità «è
l'impunità», ricorda Rania di Giordania. E ancora, quarto punto: «La
vera sicurezza non è a somma zero. Una pace giusta rende la
sicurezza reciproca» perché «l'insicurezza di una parte non serve
all'altra. Essa perpetua solo il problema». Infine il quinto
principio. «È semplice: le voci estreme - indipendentemente da dove
provengano - devono essere escluse dalla conversazione. Il futuro -
dice la regina - non può essere tenuto in ostaggio da coloro che
sostengono la fame di massa, lo sterminio e l'espulsione… che
applaudono la punizione collettiva… che difendono l'indifendibile.
Devono essere denunciati e zittiti»
LA LOGGIA UNGHERIA GODE OTTIMA SALUTE E TANTO POTERE: Dossieraggio,
il dietrofront di Crosetto: "Nessun sospetto sugli apparati di
Sicurezza". La procura di Perugia a caccia delle chat cancellate"
Le carte di Cantone
Dai rapporti col Vaticano ai Servizi segreti Cantone indaga sui
mandanti di Striano
giuseppe legato
I due paragrafi della lunga richiesta di arresto firmata dal
procuratore di Perugia Raffaele Cantone sono collegati e seguono
l'uno all'altro: numerati 13 e 14. E basterebbero i titoli per
spiegare come l'articolata inchiesta su manager politici e vip
spiati sia tutt'altro che conclusa. Il primo recita: «I collegamenti
di Striano con il Vaticano». Il secondo: «Possibili rapporti con i
sistemi di sicurezza (i Servizi ndr)». È questo un fronte misterioso
e ancora incompleto che però gli investigatori hanno deciso di
percorrere partendo da quattro accessi effettuati dal tenente della
Guardia di Finanza all'epoca in cui era in servizio alla Procura
Nazionale Antimafia dove coordinava il gruppo Sos (Segnalazioni
operazioni sospette). I nomi: Cecilia Marogna, Raffaele Mincione,
Gianluigi Torzi e Fabrizio Tirabassi. Finanzieri, broker, funzionari
amministrativi del Vaticano ed ex fonti dei Servizi segreti, tutti
recentemente condannati, sui quali il principale indagato di Perugia
avrebbe interrogato il terminale per conoscere dati anagrafici,
redditi e catasto. Tutti personaggi coinvolti nell'inchiesta sul
cardinale Becciu. Striano li ha effettuati a partire da luglio 2019
quando cioè non vi era discovery sull'attività investigativa del
Promotore della giustizia della Santa Sede. Sono dunque «di gran
lunga antecedenti al primo atto di indagine» della giustizia
inquirente pontificia ovvero alle prime perquisizioni datate 1
ottobre 2019, si legge agli atti. E non aiuta a normalizzare il
quadro sempre più popolato di singolari coincidenze sapere che
l'inchiesta era partita poco prima dell'estate seguita, il 5 luglio,
da una disposizione di Bergoglio alla gendarmeria affinché
utilizzassero i più ampi mezzi tecnologici per portare avanti gli
accertamenti. La domanda sullo sfondo è semplice: chi ha chiesto al
sottufficiale della Finanza di controllare questi nomi quando gli
stessi erano ancora sconosciuti? Cantone chiosa: «Questo ufficio sta
svolgendo anche su questi accessi effettuati da Striano ulteriori
approfondimenti, ritenendo che l'accesso non ricollegabile ad
un'attività dell'ufficio sia, già solo per questo, privo di ragioni
di servizio e dunque illecito».
Ma cospicue tracce del Vaticano si rivengono anche nel capitolo su
possibili collegamenti «con gli apparati di sicurezza» altro punto
di interesse per gli investigatori. La procura di Perugia cita – a
corredo del titolo del paragrafo – un uomo in contatto con Striano
«che percepisce – si legge – redditi dal comando generale dei
carabinieri dal Comando Generale dei Carabinieri e Presidenza del
Consiglio dei Ministri».
Chiede al tenente informazioni riservate su un monsignore che ha
lavorato a lungo negli anni precedenti nella segreteria di stato
della Santa Sede. Si chiama Giovanni Hermes Viale (non indagato):
«Questo è un pezzo da novanta» dice Striano all'interlocutore nelle
chat. Gli investigatori riferiscono «di un'anomala movimentazione
costituita da rilevante operatività in contanti» sul conto corrente
personale del prelato: «Tale operatività, inusuale e di critica
tracciabilità, potrebbe assumere rilevanza in considerazione di
alcuni pregressi coinvolgimenti del prelato in talune vicende
riportate dai media». Striano e il misterioso carabiniere parlano
anche di alcuni «amici» che vogliono sapere se alcune ditte «da cui
devono rifornirsi» sono «apposto». Un titolare ha precedenti penali
«ma se "gli amici" ci offrono una bistecca glielo diciamo noi chi
scegliere». Parlano dei Servizi? Di certo c'è che «il collegamento
con …(il militare)…, pare essere riconducibile a rapporti con il
Vaticano o comunque a richiesta di informazioni relative a soggetti,
come Viale, che hanno rivestito ruoli di rilievo nello Stato
Pontificio». Intanto sempre i pm di Perugia hanno notato la
stranezza «di alcune chat cancellate» dal telefono di Striano.
«Inimmaginabile» che fonti con cui ha scambiato centinaia di file
non abbiano avuto contatti di messaggistica. Ergo: «Questo ufficio –
scrive Cantone – ha delegato specifici accertamenti in ordine alla
possibilità di recupero di eventuali chat cancellate. Tale dato
potrebbe risultare da apposita interrogazione della società
statunitense Meta, proprietaria e gestore dell'applicativo di
messaggistica istantanea WhatsApp». Infine ieri il ministro Crosetto
è intervenuto sulla notizia di suoi "sospetti" che alcune
informazioni finite ai giornalisti fossero uscite dagli apparati di
Sicurezza. «L'idea stessa – ha detto – che la mia sfiducia
riguardasse» i servizi «o i suoi vertici è più ridicola che falsa.
Mi ero limitato a evidenziare al Procuratore capo di Perugia come
una notizia (irrilevante e anche falsificata) apparsa su un
quotidiano non potesse che provenire dall'interno dell'Aise,
trattandosi di questioni secretate. Su questa vicenda, di cui avevo
informato i vertici del comparto, ho poi avuto totale e piena
cooperazione». Eppure era stata la stessa procura di Perugia, nel
capitolo relativo agli accessi abusivi effettuati da Striano su di
lui (e da Crosetto denunciati) a spiegare come «il ministro ha
rappresentato agli inquirenti le sue perplessità sulla possibile
provenienza dell'informazione dall'interno degli stessi apparati di
sicurezza».
Attenzione! La nuova gabella bancaria: imporre contratti di
consulenza anche col silenzio-assenso
Articolo di Beppe Scienza sul Fatto Quotidiano di lunedì 19 agosto
2024 a pag. 15
| Attualità | Danni del risparmio gestito
banca intesa sanpaolo banca investis
Le banche italiane mal sopportano i risparmiatori cui non riescono a
raschiare via molti soldi, perché refrattari ai loro prodotti
finanziari o pseudo-assicurativi. Ci vuole una tempra d’acciaio,
eppure qualcuno pervicacemente resiste: non si lascia spolpare dal
risparmio gestito e continua a fare da sé, comprando alcuni o molti
titoli. Ma la banca premurosa non vuole lasciarlo solo: un tipico
caso per cui vale il proverbio “Meglio soli che male accompagnati”.
Cos’hanno infatti pensato? A chi ha Btp, Cct, azioni ecc. cercano di
appioppare un contratto di consulenza e alcuni addirittura
minacciano di chiudere il conto a chi non obbedisce. Il fenomeno è
generale. Si va da grosse banche come Intesa-Sanpaolo con la
“consulenza evoluta di Valore Insieme”, a realtà minori come per
esempio Banca Investis con la “consulenza Universo”. Le tariffe sono
pesanti, intorno all’1-1,5% annuo del patrimonio, nell’ordine quindi
delle commissioni addebitate da molti fondi comuni.
Sono proposte da rifiutare senza perdere tempo in approfondimenti
inutili. Oltre ai consigli interessati, c’è da aspettarsi di essere
sommersi da una fiumana di analisi, statistiche, report inutili. Nel
caso migliore è beneficienza alla banca, nell’ipotesi più probabile
un modo per trovarsi sul groppone fondi, polizze, piani
pensionistici e simili, consigliati però in modo “evoluto” e non
involuto.
È come se per la propria salute uno s’affidasse per assurdo a un
farmacista disonesto. C’è da attendersi che spingerebbe in
continuazione ogni tipo di medicina; comunque sempre cure
farmacologiche e giammai chirurgiche, che non tratta. Così il
sedicente consulente dietro lo sportello consiglierà prodotti su cui
la banca arraffa più soldi. Mai e poi mai invece i buoni fruttiferi
postali.
Sono inoltre esose le percentuali richieste. Vi sono consulenti
veri, cioè di fatto e non solo di nome, che prendono meno. Che poi
trovarne uno competente sia impresa ardua è un altro discorso; ma
ciò vale pure coi bancari.
Per giunta alcune banche incastrano i clienti col silenzio-assenso.
Non è raro che abbiano fatto accettare a tutti un rapporto di
consulenza gratuito, giustificandolo come una soluzione per
semplificare alcune procedure. A questo punto gli basta comunicare
la modifica unilaterale del contratto, che porta la commissione
annua dallo zero all’1%. Se uno non risponde entro il tempo
previsto, è incastrato. È una specie di pesca a strascico: i più
distratti o incompetenti restano impigliati nella rete.
Come in altri casi, corrono rischi soprattutto quanti hanno
rinunciato a ricevere in forma cartacea la posta della banca al
proprio domicilio (o altro recapito), optando per la documentazione
online. Così gli sfuggono facilmente comunicazioni importanti.
Richiedere quindi senza indugio la ripresa degli invii per posta.
Carta canta.
Beppe Scienza
Il governo vuole dare il TFR ai fondi: ecco perché non funziona
Articolo di Beppe Scienza sul Fatto Quotidiano di martedì 27 agosto
2024 a pag. 5
| Attualità | Fondi pensione o TFR
La ministra del lavoro Marina Elvira Calderone ha parlato della
«riapertura di un semestre di silenzio-assenso» per la destinazione
del Tfr alla previdenza integrativa, cui avrebbero aderito in pochi
perché «non è stata spiegata bene». In realtà è il contrario. Fosse
stata presentata in modo corretto, avrebbero aderito in meno.
Il sottosegretario Claudio Durigon della Lega ha poi addirittura
annunciato una proposta di legge per il trasferimento obbligatorio
del 25% del Tfr nelle forme previdenziali per ovviare alle pensioni
prevedibilmente troppo basse. Viste tali esternazioni, merita fare
il punto della situazione.
Precisiamo subito che, come risparmio previdenziale, il buon vecchio
TFR ha funzionato in modo egregio in periodi di alta inflazione:
+10% di rivalutazione nel 2022 rispetto a perdite medie del fra il
10 e 11% della previdenza integrativa. Ha rispettato le promesse in
tempi di bassa inflazione e ha offerto rendimenti fra i più alti con
deflazione e tassi negativi. Difficile trovare di meglio per un
risparmiatore non incline agli azzardi borsistici. Sull’altro
versante, cioè per il datore di lavoro, è una fonte di finanziamento
a condizioni ragionevoli. È odiato e attaccato solo da soggetti in
conflitto d’interesse: banche, gestori, assicurazioni, sindacati non
di base e associazioni padronali, con giornalisti al seguito.
Insomma da chi può trarre vantaggi in un modo o nell’altro se esso è
trasferito alla previdenza integrativa.
Ciò chiarito, facciamo due discorsi. Per cominciare è sempre odioso
estorcere un accordo col silenzio-assenso, cioè obbligare uno ad
attivarsi per impedire che gli cambino le carte in tavola. Si tratta
di una furbata per incastrare le persone distratte, meno pronte, non
sempre sul chi vive o momentaneamente in difficoltà. Insomma, per
approfittare dei più deboli.
Passando alla proposta di Durigon, non per nulla di estrazione
sindacale, c’è un motivo specifico che nei fatti la svuota di
validità. Si ricava da dati ufficiali, che però quasi tutti cercano
di tenere ben nascosti. Smontano infatti la narrazione
propagandistica dominante, secondo cui gli aderenti a fondi pensione
e simili se la passerebbero bene nella loro vecchiaia grazie a un
reddito aggiuntivo alla pensione dell’Inps.
Di regola ciò non si verifica affatto. Quasi tutti gli interessati
non ricevono nessuna rendita vitalizia, ma semplicemente incassano
una singola somma di denaro, come col Tfr. Lo si scopre dalle
relazioni annuali dell’organo di vigilanza cioè della Covip, per
altro partigiana sfegatata della previdenza integrativa. Prendiamo
in particolare i tanto decantati fondi negoziali: nel 2023 il 99%
degli interessati ha rinunciato alla rendita e preferito un capitale
una tantum: 62.103 rispetto a 574. È così in generale anche per gli
anni precedenti e per le altre forme previdenziali, quando più
quando meno, dove più dove meno. Nei rari casi poi di rendita spesso
non è stata neppure una scelta, ma il risultato di un’imposizione
normativa.
Quindi la proposta di Durigon non va nella direzione di aumentare
una pensione pubblica troppo bassa. Ci si può aspettare che quasi
tutti gli interessati opterebbero all’età della pensione per un
capitale anziché una rendita: pochi maledetti e subito o anche molti
benedetti, ma comunque subito. Rispetto al mantenimento del suddetto
25% del Tfr in azienda, tale capitale sarà forse superiore, circa
uguale o inferiore; oppure anche sciaguratamente basso in caso di
alta inflazione. Se gli va bene, i lavoratori avranno un vantaggio
modesto contro la perdita della disponibilità immediata dell’intero
Tfr in caso di licenziamento, contro costi che distruggono vantaggi
fiscali e contributo datoriale, sempre in totale mancanza di
trasparenza. Se gli va male, ci rimetteranno su tutti i fronti. Ci
guadagnerebbero i soliti che si avvantaggiano della previdenza
integrativa: l’industria parassitaria del risparmio gestito, in
questo caso alleata ai sindacati e alle associazioni padronali.
Restano comunque valide tutte le obiezioni da altri giustamente
sollevate. In particolare non aiuterebbe i lavoratori precari senza
Tfr, né quelli con redditi talmente bassi che le modestissime cifre
accantonate gli frutterebbero ben poco.
Beppe Scienza
QUELLO CHE DOVEVA FARE JAKY E CHE NON HA FATTO :
Monaco. BMW
prevede di lanciare la sua prima serie in assoluto veicolo elettrico
a celle a combustibile di produzione (FCEV) nel 2028, offrendo così
clienti un'ulteriore opzione di propulsore completamente elettrico
con zero locale emissioni in una BMW. Il BMW Group e la Toyota Motor
Corporation sono mettere in comune la loro forza innovativa e le
loro capacità tecnologiche per portare una nuova generazione di
tecnologia del gruppo propulsore a celle a combustibile al strade.
Entrambe le società condividono l'aspirazione di far avanzare
l'idrogeno economia e hanno esteso la loro collaborazione per
spingere questo a livello locale tecnologia a emissioni zero al
livello successivo.
La principale esperienza di
sviluppo del BMW Group nella trazione elettrica le tecnologie sono
ancora una volta dimostrate dai suoi incessanti sforzi per far
avanzare la tecnologia delle celle a combustibile a idrogeno e il
suo abbraccio a 'approccio ‘tecnologia-apertura’ al fine di fornire
ai clienti un gamma di soluzioni di mobilità per il futuro.
“Questa è una pietra miliare
nella storia dell'auto: la prima serie in assoluto veicolo a celle a
combustibile di produzione che sarà offerto da un premio globale
produttore. Alimentato dall'idrogeno e guidato dallo spirito del
nostro cooperazione, sottolineerà come si sta modellando il
progresso tecnologico mobilità futura, ha detto” Oliver
Zipse, presidente del consiglio di amministrazione di Gestione di
BMW AG. “E
annuncerà un'era di domanda significativa di veicoli elettrici a
celle a combustibile.”
Koji Sato, Presidente
e Membro del Consiglio di Amministrazione (Direttore
rappresentativo) Toyota Motor Corporation, detto,
“Siamo lieti che la collaborazione tra BMW e Toyota abbia entrato in
una nuova fase. Nella nostra lunga storia di partnership, abbiamo
confermato che BMW e Toyota condividono la stessa passione per le
auto e fede in ‘technology openness’ e un approccio ‘multi-pathway’
a neutralità carbonica. Sulla base di questi valori condivisi,
approfondiremo il nostro collaborazione in sforzi come lo sviluppo
congiunto di sistemi di celle a combustibile di prossima generazione
e espansione delle infrastrutture, mirare alla realizzazione di una
società dell’idrogeno. Accelereremo i nostri sforzi insieme a BMW e
partner in vari settori per realizzare un futuro in cui l’energia
dell’idrogeno sostenga la società."
Tecnologia del gruppo
propulsore condiviso utilizzata tra i singoli modelli per offrire
interessanti opzioni FCEV.
Il BMW Group e la Toyota Motor
Corporation svilupperanno congiuntamente il sistema di propulsione
per veicoli passeggeri, con la cella a combustibile centrale
tecnologia (le singole celle a combustibile di terza generazione)
creando sinergie per applicazioni sia commerciali che di veicoli
passeggeri. Il il risultato di questo sforzo di collaborazione verrà
utilizzato individualmente modelli sia BMW che Toyota ed amplieranno
la gamma di FCEV opzioni a disposizione dei clienti, portando la
visione dell'idrogeno mobilità un passo più vicino alla realtà. I
clienti possono aspettarsi la BMW e Modelli Toyota FCEV per
mantenere le loro identità di marca distinte e caratteristiche,
fornendo loro opzioni FCEV individuali da scegliere da. Realizzare
sinergie e amalgamare il volume totale di unità di propulsione
collaborando allo sviluppo e all'approvvigionamento promette di
ridurre i costi della tecnologia delle celle a combustibile.
BMW lancerà il suo
primo modello di produzione alimentato a idrogeno in 2028.
Dopo aver testato con successo
la flotta pilota BMW iX5 Hydrogen in tutto il mondo, il BMW Group si
sta ora preparando per la produzione in serie di veicoli con sistemi
di azionamento a idrogeno nel 2028 sulla base del tecnologia del
gruppo propulsore di nuova generazione sviluppata congiuntamente. La
serie i modelli di produzione saranno integrati nel portafoglio
esistente di BMW, cioè. BMW offrirà un modello esistente in un
ulteriore combustibile a idrogeno variante del sistema di
azionamento cellulare. Poiché la tecnologia FCEV è un'altra
elettrica tecnologia dei veicoli, il BMW Group la considera
esplicitamente complementare la tecnologia di azionamento utilizzata
dai veicoli elettrici a batteria (BEV) e successivi ai veicoli
elettrici ibridi plug-in (PHEV) e combustione interna motori (ICE).
Un nuovo livello di
partnership.
Il BMW Group e la Toyota Motor
Corporation possono guardare indietro un decennio di collaborazione
fiduciosa e di successo. Basandosi su questo, le aziende stanno ora
estendendo la loro cooperazione per accelerare innovazione dei
sistemi di propulsione a celle a combustibile di prossima
generazione e pioniere questa nuova tecnologia.
Visione condivisa di
far progredire l'economia dell'idrogeno.
Il percorso per realizzare il
pieno potenziale della mobilità dell’idrogeno comprende il suo
utilizzo nei veicoli commerciali e l'istituzione di un
infrastrutture di rifornimento per tutte le applicazioni di
mobilità, comprese veicoli passeggeri alimentati a idrogeno.
Riconoscere il complementare natura di queste tecnologie, il BMW
Group e il Toyota Motor Le aziende stanno sostenendo l’espansione di
entrambi i rifornimenti di idrogeno e infrastruttura di ricarica per
veicoli elettrici a batteria. Entrambe le società stanno
incoraggiando l’offerta sostenibile di idrogeno creando domanda,
lavorare a stretto contatto con le aziende che stanno costruendo
idrogeno a basse emissioni di carbonio impianti di produzione,
distribuzione e rifornimento.
Il BMW Group e la Toyota Motor
Corporation sostengono la creazione di un quadro favorevole da parte
di governi e investitori facilitare la penetrazione nella fase
iniziale della mobilità dell'idrogeno e garantire la sua fattibilità
economica. Promuovendo l'infrastruttura corrispondente, mirano a
stabilire il mercato FCEV come pilastro aggiuntivo accanto ad altre
tecnologie di powertrain. Inoltre, le aziende stanno cercando
progetti regionali o locali per promuovere ulteriormente il sviluppo
di infrastrutture per l'idrogeno attraverso iniziative di
collaborazione.
Vantaggi della
tecnologia alimentata a idrogeno.
L'idrogeno è riconosciuto come
un promettente vettore energetico futuro per decarbonizzazione
globale. Agisce come un efficace mezzo di memorizzazione per fonti
energetiche rinnovabili, contribuendo a bilanciare domanda e offerta
e consentire un’integrazione più stabile e affidabile delle energie
rinnovabili nel rete energetica. L'idrogeno è il pezzo mancante per
completare l'elettrico puzzle di mobilità in cui i sistemi di
azionamento elettrico a batteria non sono un soluzione ottimale.
08.09.24
Colpita in Cisgiordania a un corteo contro l'espansione illegale
delle colonie. La protesta della Casa Bianca. Unrwa in allarme: Gaza
allo stremo
Via da Jenin, l'Idf uccide un'attivista Usa Nello Del Gatto
Gerusalemme
Israele è uscito dalle città del nord della Cisgiordania, in
particolare Jenin e Tulkarem, dove dal 28 agosto è in corso una
operazione che i militari hanno definito di antiterrorismo. La
notizia è stata diffusa dall'agenzia di stampa palestinese, ma
l'esercito, pur non parlando di ritiro o di continuazione delle
attività militari nell'area, ha riferito che l'operazione "campi
estivi" continuerà fino al raggiungimento dei suoi obiettivi. Per
intanto i cittadini di Jenin, Tulkarem, Tubas e dei dintorni di
Nablus, hanno potuto riprendere una vita quasi normale, si sono
celebrati i funerali di molte delle 33 vittime degli scontri tra
esercito e miliziani dei diversi gruppi che popolano l'area.
Solo a Jenin, sono stati registrati 21 morti. Il sindaco della
città, Nidal Obeidi, ha parlato di distruzione senza precedenti,
come se fosse un terremoto, con oltre venti chilometri di strade
distrutte dai mezzi blindati israeliani.
In Cisgiordania è stata uccisa da un colpo dei militari, una
ragazzina di tredici anni, Bama Laboum. La ragazzina si trovava in
casa sua quando all'esterno della stessa, nel suo villaggio, c'è
stato uno scontro tra coloni israeliani, protetti dall'esercito, e
locali palestinesi. È morta mentre si trovava in camera con sua
sorella.
Non molto lontano un altro colpo partito dal fucile di un militare
israeliano ha ucciso una cooperante turco-americana di 26 anni.
Aysenur Ezgi era arrivata martedì nei Territori Palestinesi come
volontaria dell'International Solidarity Movement (Ism),
un'organizzazione palestinese che recluta in tutto il mondo
cooperanti per operazione di presenza protettiva. Si trovava a sud
di Nablus, a Beita, insieme ad altri sette attivisti. Erano con i
palestinesi che protestavano contro l'espansione illegale degli
insediamenti a Jabal Sbeih. Per i testimoni, le forze israeliane
hanno lanciato gas lacrimogeni così da disperdere i manifestanti e
questi si sono ritirati. Nonostante fosse tutto relativamente calmo,
soldati israeliani hanno esploso due colpi, uno dei quali è costato
la vita ad Aysenur. I volontari dicono che i colpi sono stati
esplosi per uccidere. L'esercito, che ha annunciato un'inchiesta,
anche se non ha confermato l'uccisione della ragazza americana, ha
riferito che le truppe hanno aperto il fuoco contro un «principale
istigatore» che stava lanciando pietre alle forze e aveva
«rappresentato una minaccia». Il dipartimento di Stato ha espresso
le sue condoglianze alla famiglia della vittima, mentre la Casa
Bianca si è detta «profondamente disturbata» per l'accaduto. La
Turchia ha condannato l'uccisione di Aysenur parlando di «omicidio
commesso dal governo Netanyahu». Intanto a Gaza, mentre si è entrati
nella seconda fase della vaccinazione per la polio, che ha raggiunto
oltre 355 mila bambini secondo l'Unrwa, l'Onu lancia l'allarme sulla
situazione umanitaria, soprattutto l'approvvigionamento di cibo,
reso ancora più difficile dai numerosi ordini di evacuazione, con
più di un milione di persone che non sono riuscite ad avere le
razioni necessarie. Sono almeno 33, secondo i palestinesi, le
vittime degli scontri di ieri nella Striscia.
Hamas, che ha condannato l'uccisione della cooperante
turco-americana, ha aggiunto altre condizioni per l'accettazione
della tregua, soprattutto relative al numero di palestinesi da
liberare dalle carceri israeliane.
I SERVIZI SEGRETI DA CHI DIPENDONO ? LOGGIA UNGHERIA : Le
intercettazioni di Striano prima di iniziare a spiare più di mille
tra vip e manager "Ho ricevuto un ordine preciso, vado a comandare
30 persone, posso fare la guerra"
I sospetti sui dossieraggi Crosetto: "Sono i servizi"
Il documento
giuseppe legato
Febbraio 2019. Poco prima di effettuare il primo di più di un
migliaio di accessi abusivi alle banche dati collegate alla Procura
Nazionale antimafia (e cioè a partire dal 23 marzo successivo), il
tenente della guardia di Finanza Pasquale Striano, al centro di
un'articolata inchiesta della procura di Perugia su presunti dossier
contro vip, politici e manager, prometteva di fare una guerra. Non
era riuscito a rimanere in forza alla Dia e scambia messaggi con
ufficiali e sottufficiali del suo corpo di appartenenza. «Macchè, ma
chi torna alla Dia! Ho ricevuto un ordine ben preciso, vado a
dirigere trenta persone. Posso fare una guerra: alla Dia si devono
vergognare che non hanno fatto niente per trattenermi. Per uno come
me dovevano andare dal capo della polizia». Aggiunge: «Il
procuratore (Laudati ndr, co-indagato) è andato dal capo di Stato
Maggiore per me, che onore!». Nei giorni successivi tutto avverrà: e
l'interessamento per Striano di un generale già capo di Stato
Maggiore verrà confermato al procuratore Cantone, titolare
dell'inchiesta, dal capo della procura nazionale antimafia Giovanni
Melillo: «Mi parlò di Striano come ufficiale di polizia giudiziaria
di grande esperienza sulla materia». Fatto sta che il tenente
"spione", dopo un breve transito nello Scico della Finanza (un
gruppo speciale delle fiamme gialle, di eccellenza investigativa)
rientra nella procura nazionale antimafia come coordinatore del
gruppo Sos (Segnalazioni di operazioni sospette) proprio grazie a
Laudati. Di lì, il profluvio di accertamenti illeciti anche sul
ministro Guido Crosetto (effettuati tra il 28 luglio e il 20 ottobre
2022 e dalla cui denuncia è originata l'inchiesta). Ministro che in
realtà lo scorso gennaio chiede, in prima persona, alla procura di
Perugia di essere sentito. Preoccupato di aver letto su un
quotidiano (Il Domani), "informazioni riservate coperte da segreto –
si legge agli atti della richiesta di misura cautelare per Striano e
il magistrato Laudati (difeso dal legale Andrea Castaldo, docente
universitario di diritto penale) rigettata nei giorni scorsi dal gip
di Perugia - in quanto relative alla partecipazione della moglie,
Gaia Saponaro, ad un concorso presso l'Aise che, essendo
un'articolazione del Dis, è una struttura le cui procedure di
reclutamento del personale sono sottoposte ad un rafforzato sistema
di protezione dei dati». Il ministro «ha riferito agli inquirenti
anche di aver rappresentato le proprie perplessità sulla possibile
provenienza dell'informazione dall'interno degli stessi apparati di
sicurezza al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Alfredo Mantovano, e di aver poi direttamente conferito
anche con la Presidente del Consiglio (Meloni). Ha aggiunto, altresi,
di aver – si legge nelle 200 pagine firmate da Cantone - esplicitato
le sue perplessità anche al direttore dell'Aise, il Generale
Caravelli, e di aver chiesto di svolgere accertamenti sul punto
anche alla direttrice del Dis, Ambasciatrice Elisabetta Belloni». I
pm di Perugia sono andati a controllare «e la Presidente del
Consiglio, per il tramite del Sottosegretario, ha informato questo
ufficio di aver svolto i dovuti accertamenti, escludendo il
coinvolgimento degli organismi di intelligence interni».
LA DISPARITA' DEL COSTO ENERGETICO : Bollette, la beffa del
mercato libero I vulnerabili pagano le tariffe più alte
giuliano balestreri
Il paradosso è servito. Gli utenti vulnerabili - circa 3,8 milioni
di persone tra gli over 75 e i percettori di bonus sociali destinati
ai bassi redditi - pagano la bolletta della luce più cara di tutti.
Un effetto previsto dagli esperti e di cui il governo era stato
avvertito, ma che l'esecutivo non è stato in grado di gestire con il
passaggio al libero mercato dell'energia.
Adesso, il pasticcio rischia di trasformarsi in un boomerang oltre
ad alimentare nuove tensioni all'interno della maggioranza: la Lega,
infatti, aveva chiesto prima una proroga della transizione dal 30
giugno al 31 dicembre - ma la richiesta era stata stoppata dal
ministro Raffaele Fitto perché l'addio al mercato tutelato era stato
negoziato con la Ue - e poi votato una risoluzione che permette agli
utenti vulnerabili di passare in qualunque momento dal mercato
tutelato alle tutele graduali.
A metà luglio il presidente della Commissione attività produttive
della Camera, Alberto Gusmeroli, esultava: «Con la risoluzione in
commissione approvata dal Governo, anche i clienti vulnerabili, una
volta varato il decreto attuativo, potranno chiedere di passare al
sistema a tutele graduali. I dati ci dicono poi che 8,4 milioni di
utenze vulnerabili si trovano addirittura nel mercato libero,
esposte quindi a prezzi superiori a causa del teleselling spesso
aggressivo di certi operatori». Il problema è che di quel decreto si
sono già perse le tracce. Anche perché i tecnici devono prima capire
come intervenire senza creare distorsioni di mercato aprendo, di
conseguenza, nuovi fronti con l'Unione europea. D'altra parte
l'addio al mercato tutelato dell'Italia - avviato dal governo Renzi
nel 2014 - è stato tutt'altro che semplice. A complicare
ulteriormente lo scenario hanno contribuito le aste indette per
aggiudicarsi gli utenti non vulnerabili rimasti sul mercato
tutelato: per vincere 4,5 milioni di clienti, i big del mercato si
sono fatti la guerra a colpi di ribassi che ora devono riversare
sugli utenti passati al mercato a tutele graduali. L'Arera calcola
che beneficieranno di un risparmio medio annuo di circa 130 euro,
più del 20% della spesa media di una famiglia tipo (600 euro
l'anno).
Per rendere ancora più intricata la partita, però, l'esecutivo ha
permesso a tutti gli utenti già passati al mercato libero di
rientrare nel mercato tutelato entro lo scorso 30 giugno: una
possibilità accolta da migliaia di famiglie convinte dalla
prospettiva di risparmiare decine di euro. Una possibilità
comunicata con chiarezza anche dall'Arera, ma che è rimasta ignota a
milioni di vulnerabili.
«La scelta di permettere a chiunque di rientrare sul mercato
tutelato per poi essere assegnato alle tutele graduali è un
controsenso» ragiona un manager del settore che poi aggiunge: «Frena
il libero mercato, avvantaggia gli operatori più grandi che possono
permettersi di lavorare in perdita sui clienti retail e penalizza
chi avrebbe avuto davvero bisogno di risparmiare». Di certo, a oggi,
l'addio al mercato tutelato ha penalizzato tutti gli utenti: sul
mercato libero le tariffe sono in alcuni casi più care del 50 per
cento. Motivo per cui, già a marzo, il presidente di Arera, Stefano
Besseghini, ipotizzava la necessità di «interventi ulteriori e
diversi in relazione ai clienti vulnerabili».
GRAZIE A FASSINO E MARCHIONNE CHE SPOSTO UN POLONIA LA PANDA :
In un anno richieste 17 milioni di ore. La Uil: "Nel 2025 gli
ammortizzatori potrebbero finire". L'allarme: "A Mirafiori la
produzione è calata dell'83%"
Torino prima in Italia per cassa integrazione La Fiom: "Si temono
nuovi fermi produttivi "
Paolo Varetto
Gli operai sono tornati a Mirafiori questa settimana. Ma il timore
della Fiom, con il segretario generale di Torino Edi Lazzi, è che la
prossima settimana possa arrivare l'annuncio di un nuovo periodo di
cassa integrazione. «Con il rischio che entro la fine dell'anno
possa superare il numero delle giornate di lavoro effettivo».
Il sintomo di un male ormai endemico, visto che Torino si conferma
la città più cassaintegrata d'Italia in tutti i settori, con 17
milioni di ore e un aumento del 72,4% rispetto ai primi sette mesi
dello scorso anno. «Ma è tutto il Piemonte a registrare dati sempre
più preoccupanti – garantisce il segretario regionale della Uil
Gianni Cortese –, con un monte ore doppio: se nel resto d'Italia
l'aumento delle richieste è stato del 20%, noi siamo al 40%».
Ora le preoccupazioni si spostano sul 2025, quando terminerà il
quinquennio sul quale si calcola il tetto massimo dei 36 mesi degli
ammortizzatori sociali. «E sempre più aziende – anticipa Cortese –
sono ormai al limite. Se dovessero esaurirli, la paura è che si
possa passare ai tagli al personale, e quindi ai licenziamenti».
In questo quadro emerge il caso Mirafiori sollevato ieri mattina
dalla Fiom nel corso della presentazione della sua festa allo
Sporting Dora. «Fino a settembre – ha annunciato Lazzi – nello
stabilimento sono state prodotte 18.500 auto contro le 52 mila dello
stesso periodo 2023, con un calo dell'83%. Se il trend proseguirà
così, il 2024 si chiuderà con 20 mila unità prodotte, numero
lontanissimo dalle 200 mila necessarie per mantenere in vita il sito
produttivo. Fossero anche 100 mila non basterebbero a risolvere le
difficoltà. In queste condizioni a preoccupare è il livello di
scontro sociale, destinato ad aumentare: la gente è stufa».
Situazione confermata anche dal segretario piemontese Fiom, Valter
Vergnano: «Le difficoltà del mercato dell'auto pesano anche
sull'indotto. Gli effetti non si stanno facendo sentire solo a
Torino, ma anche sulle altre province». Resta l'interrogativo di
fondo: che fare? «Portare a Mirafiori nuovi modelli – assicura il
segretario cittadino dei metalmeccanici della Cgil –, auto per il
mercato di massa, che costino poco e possano essere acquistate anche
dalle persone normali». Ma il problema è globale: senza ordini non
c'è produzione e lo dimostrano pure gli annunci di Volkswagen (che
sta valutando di chiudere stabilimenti in Germania) e Toyota che
taglia del 30% l'obiettivo di produzione delle elettriche.
Sullo sfondo deve però esserci una strategia che coinvolga il
governo e Stellantis e che vada oltre i semplici incentivi: «Se
vogliamo andare verso la mobilità elettrica – assicura Lazzi –
allora servono investimenti pubblici e privati per l'infrastrutturazione
del Paese». Ma già nelle scorse settimane Stellantis, rispondendo al
ministro Adolfo Urso, aveva ribadito gli impegni presi, che vedono
il polo produttivo di Torino centrale per la trasformazione in
corso: «Stellantis - aveva fatto sapere il gruppo - rimane
concentrata sull'esecuzione del piano per l'Italia per i prossimi
anni, già comunicato ai partner sindacali, che include progetti
importanti come quello per Mirafiori 2030».
IL DIRITTO DI SBAGLIARE : Le motivazioni del proscioglimento
di Chiamparino, Appendino e Fassino Secondo il tribunale non si
poteva mettere in campo alcuna soluzione
Sindaci e amministratori non punibili per lo smog "Impossibile
impedirlo"
giuseppe legato
In 38 pagine, depositate l'altroieri in Cancelleria, il giudice
Roberto Ruscello ha spiegato perché i titoli di reato contestati dal
pm Gianfranco Colace ad amministratori ed ex amministratori che si
sono succeduti alla guida di Comune e regione dal 2015 al 2019, non
potessero condurre a un processo vero e proprio sull'inquinamento
ambientale colposo che ha colpito la città di Torino. Con questo
titolo di reato erano stati indagati Sergio Chiamparino, Piero
Fassino, Chiara Appendino, Alberto Valmaggia, Enzo La Volta,
Stefania Giannuzzi e Alberto Unia (gli ultimi quattro in qualità di
assessori all'Ambiente). Tutti prosciolti. Perché il fatto non
sussiste. Non c'è responsabilità e nemmeno nesso di causalità tra le
misure adottate (o non adottate) dagli amministratori e
l'innalzamento dei livelli di inquinamento. Tra i quali soltanto il
pm10, – o perlomeno in misura preponderante – ha sforato in maniera
significativa le soglie. Non così è stato per il pm 2, 5, per il
biossido di azoto e per altre 4 sostanze indicate dal legislatore
come inquinanti: «È solo il pm10 – scrive il giudice – che si è
manifestato con una durata tale per comportare un deterioramento
dell'aria in termini penalmente rilevanti». La procura ha anche
contestato che la Regione non si sia attivata, in assenza o in
carenza di misure efficaci da parte dei Comuni utilizzando poteri
sostitutivi: Il giudice chiarisce: «Dal testo della norma non si
ricava alcun obbligo specifico e puntuale in ordine all'impedimento
di eventi di inquinamento a carico di alcun soggetto e, tanto meno,
a carico del presidente della Regione e dell'assessore regionale
all'ambiente». Ma è nella chiosa delle motivazioni che si
rintracciano altre valutazioni: «Vero è, piuttosto, che tutte le
indicazioni ricavabili dagli elementi di natura scientifica
acquisiti agli atti concordano sulla circostanza che l'accumulo di
Pm10 nell'aria della città di Torino sia da attribuire in misura
preponderante alle emissioni generate dal traffico veicolare».
Quindi colpa delle troppe macchine inquinanti. «Ciò comporta che la
principale, se non l'unica, misura che l'amministrazione pubblica
avrebbe dovuto in ipotesi adottare ai fini di impedire il ripetuto
superamento dei valori limite consentiti sarebbe dovuta consistere
nel divieto pressoché assoluto dell'utilizzo di mezzi di trasporto a
combustione e, tuttavia, non può non considerarsi come l'adozione di
simili misure, astrattamente idonee ad impedire l'evento
naturalistico (l'inquinamento), presentano evidenti criticità
rispetto alla tutela di altri interessi altrettanto meritevoli di
attenzione che attengono». Quali? «La libertà di circolazione delle
persone e la tutela dell'occupazione e delle attività economiche che
vengono inevitabilmente pregiudicati dal blocco del traffico
veicolare». Il legale di Fassino Nicola Gianaria commenta: «Le
motivazioni del giudice accolgono sostanzialmente tutte le tesi
difensive e dimostrano come la sede penale non sia quella corretta
per affrontare questi temi». Aggiunge. «Questa inchiesta è stato il
primo e unico esperimento giuridico in Italia, ma non è riuscito».
07.09.24
contestato il centro sportivo
Protesta dei residenti al parco del Meisino "Fermate il cantiere" Sono scesi in strada e si sono frapposti fra i camion con a bordo
gli operai e l'area di cantiere. Così, l'altro ieri, un gruppo di
residenti di Sassi ha bloccato l'avvio dei lavori al parco del
Meisino. Il riferimento è all'intervento pianificato dal Comune per
la realizzazione di un centro sportivo, contestato da un'ampia fetta
della cittadinanza in nome delle peculiarità naturalistiche del
polmone verde. Si è trattato di una protesta soft, che però si è
trascinata per sette ore, monitorata dagli agenti della Digos. Gli
attivisti di «Salviamo il Meisino» hanno presidiato il parco dalle 9
fino alle 16, quando i mezzi di cantiere hanno lasciato l'area.
Gli operai, dal canto loro, non hanno forzato la mano. Si sono
limitati a posare alcuni jersey in cemento sul prato, senza aprire
un vero e proprio cantiere. Si tratta di un déjà-vu di quanto
accaduto lo scorso febbraio in corso Belgio, dove alcune decine di
residenti si erano messi in mezzo tra gli aceri del corso e gli
operai che, motoseghe alla mano, si erano presentati a Vanchiglietta
per tagliarli. Una protesta, quella di allora, poi sfociata in un
ricorso e nel conseguente stop (temporaneo) ai lavori.
Al Meisino, l'altro ieri, non si sono registrati momenti di
tensione: «Ci siamo limitati a dialogare con gli operai» spiega
Bruno Morra, esponente del comitato «Salviamo il Meisino». Ciò non
toglie, aggiunge, che le iniziative di dissenso proseguiranno a
oltranza: «Quando gli operai torneranno lo faremo anche noi –
assicura – Rappresentiamo gli oltre novemila cittadini che hanno
firmato la petizione online contro il progetto».
Il piano d'intervento del Comune, da 11, 5 milioni, partirà dal
recupero dell'ex galoppatoio. Prevede in uno spicchio di parco la
realizzazione di strutture sportive per diverse attività, tra cui
arrampicata, corsa campestre, tiro con l'arco, ciclocross, biathlon
e cricket. Dalla Città assicurano che la protesta dell'altro ieri
non ha rallentato l'avvio dei lavori: il cantiere, come da
programma, sarà aperto nei prossimi giorni.
06.09.24
SONO ANNI CHE SUGGERISCO LE TETTOIE SULLE SCALE MOBILI DELLA
METRO DI TORINO MA IL SINDACO LORUSSO
ABOLIRA' LE SCALE MOBILI SULLA LINEA 2 PERCHE' NON SI
ROMPANO: " Noi penalizzati
dai temporali I disagi ci costano un milione l'anno"
ANDREA JOLY
«Dopo gli ultimi controlli funzionava tutto. I disservizi della
metro di lunedì sono stati causati da un forte temporale nella
notte». In che senso? «Ha causato uno sbalzo di tensione». Serena
Lancione, ad del Gruppo Torinese Trasporti, risponde così agli
attacchi ricevuti per le 32 scale mobili bloccate nel giorno della
grande riapertura della metropolitana. E sottolinea: «Siamo
intervenuti subito». Restano dieci impianti da riparare: 5
rientreranno in funzione entro il 18 settembre.
Lancione, come spiega i continui disagi su scale mobili e ascensori?
«Quello di lunedì è stato un caso straordinario ed estemporaneo,
causato da un forte temporale nella notte che ha causato uno sbalzo
di tensione».
È colpa della pioggia?
«In questo caso sì. E ovviamente ci scusiamo coi cittadini. Da parte
nostra, possiamo intervenire bene e subito ed è quello che abbiamo
fatto lunedì stesso».
Quando non piove, invece, la colpa di chi è?
«Le scale mobili hanno 17 anni e ci sono dei problemi strutturali.
Per far sì che non si ripetano servirebbe coprire quelle esterne
soggette a interperie».
È una proposta nota. Si sta andando in quella direzione, 17 anni
dopo?
«Sono state fatte delle ipotesi. Il tema, qui, è legato alle
risorse, e una richiesta sarà fatta. Serve un investimento
importante ma alla luce delle nostre spese varrebbe la pena farli».
Quanto spendete per gli interventi?
«Fino a un milione di euro l'anno. E abbiamo raddoppiato il budget
per l'appalto alla ditta che deve intervenire sulla manutenzione
ordinaria e straordinaria».
Risorse che potrebbero essere dirottate altrove?
«Sicuramente».
Magari sulla metropolitana aperta ad agosto?
«No, la scelta della chiusura estiva dipende da Infra.To (società di
proprietà della Città che gestisce i lavori sull'infrastruttura,
ndr). In quel caso è un tema di sicurezza».
Perché le altre metro nel mondo non chiudono per un mese?
«Alla luce del prolungamento della Linea 1 è necessario farlo. Ed è
anche il motivo delle chiusure serali anticipate, eccezion fatta per
il venerdì e sabato».
Da domenica a giovedì chiuderà alle 21,30 ancora per molto?
«Dipende dai lavori. Le chiusure aiutano a velocizzare l'arrivo fino
a Cascine Vica».
Si dovrà aspettare fino al 2026, quando vedrà la luce il nuovo
tratto?
«Speriamo prima. La città ha chiesto a Infra.To di fare un programma
di lavoro che possa prevedere nel prossimo futuro il ripristino di
alcune fasce orarie serali, come già capita in occasione dei grandi
eventi come il Salone del Libro, ma senza rallentare l'opera».
Insomma, citofonare Infra.To. Ma Gtt cosa può fare?
«Lavorare in sinergia con la Città e Infra.To. Sulle scale mobili,
poi, entro prossima settimana attiveremo una task force in
collaborazione col Politecnico».
In cosa consisterà?
«Chiediamo aiuto a un docente esperto per indagare a fondo le cause
degli eventi».
Solo questo?
«Lavoreremo insieme. Intanto proseguiamo con gli altri interventi.
Dal punto di vista del personale le selezioni sono aperte, perché
non manchino gli autisti. Abbiamo attivato servizi con WeTaxi e Bird
per creare un'offerta più ampia. A dicembre arrivano i primi 80 dei
225 nuovi bus elettrici che aumenteranno la qualità del servizio».
Ecco: i cittadini lamentano ritardi e disservizi anche sui pullman.
A partire dai sostitutivi della metro. Soluzioni?
«Quest'estate abbiamo potenziato il servizio e i risultati ci hanno
dimostrato di saper reggere una situazione complessa con la metro
chiusa».
Ha visto le code alle fermate?
«Credo siano fisiologiche. Poi certo: possiamo migliorare e
lavoriamo tutti i giorni per farlo. Siamo consapevoli che dovremo
dedicarsi alla regolarità del servizio offerto. Ma servono anche più
risorse: il fondo nazionale per il trasporto pubblico locale è fermo
dal 2012. Il costo delle materie prime no».
Per questo visto i disservizi non si può abbassare il biglietto
della metro?
«Guardi che abbiamo ritoccato solo il costo della corsa semplice,
non quello degli abbonamenti».
Lo sa che Forza Italia chiede le dimissioni dell'assessora comunale
ai trasporti Chiara Foglietta?
«Per me è la persona giusta. Il lavoro con l'assessora funziona, è
l'interlocutrice ideale. Ha un approccio critico, ma costruttivo».
IA FLOP:
econdo Gartner, almeno
il 30% dei progetti di IA generativa (GenAI)
sarà abbandonato dopo la POC (proof of concept) entro la fine del
2025. Le cause più comuni dei fallimenti dell’IA sono
scarsa qualità dei dati, dell’inadeguatezza dei controlli sui
rischi, dell’aumento dei costi o della scarsa chiarezza del valore
aziendale.
“Dopo
il clamore dello scorso anno, i manager sono impazienti di vedere i
ritorni degli investimenti in GenAI”, spiega Rita
Sallam, Distinguished VP Analyst di Gartner. “Ma
le organizzazioni stanno facendo fatica a dimostrare e realizzare il
valore. Man mano che la portata dei progetti IA si allarga,
l’onere finanziario dello sviluppo e dell’implementazione di modelli
GenAI si fa sempre più sentire”.
Secondo Gartner, una delle principali sfide per le organizzazioni
consiste nel
giustificare gli ingenti investimenti in GenAI per il miglioramento
della produttività, che può essere difficile da tradurre
direttamente in benefici finanziari. Molte organizzazioni stanno
sfruttando la GenAI per trasformare i propri modelli di business e
creare nuove opportunità commerciali. Tuttavia, questi
approcci di implementazione comportano costi significativi, che
vanno da 5 a 20 milioni di dollari.
“Purtroppo non esiste una taglia unica per GenAI e i
costi non sono prevedibili come quelli di altre tecnologie”, aggiunge
Sallam. “La
spesa, i casi d’uso in cui si investe e gli approcci di
implementazione adottati determinano i costi. Sia che si tratti di
un’azienda che vuole rivoluzionare il mercato e infondere l’IA
ovunque, sia che ci si concentri in modo più conservativo
sull’aumento della produttività o sull’estensione dei processi
esistenti, ognuno
di questi aspetti ha diversi livelli di costo, rischio, variabilità
e impatto strategico”.
Indipendentemente dalle ambizioni dell’intelligenza artificiale, la
ricerca Gartner indica che l’IA
richiede una maggiore tolleranza per i criteri di investimento
finanziario indiretto e futuro rispetto al ritorno
immediato sugli investimenti (ROI). Si sa che i CFO non amano
investire sulla base di ritorni incerti sia nei tempi che nelle
dimensioni. Questo chiaramente favorisce i progetti IA più orientati
verso risultati tattici che strategici.
Costi sostenuti in diversi approcci di implementazione della
GenAI
Realizzare il valore aziendale dei progetti IA
I primi che hanno adottato soluzioni IA in tutti i settori e
processi aziendali riportano una serie di miglioramenti aziendali
che variano a seconda del caso d’uso, del tipo di lavoro e del
livello di competenza del lavoratore. Secondo una recente indagine
di Gartner, gli intervistati hanno registrato in media un
aumento dei ricavi del 15,8%, un risparmio sui costi del 15,2% e un
miglioramento della produttività del 22,6%. L’indagine,
condotta tra settembre e novembre 2023 su un campione di 822
dirigenti d’azienda, ha evidenziato che le soluzioni di business
sono state utilizzate in modo mirato.
“Questi dati costituiscono un prezioso punto di riferimento per
valutare il valore aziendale derivante dall’innovazione del modello
di business GenAI”, ha dichiarato Sallam. “Ma
è importante riconoscere le difficoltà che si incontrano nello
stimare tale valore, poiché i benefici sono molto specifici per
l’azienda, il caso d’uso, il ruolo e la forza lavoro. Spesso
l’impatto può non essere immediatamente evidente e può
concretizzarsi nel tempo. Tuttavia,
questo ritardo non diminuisce i benefici potenziali”.
Secondo Gartner, analizzando il valore aziendale e i costi totali
dell’innovazione del modello di business GenAI, le
organizzazioni possono stabilire il ROI diretto e l’impatto sul
valore futuro. Questo è uno strumento fondamentale per
prendere decisioni di investimento informate sull’innovazione del
modello di business GenAI.
“Se i risultati aziendali soddisfano o superano le aspettative, si
presenta l’opportunità di espandere gli investimenti scalando
l’innovazione e l’utilizzo di GenAI su una base di utenti più ampia
o implementandola in ulteriori divisioni aziendali”, conclude
Sallam. “Tuttavia,
se i risultati non sono soddisfacenti, potrebbe
essere necessario esplorare scenari di innovazione alternativi. Queste
informazioni aiutano le aziende ad allocare strategicamente le
risorse e a determinare il percorso più efficace da seguire”.
05.09.24
Giallo anche sulle riunioni per il G7 a Pompei: "Sicuri che non ci
siamo scambiati informazioni? "
La verità della manager sulle trasferte "Mai pagato, rimborsava il
ministero " Grazia Longo
Roma
Durante le ultime ore, nelle sue storie su Instagram Maria Rosaria
Boccia, scrive sostanzialmente due cose. La prima: «Io non ho mai
pagato nulla. Mi è sempre stato detto che il ministero rimborsava le
spese dei consiglieri». La seconda, in merito al G7 della cultura a
Pompei: «Davvero non abbiamo mai fatto riunioni operative? Non
abbiamo mai fatto sopralluoghi? Non ci siamo mai scambiati
informazioni?» alludendo chiaramente al fatto che le riunioni ci
sono state, eccome. In entrambi casi il ministro della cultura
Gennaro Sangiuliano nega le circostanze. Ma non è il solo. A
proposito della programmazione del G7, anche il sindaco di Pompei,
Carmine Lo Sapio, in linea con il ministro, ribadisce che l'influencer
e imprenditrice di moda non è mai stata coinvolta per l'importante
meeting internazionale. Eppure è stato smentito da un suo post su
Facebook che dimostra esattamente il contrario.
Ieri, infatti, gli abbiamo sottoposto alcune foto che lo ritraggono,
insieme a Boccia e Sangiuliano, in Comune il 3 giugno scorso.
Proprio il giorno in cui è stato effettuato il sopralluogo agli
scavi in previsione del G7. «Ci eravamo visti giusto per un caffè».
Possibile, solo un caffè senza parlare del G7? «Proprio così,
abbiamo parlato solo dell'illuminazione notturna degli scavi».
Nessun cenno al G7? «Nessuno». A dir poco scarsa memoria. Ecco
infatti spuntare fuori il post del sindaco su Facebook del 3 giugno
in cui lui scriveva: «G7 a Pompei. Il ministro della cultura Gennaro
Sangiuliano incontra il sindaco Carmine Lo Sapio al Comune per
definire i dettagli dell'organizzazione del G7, che si svolgerà a
Pompei il prossimo 19 settembre. Al termine dell'incontro il sindaco
Lo Sapio ha accompagnato il ministro Sangiuliano da sua eccellenza
l'arcivescovo monsignor Tommaso Caputo». E poi allegate le foto del
gruppo intorno al tavolo, e un selfie, sempre di gruppo, scattato
proprio da Maria Rosaria Boccia, ben evidente in primo piano.
In merito alle spese per finanziare viaggi e hotel, invece, per la
sua presenza a Taormina per assistere al Taobuk Award Gala 2024, lo
scorso 22 giugno, Maria Rosaria Boccia «ha provveduto personalmente
al pagamento del viaggio e dell'albergo». Lo dichiara una fonte
qualificata del festival internazionale che sottolinea che «è tutto
tracciabile».
E per la presenza di Sangiuliano e Boccia al Festival della bellezza
a febbraio alla trasferta a Riva Ligure, il sindaco Giorgio Giuffra
assicura: «Ho pagato io personalmente la trasferta». Poi il ritorno
della coppia a Sanremo, a spese del casinò per i Martedì Letterari.
E per le altre trasferte? Chi ha pagato? Maria Rosaria Boccia, due
lauree in Economia di cui una telematica, racconta la verità quando
dice che era rimborsata dal ministero della Cultura? Nella biografia
di Instagram si definisce come presidente della Fashion Week Milano
Moda, malgrado la diffida della Camera della Moda del capoluogo
lombardo ad usare quel marchio. Di sicuro è una donna dai vari
interessi alla ricerca di nuove esperienze. Secondo l'opposizione
consiliare di Pompei si deve proprio a lei la scelta degli scavi
come sede del G7. «È grazie alla sua mediazione che si è rafforzato
il rapporto tra il sindaco Lo Sapio e Sangiuliano. Non a caso
quest'ultimo il 23 luglio ha ricevuto anche la chiave d'oro della
città per un costo di 14 mila euro». Ma il sindaco replica: «Queste
sono assolute fantasie. È folle pensare e insinuare che ci sia stato
da parte della signora Boccia o di qualcun altro una minima
collaborazione a questa iniziativa di Pompei. La chiave d'oro, poi,
l'avevo data anche all'ex ministro Franceschini il 20 maggio 2021».
Aziende in crisi per il caro-bollette Pagano il 50% in più della
media Ue
Alessandro Fontana Direttore del Csc
Alberto Clò Economista
Davide Tabarelli Presidente Nomisma Energia
LUIGI GRASSIA
Dice l'Istat che fra giugno e luglio il costo delle bollette di luce
e gas in Italia è aumentato del 6,7%, e questo ha comportato, con
altri effetti negativi, anche un rialzo dei prezzi alla produzione
dell'industria dell'1,3% su base mensile; non poco, in una fase di
inflazione (per altri versi) calante. Confindustria calcola fra il
40% e il 50% la spesa media extra delle aziende italiane per
l'energia rispetto alle concorrenti europee. La segretaria del Pd,
Elly Schlein, attacca: «In Italia abbiamo il prezzo dell'energia più
alto d'Europa. In Germania si pagano 82 euro per megaWatt/ora, in
Spagna 91, in Francia 54, nei Paesi scandinavi 15, in Italia 128.
Davanti a tutto questo il governo non fa nulla, anzi ha cancellato
il regime di mercato tutelato e a rimetterci sono i cittadini». Che
in Italia l'energia costi di più, e che questo danneggi le imprese
rispetto alla concorrenza internazionale (oltre a impoverire le
famiglie) è un fatto atavico, ma al netto della polemica politica,
il governo sta dando una mano a mitigare il problema o lo sta
peggiorando?
Prima ancora: come mai c'è stata questa raffica di rincari
dell'energia in un'estate che sembrava di relativa bonaccia, dopo le
fiammate del recente passato? Alessandro Fontana, direttore del
Centro studi Confindustria, dice a La Stampa che «la tendenza al
rincaro del gas, che poi si è riflessa sull'energia elettrica, ha
cominciato a manifestarsi da febbraio, con la ripresa dei consumi di
metano, e in agosto si è accentuata con l'incursione ucraina in
Russia». Anche Alberto Clò, economista e direttore della Rivista
Energia, sottolinea i fattori geopolitici: «L'attacco a Kursk ha
colpito infrastrutture energetiche strategiche», e Davide Tabarelli,
presidente di Nomisma Energia, aggiunge: «A far salire i prezzi del
gas è anche la fine, attesa per dicembre, delle esportazioni di
metano dalla Russia all'Europa, per la scadenza dei contratti. La
quota residua di export ormai è piccola, ma difficile da sostituire,
e questo rende più costosa la ricostituzione delle scorte invernali.
Poi la speculazione finanziaria amplifica l'effetto sul prezzo del
gas».
Da parte di Confindustria, spiega Fontana, la prima richiesta al
governo in tema di energia riguarda «mettere un po' più di risorse,
in occasione della legge di bilancio, sui diritti di emissione Ets
delle aziende: l'Ue consente agli Stati di rimborsarne una quota
alle aziende, ma l'Italia finora ha concesso molto meno di quanto
potrebbe, limitando la competitività delle nostre imprese. Nel medio
periodo occorre battersi per un diverso mix energetico e far tornare
in Italia la produzione da fonte nucleare».
Per quanto riguarda invece la richiesta al governo, avanzata da più
parti, di ripristinare i vari bonus energia, Andrea Giuricin,
economista dell'Istituto Bruno Leoni, dice che «avevano senso al
culmine della crisi energetica, ma oggi non più»; e sulla
fiscalizzazione delle voci accessorie in bolletta, altra iniziativa
spesso invocata, Tabarelli osserva che «in due anni ha scaricato sul
debito pubblico 70 miliardi di euro, e con il ripristino dei vincoli
europei di bilancio questo non si può più fare».
Alberto Clò sottolinea che «nell'estate 2024 il grande caldo e il
maggiore uso dei condizionatori hanno comportato un aumento dei
consumi energetici dell'8%»; l'economista aggiunge un fattore poco
citato: «Per la scarsa ventosità c'è stato un tonfo del 48% della
produzione di energia eolica. L'energia mancante ha dovuto essere
sostituita con una richiesta extra di gas, che è rincarato anche per
tale motivo».
Daniele Nicolai, dell'Ufficio studi di Cgia, sottolinea che «le
piccole imprese, per loro natura, sono quelle più a corto di
liquidità e le più esposte ai rincari dell'energia»; ma la polemica
monta anche attorno al prezzo del gas per il cliente "vulnerabile"
sul mercato tutelato, che (in base alla nuove regole) viene
calcolato a posteriori: l'Arera, cioè l'Autorità dell'energia, fa
sapere che per agosto è del 6% superiore a quello di luglio.
L'associazione di consumatori Codacons avverte che «in autunno la
situazione peggiorerà» e Assoutenti valuta che per i clienti
vulnerabili «la spesa per il metano segnerà un +25 per cento
rispetto al 2023». —
04.09.24
CANTONE NON VUOLE CAPIRE CHE HANNO AGITO PER CONTO DEI SERVIZI
SEGRETI : Manager e
politici spiati dal "finanziere infedele" Altri mille accessi
sospetti
giuseppe legato
grazia longo
Sono circa un migliaio gli accessi potenzialmente abusivi – in
aggiunta a quelli già contestati – individuati dalla procura di
Perugia a carico del tenente della Finanza Pasquale Striano, in
forza alla Dna all'epoca dei fatti contestati, finito al centro di
un'inchiesta su manager e politici "spiati". E che non fossero
soltanto quelli già emersi lo si è capito ieri mattina da
un'articolata nota inviata dal procuratore di Perugia Raffaele
Cantone, che coordina le indagini «ancora aperte e nelle more delle
quali – ha scritto – sono emersi ulteriori episodi». La nota di
Cantone, che intanto ha presentato ricorso al tribunale del Riesame
per ottenere la misura cautelare a carico dei principali indagati,
nasce dopo il rigetto da parte del gip alla richiesta di arresti
domiciliari per Striano e per il suo co-indagato, l'ex magistrato
della Dna Antonio Laudati, l'uomo che avrebbe coordinato le attività
sulle Sos (segnalazioni di operazioni sospette).
Il giudice, pur condividendo l'impianto accusatorio, ha dissentito
sulle esigenze di disporre i domiciliari che nel caso di Striano
sono aggravati dalla possibile reiterazione del reato in aggiunta
all'inquinamento delle prove («soprattutto alla luce delle
articolate relazioni che lo stesso ha dimostrato di avere e che gli
potevano consentire, anche tramite soggetti terzi, la commissione di
ulteriori reati»). Lo ha deciso sostenendo che – nei fatti – che
alcune delle singole contestazioni mosse agli indagati non erano più
coperte da segreto dal «momento che l'esito delle indagini è stato
disvelato con l'invito a presentarsi o con decreti di
perquisizione».
Ed è qui che le distanze tra Cantone e il giudice sono diventate
molto più larghe della fisiologica divergenza giuridica. Il capo dei
pm di Perugia sottolinea come «contestiamo fra l'altro,
l'affermazione del Giudice secondo cui gli indagati avrebbero avuto
"in tutto o in parte" accesso agli atti processuali. Al contrario,
ad oggi, nessuna discovery degli atti vi era mai stata». Parole
chiare e posizioni nette che però, alla vigilia della valutazione
che dovrà fare a breve il Collegio, sono suonate come "stonate" al
legale Andrea Castaldo, difensore di Laudati che bolla la nota del
procuratore come «inusuale per tempi e contenuti». Il ricorso per
ottenere i domiciliari «si fonda sul paventato pericolo di
inquinamento probatorio derivante da non meglio precisati ulteriori
atti di indagine».
Dall'ordinanza di diniego del gip si apprende come Laudati avrebbe
saputo, da una dipendente della procura nazionale antimafia, «di un
incontro tra la Pna e le Dda di Roma e Perugia». Ancora insiste agli
atti della richiesta di arresto «una conversazione tra Laudati e il
magistrato Alberto Cisterna già pm antimafia nel corso della quale
Laudati esplicita la sua convinzione sulla genesi dell'inchiesta».
Per Cantone è dunque «a rischio la genuinità del compendio
probatorio». Per il legale dell'ex magistrato si tratta di «un
legittimo esercizio del diritto di difesa».
L'AVEVO PREVISTO NEL 2008 MA MI HANNO
SBEFFEGGIATO : MULLER E DIES : II colosso tedesco fa saltare
la garanzia del lavoro per circa 110 mila dipendenti. I sindacati:
un attacco all'occupazione
Volkswagen, fabbriche verso la chiusura Maxi-tagli per la crisi
delle auto elettriche
claudia luise
Da un lato «difficoltà del mercato sempre più forti» con l'ingresso
di nuovi concorrenti dalla Cina. Dall'altro una rivoluzione verso
l'elettrico che stenta a decollare. Il gruppo Volkswagen ha
annunciato che non esclude la chiusura di stabilimenti e
licenziamenti in Germania nel quadro di un programma di riduzione
dei costi del principale marchio del gruppo. Un piano di austerità
che prevede lo stop alla cosiddetta "garanzia del lavoro" per circa
110.000 dipendenti in Germania: un accordo di lunga data con i
lavoratori del Paese europeo che escludeva i licenziamenti non
concordati fino alla fine del 2029. L'accordo è in vigore dal 1994.
Nel mirino del management in particolare una delle grandi fabbriche
tedesche e uno stabilimento di componentistica giudicati «obsoleti»
per i piani del gruppo. Si tratterebbe della prima chiusura di un
impianto tedesco negli 87 anni di storia Volkswagen. La casa
automobilistica ha dichiarato che i dirigenti ritengono che il
marchio debba essere ristrutturato in modo completo e che gli
attuali sforzi per ridurre la forza lavoro attraverso modelli di
pensionamento anticipato e incentivi a uscite volontarie non saranno
sufficienti a raggiungere gli obiettivi di riduzione.
«L'ambiente economico è diventato ancora più duro e nuovi attori
stanno investendo in Europa», spiega l'amministratore delegato di
Volkswagen Group, Oliver Blume. «La Germania come sede aziendale sta
restando ulteriormente indietro in termini di competitività»,
aggiunge Blume. Da qui la conferma del gruppo: «Nella situazione
attuale, non si può escludere la chiusura degli impianti di
produzione di veicoli e componenti se non si interviene
rapidamente». I leader sindacali hanno dichiarato che
intraprenderanno una battaglia senza quartiere contro i piani.
Daniela Cavallo, a capo del Consiglio di fabbrica Volkswagen, ha
definito i piani un «attacco all'occupazione e ai contratti
collettivi» aggiungendo che «questo mette in discussione la stessa
Volkswagen e quindi il cuore del gruppo. Ci difenderemo
strenuamente».
Il marchio di punta del gruppo è da anni alle prese con costi
elevati e in termini di redditività è molto indietro rispetto ad
altri brand del gruppo come Skoda, Seat e Audi. Un programma di
riduzione dei costi lanciato nel 2023 avrebbe dovuto cambiare la
situazione e migliorare i profitti di 10 miliardi di euro entro il
2026. Tuttavia, l'attuale debolezza delle nuove attività ha
ulteriormente aggravato la situazione. Anche perché Volkswagen è
impegnata in uno dei più ambiziosi piani di investimento
nell'elettrico con investimenti per il quinquennio 2025-2029 per 170
miliardi di euro. Quindi, per migliorare ulteriormente i profitti, i
costi dovranno essere ridotti più del previsto e si parla di altri 4
miliardi di sforbiciata.
Cinica la reazione dei mercati. Il titolo ha avuto un andamento
positivo in Borsa a Francoforte e il titolo della casa tedesca sale
del 2% a 103 euro, dopo un massimo di seduta a quota 104,4.
A pieno regime saranno 1120 i posti nel centro per il trattenimento
dei migranti. Nell'hot spot sulla costa saranno 300 Il sindacato
Uilpa della polizia penitenziaria: "In Italia un sorvegliante ogni 3
detenuti lì l'esatto contrario, è paradossale" Così su La Stampa
Un milione al mese per gli agenti
Le spese folli dietro al Cpr albanese
irene famà
roma
Tutti in corsa per l'Albania. Dove prestare servizio nei nuovi Cpr
comporta un aumento in busta paga, un centinaio di euro in più al
giorno per agenti penitenziari, poliziotti, carabinieri, finanzieri.
Più vitto, alloggio, rientro a casa. E i calcoli, per quanto
riguarda vita e spostamenti di chi parteciperà all'operazione, sono
presto fatti. Trecento unità, spiega chi è ben informato. Per un
costo che si aggira intorno ai 30mila euro al giorno. Novecentomila
euro al mese. Solo per quanto riguarda gli indennizzi di
trasferimento. Il resto delle voci? Ancora da quantificare. Perché
ogni area e ogni attività sono cosa a sé.
Gli agenti della polizia penitenziaria saranno perlopiù destinati in
un carcere a Gjader, piccolo paese a nord dell'Albania. Lì verrà
recluso chi creerà problemi al Centro di permanenza per il
rimpatrio. Si tratterà di un penitenziario maschile con ventiquattro
brandine. Quarantacinque i posti disponibili per gli agenti, oltre
tremila le domande presentate. L'incarico è vantaggioso: 130 euro in
più al giorno, un servizio previsto dai quattro ai sei mesi a
seconda del grado con la possibilità di rientrare in Italia una
volta al mese con spese a carico dell'amministrazione.
Queste le cifre e le regole d'ingaggio. Almeno sulla carta. Perché
le perplessità sono numerose. «È tutto un paradosso», tuona il
segretario generale Uilpa penitenziaria Gennarino De Fazio. Inizia
dai numeri. «Una volta si tendeva a chiudere le carceri sotto i
cento posti perché antieconomiche. Ora se ne costruisce una molto
piccola, con un rapporto agenti – detenuti decisamente
sproporzionato. Se in Italia c'è un poliziotto ogni tre reclusi,
circa 25mila per oltre 61mila persone, lì ce ne saranno tre per ogni
detenuto». E ancora. «La spesa? Sarà esorbitante. In un momento di
emergenza per le carceri italiane». Al momento, in Albania, sono
arrivati solo quattro agenti della polizia penitenziaria. D'altronde
il carcere, che avrebbe dovuto essere pronto a giugno, poi ad
agosto, poi a settembre, ancora non c'è. Si attende il primo lotto,
dicono. Poi si penserà alle partenze. Ed ecco le altre perplessità.
Le riassume bene Aldo Di Giacomo, segretario generale Spp, sindacato
polizia penitenziaria. «Chi lavora con i detenuti, sa che un errore
di comunicazione può creare problemi seri. Eppure nessuno di noi è
stato formato sul come porsi con queste persone. Ad iniziare dal
fattore linguistico». Di Giacomo prosegue. «Un corso, ad esempio
sarebbe stato utile. Così come sapere quali regolamenti faranno fede
sul territorio. Invece ci si è soffermati solo sugli atteggiamenti
da tenere in pubblico, senza considerare il duro lavoro con i
detenuti».
Gjader, un centinaio di abitanti e una manciata di case, ex base
militare durante la Guerra Fredda, ora si trova al centro
dell'accordo tra il governo italiano e quello albanese. Un paese
chiave per il primo centro di detenzione per migranti italiano
costruito in terra straniera.
C'è il penitenziario. E il Cpr vero e proprio con 1120 posti per il
trattenimento. Guai, in questo caso, a chiamarlo carcere. «Chi è al
Cpr non è detenuto», si ripete da sempre. Però da lì non si può
uscire. E ci sono i container, le recinzioni, i muri. Le forze
dell'ordine a controllare con numeri ingenti. A Gjader e a Shengjin,
ventuno chilometri più in là. Quel paese sul mare, che raccoglie
numerose recensioni su Tripadvisor non tutte entusiastiche, è la
prima tappa per i migranti che sognavano l'Italia e si trovano
confinati in Albania. Lì c'è l'hot spot per trecento persone. Lì,
come si legge in una delle ultime circolari del Ministero
dell'Interno, ci si occupa delle «procedure d'ingresso. Con attività
connesse alla gestione delle operazioni di sbarco,
pre-identificazione, registrazione della domanda di protezione
internazionale». A Gjader, poi, «gli accertamenti» per capire chi
potrà raggiungere l'Italia e chi invece dovrà essere rimpatriato.
Ogni area sarà presidiata dalle forze dell'ordine con un
«contingente interforze». Trenta i carabinieri scelti tra la Prima
Brigata Mobile, centosettantasei i poliziotti, di cui settanta del
reparto mobile e gli altri tra squadre mobili, Digos, polizia
scientifica, ufficio immigrazione, uffici tecnico-logistici
provinciali delle Questure. «Il periodo d'impiego sarà di un mese,
salvo casi eccezionali». Cento euro al giorno in più sullo
stipendio, vitto e alloggio «saranno a carico dell'amministrazione»
e la «Direzione centrale individuerà, mese per mese, le aliquote di
personale da impiegare e gli uffici territoriali da cui il personale
sarà tratto».
Chi andrà in Albania, sottolinea chi conosce il progetto, lo farà su
base volontaria. Chi ha già lavorato nei diversi Cpr d'Italia
mormora preoccupato: «E quando i volontari non si troveranno più? »
Altre perplessità. —
Odissea metropolitana pier francesco caracciolo
Uno sbalzo di corrente, che ha sovraccaricato gli impianti,
mandandoli in tilt. Gtt, spiega così i disservizi che ieri mattina,
nel giorno della ripartenza dopo un mese di stop, hanno riguardato
la metropolitana. Alle 5,30, quando i convogli sotterranei hanno
ripreso a viaggiare, all'interno delle stazioni si contavano
trentadue scale mobili ferme e due ascensori bloccati. Trentaquattro
impianti fuori uso, dunque, molti di più di quanti non funzionavano
il 3 agosto scorso, giorno dello stop del servizio.
Risultato: una pioggia di proteste da parte dei passeggeri. In
particolare di quelli con disabilità, con bagagli pesanti o problemi
di deambulazione, in difficoltà nello scendere verso i binari o
risalire in superficie.
«Imbarazzante che dopo un mese di fermo la metropolitana riparta con
questi gravi disservizi» tuona Federica Fulco, del comitato Torino
in Movimento. «Non male per una città che si vanta di esser
turistica» ironizza sui social Patrizia Farina. «Una vergogna» la
definisce invece Paolo Franci. «Ho appena scoperto che la scala
mobile in piazza Bengasi è ancora ferma: da più di un anno
aspettiamo che venga riparata» si sfoga sui social Antonio Lanzano.
Situazione particolarmente critica all'interno di due delle fermate
tra le più utilizzate: quella a Porta Nuova (fermi due scale e un
ascensore) e quella di Porta Susa-XVIII Dicembre (fuori uso due
scale). Ma problemi si sono registrati anche alle stazioni Vinzaglio,
Monte Grappa, Nizza, Racconigi, Spezia, Paradiso.
Il guasto elettrico ha bloccato ventisette delle trentadue scale
mobili ferme (e nessun ascensore). Nei giorni scorsi, durante gli
ultimi test pre-riattivazione del servizio, gli impianti
funzionavano regolarmente. Gtt ipotizza che lo sbalzo di tensione
sia legato ai lavori realizzati nell'ultimo mese quando la
metropolitana era ferma. Per queste ventisette scale mobili si è
trattato di un guasto risolvibile solo manualmente. Ecco perché
ieri, per tutta la giornata, i tecnici Gtt sono stati impegnati nel
far ripartire gli impianti. In serata le scale mobili rimesse in
moto erano ventidue. Le ultime cinque ancora fuori uso saranno
riattivate oggi in mattina.
Come detto, però, non tutte le scale mobili ferme ieri si sono
bloccate a causa dello sbalzo di tensione. Cinque sono ferme per
problemi tecnici che si trascinano da settimane, in alcuni casi da
mesi. Si trovano alle stazioni Massaua, Marche, Bengasi, Porta Nuova
e XVIII Dicembre. Gtt assicura che si tratta di guai che saranno
riparati nel giro di qualche giorno. I due ascensori bloccati si
trovano invece a Porta Nuova e Racconigi. Anche in questi casi,
assicura Gtt, le manutenzioni avverranno a stretto giro.
La linea 1 della metro era ferma dal 3 agosto su disposizione di Gtt.
Obiettivo: consentire a InfraTo (la partecipata che gestisce le
infrastrutture sotterranee) di realizzare un doppio intervento di
manutenzione lungo i tunnel. Ovvero interventi sul sistema di
comunicazione in galleria – che passerà da analogico a digitale – e
di posa dei binari all'altezza di Collegno, serviranno nel 2026, al
momento dell'entrata in funzione delle 4 stazioni in via di
costruzione dopo il capolinea Ovest di Fermi.
La ripartenza della metropolitana avvenuta ieri non decreta però
l'avvio di un'attività a pieno regime. Fino al completamento delle
opere già iniziate funzionerà a orari ridotti. Per cinque giorni a
settimana - dalla domenica al giovedì - il servizio chiuderà alle 22
(dopo quell'ora i tragitti saranno garantiti da bus sostitutivi).
Chiude invece all'1,30 il venerdì e il sabato.
03.09.24
FINALMENTE UN GIUDICE INTELLIGENTE :
Il Tribunale del Riesame : "Questo
è un ammonimento: non si attivi per posti in enti o imprese
utilizzando i suoi amici"
Il giudice a Gallo, il ras delle tessere Pd "Basta favori o può
finire ai domiciliari "
giuseppe legato
Dieci mesi di interdittiva con divieto di esercitare uffici
direttivi, anche di fatto, in seno ad associazioni e imprese.
Nessuna possibilità si svolgere pubblico ufficio o servizio di non
natura non elettiva popolare, anche per interposta persona, in seno
a qualsiasi ente pubblico o privato. «Perché insistono rischi di
possibili reiterazioni di reati». Le modalità dei fatti contestati
«impongono di inibire a Gallo per un periodo di tempo prossimo al
massimo ogni attività come è occorso quando ha instaurato relazioni
improprie con primari ospedalieri volta a influire sulla vita di
enti pubblici e privati». Con «ammonimento». E cioè: «Che anche solo
l'attivarsi per occupare posti strategici in enti e imprese
pubbliche e private tramite l'interposizione "di amici nostri" può
avere rilevanza in termini di aggravamento di esigenze cautelari».
Ergo: potrebbe essere disposta per lui la misura degli arresti
domiciliari.
I giudici del Riesame Gianluca Capecchi e Luca Leandro Ferrero
motivano in 50 pagine circa il perché a Salvatore Gallo, ex uomo
forte del Pd torinese travolto – mediaticamente e non solo –
dall'inchiesta della Dda di Torino Echidna, andava in qualche modo
fermato. Limitato nel suo metodo quantomeno clientelare (a fini
elettorali) di gestire risorse di Sitaf, società «dalla quale è
estraneo da almeno 10 anni» ma sulla quale ha continuato ad avere
influenza tanto da gestire finanche diverse tessere autostradali. Si
legge nell'ordinanza del Riesame che «Gallo, pregiudicato per
emblematici falsi ideologici che ebbero notevole risonanza mediatica
non si è sentito stimolato a continuare solo strategie lecite per
ottenere il consenso politico». Infine: «In seno a Idea-To
(l'associazione politica da lui fondata) e Sitalfa è emerso il
pericolo di come Gallo eserciti la propria influenza in modo
illecito». Come? «Secondo quanto emerso anche in sede di
perquisizioni – scrivono i giudici – vi è stato un pericoloso do ut
des oggetto di peculato». Seguono sfilza di medici, primari e
docenti universitari che hanno beneficiato della tessera
autostradale gratis per raggiungere Bardonecchia percorrendo la A32,
un'autostrada in cui parte dei cantieri in regime di subappalto –
così è emerso dalle indagini dei carabinieri del Ros di Torino -
erano appannaggio di famiglie di ‘ndrangheta: tra queste la famiglia
Agresta di Volpiano, i Pasqua legati alle potenti enclave mafiose di
San Luca). Il Collegio del Riesame ha fatto dunque sue le parole
utilizzate dal pm Valerio Longi in sede di ricorso nel quale di
Gallo viene «stigmatizzato il ruolo di sicura rilevanza in
quell'area grigia tra attività economiche e politica che egli ben
conosce e nella quale recita ancora un ruolo di primissimo piano
benchè sia – da anni – privo di cariche formali nell'ambito di
imprese nelle quali, ciononostante, continua ad avere voce in
capitolo». In che modo? «Fornendo indicazioni cogenti sulle scelte
da adottare, sulle persone da assumere, sui benefit da erogare per
non dimenticare il perdurante potere di condizionamento in occasione
di ogni competizione elettorale».
Nel corpo della pronuncia i togati analizzano anche la situazione
dell'imprenditore Gian Carlo Bellavia, per il quale hanno accolto il
ricorso sul concorso esterno in associazione mafiosa, contestazione
in prima battuta non condivisa dal gip che ha firmato gli arresti
ormai quattro mesi fa. Sono passati in rassegna i suoi rapporti con
la famiglia Agresta per tramite di persone a loro vicine e legate
alla famiglia Violi ai quali – insieme ai Greco affiliati a una
‘ndrina del Crotonese – ha «consentito di accedere ai propri appalti
mediante le rispettive imprese subappaltatrici».
In definitiva: «Bellavia ha consentito per anni a mafiosi accertati
e/o presunti inserire le proprie imprese – sovente intestate a
prestanomi nelle commesse ottenute nei settori della manutenzione
stradale e dell'edilizia soprattutto per carpenteria e guardiania)
grazie alle società dei Fantini (Sitalfa e Cogefa)». Di più:
«Utilizzando tali imprese come schermi interposti di altri soggetti
pure appartenenti a sodalizi mafiosi dando luogo a fatturazioni per
prestazioni fittizie». Ciò si è tradotto «in una permeabilità di
Bellavia a costanti infiltrazioni mafiose proseguite nonostante le
plurime ondate di arresti subiti dai sodali dei clan». Inquieta
dell'uomo d'affari «la fiducia che ha carpito negli anni presso
alcuni dei più potenti committenti del territorio nel settore edile
che ancora ad oggi intrattenevano rapporti con lui (Mattioda,
Fantini)». Ergo: «per lui non basterebbe una misura meno afflittiva
degli arresti domiciliari».
IL SOLITO BLUFF PER DARE SOLDI PUBBLICI AI PRIVATI: doppia gara con
lombardia e puglia: saranno attivate sul territorio in Case e
Ospedali di Comunità, ambulatori medici, RSA
La Regione scommette sulla telemedicina 8 mila postazioni nuove per
le cure a distanza
alessandro mondo
È il tentativo più ambizioso, in termini economici ed organizzativi,
di mettere a sistema un supporto importante per la Sanità pubblica,
finora utilizzato in modo frammentario e comunque al di sotto delle
sue reali possibilità. Parliamo di assistenza domiciliare integrata,
legata a precisi parametri previsti dal Ministero per ogni regione,
e di telemedicina, quest'ultima importante per diversi motivi: per
contribuire a ridurre i divari geografici e territoriali, per
garantire una migliore "esperienza di cura" per gli assistiti, per
migliorare l'efficienza dei sistemi sanitari regionali tramite la
promozione dell'assistenza domiciliare e di protocolli di
monitoraggio da remoto.
I fatti si sostanziano in due gare. La Regione ha aderito a quella
della Regione Capofila Lombardia per l'acquisto di tutti i moduli di
telemedicina: televisita, teleassistenza, teleconsulto,
telemonitoraggio livello uno e due (pacemaker e defibrillatori
impiantabili), nonché dell'Infrastruttura Regionale di telemedicina
(Irt). La piattaforma Irt comprende un'ampia serie di strumenti e
funzionalità estesa, oltre all'erogazione dei servizi di
telemedicina, anche in ambiti quali l'Intelligenza Artificiale, la
gestione del rischio clinico, la configurabilità avanzata (schemi di
refertazione, elenchi di asset e risorse, un pannello di controllo
per il monitoraggio di indicatori e report statistici). La seconda
gara, invece, vede come capofila la Regione Puglia e prevede
l'acquisto di 7.522 postazioni di telemedicina con la relativa
logistica. Si tratta dell'allestimento delle postazioni per la
fornitura dei servizi all'interno di case di comunità, ospedali di
comunità, ambulatori dei medici, Rsa e strutture domiciliari.
Per dare gambe al progetto lo scorso maggio la Regione aveva
approvato una delibera di giunta che ripartisce ad Azienda Zero,
diretta da Adriano Leli, 38 milioni di fondi Pnrr per il progetto:
23 milioni per il software e 15 per le postazioni di lavoro. Una
risposta al progressivo invecchiamento della popolazione, una
declinazione dell'assistenza territoriale, specialmente nei
distretti poco serviti come quelli montani e delle valli,
un'occasione per migliorare le prestazioni e ridurre le liste
d'attesa.
Una fonte di risparmio per il servizio sanitario pubblico, anche,
nella misura in cui riduce l'accesso ai pronto soccorso. Tutto
questo, a patto di superare limiti segnalati dal nostro giornale già
nel 2020. In primis, l'eccesso di software, parcellizzati tra gli
ospedali e sovente incapaci di dialogare. Ora si fa sul serio,
almeno si spera.
02.09.24
ELON MASK AUTODISTRUZIONE PER DROGA:
Da ieri X non cinguetta più in Brasile. Un nuovo Paese si aggiunge
alla lista di quelli che proibiscono il social media di Elon Musk.
Gli operatori di internet e telefonia mobile hanno accolto la
decisione del ministro della Corte Suprema (Stf) Alexandre de Moraes,
chi non lo fa rischia multe salatissime e la revoca della licenza.
Proibita anche la scappatoia via Vpn, il tunnel virtuale attraverso
il quale un utente può navigare come se fosse geolocalizzato in un
altro Paese. Se ti beccano scatta una multa di 50.000 reais - quasi
9.000 euro - e una denuncia penale.
È l'epilogo di un lungo braccio di ferro, una querelle più politica
che giudiziaria, iniziata subito dopo l'assalto ai palazzi del
potere di Brasilia nel gennaio del 2023, quando gli attivisti più
estremi dell'ex presidente Bolsonaro tentarono un colpo di mano per
rovesciare la vittoria del progressista Lula da Silva. La Corte
Suprema ha indagato gli account social dei facinorosi ma anche
quelli di giornalisti, politici e intellettuali che in qualche modo
avessero incitato alla ribellione, considerandoli come i mandanti
intellettuali di quell'azione. Da lì è scattata la richiesta di
sospensione: Meta, che controlla Facebook, Instagram e Whatsapp ha
"obbedito", quelli di X, invece, hanno fatto orecchie da mercante.
Moraes ha puntato il dito contro Musk, che a sua volta lo ha bollato
di despota e nemico delle libertà d'espressione. La politica si è
divisa: la sinistra con il giudice, tutta la destra, da Bolsonaro in
poi, col patron di Tesla. Quando la multa accumulata da X è salita
fino a tre milioni di euro, Musk ha chiuso gli uffici brasiliani.
«Salviamo i nostri collaboratori - ha spiegato - ma non abbiate
paura; la nostra voce non sarà silenziata». De Moraes gli ha chiesto
di nominare un rappresentante legale e ha pure bloccato i conti
correnti di Starlink, la società che fornisce internet satellitare e
che in pochi mesi ha conquistato una fetta grande quanto lo 0,4% del
mercato brasiliano. Decisione, questa, criticata persino dai
militari già che quei satelliti servono oggi per comunicare in zone
rurali e in Amazzonia. La chiusura, a questo punto, potrebbe durare
a lungo. «Uno pseudo giudice - ha detto Musk - che non è stato
eletto da nessuno vuole uccidere la libertà d'espressione». Per la
Costituzione brasiliana, i giudici della Corte Suprema sono scelti a
dito dai presidenti di turno, un massimo di tre alla volta. De
Moraes, ad esempio, fu nominato da Michel Temer nel 2017. Il
presidente Lula ha appoggiato la Corte. «Chi si crede di essere
questo signore (Musk), solo perché ha tanti soldi pensa che può
agire fuori dalla legge ? Non siamo una repubblica delle banane!».
Per Musk la sospensione è un duro colpo, visto che il Brasile è il
sesto mercato mondiale di X, con 22 milioni di utenti (fonte
Statista). Da Brasilia fanno notare che recentemente il milionario
si è piegato alle regole dettate dall'India e dalla Turchia, il
terzo e settimo mercato di X. E molti si chiedono perché abbia
voluto spingersi fino a tanto proprio in Brasile. La ragione,
probabilmente, è tutta politica.
Musk da tempo si è eretto ad alfiere e voce libera e spregiudicata
della destra delle Americhe. Fa campagna apertamente per Donald
Trump, ha ricevuto due volte negli States l'argentino Javier Milei,
è molto legato a Jair Bolsonaro e ai suoi figli, è intervenuto
recentemente contro la rielezione di Nicolas Maduro in Venezuela. A
differenza dei social Meta, la rete di X / Twitter è diventata il
terreno libero di cospirazionisti e terrapiattisti, antiabortisi e
antigender. Una terra di nessuno gestita da un padrone chiaramente
schierato a destra, che volentieri dà una mano ai suoi amici di
turno.
In Brasile a inizio ottobre si vota per eleggere i sindaci in tutte
le città. X è stata fino ad adesso una delle piattaforme preferite
del mondo conservatore. A livello globale, però, il cerchio si
stringe attorno a Musk e dagli Stati Uniti fanno sapere che il
magnate potrebbe limitare i viaggi all'estero per evitare di fare la
fine del fondatore di Telegram Pavel Durov, arrestato in Francia.
I leoni del free speech devono stare attenti a dove vanno a finire.
Il mondo reale è sempre più pieno di insidie.
Aimaro Isola
L'architetto ex ragazzo partigiano "Abbiamo rispettato il paesaggio
ma i boschi verticali non esistono"
Contro i grattacieli
"
La Borsa di Torino
La Bottega di Erasmo
"Talponia" per la Olivetti
L'enciclopedia di Diderot e D'Alembert è lì, nell'angolo in fondo,
rilegata in bianco pergamena: «È la mia preferita, Voltaire è uno
dei miei riferimenti». Tempi duri per i laici, gli integralismi
imperversano in ogni religione: «Ma noi nuovi illuministi
resisteremo». È curioso sentir pronunciare questa frase nella
biblioteca che fu il quartier generale dei partigiani del Pci del
comandante Barbato, Pompeo Colaianni. Per il barone Aimaro Isola,
uno dei più noti architetti italiani, il castello è la sua casa di
famiglia: «Io ero un ragazzo. Avevo sedici anni. Ma mi piaceva
sentire le discussioni tra i partigiani. C'erano i comunisti come
Barbato ma c'erano quelli come Felice Burdino e Raimondo Luraghi che
non lo erano. Burdino era un uomo atletico, di azione, uno che
conosceva la montagna. Un giorno entrò in questa biblioteca, guardò
in alto e stupì tutti dicendo: "Vedete, quella è una rara edizione
delle Operette morali di Leopardi". Allora capimmo che era uno
addestrato a combattere ma soprattutto un intellettuale». Su che
cosa si accapigliavano in quelle discussioni? «Su quel che si
sarebbe dovuto fare dopo la fine della guerra».
Il castello di Bagnolo, antica roccaforte militare all'incrocio tra
le valli del Pellice e del Po, è da quasi mille anni la residenza
dei Malingri, feudatari degli Acaja. La madre di Aimaro, la contessa
Caterina Malingri, sposò il barone Vittorio Oreglia Isola: «La mia
era una famiglia di letterati, politici, artisti e militari»,
racconta Aimaro, oggi lucidissimo 96enne. Fa un certo effetto
immaginare Pompeo Colajanni che discute della rivoluzione bolscevica
sotto lo sguardo severo del conte Coriolano Malingri di Bagnolo,
senatore del regno di Sardegna e primo traduttore integrale dal
greco delle commedie di Aristofane. «Questi ritratti ne hanno viste
e sentite di tutti i colori. Quando arrivavano i tedeschi e i
fascisti a fare il rastrellamento noi partigiani ci nascondevamo
dove si poteva. Un giorno Plinio Pinna Pintor saltò il muro e finì
nella ghiacciaia. Per molti anni, ogni volta che veniva a trovarmi,
voleva che lo portassi a vedere la fossa del ghiaccio».
Anche Aimaro, come gli antenati che erano generali, studiosi,
politici, avrebbe voluto seguire le tradizioni di famiglia: «Ho
sempre montato a cavallo, fin da ragazzo, ho smesso non molti anni
fa. Pensavo che avrei percorso la carriera militare in cavalleria.
Poi ho incontrato una chiromante». Proprio così, come nei film: «Mi
ha afferrato la mano e ha detto: "Per te vedo un futuro a metà
strada tra il disegno e la matematica". La presi per matta ma alla
fine aveva ragione lei: che cos'è in fondo il mestiere
dell'architetto? ».
All'università incontra il socio di una vita, Roberto Gabetti: «I
nostri padri erano amici di gioventù. Il mio mi spingeva a
frequentare Roberto, io, ovviamente, mi tenevo alla larga. Volevo
fare di testa mia. Poi un giorno ci troviamo fianco a fianco a
ritrarre una modella: allora si faceva il disegno dal vero.
Cominciammo una discussione e dalla sede della facoltà, al castello
del Valentino, finimmo passeggiando fino in centro». Sodalizio
fortunato: «Appena laureati vincemmo il concorso per progettare la
sede della nuova Borsa valori di Torino ". Un edificio che sorge nel
cuore della città, in via San Francesco da Paola, sul luogo dove
allora c'era il laboratorio di una pasticceria torinese, la Daturi e
Motta: «Facendo i sopralluoghi al cantiere si sentiva ancora l'odore
di panettone. Avevamo concepito il progetto come una innovazione che
però si inseriva e rispettava il tessuto urbano. Non ci piaceva
l'idea, allora molto diffusa, di un'architettura moderna che facesse
a pugni con il paesaggio, che rompesse con l'esistente. Utilizzammo
lo stesso criterio pochi anni dopo realizzando, sempre nel centro di
Torino, la Bottega di Erasmo, esaltando i materiali della tradizione
artigiana». Una rivoluzione all'inizio degli anni Sessanta: «Diciamo
pure una provocazione. Era il periodo dei metri cubi, il boom dei
grattacieli, del vetro, dell'acciaio e del cemento. I nostri lavori
erano all'opposto di tutto questo, contro l'idea di un'architettura
come segno violento che spezza l'esistente». Quale fu la reazione?
«Il processo da parte degli architetti modernisti. Venimmo convocati
a una riunione. Ci dissero che i nostri progetti erano contro tutti
i principi della Modernità. Due dei più aspri nella critica furono
Manfredo Tafuri e l'inglese Banham. Tafuri, anni dopo, venne a
chiederci scusa, si ravvide, lo disse e lo scrisse». La provocazione
dà gusto e non di rado entusiasmo: «L'avevamo imparata
all'università dove negli anni Sessanta avevamo organizzato la
rivolta degli assistenti contro i vecchi metodi accademici». Un
barone contro i baroni.
Oggi i principi di Aimaro Gabetti e Roberto Isola sono seguiti dalla
maggioranza degli architetti. Certo allora erano dirompenti.
«L'Italia degli anni Sessanta credeva, come noi, che l'amianto fosse
un isolante meraviglioso. Una volta alla settimana andavamo a Casale
Monferrato a studiare i nuovi materiali da utilizzare nei nostri
cantieri. Ma qualcosa di buono si fece anche allora se, ad esempio,
una parte degli arredi interni della Borsa di Torino oggi sono
esposti al Moma di New York». Al di là del giudizio dei colleghi,
che animava le discussioni accademiche, era quello dei committenti
che contava. E non era facile andare controcorrente. Liti,
incomprensioni? «Liti no. Qualche momento di stupore sì. La Olivetti
aveva necessità di creare a Ivrea una residenza per quei dipendenti
che rimanevano temporaneamente in città. L'idea originaria era
quella di costruire un grattacielo che permettesse ai residenti di
vedere dall'alto gli uffici e la fabbrica. Ci presentammo con una
proposta praticamente opposta: un grande edificio circolare ipogeo,
che si integrava perfettamente nella collina di fronte alla sede
Olivetti. Quasi non si vedeva. Mi ricordo lo stupore e il silenzio:
si passavano i fogli del progetto guardandosi negli occhi senza dire
una parola. Poi l'idea venne approvata. Gli abitanti di Ivrea
chiamarono quella struttura Talponia. Io ne ero molto orgoglioso: fu
l'inizio di una tendenza di attenzione al paesaggio ed ad un nuovo
rapporto tra architettura e natura. Una sera, ci eravamo appena
conosciuti, ci portai Consolata, la mia futura moglie. Purtroppo
c'era la nebbia e non lo potè vedere. Ma ci sposammo lo stesso».
Eppure non sempre l'architettura dirompente è brutta. I francesi
hanno avuto il coraggio di piazzare una piramide di vetro nei
giardini del Louvre. Renzo Piano ha fatto atterrare l'astronave del
Beaubourg a poche centinaia di metri da Notre Dame, avendo il
coraggio di mettere in mostra tutto lo scheletro della struttura.
Non approva? «Beh certo, la piramide del Louvre, Beaubourg, tutte
opere fondamentali, importantissime. Ma quanti altri Beaubourg sono
stati fatti? Nessuno, perché i costi di manutenzione sono alti. E
poi se la natura ci ha creato nascondendoci lo scheletro, ci sarà un
motivo no? ». C'è forse una soluzione: i grattacieli colmi di verde.
«Ah il bosco verticale. Ma i boschi non sono verticali. È una
soluzione innaturale». Insomma lei ce l'ha con i grattacieli:
«Starei molto attento. Hanno costi di gestione alti. Spesso
diventano grattacapi realizzati per coccolare l'orgoglio di
qualcuno». Però offrono una vista spettacolare sulla città: «Se
voglio guardare la città dall'alto mi affaccio quando sto per
atterrare». Quando l'architettura è coraggio, innovazione? «Io credo
che si debba costruire per la vita, per le persone, non per avere un
posto nei libri. I veri innovatori, In Italia, sono stati i Nervi, i
Morandi. Ho lavorato con loro. Loro si che hanno avuto coraggio».
Morandi è inevitabilmente legato alla tragedia di Genova:
«Scommettere sul cemento armato si può fare a patto che ci sia una
manutenzione costante. Tutte le volte che ultimamente passavo sopra
quel ponte l'asfalto faceva le montagne russe. È l'effetto fluage: i
cavi di tensione con il tempo mollano». Che tipo era Morandi? «Un
grande. Me lo figuravo come un costruttore di acquedotti dell'antica
Roma». E Nervi? «Partecipammo anche noi alla gara per costruire il
palazzo del Lavoro di Italia'61 a Torino. Vinse lui con un progetto
di grande eleganza. Oggi il mio studio (con mio figlio Saverio) sta
ristrutturando il palazzo che Nervi realizzò a Torino Esposizioni».
Si è fatto tardi. È venuta l'ora di pranzo, bisogna lasciare la
biblioteca. Ricompare Consolata, la moglie di Aimaro, vera anima
della vita dell'architetto e delle molteplici attività,
dall'agriturismo all'organizzazione di eventi, che si svolgono nelle
cascine ristrutturate ai piedi del castello. In fondo al parco c'è
il laboratorio di scultura di Hilario, figlio di Aimaro e artista di
livello internazionale. Il laboratorio funziona con l'energia
prodotta dal vecchio mulino recuperato. Consolata accompagna gli
ospiti con gentilezza. È lei che tiene i contatti con il mondo. Nel
suo logo di whatsapp c'è uno stemma e la scritta "Virtus fortuna
favente", il coraggio con il favore della fortuna": «È lo stemma
della mia famiglia. Mio padre mi chiamò Consolata per un voto fatto
durante una battaglia aerea in Africa». Ma questa è un'altra storia.
—
01.09.24
Il gioco dei ladri del Terzo valico materiali sbagliati, tutto da
rifare GIAMPIERO CARBONE
NOVI LIGURE
Le "ombre" sul Terzo valico dei Giovi ora non riguardano più
soltanto i tempi di conclusione dei lavori. C'è dell'altro: uno
spreco di risorse pubbliche per un'opera ferroviaria ormai
costosissima - oltre 7 miliardi per 53 chilometri - che si trascina
dal 2012, tra Genova e Tortona. A Novi Ligure (Alessandria) c'è una
distesa di conci stoccati in un'area dismessa. Migliaia di blocchi
in cemento armato. Dovevano servire per realizzare i 27 chilometri
di galleria sotto l'Appennino, tra Liguria e Piemonte, invece da
settimane decine di Tir ogni giorno li trasportano a decine di
chilometri, a Rocca Grimalda e Castellazzo Bormida, perché vengano
demoliti.
La realizzazione del doppio tunnel sta incontrando evidenti
difficoltà, non solo per la presenza di amianto e gas: in
particolare dal 2022, tra Arquata Scrivia e Voltaggio, lo scavo
verso sud è stato bloccato a causa della conformazione delle rocce,
talmente friabili da impedire alle due talpe meccaniche, enormi
macchinari lunghi fino a 100 metri, di procedere. Dopo vari
tentativi nel 2023 Cociv - il consorzio Cociv guidato da Webuild che
ha l'appalto per la maxi opera - ha sventolato bandiera bianca: le
talpe sono state messe da parte e smontate con costi mai resi
pubblici e da allora lo scavo procede a colpi di martellone. I conci
servivano a costruire la volta della galleria ed erano posati in
automatico dalle talpe; invece ora si va avanti con gettate di
cemento. L'appalto per la costruzione dei conci è costato 30 milioni
ed era stato affidato nel 2018 alla Società prefabbricati per
infrastrutture (Spi) di Cremona, che li ha prodotti in provincia di
Alessandria, a Castelletto Monferrato e Carrosio. Da lì venivano
trasferiti nel cantiere di Radimero, ad Arquata Scrivia, finché sono
serviti ma l'azienda lombarda fa sapere che la commessa è stata
comunque conclusa a luglio del 2023, quando le talpe erano già "in
panne" ormai da tempo. Proprio per questo Spi ha dovuto stoccarli a
Novi Ligure in attesa di sapere cosa fare. In cinque anni, l'azienda
lombarda ha prodotto 2.500 "anelli", composti da 8 conci ciascuno.
Circa 1.200 sono stati utilizzati per le gallerie e 1.300 messi a
deposito, 200 nei cantieri e 1.100 a Novi Ligure. «Attualmente –
spiegano da Cremona – a Novi sono ancora stoccati 850 "anelli".
L'area dovrebbe essere liberata entro ottobre». Rfi, società delle
Ferrovie committente del Terzo valico per conto dello Stato, spiega:
«Come noto lo scavo delle gallerie di Valico con l'utilizzo delle
due frese non ha potuto proseguire, a causa dei noti problemi
geologici, e le talpe si sono dovute fermare».
I blocchi di cemento vanno al macero perché non servono più. Nemmeno
in altri cantieri dove si è provato a "piazzarli", perché le
caratteristiche della roccia da scavare e delle frese utilizzate
sono incompatibili. E dunque non resta che polverizzarli. Rfi nulla
rivela sul costo di questa attività di smaltimento dei conci ma è
noto che il costo di costruzione di ciascun blocco - filtra dal
Cociv - si aggira sui 6-7 mila euro. Quelli da smaltire, secondo i
promotori del Terzo valico, sarebbero un migliaio, dato che si
scontra con i dati forniti dalla Spi. Parliamo comunque di almeno
una decina di milioni persi.
L'obiettivo di Cociv è ricavare cemento da rivendere sul mercato per
limitare il danno alle casse pubbliche, già molto generose per il
Terzo valico, visto che il limite di spesa fissato nel 2010 in 6,5
miliardi è stato ampiamente superato. Lo scorso anno il governo ha
assegnato altri 700 milioni per fronteggiare "l'emergenza
geologica", vale a dire proprio lo stop alle talpe meccaniche sotto
l'Appennino e le relative conseguenze, compreso evidentemente lo
smaltimento dei conci.
«Dagli anni ‘90 al 2012 – spiega Mario Bavastro di Legambiente -
Cociv ha eseguito una miriade di sondaggi geognostici sull'Appennino
proprio per comprendere la situazione dal punto di vista geologico
in vista dello scavo del tunnel. Ora ci tocca vedere i conci mandati
allo smaltimento con ulteriori costi per le casse pubbliche». Rfi ha
giustificato il problema geologico con la profondità della montagna
in quel tratto. Di recente un altro intoppo: cantieri fermi a causa
della presenza del gas grisù. È stato necessario potenziare i
sistemi di aspirazione nelle gallerie per evitare pericoli per gli
operai. Ora l'attività è ripresa.
Un'opera che non sembra conoscere pace, il Terzo valico. Anni fa -
come con la Torino-Lione - il primo governo Conte aveva provato a
fermare l'opera. L'analisi costi-benefici commissionata nel 2018 ad
alcuni studiosi indipendenti aveva dato esito negativo, ma i lavori
erano in fase talmente avanzata che fermarli avrebbe comportato
oneri molto più ingenti. Ora il timore dell'attuale governo è
perdere i fondi del Pnrr assegnati all'opera: la data limite entro
cui chiudere i cantieri è il 2026 ma il commissario Calogero Mauceri
parla già del 2027 assicurando però che l'anno prima verrà attivata
la prima canna. Una scommessa sempre più ardua da vincere.
ESCLUSIONE COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE , COME AZIONISTA ATLANTIA, NEL PROCESSO A CARICO DI CASTELLUCCI
PER IL CROLLO DEL PONTE MORANDI
Diritti degli azionisti
La Direttiva
2007/36/EC stabilisce diritti minimi per gli azionisti delle societa'
quotate in Unione Europea. Tale Direttiva stabilisce all'Articolo 9 il
diritto degli azionisti a porre domande connesse ai punti all'ordine del
giorno dell'assemblea e a ricevere risposte dalle societa' ai quesiti
posti.
Considerando le
difficolta' che spesso si incontrano nel proporre domande e nel ricevere
risposte in tempo utile, in particolare per quanto riguarda gli
azionisti individuali impossibilitati a partecipare alla assemblea, e
considerando che talvolta vi e' poca chiarezza sulle modalita' da
seguire per porre domande alle societa',
Ritiene la
Commissione:
che il diritto
degli azionisti a formulare domande e ricevere risposte sia
adeguatamente garantito all'interno dell'Unione Europea?
che la
possibilita' di porre domande e ottenere risposte solo nel caso
l'azionista sia fisicamente presente nell'assemblea sia compatibile con
la Direttiva 2007/36/EC?
In che modo la Commissione ritiene che le societa' quotate debbano
definire e comunicare le modalita' per porre domande da parte degli
azionisti, in modo da assicurare che tale diritto sia rispettato
appieno? Sergio Cofferati
IL MIO LIBRO "L'USO
DELLA TABELLA MB nei CASI DI PIANI INDUSTRIALI: FIAT,
TELECOMITALIA ED ALTRI..." che doveva essere pubblicato da
LIBRAMI-NOVARA nel 2004, e' ora disponibile liberamente
Tweet to @marcobava
In data 3103.14 nel corso dell'assemblea Fiat il presidente J.Elkann
mi fa fatto allontanare dalla stessa dalla DIGOS impedendomi il voto
eccone la prova:
Sentenze
1)
IL 21.12.12 alle ore 09.00 nel TRIBUNALE TORINO
aula 80 C'E' STATA LA SENTENZA DI ASSOLUZIONE PER LA
QUERELA DELLA FIAT, PER QUANTO DETTO nell'ASSEMBLEA
FIAT 2008 .UN TENTATIVO DI IMBAVAGLIARMI, AL FINE DI VEDERE COME
DIFENDO I MIEI DIRITTI E DI TUTTI GLI AZIONISTI DI MINORANZA
NELLE ASSEMBLEE .
Mb
il 24.11.14 alle ore
1200 si tenuto al TRIBUNALE DI TORINO aula 50 ingresso 19 l'udienza
finale del mio processo d'appello in seguito alla querela di Fiat per
aver detto il 27.03.2008 all'assemblea FIAT che ritengo "Marchionne
un'illusionista temerario e spavaldo" e che "la sicurezza Fiat e'
responsabile della morte di Edoardo Agnelli per omessa vigilanza". In 1°
grado ero stato assolto anche in 2° e nuovamente sia FIAT che PG hanno
impugnato per ricorso in Cassazione che mi ha negato la libertà di
opinione con una sentenza del 14.09.15.
SOTTO POTETE TROVARE LA
DOCUMENTAZIONE
2) il 21
FEBBRAIO 2013 GS-GABETTI sono stati condannati per
agiotaggio informativo.
SENTENZA DELLA CASSAZIONE SULL'ERRORE DEL TRIBUNALE DI TORINO
NELL'ASSOLVERE GABETTI E GRANDE STEVENS
Come parti civili si erano costituite la Consob e due piccoli
azionisti, tra cuiMarco Bava,
noto per il suo attivismo in molte assemblee. "Non so...
SU INTERNET IL LIBRO DI GIGI MONCALVO SULL'OMICIDIO DI
EDOARDO AGNELLI
Edoardo, un Agnelli da dimenticare
Marco Bernardini non ha le prove del suicidio io ho molte prove
dell'omicidio che sono state illustrate in 5 libri di cui l'ultimo e'
l'ultimo di Puppo :
Sarà operativa dal 9
gennaio la nuova piattaforma per la risoluzione alternativa delle
controversie online messa in campo dalla Commissione europea. Gli
organismi di risoluzione alternativa delle controversie (Adr) notificati
dagli Stati membri potranno accreditarsi immediatamente, mentre
consumatori e professionisti potranno accedere alla piattaforma a
partire dal 15 febbraio 2016, all'indirizzo
Torino 1864, la prima stage di
Stato. La strage di Torino del 1864 attraverso i libri. articolo di
Tullio Fazzolari
...
Nei prossimi mesi, in vista del 3 febbraio, c’è da aspettarsi che
verranno ricordati i 160 anni del trasferimento da Torino a Firenze
della
capitale del regno d’Italia.
E anche se fu un fatto transitorio durato appena sei anni resta comunque
una ricorrenza importante per lo sviluppo di Firenze.
Poco o nulla, invece, s’è detto in questi giorni del centosessantesimo
anniversario di quella che è stata definita “la prima strage di Stato”.
Il 21 settembre 1864, appena si seppe che alla loro città veniva tolto
il ruolo di capitale del regno, i torinesi manifestarono il proprio
malcontento.
I carabinieri reagirono subito sparando e la conseguenza furono due
giornate di sangue con più di 50 morti e almeno 150 feriti.
Pochi libri raccontano i tragici eventi di Torino.
Tra questi vanno sicuramente segnalati “La strage impunita.
Torino 1864” di Valerio Monti (Savej, 151 pagine, 15 euro) pubblicato
nel 2014 e il più recente “Torino 1864.
La prima strage senza colpevoli dell’Italia unita” di Enzo Ciconte
(Interlinea, 200 pagine, 14 euro).
Altre pagine da non perdere vanno cercate con un po’ di pazienza nei
volumi dedicati alla storia del capoluogo piemontese.
Per esempio “Torino” a cura di Valerio Castronovo edito da Laterza.
Oppure l’importante saggio di Umberto Levra “Dalla città
“decapitalizzata” alla città del Novecento” pubblicato nel settimo
volume della
“Storia di Torino” di Einaudi.
Tutte le ricostruzioni confermano che la strage del 1864 fu uno degli
eventi più vergognosi dello Stato unitario.
Tanto per cominciare il trasferimento della capitale era stato imposto
nella cosiddetta convenzione di settembre dalla Francia di Napoleone
III.
La scelta di Firenze (dopo aver scartato l’ipotesi di Napoli) doveva
essere il segnale che l’Italia rinunciava a fare di Roma la propria
capitale.
L’accordo non piacque al re Vittorio Emanuele II che dovette subirlo
obtorto collo.
Ma soprattutto non piacque ai torinesi per molte ragioni tra cui anche
l’obbligo di trasferirsi per i dipendenti statali.
La protesta del 21 settembre fu inizialmente pacifica e per molti
aspetti patriottica.
Si gridavano invettive contro il governo Minghetti succube dei francesi
e s’inneggiava a Garibaldi.
Lo slogan ricorrente era “Roma o Torino” a dimostrare che la perdita
della capitale poteva essere accettata se si fosse realizzata l’unità
nazionale.
La violenta reazione dei carabinieri provocò la sommossa del giorno
successivo.
E di nuovo i carabinieri aprirono il fuoco in maniera scomposta
uccidendo persino alcuni soldati che stavano arrivando di rinforzo.
Nessuno verrà punito.
I 58 carabinieri che la magistratura militare aveva rinviato a processo
vennero tutti assolti.
L’inchiesta parlamentare non ebbe conseguenze.
E per chiudere tutto arrivò un’amnistia.
Restano una lapide in piazza San Carlo a ricordo delle vittime e i segni
indelebili dei proiettili sotto il monumento a Emanuele Filiberto.
PERCHÉ NO AL MINISTRO NUCLEARISTA
PICHETTO DI UN GOVERNO IN CADUTA LIBERA :
IL NUCLEARE RAPPRESENTA I
DINOSAURI SOSTENUTI DA CHI VUOLE GUADAGNARE FACILMENTE
CON IL PASSATO.
I numeri dell’Industria italiana delle rinnovabili
Il risultato? Il rapporto IREX 2024 mostra come il comparto
italiano delle rinnovabili non abbia fermato la crescita,
nonostante una serie di difficoltà oggettive, dal peso
dell’inflazione ai rincari dei materiali passando per le
tante complessità autorizzative. Al punto che vengono
riportate 1.180
iniziative progettuali (in aumento del 23% sul
2022,) per una potenza totale cumulata di 50,9
GW e un valore aggregato di 80,1 miliardi di euro.
In termini di investimenti in progetto si tratta di quasi il
doppio del 2022. E per il 96% si tratta di progetti
destinati all’Italia.
La parte del leone la fa l’agrivoltaico con
368 iniziative del valore aggregato di 14 miliardi e una
potenza pianificata cumulata di ben 15,8 GW. Il fotovoltaico tradizionale
rimane in testa per numero di operazioni ma potenza e
investimenti pianificati si attestano sotto
all’agri-fv: 12,6 GW e 10,4 miliardi di euro. L’eolico
a terra con 254 progetti per 14,GW di potenza
totale cumulata, tocca un valore di 19,2 miliardi di euro.
Più bassi ovviamente i numeri dell’eolico
offshore che tuttavia si fa finalmente notare con
12 operazioni per 8,4 GW e 28,1 miliardi di euro. Gli
investimenti complessivi per i sistemi
di accumulo passano da 3,2 a 8,2 miliardi.
“L’Irex
Annual Report 2024mostra
un settore italiano delle rinnovabili che ha continuato a
crescere nonostante le sfide economiche globali”, ha
spiegato l’amministratore delegato Alessandro
Marangoni, a capo del team
di ricerca.
“Tra gli elementi caratterizzanti […] lo sviluppo
dell’eolico offshore che, sulla carta, è la tecnologia
emergente nel 2023 e il crescente interesse per gli
accumuli, con l’affacciarsi di molti player e progetti”.
Marangoni pone l’accento anche sulla riduzione
della taglia media degli impianti rinnovabili,
scesa dagli 48 MW del 2022 a 44 MW nel 2023. Contestualmente
il rapporto evidenzia l’aumento delle operazioni inferiori a
10 MW, il cui peso sale dal 16% al 30% del totale. Sul
fronte specifico dei sistemi di accumulo il 99% degli
impianti è inferiore ai 20 kW, di cui la maggior parte sotto
i 10 kW (91%).
Il costo livellato dell’energia
Il rapporto IREX 2024 mostra per il
2023 un sensibile ridimensionamento dei prezzi elettrici in
Europa. La media si attesta a 96,1 euro il MWh
(meno 54% sul 2022) ma il Belpaese si contraddistingue come
al solito con uno dei valori più elevati: 127,2 euro il MWh.
Sul fronte degli LCOE,
ossia del costo
medio per unità di elettricità generata, il
documento sottolinea un sensibile aumento dei valori
per le fonti rinnovabili. Il LCOE dell’eolico
offshore varia tra 82,1 euro il MWh del Mare del Nord e
121,1 euro il MWh del Mediterraneo; nel fotovoltaico il
valore medio dell’LCOE degli impianti commerciali si attesta
a 107,4 euro il MWh (+9,8% sul 2022), mentre gli impianti di
taglia industriale presentano un costo medio di 77 euro il
MWh (+10,6% sul 2022).
Il report offre anche qualche previsione
di scenario per il 2024 “con
i prezzi delle materie prime per la costruzione degli
impianti eolici che vedranno variazioni differenziate: in
aumento alluminio e rame, in calo i materiali ferrosi,
stabile il cemento per le fondazioni. Gli effetti saranno
una discesa del LCOE più contenuta per l’onshore (nulla o
fino al 5%) e più marcata per l’offshore (-10%/-15%). Per il
fotovoltaico le pressioni sulla componentistica dovrebbero
portare a ulteriori ribassi, con il costo dei moduli in calo
del 10-15%”.
NON SI RISPETTA VOLONTA' DEGLI
ITALIANI ESPRESSA 2 VOLTE.
IL FUTURO E' LA RETE ELETTRICA
DELLE RINNOVABILI CON LA PRODUZIONE DI H2 NEI PICCHI ,
UTILIZZATO NELLE CARENZE.
L’Italia sta investendo 135 mln in R&D su piccoli reattori
modulari e nucleare 4G
La narrativa che circonda la
“rinascita” del nucleare dipinge i piccoli
reattori modulari di ultima generazione come la
soluzione a tutti i problemi dei vecchi reattori. Gli Small
Modular Reactors (SMR) sarebbero meno costosi e sarebbe
possibile costruirli in poco tempo. Candidati ideali,
quindi, per un
ruolo almeno da comprimario nella transizione energetica,
a fianco delle rinnovabili. E sui quali bisogna investire
subito per avere una flotta di SMR adeguata già nel 2030.
La realtà è completamente diversa: i
loro costi lievitano e i ritardi nei tempi di realizzazione
si accumulano come per le vecchie centrali nucleari,
sostiene un
rapporto dell’Institute for Energy Economics and
Financial Analysis (IEEFA) che ha analizzato tutti i
progetti di SMR in cantiere.
Vecchi/nuovi problemi per i piccoli reattori modulari
La base di partenza è ristretta: sono solo 4 gli SMR
operativi o in costruzione oggi in tutto il mondo. A fronte
di circa 80 diversi concetti di piccoli reattori modulari a
diverse fasi di maturità. Oltre ai dati sui 4 mini-reattori
nucleari, l’IEEFA si è basata anche sulle previsioni sui
costi fornite da alcuni dei principali sviluppatori di
questi progetti negli Stati Uniti.
“I risultati dell’analisi mostrano che poco è cambiato
rispetto al nostro lavoro precedente. Gli SMR sono ancora
troppo costosi, troppo lenti da costruire e troppo rischiosi
per svolgere un ruolo significativo nella transizione dai
combustibili fossili nei prossimi 10-15 anni”,
sintetizza il rapporto.
Per i
3 piccoli reattori modulari operativi (2 in Russia e 1 in
Cina) e per l’unico
altro SMR in costruzione (in Argentina), le spese
effettive di costruzione sono state “notevolmente
sottostimate”. Per i reattori russi l’aumento supera il
300%, ma i dati risalgono al 2015 e probabilmente
l’incremento reale è maggiore. Un aumento analogo è quello
registrato per l’SMR cinese. Per il mini-reattore argentino
va anche peggio: rispetto alle stime iniziali del 2013, i
costi previsti erano lievitati del 600% nel 2021. Per altri
SMR solo proposti i costi sono più che raddoppiati, come nel
caso dei mini-reattori di NuScale. Incrementi che avvengono
prima ancora che i progetti ottengano licenze e via libera
formale.
Sui tempi, i lunghi ritardi nella costruzione “sono
stati la norma, non l’eccezione”, sostiene l’IEEFA. Per
i 4 SMR al centro dell’analisi le tempistiche sono
regolarmente almeno triplicate, passando dai 3-4 anni
preventivati ai 12-13 anni effettivi. Tutti ritardi non
troppo distanti da quelli riscontrati anche dai reattori di
più recente generazione, come gli EPR di Okiluoto e
Flamanville (dai 4-5 anni preventivati a 16-18 effettivi).
Parte della retorica sui supposti tempi ridotti di
realizzazione fa leva sulla modularità degli SMR. Ma
l’approccio modulare è stato impiegato anche in altri
reattori precedenti, sottolinea il rapporto, e senza gli
attesi benefici sulle tempistiche.
A marzo conclusa la 1° fase di lavori per preparare il campo
al ritorno del nucleare in Italia
(Rinnovabili.it) – A marzo la Piattaforma
nazionale per il nucleare sostenibile ha finito
“la prima fase di lavori” e si appresta a formulare una
“strategia nazionale” che entrerà nel PNIEC e prepara la
strada al ritorno del nucleare
in Italia. Lo ha
comunicato il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza
Energetica (MASE) Gilberto Pichetto durante il question time
al Senato dell’11 aprile.
La Piattaforma sta quindi rispettando la tabella di marcia annunciata
lo scorso settembre, che prevedeva una ricognizione del
panorama del nucleare a livello nazionale e internazionale.
Un primo giro di orizzonte su cui costruire una “via
italiana” all’atomo.
“Nelle tre fasi successive si procederà con l’elaborazione
di una road map e la definizione di azioni con le relative
risorse per incentivare la possibile ripresa dell’utilizzo
dell’energia nucleare in Italia attraverso le nuove
tecnologie nucleari caratterizzate da elevati standard di
sicurezza e sostenibilità”, ha specificato Pichetto.
In realtà il governo ha già iniziato a stanziare risorse per
il nucleare in Italia. All’atomo sono stati destinati lo
scorso novembre 135
mln euro, il
25% del totale disponibile sotto il capitolo Mission
Innovation. Destinati ad attività di ricerca e
sperimentazione sui piccoli reattori modulari di terza e
quarta generazione nel breve-medio periodo.
I prossimi passi per il ritorno del nucleare in
Italia
Secondo i piani, la Piattaforma dovrebbe produrre entro
aprile un documento che tracci la strada da seguire, che
saranno poi tradotte entro
giugno in linee guida ben definite che individuano
azioni, risorse, investimenti e tempistiche per riaprire la
porta all’atomo.
Questa strategia nazionale “darà
un contributo che sarà contemplato anche nell’aggiornamento
del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima
(PNIEC) e per raggiungere gli obiettivi di
decarbonizzazione”, ha aggiunto il titolare del MASE
rispondendo a un’interrogazione del senatore Zanettin (FI).
Sarà elaborata tenendo conto dei contributi forniti dalle
indagini conoscitive delle commissioni Ambiente di Camera e
Senato e dall’industria nazionale legata alla filiera
dell’atomo.
“La filiera industriale italiana è già fortemente impegnata
a livello internazionale sia nel campo della fissione che in
quello della fusione, in particolare nella produzione di
componentistica richiesta da centrali nucleari estere,
reattori sperimentali e centri di ricerca. Il loro
coinvolgimento risulta fondamentale per far sì che tutta la
filiera che gravita intorno al nucleare sia pronta nel
momento in cui il quadro regolatorio nazionale consentirà la
ripresa di quelle che possono essere le attività e le
relative autorizzazioni”, ha sottolineato Pichetto.
Sono passati undici anni dal referendum indetto per chiedere
il parere degli italiani su un eventuale ritorno al
nucleare; era il mese di giugno del 2011, tre mesi dopo il
disastro di Fukushima. E sono passati ben 35 anni dal
precedente referendum sullo stesso tema delle centrali
nucleari, avvenuto nel 1987, ossia un anno dopo la tragedia
di Chernobyl. In entrambi i casi gli italiani si espressero
in maggioranza contro lo sviluppo del nucleare civile nel
nostro Paese.
Undici anni non sono tanti, ma sono evidentemente
sufficienti per rimuovere dalla coscienza nazionale gli
eventi del passato perché oggi in Italia assistiamo a una
sorta di revival del nucleare; si sta, infatti, diffondendo
molto materiale propagandistico, approfittando dei
comodissimi e ubiquitari social media che permettono con
grande facilità di far circolare idee, giuste o sbagliate
che siano.
In particolare, nel settembre 2022 è apparso su YouTube un
video a cartoni animati di circa 15 minuti dal titolo “Il
nucleare: i dubbi più grossi”, realizzato da un giovane
produttore indipendente. Grazie all’indiscussa abilità del
video maker e a una narrazione tutta giocata su un registro
sardonico e sarcastico, il video ha raccolto in poco tempo
oltre un milione di visite e una pletora di commenti
generalmente entusiasti tra il pubblico, composto in
maggioranza da giovani e giovanissimi.
La trascrizione integrale del parlato a supporto del video
occupa ben sei pagine in formato Word e spazia su
numerosissimi temi: dal funzionamento delle centrali
nucleari alla loro sicurezza, dagli incidenti a questi
impianti agli effetti generati dall’esplosione di una bomba
atomica, dalla sicurezza energetica di una nazione alle
caratteristiche delle fonti rinnovabili e a quelle
dell’industria estrattiva dell’uranio, giusto per citarne
alcuni. L’autore dichiara apertamente di propendere da
sempre per il nucleare e di essersi avvalso di consulenti
chiaramente orientati in questo senso.
Per dare una prima idea di come sia impostato il video,
diciamo subito che racconta i
due gravissimi incidenti sopra citati, Chernobyl e
Fukushima, fornendo diverse spiegazioni sulle cause che li
hanno provocati, ma dimentica del tutto il primo incidente
nucleare grave (grado 5 su scala di 7), che avvenne negli
Usa nel 1979 alla centrale di Three Mile Island, con fusione
parziale del nocciolo e rilascio di radiazioni
nell’ambiente.
L’incidente americano diede impeto al movimento antinucleare
globale che, per esempio, in Italia si oppose per anni,
senza successo, alla costruzione delle centrali, per poi
arrivare alla vittoria con il referendum del 1987. Il
movimento si riaccese a causa dei progetti nuclearisti di
Berlusconi e Scajola (al governo tra il 2001 e il 2006) e,
in particolare, con la decisione di creare in un giacimento
di salgemma nel territorio di Scanzano Jonico il deposito
nazionale dei rifiuti radioattivi (2003). Le manifestazioni
contrarie durarono 15 giorni e la decisione venne ritirata
anche su insistenza dei politici lucani. Tutte cose che il
video non racconta affatto.
All’inizio del video si sente dire che è “molto
facile” costruire e capire come funziona una centrale
nucleare. Questo è il primo messaggio sbagliato perché
l’industria del nucleare non è affatto “molto facile”, anzi
è terribilmente difficile. Siccome si tratta di impianti
intrinsecamente pericolosi e molto complessi, durante la
progettazione, nei controlli preventivi, nella costruzione e
nell’esercizio, vengono esaminati tutti i possibili tipi di
incidenti e vengono previste un’infinità di contromisure per
prevenirli; salvo, poi, dover rifare tutto il ragionamento
ogni volta che si verifica un incidente “imprevisto” (cosa
che successe, ad esempio, dopo Three Mile Island). Questa
complessità aumenta moltissimo tempi e costi, tanto da veder
saltare sempre i budget di previsione e allungare, anche di
decenni, le attivazioni operative degli impianti.
Inoltre, la “semplice” gestione delle centrali non è affatto
banale. Ad esempio, dei 56 reattori francesi, nel corso del
2022 30 sono rimasti fermi: 18 perché sottoposti ad
interventi di manutenzione programmata e 12 per problemi di
“corrosione da stress”; per 16 di loro le autorità francesi
hanno deciso di prolungare il funzionamento oltre i tempi
della quarta revisione periodica dei reattori da 900 MW di
Électricité de France (EDF), decisione molto discutibile
considerato che questi impianti sono stati progettati per 40
anni di attività.
Negli ultimi anni in Francia si sono verificati importanti
problemi in ben quattro centrali: a Civaux, a Cattenom, a
Chooz e infine, solo qualche giorno fa, a Penly, con rischio
classificato al livello 2, appena sotto ciò che si definisce
“incidente grave”, e tale da indurre le autorità a fermare
il reattore.
La débâcle del nucleare francese ha portato la produzione
delle centrali al livello più basso degli ultimi 30 anni. A
risentirne sono stati anche i conti di EDF che ha chiuso il
bilancio 2022 con una perdita di 17,9 miliardi di euro e ciò
nonostante il fatturato sia cresciuto del 70% rispetto
all’anno precedente.
Il Governo francese, dal canto suo, sul finire dello scorso
anno ha lanciato la nazionalizzazione della multiutility con
un esborso stimato in 9,7 miliardi di euro; oggi EDF è per
il 96% di proprietà dello Stato e diverrà interamente
pubblica nel volgere di qualche settimana.
Per non parlare, poi, della dismissione degli impianti
nucleari che è motivo di insostenibilità economica per i
soggetti gestori e fonte di forte preoccupazione per le
autorità e i territori che ospitano gli impianti.
Il video è interamente costellato di sapienti inesattezze.
Per esempio, si lascia intendere che il maremoto del 2011 in
Giappone fosse imprevedibilmente eccezionale e, quindi, “i
danni conseguenti a Fukushima sostanzialmente inevitabili”.
Non è assolutamente così. Viene, infatti, volutamente
ignorato il fatto che la prima centrale nucleare costiera
raggiunta dal maremoto non fu quella di Fukushima, bensì
quella di Okagawa, dove l’impianto, costruito da un’altra
azienda senza badare a spese, resistette sia al terremoto
che allo tsunami, diventando addirittura rifugio per gli
sfollati [1].
Se i proprietari della centrale di Fukushima non avessero
risparmiato sulle protezioni anti-maremoto e i controlli
pubblici giapponesi avessero funzionato bene, il disastro
non sarebbe avvenuto. Questo, che sembra essere un argomento
in favore del nucleare, pone in verità un problema generale
sul nucleare “privato” e sui controlli “pubblici” ed è il
motivo per cui le poche centrali nucleari in costruzione in
Europa sono tipicamente affidate ad aziende statali con
costi impressionanti che gravano solo sulle casse pubbliche.
Per esempio, la centrale nucleare francese di Flamanville,
dopo il fallimento del costruttore Areva, è ora in mano a
EDF che sta realizzando anche la grossa centrale inglese di
Hinkley Point C, insieme al colosso statale nucleare cinese
CNG, con fortissime polemiche sia sull’opportunità politica,
sia sui costi, sia sull’impatto ambientale.
Il nucleare civile, per quante precauzioni si prendano, non
è a prova di inetto o di avido: basta un singolo
malintenzionato o sbadato nella lunga catena di
progettazione, controllo e gestione degli impianti e del
combustibile per mettere a repentaglio la sicurezza
generale. Questo naturalmente è vero anche per altre grandi
imprese energetiche, come ha dimostrato il disastro del
Vajont (1963), che di fatto, conducendo a migliaia di morti,
fermò per sempre la corsa al grande idroelettrico sulle
nostre montagne.
Venendo a punti specifici, abbiamo rilevato nel video un
numero notevole di errori, imprecisioni, notizie distorte e
dati poco attendibili. Di seguito una breve selezione.
Seguendo la successione cronologica, la prima riguarda il
nocciolo che “non
esploderà mai; al massimo si scalda, si dilata e fonde” e
ben si connette con l’altro travisamento “una
centrale non è una bomba e non può esplodere come una bomba”.
I fatti dimostrano esattamente il contrario: il 10 aprile
2003 nella centrale di Paks in Ungheria fu scongiurato il
pericolo di un’esplosione nucleare grazie ad un pronto e non
semplice intervento di raffreddamento di 30 barre di
combustibile del nucleo del reattore. Dunque, se per un
verso non è possibile escludere a priori il rischio di
esplosione del nocciolo, dall’altro occorre riaffermare –
cosa che l’autore del video si guarda bene dal fare – che
l’autodistruzione del reattore è in sé il maggiore dei
pericoli e che può essere innescato, come accadde a
Fukushima, anche da eventi di “ordinaria amministrazione”
quali, ad esempio, la distruzione dell’impianto refrigerante
e/o la mancata alimentazione delle pompe.
Una centrale nucleare, in caso di incidenti, anche se non
esplode è, comunque, una bomba i cui effetti biologici (ad
es., sindrome acuta da radiazioni e aumento dell’incidenza
del cancro), psicologici e sociali sono estremamente gravi e
duraturi, così come dimostrato da studi condotti sia in
Italia (vedi il caso della Centrale del Garigliano) che
all’estero [2].
Inoltre, il rassicurante messaggio contenuto nel video “ci
preoccupiamo di poche scorie stoccate in barili a prova di
bomba che in 70 anni di attività di un paese occupano un
solo capannone”, è fuorviante perché si limita a
considerare l’aspetto quantitativo, senza toccare i risvolti
più critici.
Da un punto di vista del tutto generale, le scorie, tante o
poche che siano, sono un problema non risolto che lasciamo
sulle spalle delle prossime generazioni; come è stato
giustamente sottolineato in un articolo uscito su
Chemical&Engineening News del 5 maggio 2008 “it is at best
irresponsible, at worst a crime, to leave the waste to be
addressed by generations not yet born.”.
Ad esempio, per quanto riguarda l’Italia, trascorsi oltre 30
anni dalla chiusura degli impianti, la questione delle
scorie è tutt’altro che risolta. In Germania la penetrazione
di una soluzione salina nelle caverne sotterranee del
deposito di Asse, dove dal 1967 al 1978 furono portati
125.787 container di scorie radioattive (per il 90%
provenienti da centrali nucleari), ne ha compromesso la
tenuta stagna.
Parimenti critica risulta la situazione delle scorie in
Francia: ad Aube, dei due centri di stoccaggio che ospitano
il 90% dei residui radioattivi prodotti ogni anno in
Francia, uno si sta avvicinando alla saturazione e per
alcuni rifiuti non c’è ancora una soluzione. Inoltre, una
recente inchiesta della rete televisiva Artè ha svelato che
la Francia ha stoccato in Siberia presso il complesso
atomico di Tomsk-7 e in modo totalmente abusivo (a cielo
aperto) il 13% delle sue scorie radioattive.
Inoltre, non viene toccato il problema della dismissione di
una centrale nucleare che di scorie ne lascia tante e di
difficilissima gestione; il sito che ha ospitato una
centrale porta indelebili i suoi segni: enormi silos, in cui
vengono “tombate” le scorie e le parti dell’impianto, che
per ragioni di sicurezza non possono essere toccati per
tempi lunghissimi e di cui, ancora una volta, si dovranno
occupare le future generazioni.
Sempre nel video si minimizzano gli “effetti
di un attacco militare” agli impianti, materializzatosi
nell’agosto scorso a Zaporizhzhia e in settembre a
Pivdennoukrainsk, in Ucraina.
In generale, gli impianti nucleari non sono progettati in
funzione di un possibile danno derivante da un attacco
militare perché, con una visione assolutamente miope, si
considera quale unica fonte di pericolo il danneggiamento
delle strutture che contengono il reattore. È, invece,
facile dimostrare che per provocare un disastro, ad esempio
simile a quello di Fukushima, sarebbe sufficiente
indirizzare l’attacco militare al sistema di raffreddamento
delle vasche che permettono di controllare la temperatura
dei reattori.
Per il caso di Zaporizhzhia, l’Istituto Affari
Internazionali ha formulato lo “Scenario Fukushima”,
richiamando l’attenzione sulleconseguenze dell’interruzione
della refrigerazione del nocciolo e delle piscine del
materiale spento: esplosioni di idrogeno, incendi locali,
esplosioni di vapore acqueo, rottura delle barre di
combustibile fino alla fusione del nocciolo nel corium e
penetrazione del contenitore, con rilascio di materiale
radioattivo.
Inoltre, qualora fosse bombardata l’area di stoccaggio a
secco del combustibile nucleare esaurito, le strutture di
contenimento del combustibile potrebbero danneggiarsi
liberando isotopi radioattivi che andrebbero a contaminare
le zone circostanti l’impianto, rendendo necessarie
contromisure di sanità pubblica per la popolazione locale.
Il direttore generale dell’Agenzia internazionale per
l’energia atomica (AIEA), Rafael Grossi, a proposito dei
ripetuti attacchi missilistici alla centrale ha dichiarato:
“Ogni volta è come se tirassimo i dadi. E se permettiamo che
questo continui, un giorno la nostra fortuna si esaurirà”.
Nel video si tace, ovviamente, sulla “connessione
tra usi civili ed usi militari” del nucleare; è,
invece, noto che i cicli del combustibile e della fissione
nelle applicazioni pacifiche e non pacifiche funzionano
spesso in parallelo; tecnologie e conoscenze sono spesso
adatte ai due usi, soprattutto negli stati con regimi
autocratici. Il caso tipico è quello dell’Iran, con il suo
programma militare clandestino svolto in parallelo a quello
civile, dove la AIEA ha rilevato particelle di uranio
arricchito all’83,7 per cento, non lontano dalla soglia del
90 per cento necessaria per la produzione di un ordigno.
E, comunque, anche in assenza di programmi militari
clandestini, la catena del nucleare a uso civile ben si
presta ad essere utilizzata per applicazioni militari:
questo vale per gli impianti di arricchimento dell’isotopo
fissile dell’uranio (U-235), per i reattori di ricerca e
commerciali, per gli impianti e la tecnologia di
ritrattamento e, infine, per i siti provvisori di stoccaggio
del plutonio, dell’uranio e di altri materiali fissili.
Affermare poi che “Il
nucleare fa paura perché ci appare ancora misterioso, per
questo ci ricordiamo di quei 2 grossi incidenti successi in
70 anni di attività” è puro negazionismo; in realtà
negli ultimi 50 anni si contano numerosi incidenti, tra i
quali almeno 5 gravi: oltre a Chernobyl (1986) e Fukushima
(2011), si devono aggiungere quello già citato all’impianto
di Three Mile Island (1979) e quelli alle centrali nucleari
di Kyshtym (1957) e di Windscale Piles (sempre 1957). Fra
l’altro, è molto probabile che non tutti gli incidenti
nucleari siano stati dichiarati in quanto legati a sviluppo
di programmi militari clandestini.
Inoltre, il nucleare “fa paura” non perché sia oggetto opaco
e misterioso come si dice nel video, ma proprio perché vi è
consapevolezza dei rischi associati all’opzione nucleare. Ad
esempio e giustamente, l’Italia, pur non avendo centrali
funzionanti sul suo territorio, data la presenza di 13
impianti a meno di 200 chilometri dai suoi confini si è
dotata di un Piano Nazionale per la gestione delle emergenze
radiologiche e nucleari; tra gli obiettivi del Piano
figurano la definizione e l’attuazione di “…misure per la
tutela della salute pubblica e delle produzioni, con
particolare riguardo alle misure protettive e alle strategie
di protezione dei cittadini, nonché i controlli delle
filiere produttive e le restrizioni alla commercializzazione
di prodotti agroalimentari”.
Sui “costi
del nucleare” la narrazione proposta nel video
falsifica la realtà, ignorando la conclusione a cui si
perviene dopo aver analizzato le stime dell’Agenzia
Internazionale dell’Energia (IEA): il nucleare non costerà
poco e sarà in grado di reggersi unicamente in virtù di un
robusto sostegno finanziario di fonte governativa. Non
potrebbe essere altrimenti considerati gli ingenti costi di
realizzazione degli impianti, su cui incide il peso degli
oneri finanziari dovuti ai lunghi tempi di costruzione,
stimati ottimisticamente dalla IEA in 10 anni nel Regno
Unito, 9 in India e negli Usa, e 6 in Cina.
Non solo le vecchie ma anche le nuove centrali non risultano
competitive sia rispetto ai costi che ai tempi di
costruzione: Flamanville 3 in Francia avrebbe dovuto avere
un costo di 5 miliardi di euro lievitati a 13,2, secondo
Electricité de France, e a 19 per la Corte dei conti
francese; la costruzione avviata nel 2007 si sarebbe dovuta
concludere dopo molti ritardi nel 2022, ma secondo Alain
Morvan, direttore del progetto, l’impianto verrà caricato
con il combustibile solo nel primo trimestre del 2024. La
Finlandia ha invece terminato la costruzione di Olkiluoto
con un ritardo di 12 anni rispetto ai tempi pianificati e
con costi triplicati.
La sequela di mistificazioni contenute nel video si alimenta
anche del capitolo relativo “all’impronta
carbonica” delle centrali in rapporto all’energia
prodotta, che l’autore, non senza audacia e con tanto di
grafico, proverebbe essere inferiore rispetto a quella delle
fonti rinnovabili.
La quantità di CO2 emessa
dal nucleare deve essere calcolata tenendo conto di tutte le
fasi del ciclo di vita degli impianti – dall’estrazione
dell’uranio fino alla dismissione delle centrali – senza
tralasciare le emissioni legate al trasporto e allo
stoccaggio delle scorie radioattive.
Ciò premesso, secondo i dati forniti dall’Agenzia per
l’ambiente tedesca, il valore delle emissioni generate dal
nucleare risulta elevato: oltre il triplo del fotovoltaico
(33 g/kWh), circa 13 volte quello delle centrali eoliche
(tra i 9 e i 7 g/kWh) e quasi 30 volte quello degli impianti
idroelettrici (4 g/kWh).
Inoltre, secondo lo studio “Differences
in carbon emissions reduction between countries pursuing
renewable electricity versus nuclear power”, pubblicato
il 5 ottobre del 2020 sulla rivista Nature Energy, le
energie rinnovabili sono fino a 7 voltepiù efficaci nel
ridurre le emissioni di carbonio rispetto all’energia
nucleare.
L’ostracismo nei confronti delle rinnovabili trova riscontro
in un altro passaggio del video in cui si afferma che “Questa
filiera, in rapporto all’energia prodotta, genera un
inquinamento e un’emissione di CO2 che
supera pure quella del nucleare, facendoci poi dipendere da
stati come la Cina”.
Delle emissioni di CO2 si
è già detto. Quanto alla debolezza della filiera nazionale
ed europea relativa alle rinnovabili e alla conseguente
dipendenza dalla Cina, il nodo è e resta tutto politico. Nel
suo report “Solar PV Global Supply Chain” pubblicato a
giugno di quest’anno, la IEA afferma che “… Le nazioni
possono migliorare la resilienza investendo per
diversificare la produzione e le importazioni”.
Per quanto concerne l’Italia, il PNRR destina risorse alla
realizzazione/modernizzazione di impianti per la produzione
di moduli fotovoltaici nei siti di Modugno (pannelli
flessibili) e Catania, dove ENEL punta a raggiungere
l’obiettivo di produrre 3000 MW di pannelli al 2024.
In merito alla dipendenza dalla Cina, le attuali tecniche
consentono di riciclare fino al 88-90% del modulo
fotovoltaico, generando circa 17-18 kg di materie prime
seconde per ogni pannello. Ragion per cui è importante
investire su nuove tecnologie che consentano di accrescere
la percentuale di riciclo dei moduli, il conseguente
recupero di silicio da utilizzare per nuove produzioni, nel
rispetto dei dettami dell’economia circolare, e, quindi, di
diminuire la dipendenza dai paesi esteri.
Non altrettanto può dirsi del combustibile che alimenta i
reattori, presente in soli cinque paesi al mondo, tra cui
anche la Russia, con le sue 486.000 tonnellate, pari all’8%
delle riserve mondiali, e il Kazakistan, con 906.800
tonnellate, pari al 15% delle riserve mondiali, e primo
produttore al mondo, ma teatro di dure repressioni del
dissenso interno.
Altro punto dolens del video è quello della presunta “assenza
di infiltrazioni mafiose e malavitose” in un settore a
così alta specializzazione. L’accertato “zampino” della
yakuza, la temibile mafia giapponese, nella gestione della
decontaminazione di Fukushima, e alcuni cablogrammi di
Wikileaks che chiariscono il ruolo delle cosche nella
gestione dei traffici illeciti di rifiuti nucleari in
transito dal Porto di Gioia Tauro, smentiscono la fantasiosa
narrazione dell’autore.
Al capitolo “mafia atomica” appartengono anche alcune delle
pagine più oscure e dolorose del nostro paese: l’esecuzione,
avvenuta a Mogadiscio il 20 marzo del 1994, della
giornalista Ilaria Alpi, rea di aver indagato su un traffico
internazionale di armi e rifiuti tossici radioattivi, e la
morte, avvenuta in circostanze misteriose, dell’ufficiale
della Marina Militare, Natale De Grazia, in servizio presso
la Capitaneria di porto di Reggio Calabria e impegnato in
una delicata indagine sull’affondamento delle navi dei
veleni nei mari della Calabria.
La denigrazione delle rinnovabili prosegue associando
allosviluppo
delle rinnovabili l’incremento del consumo di suolo e
richiamando l’avversione
delle comunità locali nei confronti di “pannelli
fotovoltaici e pale eoliche”.
Anche in questo caso la smentita viene dai “freddi numeri”:
secondo un recente studio condotto in Italia [3] nel 2020,
l’energia solare potrebbe alimentare l’Italia senza
utilizzare ulteriore suolo.
Per raggiungere gli obiettivi del Piano Nazionale Integrato
per l’Energia e il Clima (PNIEC), rivisti alla luce del
Green Deal U.E., si prevede che entro il 2030 il
fotovoltaico debba fornire almeno 100 TWh di energia
elettrica, 4 volte in più rispetto al 2020. Ipotizzando che
questa energia venga generata da impianti solari a terra, si
occuperebbe un’area di poco superiore ai 1.000 km2,
grosso modo pari alla superficie della provincia di Pistoia
e corrispondenti a circa il 5% del consumo di suolo in
Italia, contro una quota del 40% ricoperta da strade e circa
del 30% occupata dagli edifici.
Esistono tuttavia diverse alternative per ridurre
ulteriormente il consumo di suolo: ad esempio, attraverso il
revamping e il repowering degli impianti esistenti,
utilizzando moduli più efficienti (passando dall’attuale
21-22% al 30% entro il 2030, si potrebbero produrre 300 TWh,
doppiando abbondantemente il target del Green Deal) e,
anche, con soluzioni riguardanti l’integrazione del
fotovoltaico sui tetti degli edifici o l’uso del
fotovoltaico galleggiante sull’acqua.
Quanto all’atteggiamento delle amministrazioni e delle
comunità locali nei confronti dell’eolico, è dimostrato che
giocano un ruolo a favore della realizzazione dei progetti
fattori quali una buona pianificazione, il concreto
coinvolgimento dei territori, un’informazione preventiva,
tempestiva e trasparente, il rispetto delle norme che
regolano i permessi, il grado di integrazione dei progetti
con il tessuto economico-sociale locale, ecc. (si veda, ad
esempio, il caso dell’impianto eolico in località Tocco da
Casauria, 3,2 MW, anno 2006).
Di contro, sappiamo per certo che in Italia il culmine
dell’opposizione pubblica a piani energetici è stato
raggiunto solamente in occasione delle due consultazioni
referendarie sullo sviluppo del nucleare civile. La prima
consultazione, nel 1987, si articolò su tre quesiti: il
numero dei votanti fu pari al 65,1% degli aventi diritto e
per tutti e tre i quesiti la maggioranza dei votanti di
espresse contro l’opzione nucleare. Stessa sorte toccò al
nucleare nel 2011: il numero dei votanti fu il 54,79% degli
aventi diritto e il 94,5% dei votanti si espresse per la
seconda volta contro lo sviluppo del nucleare in Italia, a
dispetto di quanti, politici e non, avevano fino ad allora
sostenuto e continuavano ad avere un atteggiamento neutrale
nei confronti di quel settore.
Per giustificare la necessità di installare impianti
nucleari il video continua la sua crociata contro le
rinnovabili accusando
queste fonti di una variabilità intrinseca con la
conseguente impossibilità di stabilizzare il sistema
elettrico. In realtà sono sempre più diffusi e facilmente
reperibili studi tecnico-scientifici che mostrano come sia
possibile sviluppare un sistema elettrico basato sul 100% di
rinnovabili, senza utilizzare fonti fossili e senza
costruire nuove centrali nucleari [4]. Un tale obiettivo è
realizzabile anche in Italia; ad esempio, l’amministratore
delegato di Terna, Stefano Donnarumma, intervistato da
diverse testate giornalistiche (vedi Il Messaggero del
5/10/22), non ha mostrato perplessità per l’imponente
crescita delle rinnovabili sul sistema elettrico da lui
amministrato e Francesco Starace, ingegnere nucleare a capo
di Enel Spa, ha dichiarato la sua totale contrarietà a un
nuovo programma nucleare italiano basato sulle tecnologie
oggi disponibili (vedi intervista a Open del 13/1/22).
Nonostante la recente propaganda distorta e dannosa, i
numeri parlano chiaro: in tutto il mondo le rinnovabili sono
in crescita esplosiva, mentre il nucleare è sostanzialmente
residuale o in fase calante. Allora, i nostri giovani
dovrebbero guardare responsabilmente al loro futuro
affidandosi non a un divertente cartone animato, ma a seri
dati scientifici.
di
Enrico Gagliano, Vittorio Marletto, Margherita Venturi – Energia
per l’Italia
Riferimenti
[1] Andrew Leatherbarrow, Melting
Sun: The History of Nuclear Power in Japan and the Disaster
at Fukushima Daiichi, Nielsen, 2022.
[2] “Special Report: Counting the dead”, Nature, 440,
982, 2006 (doi.org/10.1038/440982a); J.-C. Nénot, “Radiation
accidents over the last 60 years”, Journal
of Radiological Protection, 29, 301, 2009
(doi.10.1088/0952-4746/29/3/R01).
L’aggiornamento del PNIEC dovrà essere consegnato a
Bruxelles a giugno 2024
Il nuovo Piano
Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC)
potrebbe contenere il primo accenno concreto all’impiego
dell’energia
nucleare. Non per il medio termine, ovviamente,
quanto piuttosto per lo sforzo di decarbonizzazione al 2050.
A rivelarlo è il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza
energetica Gilberto
Pichetto Fratin un giorno prima del Vertice
G7 di Torino.
Il numero uno del MASE ha da sempre sostenuto la validità
dell’energia dell’atomo come strumento di decarbonizzazione
energetica, nonostante le chiare difficoltà di riuscire ad
inserire una simile fonte nel contesto nazionale. Ecco
perché nel 2023 il dicastero ha istituito la Piattaforma
Nazionale per un Nucleare Sostenibile (PNNS). Il
network, coordinato dal MASE con il supporto di Enea e RSE,
ha l’obiettivo di definire in tempi certi un percorso
finalizzato alla possibile ripresa dell’utilizzo
dell’energia nucleare in Italia e alla crescita della
filiera industriale nazionale (già attiva nel comparto).
Lo scenario nucleare nel PNIEC italiano
Il passaggio nel PNIEC italiano appare come una mossa, per
alcuni versi, abbastanza prevedibile. Il Piano deve essere
consegnato entro giugno 2024 alla Commissione europea nella
sua versione ufficiale, integrando in teoria tutte le
richieste avanzate da Bruxelles rispetto alla bozza
2023. A partire da nuovi dettagli su come il
Belpaese intenda raggiungere gli obiettivi climatici ed
energetici 2030. Con particolare attenzione alle azioni di
riduzione delle emissioni. Secondo
quanto riporta l’esecutivo UE, infatti, “il
piano fornisce proiezioni di emissioni che dimostrano che
con le politiche e le misure aggiuntive proposte nel
progetto di PNEC aggiornato, l’Italia non è sulla buona
strada per raggiungere il suo obiettivo nazionale di gas
serra di -43,7% nel 2030 rispetto ai livelli del 2005.
Secondo le proiezioni dell’Italia, il target sarebbe
inferiore di 6,7-8,7 punti percentuali”.
Il possibile scenario “nucleare” su cui sta lavorando la
PNNS riguarda però il lungo termine, ossia le politiche dal
230 alla metà del secolo. Spiega il ministro Pichetto “L’aggiornamento
del PNIEC, da trasmettere alla Commissione europea entro
giugno 2024, riporterà anche analisi di scenario contenente
una possibile quota di energia prodotta da fonte nucleare
nel periodo 2030-2050. Tale quota sarà ricavata dai dati,
basandosi su valutazioni comparative rispetto al mix
energetico attuale. Tali analisi sono tutt’ora in corso di
studio da parte di uno specifico Gruppo di lavoro della
Piattaforma”.
Si studiano nuove proposte normative e di governance
Ma per portare il nucleare
in Italia e inserire l’atomo nel mix elettrico nazionale
servirà anche mettere
mano a norme, regolamenti e incentivi per non
parlare delle politiche di governance. E al momento l’Italia
fatica anche a realizzare il deposito nazionale dei rifiuti
radioattivi.
Come muoversi su questo fronte? Il Ministro ha rivelato di
aver dato mandato al giurista Giovanni
Guzzetta, di costituire un gruppo di alto livello
per ridisegnare l’ambito legislativo del sistema regolatore
italiano “per
accogliere un eventuale programma di ripresa della
produzione nucleare in Italia“, con la definizione,
inoltre, di “un
quadro normativo specifico per l’energia da fusione”.
Atto Camera
Mozione 1-00295
presentato da
SQUERI Luca
testo presentato
Mercoledì 12 giugno 2024
modificato
Mercoledì 26 giugno 2024, seduta n. 314
La Camera,
premesso che:
1) nel gennaio 2020 l'Italia ha inviato alla Commissione
europea la versione definitiva del Piano nazionale integrato
per l'energia e il clima 2021-2030 (Pniec), adottato in
attuazione del Regolamento 2018/1999/UE, al termine di un
percorso di consultazione pubblica ed elaborazione avviato
nel dicembre 2018. Tra i principali obiettivi: una
percentuale di energia da fonti energetiche rinnovabili
(FER) nei consumi finali lordi di energia pari al 30 per
cento, la riduzione dei «gas serra», rispetto al 2005, per
tutti i settori non ETS del 33 per cento, il phase out del
carbone dalla generazione elettrica al 2025;
2) nel dicembre 2019, la Commissione europea ha presentato
la comunicazione strategica sul Green Deal europeo volta a
conseguire la neutralità climatica entro il 2050. Tale
traguardo, approvato il 12 dicembre 2019 dal Consiglio
europeo, è stato successivamente sancito dalla legge europea
sul clima (regolamento 2021/1119/UE), che ha introdotto
l'obiettivo, da conseguire entro il 2030, di ridurre le
emissioni di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del
1990;
3) il 14 luglio 2021, la Commissione europea ha presentato
un pacchetto di proposte legislative, denominato Fit for 55
(Pronti per il 55 per cento), volte a rivedere la normativa
dell'Ue in materia di riduzione delle emissioni
climalteranti, per consentire il raggiungimento di questo
nuovo più ambizioso obiettivo al 2030;
4) il 18 maggio 2022 la Commissione europea ha presentato il
Piano REPowerEU (COM(2022) 230 final) con l'obiettivo di
ridurre la dipendenza dell'UE dai combustibili fossili russi
accelerando la transizione e costruendo un sistema
energetico più resiliente. Con il regolamento (UE) 2023/435
del 27 febbraio 2023, è stato consentito agli Stati membri
di inserire appositi capitoli REPowerEU nei Piani per la
ripresa e la resilienza (PNRR). Il 7 agosto 2023 il Governo
italiano ha presentato alla Commissione europea le
conseguenti modifiche al Piano nazionale ripresa resilienza,
accolte dalla Commissione europea, (COM(2023) 765 Def) il 24
novembre 2023 e dal Consiglio europeo l'8 dicembre 2023;
5) il 4 agosto 2022 è entrato in vigore, con decorrenza 1°
gennaio 2023, il regolamento delegato 2022/1214 della
Commissione Ue, che include gas e nucleare dalla lista degli
investimenti considerati sostenibili dal punto di vista
ambientale (cosiddetta tassonomia verde). Dal 1° gennaio
2023 è possibile investire in nuove centrali nucleari
realizzate con le «migliori tecnologie disponibili» e fra
gli investimenti sostenibili le attività di ricerca e
sviluppo per le nuove tecnologie è stato inserito il
nucleare di quarta generazione. Quanto al gas, le centrali
con permesso di costruzione rilasciato entro il 2030,
dovranno sostituire vecchi impianti a combustibili fossili
con altri più efficienti del 55 per cento dal punto di vista
delle emissioni ed essere programmate per passare, dal 2035,
a gas rinnovabile;
6) il 16 maggio 2023 è entrato in vigore il Regolamento (UE)
2023/857 (cosiddetto Regolamento Effort Sharing-ESR) che ha
fissato un obiettivo per l'Italia ancor più ambizioso,
prevedendo che le emissioni di gas a effetto serra degli
Stati membri al 2030 rispetto ai livelli nazionali del 2005
determinate in conformità dell'articolo 4, paragrafo 3 del
regolamento stesso (trasporti, residenziale, terziario,
industria non ricadente nel settore ETS, i rifiuti,
l'agricoltura) si riducano entro il 2030 del 43,7 per cento
rispetto ai livelli del 2005;
7) questo complesso di impegni detta l'inquadramento del
percorso di decarbonizzazione del Paese. Ai sensi
dell'articolo 14 del regolamento (UE) 2018/1999, la proposta
di aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e
clima, allineata ai nuovi obiettivi, deve essere trasmessa
alla Commissione europea entro il 30 giugno 2023, mentre la
versione finale del documento deve essere trasmessa entro
giugno 2024, sviluppandosi nelle cinque dimensioni
dell'Unione dell'energia: decarbonizzazione (riduzione delle
emissioni e energie rinnovabili); efficienza energetica;
sicurezza energetica; mercato interno dell'energia; ricerca,
innovazione e competitività;
8) in coerenza con gli obiettivi sopraindicati il Ministero
dell'ambiente ha predisposto nell'estate 2023 un documento
di aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e
clima 2019, in linea con i nuovi obiettivi, prevedendo per
il 2030 la conseguente riduzione dell'emissione di gas
serra, una quota del 40 per cento di energia proveniente da
fonti rinnovabili nei consumi finali lordi di energia (e del
65 per cento nel settore elettrico);
9) un aumento dell'efficienza energetica che porta i consumi
finali 2030 a 100 Mtep e quelli primari dai 145 Mtep del
2021 ai 122 del 2030; l'abbattimento, rispetto al 2005 del
62 per cento delle emissioni ETS e del 35-37 per cento delle
emissioni ESR, la promozione della produzione industriale a
basse emissioni di carbonio, nonché una maggiore
elettrificazione nel mix energetico;
10) la proposta di aggiornamento Piano nazionale integrato
energia e clima 2023 prevede che per rispettare la
traiettoria emissiva del periodo 2021-2030, rispetto ai
livelli del 2005, sarà necessario avviare da subito una
significativa riduzione delle emissioni pari a oltre il 30
per cento rispetto ai livelli del 2021, da conseguirsi
prevalentemente nei settori trasporti e civile (residenziale
e terziario);
11) nel percorso di decarbonizzazione, in tutti i settori,
l'efficienza energetica rappresenta il driver principale, in
coerenza del principio Energy Efficiency First (efficienza
energetica al primo posto);
12) per quanto riguarda la produzione elettrica da fonte
rinnovabile (FER-E) in termini di potenza installata si
prevede di aumentare, rispetto all'installato di fine 2021,
da 11.290 a 28.140 MW quelle eolica, da 22.594 a 79.921 MW
quella solare, mentre restano sostanzialmente stabili le
potenze installate nei settori dell'idroelettrico e della
geotermia. In calo la produzione da bioenergie. In termini
di produzione annua si prevede di incrementare l'eolico da
20 a 64 TWh, il solare da 25 a 99 TWh, mentre si prevede una
sostanziale stabilità per l'idroelettrico (da 48,5 a 47 TWh)
e un calo per le bioenergie da 19 a 10 TWh) (pagine 77 e 78
del Piano nazionale integrato energia e clima 2023);
13) per quanto riguarda il settore delle rinnovabili
termiche (FER-C), le misure dovranno essere coordinate con
l'efficienza energetica, in particolare per gli edifici. È
previsto l'obbligo di integrazione delle rinnovabili
termiche negli edifici, la riforma del meccanismo delle
detrazioni fiscali, l'obbligo di fornitura di calore
rinnovabile per vendite di calore sopra i 500 tep,
unitamente all'incentivazione della produzione di energia
rinnovabile termica di grande taglia con sistemi
competitivi. Nel settore termico, oltre a una forte spinta
all'elettrificazione dei consumi data dall'ampia diffusione
delle pompe di calore nel settore civile, penetreranno
sempre più i gas rinnovabili (biometano, bioGPL e DME
rinnovabile) e idrogeno (in particolare in ambito
industriale);
14) l'ammontare degli investimenti diretti stimati necessari
per raggiungere gli obiettivi del Piano nazionale integrato
energia e clima al 2030 è stimato dal Ministero
dell'ambiente e della sicurezza energetica in 830,3 miliardi
di euro, tra il 2023 e il 2030 dei quali 524,9 miliardi a
carico del settore dei trasporti (solo veicoli) 134,2
miliardi nel settore dell'edilizia residenziale, 43 miliardi
nel terziario, 37,2 per le reti del sistema elettrico, 69,4
nelle FER-E (di cui 36 miliardi nel fotovoltaico e 24
nell'eolico) e 6,3 miliardi per i sistemi di accumulo
(batterie e pompaggi). In calo invece gli investimenti in
idroelettrico e bioenergie (pagine 411-412 del Piano
nazionale integrato energia e clima 2023);
15) a fronte di questa dimensione epocale di investimenti le
risorse disponibili, tra le misure di finanza sostenibile
individuate dal Piano nazionale integrato energia e clima
2023 e le risorse rese disponibili nei vari fondi europei,
appaiono del tutto esigue e sottostimate, ove si consideri
che la Commissione UE prevede, nelle linee guida per
l'aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e
clima, la necessità di valutare gli impatti sociali ed
economici delle misure di transizione, da accompagnare con
politiche che impediscano l'acuirsi delle differenze
sociali, favoriscano la ricollocazione dei lavoratori e
contrastino i fenomeni di povertà energetica. A tale scopo
le risorse del Fondo sociale per il clima (86,7 miliardi di
euro di cui il 75 per cento finanziato con i proventi ETS e
il 25 per cento con risorse proprie degli Stati), sembrano
essere esigue rispetto agli impatti delle diverse politiche
pubbliche messe in campo. Il solo costo della direttiva Case
green è stato stimato a livello europeo in 275 miliardi di
euro l'anno dal 2024 al 2030;
16) è necessario sottolineare che il raggiungimento degli
obiettivi, ambiziosi, previsti dal Piano nazionale integrato
energia e clima non può prescindere dal sostegno di tutte le
fonti rinnovabili e, quindi, da una libertà in merito alle
scelte tecnologiche. Come chiarito dalla direttiva (UE)
2018/2001, le biomasse, la geotermia, l'energia idraulica e
i biogas, appartengono al novero delle fonti rinnovabili,
questo anche nell'ottica di preservare ed accompagnare verso
una graduale transizione anche il sistema produttivo
principale del nostro paese caratterizzato da imprese di
medio-piccole dimensioni;
17) va da sé, inoltre, anche la necessità di avanzare in
sede europea una proposta volta al riconoscimento degli
incentivi a impianti la cui componentistica e tecnologia sia
in gran parte costruita nell'Unione europea anche per
incentivare gli investimenti in Europa e concorrere alle
logiche di filiera industriale che gioverebbe al sistema
Italia;
18) inoltre, è opportuno valorizzare quanto introdotto nel
2023 dall'Unione europea attraverso il Critical Raw material
act quale strumento utile a implementare strumenti di
ricerca, estrazione di terre rare e altre materie prime
critiche e strategiche, riciclo delle stesse e avvio di
processi industriali e tecnologici per la surroga di tali
elementi. Ad oggi il settore mondiale delle batterie sta
conoscendo un'evoluzione esponenziale con un fortissimo calo
dei prezzi e l'introduzione di nuove tecnologie di
sostituzione o complementari. Proprio su questo fronte vi
sono prospettive interessanti per la tecnologia agli
«ioni-sodio» e le batterie termiche dove l'industria
italiana può rivestire un ruolo da assoluta protagonista per
la presenza di importanti progetti in tale settore;
19) per quanto riguarda le biomasse, la superficie boscata
italiana si è triplicata dal 1951, raggiungendo 12 milioni
di ettari, sui 30,1 milioni totali del Paese, ma si utilizza
come fonte rinnovabile solo il 18 per cento
dell'accrescimento, che corrisponde a 7,90 Mtep, e l'Italia
è il primo importatore europeo di materia prima legnosa.
Germania, Francia e Spagna prevedono al 2030 di produrre il
68 per cento dell'energia termica da biomassa. Se si
utilizzasse il 67 per cento dell'accrescimento (media
europea) se ne otterrebbero 30 Mtep, che coprirebbero il 70
per cento dei consumi termici da fonte fossile. La gestione
sostenibile delle foreste, unitamente alla previsione di
politiche per la mitigazione degli incendi, migliora la
capacità di assorbimento del carbonio. In Austria la
capacità di assorbimento della CO2 è triplicata rispetto
all'Italia che dispone di una insolazione molto superiore e
ha grande disponibilità di acqua;
20) per la geotermia, risorsa rinnovabile (calore della
terra) e programmabile, è attribuito (dati RSE-GSE) un
elevato potenziale geotermico presente nel 60 per cento del
territorio italiano. L'Italia con oltre 30 impianti
geotermoelettrici, attivi nel settore elettrico, per una
potenza di 817 MW ed una produzione nel 2022 di 5.837 GWh,
pari al 6 per cento circa della produzione elettrica da FER
e al 2 per cento circa della produzione elettrica
complessiva nazionale, si pone da molti anni al primo posto
dei Paesi dell'Unione Europea in termini di capacità
installata. La risorsa geotermica ai fini energetici è
significativamente utilizzata nel Paese anche nel settore
termico sia attraverso impianti di teleriscaldamento, sia
mediante impianti di sfruttamento diretto del calore
geotermico, che in impianti di sfruttamento del calore
geotermico tramite pompa di calore. La geotermia, oltre ad
essere una delle principali fonti rinnovabili per
riscaldamento, raffreddamento e per la produzione
programmabile di energia elettrica, risulta il mezzo più
sostenibile per estrarre litio e altre materie prime
critiche dai fluidi geotermici;
21) per quanto riguarda l'energia idraulica secondo i dati
contenuti nel Registro italiano dighe, le grandi dighe
(volume d'invaso maggiore di 1.000.000 metri cubi, altezza
maggiore di 15 metri) sono in totale 532. Di queste 497 sono
ancora in attività e sono date in concessione soprattutto
per la produzione di energia idroelettrica (306) dighe cui
seguono gli usi irriguo potabile e industriale. La capacità
d'invaso è di circa 14 chilometri cubi. Con interventi di
manutenzione degli invasi e di ammodernamento delle turbine
secondo alcuni studi si potrebbe avere un incremento di
produzione di 25 TWh annui al 2030 (circa il 40 per cento in
più). In Italia piovono annualmente circa 300 miliardi di
metri cubi d'acqua, dei quali viene trattenuto solo l'11 per
cento, mentre l'obiettivo raggiungibile è del 40 per cento.
L'acqua è centrale per puntare all'autosufficienza
alimentare e aumentare la resa produttiva per ettaro;
22) nel settore del biogas l'Italia è leader in Europa con
1.600 impianti attivi, 1,7 miliardi di metri cubi di
biometano (biogas depurato da CO2) prodotti e 12 mila
occupati. La produzione di biogas si avvale oggi di
tecnologie all'avanguardia, quali la digestione anaerobica
dalla quale deriva un digestato considerato efficace
fertilizzante. La produzione di biogas ha effetti a cascata
sulla filiera agroalimentare, perché oltre all'energia e
alla fertilizzazione, favorisce l'uso efficiente dell'acqua,
accompagna tecniche di produzione basate sul precision
farming e l'innovazione nella meccanica agraria, ma
soprattutto accresce la competitività degli allevamenti
preservando il futuro di una filiera fondamentale per il
made in Italy. Oggi si trasforma in biogas il 15 per cento
dei reflui zootecnici che possono arrivare entro il 2030 a
una percentuale del 65 per cento con una produzione di 6,5
miliardi di metri cubi e la creazione di altri 25 mila posti
di lavoro. Nel Piano nazionale ripresa resilienza la
Missione 2 nella Componente C1 «Economia circolare e
agricoltura sostenibile» è previsto lo sviluppo del
biometano di origine agricola o da Forsu (frazione organica
dei rifiuti urbani) (1,92 miliardi di euro) da destinare al
greening della rete gas, pari a circa 2,3-2,5 miliardi metri
cubi, per rispondere alla domanda crescente di
decarbonizzazione sia del settore dell'industria,
soprattutto quella Hard To Abate che non può essere
elettrificata, e sia del settore trasporti, in forma liquida
(bioGNL) o gassosa in aggiunta al biometano, l'Italia è
fortemente impegnata nello sviluppo delle produzioni di
bioGPL e di altri gas rinnovabili (es. DME);
23) è necessario, infine, tener conto delle evidenze
geopolitiche internazionali: la Cina è attualmente
superpotenza nel settore delle energie rinnovabili,
acquisendo in sostanza una leadership tecnologica,
industriale, commerciale nell'eolico e nel fotovoltaico,
nella supply chain della mobilità elettrica (delle terre
rare, dalle materie prime alle batterie). Grazie ai massicci
investimenti effettuati nelle rinnovabili, l'industria
cinese è quasi monopolista nella produzione mondiale di
pannelli solari e delle turbine eoliche, con una quota
superiore ai due terzi. Se non adeguatamente sorretto da una
industria europea, il mantra della transizione energetica al
dopo-fossili affermatosi nei Paesi occidentali, rischia di
trasformarsi in una dipendenza eccessiva dalle forniture
cinesi e di mettere a repentaglio importanti catene di
valore della meccanica europea;
24) viceversa, nelle tecnologie relative ai settori delle
turbine (idrauliche e non), dello sfruttamento delle
biomasse, della geotermia, della produzione di biogas
l'Italia è all'avanguardia o comunque svolge un ruolo da
protagonista. Quanto all'efficienza energetica il sistema
produttivo del nostro Paese presenta valori d'intensità
energetica primaria (definita dal rapporto tra il consumo
interno lordo di energia e il prodotto interno lordo)
inferiori alla media dei Paesi dell'Unione europea;
25) con riferimento infine all'energia nucleare, la Camera
il 9 maggio 2023 ha approvato la mozione 1-00083, nella
quale si impegna il Governo a valutare l'opportunità di
inserire nel mix energetico nazionale anche il nucleare
quale fonte alternativa e pulita per la produzione di
energia e ad adottare iniziative volte ad includere la
produzione di energia atomica all'interno della politica
energetica europea, riaffermando in quella sede una
posizione volta a mantenere nella tassonomia degli
investimenti verdi la messa in esercizio di centrali
nucleari realizzate con le migliori tecnologie disponibili;
26) in ambito nucleare, si ricorda che l'Italia possiede il
secondo settore industriale europeo, sia in termini di
competenze che di capacità, avendo sempre mantenuto attività
nel settore, a livello EU e internazionale. Inoltre,
l'Italia forma circa il 10 per cento degli ingegneri
nucleari europei. I ricercatori italiani e alcune
infrastrutture sperimentali sono ben conosciuti e apprezzati
nel mondo. Grazie a queste caratteristiche, l'Italia è
oggetto di particolare attenzione, in particolare dalla
Francia ed ultimamente dagli Stati Uniti, per la
costituzione di una supply chain nucleare europea,
finalizzata a realizzare: lo sviluppo delle nuove
tecnologie; la formazione delle risorse umane; la
realizzazione di nuove politiche energetiche che integrino
in maniera sinergica fonti rinnovabili e nucleare;
27) nel nuovo quadro regolatorio europeo, l'Italia può
quindi giocare un ruolo da protagonista, partecipando sia
allo sviluppo sia alla realizzazione delle nuove tecnologie
nucleari in programmazione nei Paesi EU, seguendo le
storiche orme dei «due Enrico»: Fermi, inventore
dell'energia nucleare nel 1942, e Mattei, il primo a
realizzare una centrale nucleare in Italia, a Latina, nel
1960;
28) nella definizione della strategia energetica nucleare
del nostro Paese, occorre considerare la definizione di
partnership con gli altri Stati europei impegnati sul tema,
anche al fine di incrementare il know how e le capacità
industriali. In tale percorso sarebbe opportuno valutare la
definizione di un'autorità indipendente di sicurezza
nucleare nazionale con un'adeguata dotazione organica;
29) in linea con le raccomandazioni dell'Agenzia
internazionale per l'energia atomica, appare necessario
individuare altresì una Nuclear energy programme
implementing organization (Nepio) con il compito di valutare
lo stato delle infrastrutture di base necessarie per avviare
un programma nucleare nazionale e fornire al Governo le
indicazioni necessarie per il loro completo sviluppo e
operatività. Tale Nepio dovrebbe anche avere il compito di
coinvolgere e coordinare tutti i soggetti pubblici e privati
interessati, al fine di uno sviluppo organico e coerente di
tutte le infrastrutture di base,
impegna il Governo:
1) in relazione all'adozione della versione definitiva del
Piano nazionale integrato energia e clima ad adottare
iniziative volte:
a) a prevedere, per quanto di competenza, opportune forme di
rendicontazione al Parlamento circa lo stato di avanzamento
del Piano nazionale integrato energia e clima;
b) a rafforzare nell'ambito del Piano nazionale integrato
energia e clima, sulla base del principio della neutralità
tecnologica, l'apporto di tutte le fonti rinnovabili o
sostenibili con bassa emissione di CO2, sia termiche che
non, tenendo conto della necessità di valorizzare la filiera
produttiva nazionale, al contempo ottimizzando il rapporto
costi/benefici per il sistema Paese, valutando il differente
grado di programmabilità e garantendo il positivo apporto in
termini di miglioramento della qualità dell'aria;
c) nel settore civile, a prevedere riforme delle misure in
vigore a supporto della riqualificazione edilizia, che
garantiscono una maggiore efficacia e un impiego più
efficiente delle risorse pubbliche;
d) nel settore trasporti, a rafforzare le misure volte a
favorire lo shift modale delle persone e delle merci verso
modalità più efficienti e decarbonizzate, quali il trasporto
pubblico e ferroviario, e, contemporaneamente, a supportare
lo sviluppo delle produzioni dei biocarburanti e delle altre
fonti rinnovabili;
e) nel settore industriale, a prevedere lo sviluppo di
diverse opzioni tecnologiche per la decarbonizzazione dei
settori hard to abate quali l'efficienza energetica,
l'idrogeno, il biometano e la Carbon capture and storage
(Ccs), con un approccio integrato che non escluda nessuna di
queste opzioni, ma che allo stesso tempo promuova e faciliti
l'accesso a quelle più efficaci per ciascun ambito;
f) a prevedere nel Piano un approfondimento riguardo la
valutazione sugli effetti dell'eventuale adozione,
nell'orizzonte temporale successivo al 2030 e traguardando
gli obiettivi 2050, di tecnologie di generazione energetica
basate sulla fonte nucleare, quali a titolo esemplificativo
i reattori nucleari di piccole dimensioni (Smr), i piccoli
reattori nucleari avanzati (Amr), i microreattori e le
macchine a fusione;
2) al fine di conseguire in modo efficace i target del Piano
nazionale integrato energia e clima al 2030, ad adottare
iniziative di competenza volte a:
a) anche in ambito europeo, a individuare le risorse e gli
strumenti di programmazione economica necessari ad attuare
il Piano nazionale integrato energia e clima 2023-2030,
valutando non solo ex ante, ma anche in itinere l'impatto
economico, finanziario, sociale nonché sul sistema
produttivo delle misure poste in essere per il
raggiungimento dei target;
b) a proseguire i tavoli di approfondimento già avviati sul
settore civile, dei trasporti e sulle tematiche
socio-economiche, per un efficace attuazione delle politiche
previste dal Piano nazionale integrato energia e clima e per
il monitoraggio della sostenibilità sociale, con particolare
riferimento alla sostenibilità degli oneri per la
riqualificazione energetica degli edifici residenziali e
alle risorse necessarie per la formazione dei lavoratori nei
settori che saranno maggiormente coinvolti dalla transizione
energetica;
c) ad adottare meccanismi di incentivazione, con ottimale
rapporto costi/benefici, a sostegno dello sviluppo delle
rinnovabili (elettriche, termiche e nei trasporti) e degli
interventi di efficientamento energetico, con particolare
attenzione a progetti integrati ed ai progetti di
decarbonizzazione di impianti industriali;
d) a sfruttare tutto il ventaglio delle tecnologie termiche,
tenendo conto delle specificità nazionali, proseguendo
altresì nel processo di efficientamento nella produzione di
energia termica e di riduzione costante dei livelli
emissivi;
e) a semplificare i processi autorizzativi in ambito
geotermico e delineare una strategia nazionale di
massimizzazione dello sfruttamento di tale risorsa;
f) ad avviare un processo di efficace manutenzione degli
invasi e di ammodernamento delle turbine degli impianti
idroelettrici, al fine di massimizzarne la producibilità;
g) in ambito europeo per il superamento degli ostacoli che
impediscono il rapido avvio degli investimenti per
l'ammodernamento e il potenziamento delle infrastrutture
idroelettriche, in considerazione degli evidenti benefici,
anche in termini di stabilità della rete, derivanti dalla
programmabilità della produzione di energia idroelettrica e
della necessità, a fronte della estremizzazione degli eventi
climatici, di incrementare lo stoccaggio della risorsa
«acqua»;
h) a proporre soluzioni anche in sede di Unione europea,
finalizzate ad eliminare le distorsioni di prezzo tra i
diversi Stati dell'Unione che vanno a discapito della nostra
competitività industriale;
i) a realizzare la transizione verso una mobilità
sostenibile che tenga in dovuta considerazione la necessità
di intervenire anche su settori quali l'aviazione e il
marittimo, ove la decarbonizzazione può essere meno
supportata dall'elettrificazione dei consumi;
l) a continuare l'incentivazione della produzione di
biometano utilizzando tutto il potenziale disponibile di
feedstocks, valorizzando il settore agricolo ed
agro-industriale nazionale oltre che quello della Forsu,
attraverso nuovi sistemi di incentivi per il periodo post
2026 che, tenendo conto dei tempi di autorizzazione e
realizzazione degli impianti, arrivino oltre il 2030, per
rispondere alla domanda crescente di decarbonizzazione del
settore dell'industria che non può essere elettrificata, e
sia del settore trasporti, in forma liquida (bioGNL) o
gassosa, nonché ad implementare misure di sostegno allo
sviluppo delle produzioni di gas rinnovabili liquefatti
(bioGPL e DME) a sostegno della decarbonizzazione del
settore industriale e di quello dei trasporti;
m) a completare il quadro normativo relativo alla Carbon
capture and storage (Ccs), per poter avviare le iniziative
progettuali, a partire da quelle nell'area dell'Alto
Adriatico, individuando la governance della filiera, la
regolazione tecnico economica delle attività di trasporto e
stoccaggio, dei sistemi di supporto e degli strumenti di
garanzia;
n) a limitare la dipendenza tecnologica da Paesi posti al di
fuori dell'Unione europea;
o) a risolvere il problema della saturazione virtuale della
rete elettrica di trasmissione e garantire un efficace
meccanismo di gestione delle richieste di connessione,
attraverso la commisurazione del costo della connessione non
solo alla capacità impegnata ma anche alla durata
dell'impegno e, contemporaneamente, mediante la
determinazione della decadenza delle richieste di
connessioni non supportate da ragionevoli aspettative di
conferma e attivazione;
p) anche nella prospettiva dell'aggiornamento del Pniec, a
valutare la possibilità di istituire, nel rispetto delle
normative internazionali ed europee e compatibilmente con le
esigenze di finanza pubblica, un'apposita autorità
amministrativa indipendente di regolamentazione competente
in materia di autorizzazione tecnica, certificazione,
realizzazione, gestione e dismissione degli impianti
nucleari, di sicurezza nucleare e di radioprotezione con le
funzioni e i compiti di Autorità nazionale per la
regolamentazione tecnica e le istruttorie connesse ai
processi autorizzativi, le valutazioni tecniche, il
controllo, anche ispettivo, e la vigilanza degli impianti,
nonché a valutare l'opportunità di incrementare programmi di
finanziamento per la ricerca e il potenziamento
dell'industria nazionale nel settore nucleare, nell'ottica
di renderla più competitiva rispetto agli attori
internazionali, creando le migliori condizioni per lo
sviluppo di una filiera italiana;
q) a valutare l'opportunità della creazione, in linea con le
raccomandazioni dell'Agenzia internazionale per l'energia
atomica, di una Agenzia con il compito di valutare lo stato
delle infrastrutture di base necessarie per avviare un
programma nucleare nazionale e fornire al Governo le
indicazioni necessarie per il loro completo sviluppo e
operatività.
(1-00295) (Testo modificato nel corso della seduta) «Squeri,
Mattia, Zinzi, Cavo, Cortelazzo, Zucconi, Barabotti,
Alessandro Colucci, Battistoni, Benvenuti Gostoli, Bof,
Semenzato, Casasco, Foti, Montemagni, Mazzetti, Iaia,
Pizzimenti, Polidori, Lampis, Milani, Fabrizio Rossi,
Rotelli, Rachele Silvestri».
Nel cuore del Verbano-Cusio-Ossola,
in Piemonte, c’è un piccolo paese di poco più di
200 abitanti, in cui il sole non brilla da novembre a
febbraio.
Stiamo parlando di Viganella, il piccolo
paese immerso nella Valle Antrona che, però, non
è rimasto in penombra e, grazie all’impegno del suo ex sindaco, ha
ritrovato la luce con una soluzione ingegnosa.
Viganella e lo “Specchio del Sole”
Gli abitanti del piccolo borgo di Viganella hanno saputo adattarsi
agli 83 giorni di buio, che ogni anno
caratterizzano l’inverno del paese, da novembre a febbraio.
Viganella, infatti, si trova in una posizione particolare, proprio
in mezzo ad alcune montagne che impediscono al sole di
raggiungerlo durante i mesi invernali.
La penombra è però finita nel 2006, quando
l’allora sindaco del paese, Franco Midali, con
la collaborazione dell’amico architetto GiacomoBonzani, ha inaugurato il cosiddetto “Specchio
del Sole”.
Si tratta di uno specchio
gigante – 8 metri di larghezza per 5 di altezza – situato in
una posizione strategica su una montagna vicina, che
riflette i raggi del sole sul paese.
Tramite un sistema di motori elettrici comandati da computer, lo
specchio viene ruotato in modo da catturare i raggi solari e
rifletterli sul paese, creando così un’illuminazione
artificiale durante i mesi invernali.
Nella notte viene riposizionato in modo che il mattino seguente
possa ripartire dalla posizione prestabilita e fare il proprio lavoro
durante l’arco della giornata.
Sei ore di sole assicurate ogni giorno fino al 2
di febbraio, data in cui il sole torna a illuminare il piccolo borgo,
evento festeggiato in grande dagli abitanti di Viganella.
Cosa vedere a Viganella: curiosità
Lo specchio gigante di Viganella non è la
sola attrazione di questa curiosa località: posto a 1000 metri sopra il
mare e a ridosso del confine svizzero, Viganella è la meta
perfetta per gli amanti delle escursioni alpine.
Proprio dal centro di Viganella, nei
pressi della chiesa seicentesca dedicata alla natività di Maria Vergine,
parte un sentiero che porta alle tracce ancora esistenti delle miniere di ferro di Ogaggia.
Un altro consiglio? Percorrete il sentiero che da
Viganella conduce all’Alpe Cavallo, passando attraverso
diversi alpeggi, tra foreste e ruscelli di montagna.
Le telecomunicazioni sono un
asset strategico per la crescita e lo sviluppo sostenibile del Paese. La
disponibilità di una infrastruttura di telecomunicazioni performante è
determinante ai fini della competitività. È dunque essenziale essere
informati su quello che sta accadendo nel settore anche per capire in
che direzione sta andando il Paese.
Ecco una lista delle fonti più affidabili.
Mimit: il ministero per le Imprese e Made in Italy è diviso in sezioni.
La sezione “Comunicazioni” è organizzata in due sotto-sezioni: una
dedicata alla banda ultralarga dove è possibile accedere al catasto
delle infrastrutture e al portale bandaultralarga.italia.it dove è
possibile monitorare lo stato dei lavori. L’altra sezione è dedicata a
Internet con tutte le info relative all’Internet governance, la
sicurezza informatica, le autorizzazioni ai provider e la normativa
sull’accessibilità. Nella sezione Media disponibili gli ultimi annunci e
azioni del ministero per accelerare sulla diffusione della connettività
in Italia.
Infratel: la società di Invitalia è impegnata in interventi di
infrastrutturazione del Paese, per il superamento del digital divide e
l’abilitazione alla diffusione di servizi di connettività avanzati. Si
può accedere alla Data Room, lo spazio online progettato per condividere
i dati che sono alla base degli interventi di infrastrutturazione
digitale su tutto il territorio nazionale. Inoltre è presente il link al
portale del piano nazionale banda ultralarga per monitorare lo stato dei
lavori e aanche quello del progetto “Wifi Italia”.
Corecom: i Comitati regionali per le comunicazioni sono gli organi
funzionali di Agcom sul territorio. Sui portali regionali attività,
stato dell’arte sulla diffusione delle reti e ricerche.
FONTI ISTITUZIONALI EUROPEE E INTERNAZIONALI
Dg Connect: è la direzione della Commissione europea per le Reti di
comunicazione dove è possibile trovare tutto il programma di lavoro
della Commissione, i piani strategici e di gestione e infine le
relazioni annuali delle attività con i risultati e risorse utilizzate
dalla direzione anno per anno.
Etsi: lo European Telecommunications Standards Institute è un organismo
internazionale, indipendente e senza fini di lucro, responsabile della
definizione e dell’emissione di standard nel campo delle Tlc in Europa.
Tutti gli standard sono disponibili online.
Itu: l’International Communication Union è l’agenzia Onu per le
telecomunicazioni. Il portale istituzionale elenca e approfondisce le
azioni strategiche che l’ente sta mettendo in campo per ridurre il
digital divide in tutto il mondo e una serie di interviste ad esperti e
membri dell’Agenzia stessa sulle strategie da adottare per un mondo più
connesso.
LE ASSOCIAZIONI ITALIANE
Asstel: l’associazione che raccoglie le grandi telco italiane a
disposizione notizie sulle attività, le legislazioni di riferimento del
settore e lo stato dell’arte sul mondo del lavoro e sulle relazioni
industriali.
Aiip: l’associazione italiana internet provider raccoglie le telco medie
e piccole. Sul portale è possibile accedere ai contenuti sulle attività
dell’organizzazione e degli associati e sul ruolo delle Pmi del settore
per uno sviluppo sostenibile del settore.
Assoprovider: l’associazione rappresenta gli internet service provider.
Online sul portale una serie di contenuti su attività, legislazione e
strategie.
Quadrato della Radio: raccoglie manager, esperti e ricercatori che
“studiano” l’evoluzione delle Tlc in Italia e nel mondo. Sul sito
disponibili tutte le attività e le ricerche.
LE ASSOCIAZIONI INTERNAZIONALI
Etno: l’European Telecommunications Network Operators’ Association
raccoglie le telco europee. Il sito fornisce aggiornamenti sulle ultime
notizie e comunicati stampa relativi alle attività di Etno e
all’industria delle telecomunicazioni in generale nonché una serie di
documenti, rapporti e pubblicazioni su argomenti chiave per l’industria
delle telecomunicazioni.
Ecta: la European Competitive Telecommunications Association raccoglie
gli operatori alternativi, compresi gli Mnvo. Su sito le informazioni
sull’associazione, comprese le posizioni e le advocacy rispetto ai temi
che riguardano gli operatori concorrenti in Europa. Disponibili anche
report, analisi e informazioni sulle tendenze del settore.
Ftth Council Europe: è un’organizzazione senza scopo di lucro che
rappresenta gli operatori di rete a banda larga in fibra ottica in
Europa. Sul portale sono disponibili informazioni sui vantaggi della
tecnologia Ftth, report e analisi sugli impatti economici e sociali
della fibra su economia e società e risorse tecniche e informative per
aiutare le telco nella pianificazione e nella realizzazione di reti
Ftth.
Gsma: la Global System for Mobile Communications Association, è
un’organizzazione internazionale che rappresenta gli operatori di Tlc
mobili di tutto il mondo. Disponibili notizie e aggiornamenti sulle
ultime tendenze, innovazioni e sviluppi nel settore delle
telecomunicazioni mobili e anche analisi e studi di mercato. Online
anche risorse e best practice per gli operatori di telefonia mobile,
come linee guida operative, documenti tecnici, standard e regolamenti.
TESTATE E PORTALI ONLINE
CorCom: testata del Gruppo Digital360, è il più importante quotidiano
online italiano che si occupa di tematiche inerenti le Tlc. Sono
disponibili news, approfondimenti e interviste ai protagonisti del
settore che raccontano come sta evolvendo il mondo delle Tlc e l’impatto
su economia e società. Ogni giorno è inviata una newsletter con le
notizie più rilevanti.
Techflix360: è il nuovo centro di risorse del Gruppo Digital360. Un vero
e proprio “knowledge hub” sull’innovazione digitale e le
telecomunicazioni che consente di approfondire gli argomenti di
interesse attraverso white paper, webcast, eBook, infografiche, webinar.
Telecompaper: fornisce notizie, analisi, rapporti di settore e servizi
di consulenza per le industrie delle telecomunicazioni, dei media e
della tecnologia. Telecompaper monitora costantemente l’evoluzione del
settore, raccogliendo informazioni da diverse fonti e fornendo
aggiornamenti sulle tendenze, gli sviluppi e le innovazioni nel campo
delle telecomunicazioni.
Total Telecom: il sito offre notizie, approfondimenti e interviste a
protagonisti del settore delle Tlc europeo e internazionale. Disponibili
anche podcast e webinar.
Mobile World Live: è una piattaforma online che fornisce notizie,
analisi e informazioni sul settore delle telecomunicazioni e della
tecnologia mobile. È gestita dalla Gsma e offre una copertura
dettagliata degli eventi e delle novità dell’industria, tra cui le
ultime tendenze, gli sviluppi tecnologici, le partnership commerciali e
le iniziative di innovazione nel campo delle comunicazioni mobili.
Fierce Telecom: il sito online fornisce aggiornamenti sulle ultime
tendenze, sviluppi e innovazioni nell’industria delle telecomunicazioni.
Fierce Telecom copre una vasta gamma di argomenti, tra cui reti di
comunicazione, servizi di connettività, infrastrutture, tecnologie
emergenti, regolamentazione e molto altro.
l’H2 e’ una riserva di energia non e’ un vettore energetico visto che il
suo rapporto energetico e’ di 2 a 1? Per cui la produzione corretta di
H2 da stoccaggio e’ a km0 .
Vettore energetico significa trasportare l’energia come il gas la
trasporta dai giacimenti nei gas dotti.
H2 e’ una riserva di energia che viene prodotta e conservata in un luogo
definito in funzione dell’uso che se ne puo’ fare in una centrale
elettrica in termini di tempo oppure per l’auto in termini di spazio per
viaggiare . L’H2 e’ un trasporto mediato dell’elettricita’.
Alla base dell’H2 ci sono l’elettricità’ da fonte rinnovabile e l’acqua.
Si produce l’H2 perché dove c’e’ bisogno di energia non si può portare
con un filo elettrico. Per cui l’H2 e’ una riserva di energia che viene
prodotta e posizionata dove e quando serve. Per cui a H2 e non ha senso
produrre H2 con elettricità rinnovabile per poi tornare a produrre
elettricità. A questo punto ha molto più senso produrre elettricità,
prendere un filo elettrico e portare l’elettricità’ dove e quando serve.
Ci sono dei casi in cui l’elettricità’ non può essere portata con un
filo, come per l’autotrazione e quindi si usa l’H2 come riserva di
elettricità da usare in movimento senza un filo o una batteria. Quindi
con l’elettricità’ e l’acqua si produce l’H2 , che poi si libera
rilasciando elettricità con uno spostamento d’acqua dal luogo di
produzione dell’H2 a quello di utilizzo. In una centrale elettrica dove
l’H2 viene prodotto per costituire una riserva, quando l’H2 si
riutilizza anche l’acqua viene recuperata . Sia per l’autotrazione sia
per le centrali elettriche la produzione ottimale e’ a KM0 . Cioe’ il
distributore e la produzione di energia elettrica. Ecco perche’ non ha
senso H2MED.
PROGETTO ITH2 per;
1) un progetto nazionale integrato energia-clima PNIEC
2) PRODUZIONE DELLA TOYOTA PRIUS H2 A TORINO
Premessa: La produzione dell’H2 e’ quella di una infrastruttura che
produca energia rinnovabile con fotovoltaico che non consumi territorio
e con boe marine per produrre H2 a KM0 con idrogenatori.
OBIETTIVO : H2 KM0 e’ l’obiettivo finale in quanto il rapporto energico
fra la produzione ed il risultato e’ di 2 a 1. Significa che per
produrre 1 di H2 con idrogenatore occorre utilizzare 2 energia
elettrica. Per cui non hanno senso gli idrogenodotti per trasportare H2,
in quanto ha una convenienza produrre H2 dove viene utilizzato. Ecco
perche’ ha piu’ senso trasportare l’elettricità con elettrodotti, da
fonte rinnovabile per produrre H2 dove quando serve.
A COSA PUO’ SERVIRE L’H2 ?: 2 possono essere gli utilizzi dell’H2
1) Autotrazione
2) Produzione di energia elettrica quando le energie rinnovabili non
sono disponibili.
PROGETTI DI SVILUPPO: Sviluppando rapidamente una rete dell’H2 per
autotrazione attraverso la GDO ed AUTOGRILL si possono realizzare
pensiline fotovoltaiche per produrre energia elettrica per l’H2.
Con una base distributiva dell’H2 si creano le premesse ed un modello
europeo per la domanda di H2 e delle auto ad H2 per cui si può arrivare
a produrre negli stabilimenti Pininfarina la futura top dell’H2 : TOYOTA
PRIUS H2.
L’8 settembre 1943 a Modena
La sera dell’8 settembre 1943 il generale Matteo Negro presidia il
Palazzo ducale di Modena. I militari presenti sono troppo pochi per
tentare una difesa. Diversi sono impegnati nel campo estivo alle Piane
di Mocogno, agli ordini del colonnello Giovanni Duca.
Negro, tutt’altro che ostile ai
nazisti, decide di consegnarsi alle forze occupanti. In città
cerca di resistere soltanto un reparto del 6° reggimento di artiglieria,
che punta alcuni pezzi contro i nazisti. Poco dopo, tuttavia, il comando
ordina di desistere e la Wehrmacht trova via libera.
Il mattino del 9 settembre i modenesi si risvegliano sotto l’occupazione
nazista. La situazione è molto confusa, ma il cronista Adamo Pedrazzi
non teme che si scatenino particolari violenze. La città sembra ordinata
e piuttosto pronta ad abituarsi alla nuova situazione. Le cose sono però
molto diverse là dove la fame si fa sentire.
In vari luoghi della provincia i civili prendono d’assalto ammassi e
salumifici per evitare che le scorte finiscano nelle mani dei militari.
I più disperati cercano di accaparrarsi quel cibo che è sempre più raro.
Da qualche parte la foga è tale da generare veri e propri pericoli. A
Castelnuovo Rangone i nazisti intervengono con le armi mentre tante
persone cercano di portare via qualcosa dal salumificio Villani.
Passano alcuni giorni e la situazione diventa più chiara. I nazisti non
sembrano voler infierire con la violenza, ma
i fascisti della Repubblica
sociale italiana si mostrano subito determinati ad affermare la propria
autorità. Pretendono che le famiglie restituiscono il cibo prelevato
dagli ammassi e gli oggetti abbandonati dai militari in fuga. Non
vogliono che nessuno sgarri. Pur di evitare il tradimento del patto con
la Germania nazista, sono disposti a scatenare una guerra civile.
TUTTO QUELLO CHE GAIA TORTORA NON VUOLE VEDERE
E SAPERE :
Dott.Alberto Donzelli Conferenza 21/03/2024
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STRAGI DI STATO PER SPECULAZIONE INTERNAZIONALE DA VACCINI
«Qual
è l’incidenza assoluta di ictus ischemico e attacco ischemico
transitorio dopo una vaccinazione bivalente COVID-19?».
A questa domanda hanno cercato di rispondere in uno studio pubblicato su
MedRxiv i ricercatori del Kaiser Permanente Katie Sharff, Thomas K
Tandy, Paul F Lewis ed Eric S Johnson che hanno rilevato ben 100mila
casi di ictus ischemico tra pazienti americani over 65 del Nord-Ovest
vaccinati con i sieri genici mRNA Pfizer o Moderna.
L’ischemia cerebrale è una condizione in cui il cervello non riceve
abbastanza sangue da soddisfare i suoi bisogni metabolici. La
conseguente carenza di ossigeno può portare alla morte del tessuto
cerebrale, e di conseguenza all’ictus ischemico. E’ pertanto una
patologia che mette in correlazione due note reazioni avverse dei sieri
genici Covid mRNA o mDNA: le patologie cardiovascolari e quelle
neurocerebrali, vergognosamente occultate dalla Pfizer nei suoi trial
clinici.
«Abbiamo condotto uno studio di coorte retrospettivo su
pazienti Kaiser Permanente Northwest (KPNW) di età pari o superiore a 18
anni che sono stati vaccinati con la formulazione Pfizer o Moderna del
vaccino bivalente COVID19 tra il 1 settembre 2022 e il 1 marzo 2023. I
pazienti sono stati inclusi nello studio studiare se fossero iscritti al
KP al momento della vaccinazione e durante il periodo di follow-up di 21
giorni. Abbiamo replicato la metodologia di analisi del ciclo rapido
Vaccine Safety Datalink (VSD) e cercato
possibili casi di ictus ischemico o TIA nei 21 giorni successivi alla
vaccinazione utilizzando i codici diagnostici ICD10CM sia nella
posizione primaria che in qualsiasi posizione».
E’ quanto si legge nell’Abstract della ricerca intitolata
“Rischio
di ictus ischemico dopo la vaccinazione di richiamo bivalente COVID-19
in un sistema sanitario integrato (Risk of Ischemic Stroke
after COVID-19 Bivalent Booster Vaccination in an Integrated Health
System)”.
«Abbiamo aspettato 90 giorni dalla fine del follow-up (21 marzo 2023)
per l’accumulo completo dei dati non KP prima di analizzare i dati per
tenere conto del ritardo nell’elaborazione delle richieste di
risarcimento assicurativo al di fuori dell’ospedale – proseguono i
ricercatori di Kaiser Permanente – Due medici hanno giudicato possibili
casi rivedendo le note cliniche nella cartella clinica elettronica. Le
analisi sono state stratificate per età pari o superiore a 65 anni per
consentire confronti con i VSD che hanno riferito alla riunione
dell’Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP) l’incidenza di
ictus ischemico o TIA (incidenza riportata da VSD; 24,6 casi di ictus
ischemico o TIA per 100.000 pazienti vaccinato)».
I
risultati dello studio sono stati sconcertanti ed hanno confermato anche
la ricerca tedesca che per prima aveva segnalato la pericolosità dei
booster bivalenti che erano stati testati solo sui topi ma, nonostante
ciò, furono raccomandati dal Dipartimento della Salute USA e dal
Ministero della Salute italiano anche per i bambini.
«L’incidenza di ictus ischemico o TIA è stata di 34,3 per 100.000 (IC al
95%, da 17,7 a 59,9) nei pazienti di età pari o superiore a 65 anni che
hanno ricevuto il vaccino bivalente Pfizer, sulla base di un codice
diagnostico nella posizione primaria del pronto soccorso o dell’ospedale
scarico. L’incidenza è aumentata a 45,7 per 100.000 (IC 95% da 26,1 a
74,2) quando abbiamo ampliato la ricerca a una diagnosi in qualsiasi
posizione e non ci siamo pronunciati per la conferma. Tuttavia, la
maggior parte di queste diagnosi aggiuntive di ictus apparente o TIA
erano diagnosi di falsi positivi basate sul giudizio dei medici. La
stima dell’incidenza basata sulla posizione primaria concordava
strettamente con la stima dell’incidenza basata su qualsiasi posizione e
giudizio medico: 37,1 su 100.000 (IC 95% da 19,8 a 63,5). Il 79% dei
casi di ictus ischemico sono stati ricoverati in ospedali non di
proprietà del sistema di consegna integrato».
«Abbiamo identificato un aumento del 50% nell’incidenza di ictus
ischemico per 100.000 pazienti di età pari o superiore a 65 anni
vaccinati con il vaccino bivalente Pfizer, rispetto ai dati presentati
dal VSD. Il 79% dei casi di ictus ischemico sono stati ricoverati in
ospedali che non sono di proprietà del sistema di consegna integrato e
un ritardo nell’elaborazione delle richieste di risarcimento
assicurative esterne all’ospedale è stato probabilmente responsabile
della discrepanza nell’accertamento dei casi di ictus ischemico. Il
giudizio medico di tutti i casi in questo studio ha consentito stime
accurate dell’incidenza assoluta dell’ictus per 100.000 destinatari del
vaccino ed è utile nel calcolo del beneficio netto per le
raccomandazioni politiche e il processo decisionale condiviso».
«Poiché i vaccini COVID-19 caricano il corpo con il codice genetico per
la proteina trombogenica e letale Wuhan Spike, coloro che prendono un
vaccino sono vulnerabili a una catastrofe se vengono infettati da
SARS-CoV-2 dopo aver recentemente preso uno dei vaccini» il famoso
cardiologo americano Peter McCullough ha commentato così lo studio del
professor Fadi Nahab dei Dipartimenti di Neurologia e Pediatria della
Emory University a cui avevamo dedicato ampio risalto.
«Nahab e colleghi di Emory hanno analizzato un database statale di
destinatari del vaccino COVID-19. Circa 5 milioni di georgiani adulti
hanno ricevuto almeno un vaccino COVID-19 tra dicembre 2020 e marzo
2022: il 54% ha ricevuto BNT162b2, il 41% ha ricevuto mRNA-1273 e il 5%
ha ricevuto Ad26.COV2.S. Quelli con concomitante infezione da COVID-19
entro 21 giorni dalla vaccinazione avevano un aumentato rischio di ictus
ischemico (OR = 8,00, 95% CI: 4,18, 15,31) ed emorragico (OR = 5,23, 95%
CI: 1,11, 24,64)» scrive McCullough nel suo Substack citando l’abstract
dello studio.
«Questa analisi mostra uno dei tanti grandi pericoli presenti nello
sviluppo e nel lancio rapidi di un vaccino senza una sicurezza e un
monitoraggio dei dati sufficienti. L’ictus è un risultato devastante e
sembra che un gran numero di casi debilitanti avrebbe potuto essere
evitato se i vaccini COVID-19 fossero stati ritirati dal mercato nel
gennaio 2021 per eccesso di mortalità. I pazienti in questo studio
sarebbero stati risparmiati da ictus e disabilità» aggiunge il
cardiologo americano rilevando l’importanza dello studio.
Verissimo! Ma quanti ictus avrebbero potuto essere evitati se lo studio
fosse stato revisionato e pubblicato mesi fa sia sulla prestigiosa
rivista che poi su PUBMED, la libreria scientifica dell’Istituto
Nazionale della Salute americano (NIH) che l’ha ripreso?
Il 13 novembre, mi sono unito alla deputata statunitense Marjorie Taylor
Greene e a sette suoi colleghi repubblicani della Camera, in
un'audizione intitolata Injuries Caused by COVID-19 Vaccines, che
ha esplorato i potenziali collegamenti tra la vaccinazione COVID-19 e
gli eventi avversi tra cui miocardite, pericardite e coaguli di sangue.
, danni neurologici, arresto cardiaco, aborti spontanei, problemi di
fertilità e altro ancora. Il gruppo ha ascoltato le testimonianze sugli
eventi avversi dei vaccini da parte degli esperti medici Dr. Robert
Malone e Dr. Kimberly Biss e ha anche ascoltato l'avvocato Thomas Renz
che rappresentava gli informatori del Dipartimento della Difesa (DOD)
che hanno rivelato aumenti di diagnosi mediche tra i membri del servizio
registrati in un DOD Banca dati. Scopri di più in questo comunicato
stampa .
Il British Medical Journal ha accusato la
Food and Drug Administration, l’ente americano regolatore dei farmaci,
di aver occultato il risultato di un grande studio di farmacovigilanza
attiva, quindi non basato solo su segnalazioni individuali e gratuite a
database (EudraVigilance gestita da EMA nell’Unione Europea e VAERS da
CDC negli Stati Uniti), si è invece concentrato anche sul follow-up di
alcuni vaccinati.
La ricerca statistica denominata “Sorveglianza della sicurezza del
vaccino COVID-19 tra le persone anziane di età pari o superiore a 65
anni” è stata finalmente rilasciata dalla FDA e pubblicata il 1°
dicembre 2022 dalla rivista specializzata Journal of Vaccine and
Elsevier di Science Direct.
Il primo firmatario è Hui-Lee Wong,
Direttrice associata per l’innovazione e lo sviluppo dell’Ufficio di
biostatistica ed epidemiologia, Centro per la valutazione biologica
della Food and Drug Administration statunitense, Silver Spring, MD, USA.
Lo studio si concentra sui dati relativi a 30.712.101 persone anziane.
DOPO
I VACCINI 15 INCIDENTI DI BUS PER MALORI DEI CONDUCENTI
Piazzola sul Brenta (PD), Marzo 2022, “Malore dopo l’incidente a
Piazzola sul Brenta, grave un autista di bus. Il conducente 44enne ha
tamponato un autocarro. Dopo la telefonata a BusItalia si è accasciato
sul volante perdendo i sensi”;
Cesena, Dicembre 2022, “Cesena, malore mentre guida l’autobus: 9 auto
danneggiate”;
Trento, Aprile 2023, “Paura a Trento, l’autista ha un malore e il bus
esce di strada: il mezzo resta in bilico sul muretto del giardino di una
casa”;
La Spezia, Maggio 2022, “Malore improvviso per l’autista dello
scuolabus, mezzo fa un volo di venti metri”, Catania, Ottobre 2022,
“Catania: autista si sente male, bus si schianta”;
Limone Piemonte, Marzo 2023, “maestra interviene per malore autista”;
Sandrà di Castelnuovo del Garda (VR), “Verona, l’autista ha un malore:
il bus degli studenti esce di strada e finisce in un vigneto”
(conducente di soli 26 anni);
Alessandria, Aprile 2022, “Autista di pullman muore alla guida per un
malore”;
Settingiano (CZ), Luglio 2023, “Accosta ai primi sintomi: autista salva
passeggeri bus prima di morire di infarto”;
Venezia, Ottobre 2022, “Malore improvviso prima di prelevare una
scolaresca: Oscar Bonazza muore a 63 anni;
Roma, Dicembre 2022, “Roma, bus con 41 bimbi a bordo finisce fuori
strada per malore autista”;
Cittadella (PD), Gennaio 2023, “Autista di scuolabus muore alla guida
per un malore e centra un pullman a Cittadella. Il conducente aveva
appena lasciato gli alunni a scuola”;
Genova, Luglio 2023, “Autobus sbanda e colpisce le auto in sosta per un
malore dell’autista. L’autista è stato accompagnato al Pronto soccorso
un condizioni di media gravità”;
Cagliari, Maggio 2023, “Malore improvviso, l’autista perde il controllo
del bus, esce di strada e abbatte due semafori: strage sfiorata”;
Piacenza, Aprile 2023, “Autobus di linea contro un albero dopo il malore
dell’autista”… Il più curioso, guardacaso, è poi questo;
L’Aquila, Luglio 2023, “Troppo caldo a bordo del bus, autista
dell’Azienda mobilità aquilana (Ama) viene colpito da un malore”.
27.11.23
Su 326 autopsie di vaccinati morti «un totale
di 240 decessi (73,9%) sono stati giudicati in modo indipendente come
direttamente dovuti o a cui ha contribuito in modo significativo la
vaccinazione COVID-19».
A scriverlo nero su bianco è una ricerca pubblicata in pre-print (ovvero
ancora in attesa di revisione paritaria che potrebbe arrivare tra un
mese o tra due anni) dal sito Zenodo che non può essere ritenuta una
piattaforma poco affidabile in quanto è gestito dal CERN per OpenAIRE.
Zenodo è un archivio open access per le
pubblicazioni e i dati da parte dei ricercatori. Il suo nome deriva da
Zenodotos di Ephesos, il primo Direttore della grande biblioteca di
Alessandria che ha messo le basi per la costruzione della
biblioteconomia.
L’Organizzazione europea per la ricerca nucleare, comunemente conosciuta
con la sigla CERN, è il più grande laboratorio al mondo di fisica delle
particelle, posto al confine tra la Francia e la Svizzera, alla
periferia ovest della città di Ginevra, nel comune di Meyrin. La
convenzione che lo istituiva fu firmata il 29 settembre 1954 da 12 stati
membri mentre oggi ne fanno parte 23 più alcuni osservatori, compresi
stati extraeuropei.
OpenAIRE è un partenariato senza scopo di lucro di 50 organizzazioni,
fondato nel 2018 come entità giuridica greca, OpenAIRE A.M.K.E, per
garantire un’infrastruttura di comunicazione accademica aperta e
permanente a sostegno della ricerca europea.
Lo studio è stato presentato dal laureato in
science (BS) Nicolas Hulscher presso il Dipartimento di Epidemiologia
dell’Università del Michigan lo scorso venerdì 17 novembre 2023 durante
una “poster session”. In ambito accademico l’esposizione di un “poster”,
in un congresso o una conferenza con un focus accademico o
professionale, è la presentazione di informazioni di ricerca sotto forma
di poster cartaceo che i partecipanti alla conferenza possono
visualizzare.
Il giovane Hulsher è stato accreditato con un progetto approvato
denominato “Systematic Review of Autopsy Findings in Deaths after
COVID-19 Vaccination – Revisione sistematica dei risultati dell’autopsia
nei decessi dopo la vaccinazione COVID-19” in cui ha potuto fregiarsi di
mentor senior di fama mondiale soprattutto nell’ambito delle inchieste
sui danni da sieri genici mRNA o mDNA.
McCullough, che ha dato risalto all’evento
sul suo substack, è il noto cardiologo americano che per primo ha
denunciato i pericoli di miocarditi letali, confermati dagli studi FDA,
CDC e infine anche dall’EMA, mentre Makis è l’oncologo canadese che ha
scoperto il fenomeno del turbo-cancro.
Nei mesi scorsi lo studio era stato pubblicato anche dalla nota rivista
britannica The Lancet che però lo aveva ritirato dopo 24 ore perché
aveva scatenato – giustamente – una bufera sui media, sui social e di
conseguenza nella comunità scientifica internazionale.
presentazione ufficiale presso l’Università
de Michigan e dalla pubblicazione sul sito Zenodo gestito dal CERN.
D’altronde soltanto una volontà paranoica di censura potrebbe oscurarlo
essendo basato su una semplice analisi di documenti pubblicati sul più
importante archivio medico del mondo: la libreria PUBMED gestita
dall’NIH, ovvero l’Istituto Nazionale per la Salute del Governo USA.
«Il rapido sviluppo e l’ampia diffusione dei vaccini contro il COVID-19,
combinati con un elevato numero di segnalazioni di eventi avversi, hanno
portato a preoccupazioni sui possibili meccanismi di danno, tra cui la
distribuzione sistemica delle nanoparticelle lipidiche (LNP) e
dell’mRNA, il danno tissutale associato alle proteine spike, la
trombogenicità, disfunzione del sistema immunitario e cancerogenicità.
Lo scopo di questa revisione sistematica è indagare i possibili
collegamenti causali tra la somministrazione del vaccino COVID-19 e la
morte utilizzando autopsie e analisi post mortem».
Si legge nell’Abstract della ricerca che fa
riferimento a problematiche già certificate separatamente da altre
decine di studi come quello del biochimico italiano Gabriele
Segalla sulle nanoforme e sugli eccipienti tossici del siero genico
Comirnaty di Pfizer-Biontech autorizzato dall’European Medicines Agency
nonostante non potesse “non sapere della tossicità delle inoculazioni”.
«Abbiamo cercato tutti i rapporti autoptici e necroscopici pubblicati
relativi alla vaccinazione COVID-19 fino al 18 maggio 2023 – riferiscono
Hulsher et al. – Inizialmente abbiamo identificato 678 studi e, dopo lo
screening dei nostri criteri di inclusione, abbiamo incluso 44 documenti
che contenevano 325 casi di autopsia e un caso di necroscopia. Tre
medici hanno esaminato in modo indipendente tutti i decessi e hanno
determinato se la vaccinazione contro il COVID-19 fosse la causa diretta
o avesse contribuito in modo significativo alla morte».
«Il sistema di organi più implicato nella
morte associata al vaccino COVID-19 è stato il sistema cardiovascolare
(53%), seguito dal sistema ematologico (17%), dal sistema respiratorio
(8%) e da sistemi multipli di organi (7%). In 21 casi sono stati colpiti
tre o più apparati. Il tempo medio dalla vaccinazione alla morte è stato
di 14,3 giorni. La maggior parte dei decessi si è verificata entro una
settimana dall’ultima somministrazione del vaccino. Un totale di 240
decessi (73,9%) sono stati giudicati in modo indipendente come
direttamente dovuti o a cui ha contribuito in modo significativo la
vaccinazione COVID-19» si legge nello studio consultabile su Zenodo
(link a fondo pagina).
Ecco quindi le considerazioni finali dei ricercatori scientifici e
medici:
«La coerenza osservata tra i casi in questa revisione con eventi avversi
noti del vaccino COVID-19, i loro meccanismi e il relativo eccesso di
morte, insieme alla conferma dell’autopsia e alla decisione della morte
guidata dal medico, suggerisce che esiste un’alta probabilità di un
nesso causale tra COVID-19 vaccini e morte nella maggior parte dei casi.
Sono necessarie ulteriori indagini urgenti allo scopo di chiarire i
nostri risultati».
«Il sistema di organi più implicato nella
morte associata al vaccino COVID-19 è stato il sistema cardiovascolare
(53%), seguito dal sistema ematologico (17%), dal sistema respiratorio
(8%) e da sistemi multipli di organi (7%). In 21 casi sono stati colpiti
tre o più apparati. Il tempo medio dalla vaccinazione alla morte è stato
di 14,3 giorni. La maggior parte dei decessi si è verificata entro una
settimana dall’ultima somministrazione del vaccino. Un totale di 240
decessi (73,9%) sono stati giudicati in modo indipendente come
direttamente dovuti o a cui ha contribuito in modo significativo la
vaccinazione COVID-19» si legge nello studio consultabile su Zenodo
(link a fondo pagina).
Ecco quindi le considerazioni finali dei ricercatori scientifici e
medici:
«La coerenza osservata tra i casi in questa revisione con eventi avversi
noti del vaccino COVID-19, i loro meccanismi e il relativo eccesso di
morte, insieme alla conferma dell’autopsia e alla decisione della morte
guidata dal medico, suggerisce che esiste un’alta probabilità di un
nesso causale tra COVID-19 vaccini e morte nella maggior parte dei casi.
Sono necessarie ulteriori indagini urgenti allo scopo di chiarire i
nostri risultati».
La
ricerca pubblicata sul sito Zenodo gestito dal CERN – link al fondo
dell’articolo tra le fonti
Brevetto Moderna ammette i problemi di tumori
nel DNA da laboratorio
Bre
Leggiamo infatti nel brevetto dell’agosto 2019 sui vaccini
mRNA contro il virus parainfluenzale umano 3 (HPIV-3) quanto segue:
“L’iniezione diretta di DNA geneticamente modificato (ad esempio DNA
plasmidico nudo) in un ospite vivente fa sì che un piccolo numero delle
sue cellule producano direttamente un antigene, determinando una
risposta immunologica protettiva. Da questa tecnica, tuttavia, derivano
potenziali problemi, inclusa la possibilità di mutagenesi inserzionale,
che potrebbe portare all’attivazione di oncogeni o all’inibizione di
geni oncosoppressori”.
La soppressione del gene che contrasta lo sviluppo dei tumori
è proprio quel meccanismo che molti oncologi ritengono sia responsabile
delle forme anomale di turbo-cancro rilevate tra le persone vaccinate
coi sieri genici mRNA Covid
21.10.23
Giovedì Health Canada ha confermato la
presenza di contaminazione del DNA nei vaccini Pfizer COVID-19 e ha
anche confermato che Pfizer non ha rivelato la contaminazione
all’autorità sanitaria pubblica. La contaminazione del DNA include il
promotore e potenziatore Simian Virus 40 (SV40) che Pfizer non aveva
precedentemente rivelato e che secondo alcuni esperti rappresenta un
rischio di cancro a causa della potenziale integrazione con il genoma
umano.
Health Canada, l’autorità sanitaria pubblica del paese, ha dichiarato a
The Epoch Times che mentre Pfizer ha fornito le sequenze complete di DNA
del plasmide nel suo vaccino al momento della presentazione iniziale, il
produttore del vaccino “non ha identificato specificamente la sequenza
SV40”.
“Health Canada si aspetta che gli sponsor identifichino qualsiasi
sequenza di DNA biologicamente funzionale all’interno di un plasmide
(come un potenziatore SV40) al momento della presentazione”, ha
affermato.
L’ammissione di Health Canada è arrivata dopo che due scienziati, Kevin
McKernan e Phillip J. Buckhaults, Ph.D., hanno scoperto la presenza di
DNA plasmidico batterico nei vaccini mRNA COVID-19 a livelli
potenzialmente 18-70 volte superiori ai limiti stabiliti dagli Stati
Uniti. Food and Drug Administration (FDA) e Agenzia europea per i
medicinali. L’immunologo virale Dr. Byram Bridle dell’Università di
Guelph in Canada, commentando l’ammissione di Health Canada ha scritto
sul suo Substack: “Questa è un’ammissione di proporzioni epiche”.
Bridle ha anche scritto:
“Bisogna chiedersi perché la Pfizer non abbia voluto rivelare la
presenza di una sequenza di DNA biologicamente funzionale a un ente
regolatore sanitario. Alla Pfizer è stato richiesto di rivelare alle
agenzie di regolamentazione sanitaria tutte le sequenze bioattive nel
DNA plasmidico batterico utilizzato per produrre le loro
iniezioni.Bridle ha osservato che sono trascorsi “818 giorni in totale”
da quando l’Università di Guelph gli ha vietato di accedere al suo
ufficio e al suo laboratorio per aver tentato di condurre ricerche
simili, mentre altri ricercatori “sono stati al centro di attacchi da
parte di molti cosiddetti ‘esperti di disinformazione’, ” anche se
nessuno “è stato in grado di confutare le proprie scoperte”.
L’immunologa, biologa e biochimica Jessica Rose, Ph.D., ha dichiarato a
The Defender: “DNA residuo è stato trovato nei prodotti Pfizer e Moderna
– e soprattutto Pfizer -, in fiale più vecchie e più nuove, incluso il
monovalente per adulti XBB.1.5 [ vaccino].”
Rose ha affermato che ciò indica che tale contaminazione “è un problema
continuo”.
In osservazioni separate fatte mercoledì al programma “Good Morning CHD”
di CHD.TV, Rose ha detto che McKernan “ha anche esaminato il vaccino
Janssen [Johnson & Johnson] e ha scoperto DNA residuo a livelli molto
alti”. “Il DNA plasmidico viene utilizzato nella produzione di
vaccini mRNA e dovrebbe essere rimosso a un livello inferiore a una
soglia stabilita dalle agenzie di regolamentazione sanitaria prima che
il prodotto finale venga rilasciato per la distribuzione”, ha riferito
The Epoch Times.
La scoperta di McKernan ha reso “possibile per Health Canada confermare
la presenza del potenziatore sulla base della sequenza di DNA plasmidico
presentata da Pfizer rispetto alla sequenza del potenziatore SV40
pubblicata”, ha affermato Health Canada.
L’SV40 è spesso utilizzato nella terapia
genica per la sua capacità unica di trasportare geni alle cellule
bersaglio.
Nel processo di produzione del vaccino, l’SV40 “viene utilizzato come
potenziatore per guidare la trascrizione genetica”, ha scritto The Epoch
Times. McKernan il mese scorso “ha avvertito che la presenza di plasmidi
di DNA nei vaccini significa che potrebbero potenzialmente integrarsi
nel genoma umano”.
Descrivendo la ricerca di McKernan come “ineccepibile”, Kirsch ha
scritto sul suo Substack: “Il DNA dura per sempre e, se si integra nel
tuo genoma, produrrai il suo prodotto per sempre”.
“Ciò può far sì che la cellula appena
programmata si riproduca e produca mRNA con le risultanti proteine
spike per un tempo sconosciuto, potenzialmente per sempre e persino
per la generazione successiva”.
23.09.23
L'Asl
To5 l'aveva sospesa nel periodo Covid perché non vaccinata bloccando la
retribuzione, ora dovrà restituire stipendi e interessi Il tribunale dà ragione alla dipendente No Vax
massimiliano rambaldi
L'Asl To 5 l'aveva sospesa dal suo lavoro d'ufficio nel periodo Covid,
perché si era rifiutata di vaccinarsi interrompendole anche il pagamento
dello stipendio. Una volta rientrata, alla fine delle restrizioni
previste, la donna aveva fatto causa all'azienda sanitaria nonostante in
quel periodo ci fossero delle direttive ben chiare sull'obbligo
vaccinale. Dieci giorni fa la decisione, per certi versi inaspettata,
del tribunale del lavoro di Torino: con la sentenza 1552 i giudici hanno
infatti accolto il ricorso della dipendente, accertando e dichiarando
«l'illegittimità della sospensione dal servizio – si legge nel documento
pubblicato dall'azienda sanitaria di Chieri – condannando quindi l'Asl
To 5 a corrispondere alla dipendente il trattamento retributivo
richiesto, oltre agli interessi, rivalutazione e compensazione delle
spese di lite». In sostanza, secondo quel giudice, l'Asl non poteva
sospendere la donna dal posto di lavoro e men che meno negarle lo
stipendio. E ora, nell'immediato, dovrà pagarle tutto, interessi
compresi nonché le spese legali. Questo perché, nonostante l'azienda
sanitaria abbia già deciso di ricorrere in appello contro tale sentenza:
«in ragione della provvisoria esecutività della stessa – spiegano dalla
direzione nella medesima documentazione - pur non essendo passata in
giudicato, l'Asl è tenuta all'ottemperanza». Gli importi dovuti e i
giorni di sospensione della dipendente non sono stati resi noti.
La dipendente in questione lavora in ambito amministrativo e non è a
contatto con pazienti di un ospedale specifico. Ricordiamo tutti, però,
che il governo si era dimostrato estremamente rigoroso contro chi non
voleva ricevere il vaccino. In assenza di motivazioni valide (l'unica
accettata era una certificata grave patologia pregressa) la persona no
vax non poteva più esercitare la propria professione e, qualora fosse
stato possibile, doveva essere destinata a mansioni alternative. In caso
di impossibilità a spostamenti, sarebbe scattata l'immediata sospensione
non retribuita che poteva terminare solo una volta effettuata la
vaccinazione. Altrimenti il divieto di andare al lavoro sarebbe
continuato fino al completamento della campagna vaccinale. In sostanza
quello che è capitato nel caso in questione. La dipendente aveva però
deciso di intraprendere le vie legali perché pretendeva di essere
regolarmente pagata e di lavorare ugualmente, anche senza aver seguito
il percorso anti Covid. Presentando a sua difesa documentazioni che il
giudice del lavoro, a quanto pare, ha ritenuto valide. «La decisione e
la linea interpretativa del tribunale del lavoro non può essere
condivisa – spiegano dall'azienda sanitaria -, in quanto non è coerente
con il dispositivo contenuto nel decreto legge 172 del 2021, anche alla
luce del diverso orientamento espresso sul punto dalla Corte d'Appello
di Torino, sezione lavoro». Immediata quindi la decisione di ricorrere
in appello, affidando la questione ai legali di fiducia.
—
22.09.23
Testimonianza coraggiosa del dottor Phillip Buckhaults dell'Università
della Carolina del Sud.
I “vaccini” Covid non sono stati adeguatamente testati e i loro danni
non sono stati adeguatamente indagati. La FDA e il CDC devono ammettere
i propri fallimenti normativi ed essere onesti con il pubblico.
La Ricerca delle Università Australiane
basata su 253 Studi Internazionali
L’hanno pubblicata gli scienziati autraliani Peter I Parry dell’Unità
clinica di ricerca sulla salute dei bambini, Facoltà di Medicina,
Università del Queensland, South Brisbane, Australia, Astrid
Lefringhausen, Robyn Cosford e Julian Gillespie, Children’s Health
Defense (Capitolo Australia), Huskisson, Conny Turni, Ricerca
microbiologica, QAAFI (Queensland Alliance for Agriculture and Food
Innovation), Università del Queensland, St. Lucia, Christopher J. Neil,
Dipartimento di Medicina, Università di Melbourne, Melbourne, e Nicholas
J. Hudson, Scuola di Agricoltura e Scienze Alimentari, Università del
Queensland, Brisbane.
E’ un colossale lavoro di letteratura
scientifica basato su ben 253 studi nei quali vengono citati i più
significativi sulla tossicità della proteina Spike e dei vaccini che la
innesca nell’organismo attraverso i vettori mRNA. Vengono infatti
menzionati lavori sulle malattie autoimmuni della biofisica Stephanie
Seneff, scienziata del prestigioso MIT (Massachusetts Institute of
Technology) di Cambridge, del cardiologo americano Peter McCullough
(fonte 29 nello studio linkato a fondo pagina), quelli sui rischi di
tumori dell’oncologo britannico Angus Dalgleish (fonti 230-231), quelli
dell’esperto di genomica Kevin McKernan sulla replicazione cellulare dei
plasmidi di Dna Spike nel corpo umano (fonte 91), quelli della chimica
americana Alana F. Ogatache fu tra le prime a denunciare la pericolosità
dei sieri genici mRNA Moderna (fonte 52), ed ovviamente non poteva
mancare lo strepitoso e rivoluzionario del biochimico italiano Gabriele
Segalla sulle nanoparticelle tossiche del vaccino Comirnaty di
Pfizer-Biontech (fonte 61).
“Spikeopatia”: la proteina Spike del COVID-19
è patogena, sia dall’mRNA del virus che da quello del vaccino.
di Parry et al. – pubblicata in origine su Biomedicine (link allo studio
completo a fondo pagina)
La pandemia di COVID-19 ha causato molte malattie, molti decessi e
profondi disagi alla società. La produzione di vaccini “sicuri ed
efficaci” era un obiettivo chiave per la salute pubblica. Purtroppo,
tassi elevati senza precedenti di eventi avversi hanno messo in ombra i
benefici. Questa revisione narrativa in due parti presenta prove dei
danni diffusi dei nuovi vaccini anti-COVID-19 mRNA e adenovettoriali ed
è innovativa nel tentativo di fornire una panoramica approfondita dei
danni derivanti dalla nuova tecnologia nei vaccini che si basavano sulla
produzione di cellule umane di un antigene estraneo che presenta
evidenza di patogenicità.
Questo primo articolo esplora i dati
sottoposti a revisione paritaria in contrasto con la narrativa “sicura
ed efficace” collegata a queste nuove tecnologie. La patogenicità delle
proteine spike, denominata “spikeopatia”, derivante dal virus
SARS-CoV-2 o prodotta dai codici genetici del vaccino, simile a un
“virus sintetico”, è sempre più compresa in termini di biologia
molecolare e fisiopatologia.
La trasfezione farmacocinetica attraverso tessuti corporei distanti dal
sito di iniezione mediante nanoparticelle lipidiche o trasportatori di
vettori virali significa che la “spikeopatia” può colpire molti organi.
Le proprietà infiammatorie delle nanoparticelle utilizzate per
trasportare l’mRNA; N1-metilpseudouridina impiegata per prolungare la
funzione dell’mRNA sintetico; l’ampia biodistribuzione dei codici mRNA e
DNA e le proteine spike tradotte, e l’autoimmunità attraverso la
produzione umana di proteine estranee, contribuiscono agli effetti
dannosi.
Questo articolo esamina gli effetti
autoimmuni, cardiovascolari, neurologici, potenziali oncologici e le
prove autoptiche per la spikeeopatia. Con le numerose tecnologie
terapeutiche basate sui geni pianificate, una rivalutazione è necessaria
e tempestiva.
Discussione
Abbiamo iniziato questo articolo citando la risposta dell’ente
regolatore sanitario australiano, il TGA, alla domanda di un senatore
australiano sui rischi dei vaccini genetici che inducono le cellule
umane a produrre la proteina spike SARS-CoV-2. La risposta è stata che
la proteina Spike non era un agente patogeno. Abbiamo presentato prove
significative che la proteina spike è patogena. Ciò vale quando fa parte
del virus, quando è libero ma di origine virale e quando è prodotto nei
ribosomi dall’mRNA dei vaccini COVID-19 mRNA e adenovettoreDNA. I
meccanismi fisiopatologici d’azione della proteina spike continuano ad
essere chiariti.
Abbiamo stabilito che la proteina spike
provoca danni legandosi al recettore ACE-2 e quindi sottoregolando il
recettore, danneggiando le cellule endoteliali vascolari. La proteina
spike ha un dominio legante simile alla tossina, che si lega a α7 nAChR
nel sistema nervoso centrale e nel sistema immunitario, interferendo
così con le funzioni di nAChR, come la funzione di ridurre
l’infiammazione e le citochine proinfiammatorie, come IL-6. Il
collegamento con le malattie neurodegenerative avviene anche attraverso
la capacità della proteina “spike” di interagire con le proteine che
formano l’amiloide leganti l’eparina, avviando l’aggregazione delle
proteine cerebrali.
La persistenza della proteina spike causa un’infiammazione persistente
(infiammazione cronica), che potenzialmente alla fine sposta il sistema
immunitario verso la tolleranza immunitaria (IgG4). Un effetto
particolare per le donne e la gravidanza è il legame della proteina
Spike al recettore alfa degli estrogeni, che interferisce con il
messaggio degli estrogeni.
La proteina Spike è citotossica all’interno
delle cellule attraverso l’interazione con i geni soppressori del cancro
e causando danni mitocondriali. Le proteine spike espresse sulla
superficie delle cellule portano alla risposta autoimmune citopatica.
La proteina spike libera si lega all’ACE-2 su altre cellule di organi e
sangue. Nel sangue la proteina Spike induce le piastrine a rilasciare
fattori di coagulazione, a secernere fattori infiammatori e a formare
aggregati leucociti-piastrine. La proteina spike lega il fibrinogeno,
inducendo la formazione di coaguli di sangue.
Esiste anche un’omologia problematica tra la
proteina spike e le proteine chiave nel sistema immunitario adattativo
che portano all’autoimmunità se vaccinati con l’mRNA che produce la
proteina spike.
I fattori farmacocinetici contribuiscono alla fisiopatologia. Come
accennato, lo studio sulla biodistribuzione di Pfizer (dove il 75% delle
molecole trasportatrici di nanoparticelle lipidiche ha lasciato il
deltoide per tutti gli organi entro 48 ore) per il PMDA giapponese era
noto alla TGA australiana prima dell’autorizzazione provvisoria dei
vaccini mRNA COVID-19 per l’Australia popolazione [5]. Poiché causano la
replicazione della proteina Spike in molti organi, i vaccini basati sui
geni agiscono come virus sintetici.
Il trasportatore di nanoparticelle lipidiche dell’mRNA e il PEG
associato che rende il complesso mRNA-LNP più stabile e resistente alla
degradazione, hanno i propri effetti tossici; le nanoparticelle
lipidiche principalmente attraverso effetti proinfiammatori e il PEG
mediante anafilassi in individui sensibili.
Röltgen et al. [53] hanno scoperto che l’mRNA
stabilizzato con N1-metilpseudouridina nei vaccini COVID-19 produce
proteine spike per almeno 60 giorni. Altre ricerche citate sulla
retroposizione del codice genetico [249] suggeriscono la possibilità che
tale produzione di una proteina patogena estranea possa potenzialmente
durare tutta la vita o addirittura transgenerazionale.
Un ampio corpo di ricerche emergenti mostra che la stessa proteina
spike, in particolare la subunità S1, è patogena e causa infiammazione e
altre patologie osservate nel COVID-19 acuto grave, probabilmente nel
COVID-19 lungo, e nelle lesioni da vaccino mRNA e adenovettoriDNA
COVID-19 . La parola “spikeopatia” è stata coniata dal ricercatore
francese Henrion-Caude [98] in una conferenza e dati gli effetti
patologici vari e sostanziali della proteina spike SARS-CoV-2,
suggeriamo che l’uso del termine avrà un valore euristico.
La piccopatia esercita i suoi effetti, come
riassunto da Cosentino e Marino [86] attraverso l’aggregazione
piastrinica, la trombosi e l’infiammazione correlate al legame
dell’ACE-2; interruzione delle glicoproteine transmembrana CD147 che
interferiscono con la funzione cardiaca dei periciti e degli eritrociti;
legandosi a TLR2 e TLR4 innescando cascate infiammatorie; legandosi
all’ER alfa probabilmente responsabile delle irregolarità mestruali e
dell’aumento del rischio di cancro attraverso le interazioni con p53BP1
e BRCA1. Altre ricerche mostrano ulteriori effetti spikeo-patologici
attraverso la produzione di citochine infiammatorie indotte da ACE-2, la
fosforilazione di MEK e la downregulation di eNOS, compromettendo la
funzione delle cellule endoteliali.
Effetti particolarmente nuovi della proteina spike comportano lo
squilibrio del sistema colinergico nicotinico attraverso l’inibizione di
α7 nAChR, portando a vie biochimiche antinfiammatorie alterate in molte
cellule e sistemi di organi, nonché a un alterato tono vagale
parasimpatico.
Le lesioni provocate dal vaccino mRNA e adenovettoriale del COVID-19 si
sovrappongono alla grave malattia acuta da COVID-19 e al COVID lungo, ma
sono più varie, data la più ampia biodistribuzione e la produzione
prolungata della proteina spike.
La miopericardite è riconosciuta ma spesso è
stata minimizzata come lieve e rara, tuttavia l’evidenza di una
miopericardite subclinica correlata al vaccino COVID-19 relativamente
comune [113,115] e l’evidenza autoptica [246,247,248] suggeriscono un
ruolo nelle morti improvvise in persone relativamente giovani e in forma
[116,117 ]. Le proteine spike hanno anche meccanismi per aumentare la
trombosi attraverso l’infiammazione correlata all’ACE-2, il disturbo del
sistema dell’angiotensina [119], il legame diretto con i recettori ACE-2
sulle piastrine [1], l’interruzione dell’antitrombina [122], ritardando
la fibrinolisi [123] (prestampa) e riducendo la repulsione
elettrostatica degli eritrociti che porta all’emoagglutinazione [124].
Le malattie autoimmuni di nuova insorgenza dopo la vaccinazione COVID-19
potrebbero riguardare l’omologia della proteina spike e, nella malattia
virale che include altre proteine SARS-CoV-2, con le proteine umane
[5,138].
Il complesso mRNA-LNP attraversa la BBB e i
disturbi neurologici sono altamente segnalati nei database di
farmacovigilanza a seguito dei vaccini COVID-19. Numerosi meccanismi di
spikepatia vengono chiariti come disturbi sottostanti che coinvolgono:
permeabilità del BBB [128]; danno mitocondriale [168]; disregolazione
dei periciti vascolari cerebrali [169]; Neuroinfiammazione mediata da
TLR4 [170]; morte delle cellule dell’ippocampo [171]; disregolazione
delle cascate del complemento e della coagulazione e dei neutrofili che
causano coagulopatie [173] (prestampa); neuroinfiammazione e
demielinizzazione tramite disregolazione microgliale [174,177,180];
aumento dell’espressione di α-Syn coinvolta nella malattia
neurodegenerativa [175]; livelli elevati di chemochina 11 del motivo CC
associati all’invecchiamento e alla successiva perdita di cellule
neurali e mielina; legandosi al recettore nicotinico dell’acetilcolina
α7 (nAChR), aumentando i livelli di IL-1b e TNFα nel cervello causando
elevati livelli di infiammazione [172,177]; la subunità S1 è
amiloidogenica [185]; disautonomia [96], mediante danno neuronale
diretto o meccanismi immunomediati indiretti, ad esempio inibizione di
α7 nAChR; anosmia causata sia dal vaccino che dalla malattia [44],
anch’essa prodromica alla malattia di Parkinson.
Inoltre, gli autoanticorpi nel dominio
C-terminale globulare possono causare la malattia di Creutzfeldt Jakob
(CJD) [218], miR-146a è alterato in associazione con COVID-19 [222] e
associato sia a infezioni virali che a malattie da prioni nel cervello,
e È stato dimostrato che S1 induce senescenza nelle cellule trasfettate.
La quantità di possibili meccanismi di danno mediato dai picchi nel
cervello è pari nella vita reale alla prevalenza di effetti avversi
neurologici e neurodegenerativi e richiede urgentemente ulteriori
ricerche.
Il cancro, anche se non è stato dimostrato con certezza che sia causato
dai vaccini, sembra seguire da vicino la vaccinazione e abbiamo
esaminato le possibili cause sotto forma di interazioni delle proteine
spike con fattori di trascrizione e geni soppressori del cancro.
Il vaccino doveva proteggere le persone di
età superiore ai 60 anni con il maggior rischio di mortalità da COVID-19
[10], tuttavia un’analisi del rischio condotta da Dopp e Seneff (2022)
[250] ha mostrato che la probabilità di morire a causa dell’iniezione è
solo 0,13 % inferiore al rischio di morte per infezione nelle persone di
età superiore a 80 anni.
Inoltre, l’invecchiamento naturale è accompagnato da cambiamenti nel
sistema immunitario che compromettono la capacità di rispondere
efficacemente ai nuovi antigeni. Similmente alle risposte ai virus
stratificate per età, ciò significa che i vaccini diventano meno
efficaci nell’indurre l’immunità negli anziani, con conseguente ridotta
capacità di combattere nuove infezioni [251].
La vaccinazione con mRNA COVID-19 a due dosi
ha conferito una risposta immunitaria adattativa limitata tra i topi
anziani, rendendoli suscettibili all’infezione da SARS-CoV-2 [252].
Secondo uno studio di Vo et al., (2022) [253], il rischio di malattie
gravi tra i veterani statunitensi dopo la vaccinazione è rimasto
associato all’età. Questo rischio di infezioni intercorrenti era anche
maggiore se erano presenti condizioni di immunocompromissione.
Infine, abbiamo esaminato le migliori serie di casi di autopsia
attualmente disponibili, eseguite in Germania, che stabiliscono le
connessioni tra spikeopatia e fallimenti multipli di organi, neuropatie
e morte.
Conclusioni
In questa revisione narrativa, abbiamo stabilito il ruolo della proteina
spike SARS-CoV-2, in particolare della subunità S1, come patogena. Ora è
anche evidente che le proteine spike ampiamente biodistribuite,
prodotte dai codici genetici dell’mRNA e del DNA adenovettoriale,
inducono un’ampia varietà di malattie. I meccanismi fisiopatologici e
biochimici sottostanti sono in fase di chiarimento.
I trasportatori di nanoparticelle lipidiche
per i vaccini mRNA e Novavax hanno anche proprietà proinfiammatorie
patologiche. L’intera premessa dei vaccini basati sui geni che producono
antigeni estranei nei tessuti umani è irta di rischi per disturbi
autoimmuni e infiammatori, soprattutto quando la distribuzione non è
altamente localizzata.
Le implicazioni cliniche che seguono sono che i medici in tutti i campi
della medicina devono essere consapevoli delle varie possibili
presentazioni della malattia correlata al vaccino COVID-19, sia acuta
che cronica, e del peggioramento delle condizioni preesistenti.
Sosteniamo inoltre la sospensione dei vaccini COVID-19 basati sui geni e
delle matrici portatrici di nanoparticelle lipidiche e di altri vaccini
basati sulla tecnologia mRNA o DNA vettoriale virale. Una strada più
sicura è quella di utilizzare vaccini con proteine ricombinanti ben
testate, tecnologie virali attenuate o inattivate, di cui ora ce ne sono
molti per la vaccinazione contro la SARS-CoV-2.
di Parry et al. – pubblicata in origine su Biomedicine
BIOMEDICINE – ‘Spikeopathy’: COVID-19 Spike Protein Is Pathogenic, from
Both Virus and Vaccine mRNA
14.09.23
Fondata nel 1945, Kaiser Permanente è
riconosciuta come uno dei principali fornitori di assistenza sanitaria e
piani sanitari senza scopo di lucro d’America. Attualmente opera in 8
stati (California del Nord, California del Sud, Colorado, Georgia,
Hawaii, Virginia, Oregon, Washington) e nel Distretto di Columbia.
«La cura dei membri e dei pazienti si concentra sulla loro salute
totale. I medici, gli specialisti e i team di operatori sanitari di
Permanente Medical Group guidano tutte le cure. I nostri team medici
possono avvalersi di tecnologie e strumenti leader del settore per la
promozione della salute, la prevenzione delle malattie, l’erogazione
delle cure e la gestione delle malattie croniche» spiega
l’organizzazione medica.
«Abbiamo condotto uno studio di coorte
retrospettivo su pazienti Kaiser Permanente Northwest (KPNW) di età pari
o superiore a 18 anni che sono stati vaccinati con la formulazione
Pfizer o Moderna del vaccino bivalente COVID19 tra il 1 settembre 2022 e
il 1 marzo 2023. I pazienti sono stati inclusi nello studio studiare se
fossero iscritti al KP al momento della vaccinazione e durante il
periodo di follow-up di 21 giorni. Abbiamo replicato la metodologia di
analisi del ciclo rapido Vaccine Safety Datalink (VSD) e cercato
possibili casi di ictus ischemico o TIA nei 21 giorni successivi alla
vaccinazione utilizzando i codici diagnostici ICD10CM sia nella
posizione primaria che in qualsiasi posizione».
E’ quanto si legge nell’Abstract della ricerca intitolata “Rischio di
ictus ischemico dopo la vaccinazione di richiamo bivalente COVID-19 in
un sistema sanitario integrato (Risk of Ischemic Stroke after COVID-19
Bivalent Booster Vaccination in an Integrated Health System)”.«Abbiamo
identificato un aumento del 50% nell’incidenza di ictus ischemico per
100.000 pazienti di età pari o superiore a 65 anni vaccinati con il
vaccino bivalente Pfizer, rispetto ai dati presentati dal VSD. Il 79%
dei casi di ictus ischemico sono stati ricoverati in ospedali che non
sono di proprietà del sistema di consegna integrato e un ritardo
nell’elaborazione delle richieste di risarcimento assicurative esterne
all’ospedale è stato probabilmente responsabile della discrepanza
nell’accertamento dei casi di ictus ischemico. ».
18.08.23
Il procuratore generale del Texas Ken Paxton
ha cercato di fare luce sulla sicurezza dei vaccini Covid e sugli
esperimenti americani Gain of Function (GOF) per il potenziamento dei
virus SARS in laboratorio, condotti dal virologo Anthony Fauci tra gli
USA (University of North Carolina) e il Wuhan Institute of Virology, ma
è stato subito colpito da un impeachment (per altre ragioni politiche)
che ha bloccato la sua inchiesta.
Ora quattro famiglie americane delle vittime Covid hanno presentato una
formale denuncia per quelle pericolosissime ricerche prendendo di mira
il famigerato zoologo di origini britanniche Peter Daszak, presidente
della società EcoHealthAlliance di New York che fu finanziata dalla Bill
& Melinda Gates Foundation e soprattutto dall’Istituto Nazionale
Allergie e Malattie Infettive diretto da Fauci (fino al dicembre 2022)
per i progetti di costruzione di coronavirus chimerici del ceppo SARS
chimerici nel centro virologico cinese.
l dottor Zhou Yusen misteriosamente morto tre
mesi dopo aver brevettato un vaccino contro il Covid-19 nel febbraio
2020 che, secondo gli investigatori americani, sarebbe morto
misteriosamente proprio cadendo dal tetto del WIV di Wuhan.
Nel giugno 1998 durante il vertice
sino-americano in Cina il presidente Bill Clinton siglò una “Convenzione
sulla armi biologiche” con il presidente cinese Jiang Zemin,
Nell’aprile 2004 la Commissione Europea
presieduta dall’italiano Romano Prodi e composta anche dal commissario
Mario Monti diede il primo finanziamento di quasi 2milioni di euro al
Wuhan Institute of Virology grazie al quale la direttrice del Centro di
Malattie Infettive Shi Zengli, soprannominata bat-woman per i suoi
esperimenti sui coronavirus dei pipistrelli cinesi a ferro di cavallo,
creò il primo virus chimerico ricombinante potenziando un ceppo di SARS
con plasmidi infettati dal virus HIV.
16.08.23
l’instabilità del sistema colloidale di
nanomateriali lipidici (e il conseguente maggior rischio tossicologico)
della prima versione di Comirnaty sia sostanzialmente dovuta alla
presenza, in quella formulazione, di fattori destabilizzanti, quali,
appunto, i composti inorganici elettrolitici in eccesso, costituiti
principalmente dai componenti del tampone pH PBS utilizzato da
Pfizer-BioNTech».
Evidenzia il dottor Segalla illustrando le differenti caratteristiche
della stabilizzazione del farmaco concorrente Spikevax di Moderna.
«A questo proposito, però, quanto riportato nel brevetto della stessa
BioNTech (co- titolare, insieme a Pfizer, del vaccino Comirnaty) US
10,485,884 B2 RNA Formulation for Immunoterapy [Formulazioni a RNA per
immunoterapia] del 26 novembre 2019, risulta ancor più esplicito al
riguardo della “elevata tossicità” attribuita a “liposomi e lipoplexes”
caricati positivamente».
«Ciò si riferisce a formulazioni a base di RNA incapsulato in
nanoparticelle lipidiche cationiche – del tipo cioè di quelle usate nel
Comirnaty – e denominate, in questo contesto, “lipoplexes”. Nella
descrizione del brevetto, si spiega, fra l’altro, come le nanoparticelle
cationiche contenenti RNA si formino soprattutto grazie a determinati
rapporti di massa/carica tra i lipidi cationici (+) e le componenti
anioniche (-) dell’ RNA, e come tali rapporti giochino un ruolo
fondamentale anche per quanto riguarda il passaggio delle nanoparticelle
contenenti RNA attraverso la membrana cellulare e il conseguente
trasferimento dell’RNA all’interno della cellula (trasfezione) per
modificarne le caratteristiche funzionali:
Con una minore carica positiva in eccesso, l’efficacia della trasfezione
scende drasticamente, andando praticamente a zero. Sfortunatamente,
però, per liposomi e lipoplexes [nanoparticelle lipidiche] caricati
positivamente è stata segnalata un’elevata tossicità, che può essere un
problema per l’applicazione di tali preparati come prodotti
farmaceutici. [corsivi aggiunti] (Figura 26)».
«Le ragioni per cui i tamponi pH del tipo PBS non vanno assolutamente
bene in preparati a base di nanoparticelle cationiche inglobanti RNA
sono spiegate molto chiaramente nella sezione del brevetto intitolata
“Effects of Buffers/ Ions on Particle Sizes and PI of RNA Lipoplexes”
[Effetti dei tamponi / composti ionici sulle dimensioni e Indice di
polidispersione delle nanoparticelle lipidiche contenenti RNA] del
suddetto brevetto di BioNTech US 10,485,884 B2, 44 (47-50), 45 (4-6), 45
(31- 33)».
In condizioni fisiologiche (cioè a pH 7,4; 2,2 mM Ca++), è imperativo
assicurarsi che ci sia un rapporto di carica prevalentemente negativa, a
causa dell’ instabilità delle nanoparticelle lipidiche neutre o caricate
positivamente. [corsivi aggiunti] (Figura 27)
«In altre parole, sulla base di quanto scientificamente documentato e
riportato in un brevetto della stessa BioNTech, in aggiunta a quanto già
descritto riguardo alla pericolosità intrinseca delle nanoparticelle
lipidiche caricate positivamente, apprendiamo che un sistema colloidale
di nanoparticelle lipidiche cationiche inglobanti mRNA.
NON dovrebbe contenere nella propria formulazione un tampone ionico come
il PBS, al fine di prevenire fenomeni di aggregazione, agglomerazione,
flocculazione delle nanoparticelle lipidiche, con tutte le conseguenze
di ordine tossicologico sopra descritte.
NON dovrebbe contenere nella propria formulazione composti ionici (come
ad es. cloruro di sodio), al fine di prevenire fenomeni di aggregazione,
agglomerazione, flocculazione delle nanoparticelle lipidiche, con tutte
le conseguenze di ordine tossicologico sopra descritte.
NON dovrebbe essere iniettato per via intramuscolare, a causa della sua
instabilità quando viene a trovarsi nelle condizioni fisiologiche del
distretto extracellulare (pH 7,4; 2,2 mM Ca++).
«Tutte e tre queste rigorose raccomandazioni, riportate nel succitato
brevetto di BioNTech del 2019, sono spudoratamente disattese, o
ignorate, nel 2020, sia da Pfizer-BioNTech sia dagli enti certificatori,
sia nel merito della formulazione (ionico/ elettrolitico) sia in quello
della destinazione d’uso (inoculazione intramuscolare) del preparato
Comirnaty» rimarca il biochimico italiano segnalando che tali
«criticità» sono «in palese contrasto con le specifiche e pertinenti
raccomandazioni asserite dalla stessa BioNTech nel suo sopramenzionato
brevetto US 10,485,884 B2»
14.08.23
«Per i suesposti motivi, questo giudicante
ritiene non legittima e non conforme ai Principi Generali
dell’Ordinamento e della Costituzione la normativa in materia di obbligo
vaccinale, che pertanto va disapplicata. Con riguardo alle spese di
giudizio sussistono giustificati motivi per compensarle, attesa la
“particolarità” della materia trattata».
L’anonimo italiano over 50 che ha fatto ricorso al Giudice di Pace di
Santa Maria Capua a Vetere contro l’imposizione della vaccinazione Covid
e la conseguente multa da 100 euro emanata dall’Agenzia delle Entrate
per conto del Ministero della Salute dovrà pagare solo una ventina di
euro. Ovvero la metà dell’ammontare delle spese giudiziarie per ricorsi
inferiori a 1.100 euro.
Non è il primo e non sarà l’ultimo
pronunciamento giudiziario che contesta l’obbligatorietà dei sieri
genici sperimentali. Il caso più famoso è ovviamente quello della
giudice Susanna Zanda del Tribunale Civile di Firenze che, avendo osato
anche segnalare i decessi per presunte reazioni avverse ai vaccini alla
Procura della Repubblica di Roma, è finita nel fuoco incrociato della
Procura Generale della Corte di Cassazione che ha aperto un procedimento
disciplinare nei suoi confronti subito dopo le esternazioni politiche
del Ministro della Giustizia Carlo Nordio.
«Ebbene, al di là delle pronunce del
Consiglio d’Europa che ha avuto occasione di occuparsi della tematica
della vaccinazione Covid (con la Risoluzione 2361 del 2021) e di
decisioni, invece, contrarie, a parere di questo giudice, appaiono
decisive le circostanze, ormai conclamate, che il non vaccinato — a
prescindere dalle decisioni relative all’età — non ha determinato alcun
rischio maggiore per la salute pubblica rispetto ai soggetti vaccinati
provvisti di green pass, perché l’idoneità dei vaccini (quale strumento
di prevenzione del contagio), non solo non è pari o vicina al 100 % ma
si è di fatto rivelata prossima allo zero (Trib. Napoli marzo 2023)
«Il Tribunale del Lavoro di Catania, con la
decisione del 14.03.2022, ribadisce che “sebbene non si ignori che
l’impianto del D.D. 44/2021 sia ispirato alla finalità “di tutelare la
salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza
nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza” (art. 4, co. 1,
D.L. 44/2021), nell’ambito di una situazione emergenziale e del tutto
straordinaria, le conseguenze che esso implica nella sfera del
dipendente non vaccinato — e che si sono irrigidite a seguito delle
modifiche apportate all’originaria formulazione del decreto – appaiono
tuttavia eccessivamente sproporzionate e sbilanciate, nell’ottica della
necessaria considerazione degli altri valori costituzionali coinvolti,
tra cui, tra i primi, la dignità della persona, bene protetto da co. 2,
36,41 Cost. plurime previsioni della Carta: artt. 2, 3»
«Sebbene la legge possa prevedere
l’obbligatorietà di determinati trattamenti sanitari, sono rarissimi, ed
ancorati a precisi presupposti, ì casi in cui l’ordinamento consente la
possibilità di eseguirli contro la volontà della persona (ad es., è il
caso del TSO), valendo da sempre il principio che gli accertamenti ed i
trattamenti obbligatori debbano essere ‘accompagnati da iniziative
rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi
è obbligato”…»
«E ciò a conferma della consapevolezza del
legislatore che l’obbligo al trattamento sanitario costituisce pur
sempre un’eccezione rispetto al principio, di cui è espressione l’art.
32 Cost., della libera determinazione dell’individuo in materia
sanitaria».
In virtù di questi motivi ha accolto «il ricorso annullando il
provvedimento opposto» dall’avvocato Alessandra De Rosa contro l’avviso
di addebito di 100 euro al suo assistito.
08.08.23
Un manager della Pfizer in Oceania ha ammesso
che agli impiegati australiani dell’azienda farmaceutica di New York
sono somministrati dati lotti di vaccini differenti da quelli
distribuiti al pubblico.
Lo ha dichiarato durante un’Audizione davanti al Senato Australiano che,
a differenza dei politici dell’Unione Europea foraggiati dalle ONG di
Bill Gates, ha già avviato un’inchiesta formale per indagare sulla
natura dei sieri genici acquistati, sull’occultamento dei dati dei
trials clinici e sui danni causati ai vaccinati.
L’ammissione è arrivata durante una rigorosa
sessione di interrogatorio mercoledì, in cui il direttore medico
nazionale di Pfizer Australia, il dott. Krishan Thiru, e il capo delle
scienze normative, il dott. Brian Hewitt, hanno parlato davanti al
“Comitato per la legislazione sull’istruzione e l’occupazione” del
Senato australiano sui vaccini sperimentali contro il COVID-19, aggiunge
Gateway Pundit
23.07.23
I vaccini Covid contengono proporzioni
considerevoli di residui di DNA in grado di integrarsi permanentemente
nel genoma umano, causando malattie croniche e tumori. Questo potrebbe
anche spiegare l’eccesso di mortalità osservato dall’inizio delle
campagne di vaccinazione.
L’ex banchiere svizzero Pascal Najadi e'
l’autore di una denuncia penale per abuso di potere contro il presidente
della Confederazione Alain Berset è vaccinato tre volte e altrettante
volte si è costituito contro le autorità sanitarie da quando un’analisi
del suo sangue gli ha rivelato che il suo organismo continua a produrre
la proteina spike del vaccino più di 18 mesi dopo la sua ultima
iniezione Pfizer/BioNTech.
Contattato, l’interessato ci ha fornito i risultati del laboratorio
oltre ad una lettera del Prof. Sucharid Bhakdi confermando che “i
risultati del test indicano chiaramente che il signor Najadi soffre di
effetti irreparabili a lungo termine causati dal prodotto di mRNA
iniettato fabbricato da PfizerBiontech.
L’ex banchiere aveva consultato l’Ufficio
federale della sanità pubblica in Svizzera su questo argomento.
Quest’ultimo non è stato in grado di dargli risposte, sostenendo che non
poteva commentare un singolo caso. Pascal Najadi ne aveva dedotto che
l’ufficio in realtà non controllava nulla riguardo a queste nuove
tecnologie vaccinali.
La persistenza della presenza della proteina spike rilevata a Najadi e
altri iniettati rimane ufficialmente inspiegabile ed è ben oltre i 14
giorni comunicati quando sono state lanciate le campagne di vaccinazione
contro il Covid.
Tutti conoscono il DNA, rappresentato da una
doppia elica e contenente il nostro codice genetico. L’RNA è costituito
solo da un singolo filamento. La cellula lo produce secondo necessità
leggendo parte del DNA che servirà poi come specifiche per la produzione
di una proteina.
Una dose di “vaccino” Covid a RNA messaggero contiene miliardi di
filamenti di RNA messaggero, che innescheranno la produzione di
altrettante proteine spike del virus SARS-CoV-2 nelle cellule che
raggiungono. Queste proteine spike attiveranno una risposta del
sistema immunitario.
a proteina avanzata è stata anche presentata
come sostanza innocua durante le campagne di vaccinazione quando è nota
per essere tossica per l’organismo umano e causare la maggior parte
delle complicanze del Covid, comprese le reazioni infiammatorie e
allergiche.
Per comunicare, i batteri si scambiano
importanti “messaggi” genetici con l’aiuto dei cosiddetti plasmidi. Ad
esempio, se un batterio trova un nuovo meccanismo che aumenta la sua
resistenza agli antibiotici, incapsula questa informazione in plasmidi,
che verranno prodotti e ‘diffusi’ ad altri batteri.
Il processo di produzione dei filamenti di RNA dei vaccini Covid
richiede appunto di passare attraverso la manipolazione genetica dei
batteri mediante plasmidi, nei quali sarà stata precedentemente
introdotta la sequenza di DNA corrispondente alla proteina spike di
SARS-CoV-2.
Il plasmide viene propagato nei batteri e
utilizzato come stampo per la produzione di massa di RNA messaggero che
sarà in grado di innescare la produzione di proteine spike nelle
cellule vaccinate. Il DNA deve poi essere rimosso e l’RNA messaggero
viene poi miscelato con i lipidi per produrre nanoparticelle in grado di
portare l’mRNA nelle nostre cellule
Nell’ambito dell’autorizzazione
all’immissione in commercio del vaccino Pfizer, l’Agenzia europea per i
medicinali (Ema) si è quindi dovuta accontentare di consultare i dati
forniti dal produttore. EMA ha espresso sorpresa al produttore per il
fatto che il prodotto finale non fosse stato sequenziato geneticamente
per garantire che contenesse solo RNA messaggero e nessun DNA o altri
residui, apprende lo scienziato tedesco Florian Schilling in una
presentazione
Pfizer ha risposto di aver rinunciato
volontariamente al sequenziamento, ammettendo che non era certo
ottimale, ma che era giustificato per ridurre i costi. Anche altri
produttori hanno rinunciato a questo sequenziamento genetico come parte
della loro garanzia di qualità.
Tra le tecniche alternative di valutazione del prodotto utilizzate da
Pfizer c’è l’elettroforesi, che conta gli elementi presenti in una
soluzione in base alla loro dimensione.
Nei documenti forniti da Pfizer alla WEA,
l’RNA messaggero della proteina spike del vaccino è rappresentato da un
alto picco centrale. L’anomalia sono le “pendenze” su entrambi i lati
del picco, che rappresentano misteriosi “oggetti” genetici che non
corrispondono alle dimensioni dell’RNA messaggero e non dovrebbero
essere presenti in una soluzione purificata.
Anche l’EMA aveva voluto saperne di più e aveva richiesto i dati grezzi
a Pfizer. Il produttore aveva accettato di fornirli ma ad oggi non sono
ancora stati consegnati.
Un gruppo di ricercatori, preoccupato in
particolare per le conseguenze delle iniezioni di Covid sui giovani, ha
deciso all’inizio del 2023 di prendere in mano la situazione e mettere
in sequenza lotti di “vaccini” di Pfizer e Moderna. Il loro intero
approccio è spiegato in dettaglio in un primo articolo e nel suo
supplemento scritto da Kevin McKernan, biologo molecolare, specialista
in manipolazione genetica e sequenziamento, che ha partecipato
all’analisi.
Le loro scoperte sono di natura inquietante:
Quantità di DNA anormalmente elevata – La presenza di plasmidi
contenenti DNA proteico spike è stata confermata in proporzioni notevoli
per i “vaccini” di Pfizer e Moderna: tra il 20 e il 35%, ben oltre i
limiti di contaminazione fissati dall’EMA (0,033%) . Una singola dose
contiene quindi diversi miliardi di questi plasmidi che servivano per
produrre l’RNA messaggero e che poi avrebbero dovuto essere eliminati.
Queste informazioni sono già prova della non conformità di questi
prodotti alle normative vigenti.
Accelerazione della resistenza agli antibiotici – Fatto preoccupante, il
DNA di questi plasmidi contiene geni che li rendono resistenti a due
antibiotici: neomicina e kanamicina. L’introduzione di miliardi di geni
di resistenza agli antibiotici in plasmidi altamente replicabili,
consentendo la selezione di batteri resistenti a questi trattamenti nel
microbioma, dovrebbe sollevare preoccupazioni sull’accelerazione della
resistenza agli antibiotici su scala globale. Alcuni esperti stimavano
già prima della crisi del Covid che entro il 2050 non avremmo più avuto
antibiotici efficaci.
Elevato fattore di errore di copia – Gli scienziati affermano che la
presenza di un nucleotide chiamato pseudouridina è molto preoccupante
poiché è noto che ha un tasso di errore di copia di uno su 4000
nucleotidi, ovvero tra 5 e 8,5 milioni di possibili errori di copia per
dose di vaccino. E nessuno può dire a cosa corrispondano questi errori
poiché sono imprevedibili.
Integrazione permanente e transgenerazionale: i plasmidi vaccinali
possono raggiungere un batterio o una cellula umana. Quest’ultimo caso è
considerato problematico perché è possibile che il filamento di DNA
contenuto nel plasmide sia permanentemente integrato nel codice genetico
della cellula umana, permettendole in qualsiasi momento di produrre
autonomamente la proteina spike del vaccino, per tutta la vita. Con ogni
probabilità, questo è ciò che sta accadendo ai clienti di Pascal Najadi
e Me Ulbrich in Germania. L’insegnante. Bhakdi ha ricordato a questo
proposito che ogni divisione cellulare è un’opportunità per questo DNA
importato di modificare il genoma dell’ospite. Se questa integrazione
avviene in una cellula staminale, ovulo o spermatozoo, la modificazione
genetica verrà trasmessa alle generazioni successive.
Questo è grave perché oggi la scienza non
offre uno strumento per rimuovere un gene. Più incomprensibilmente, il
DNA del plasmide utilizzato da Pfizer contiene una sequenza (SV 40) che
gli permette di essere trasferito nel nucleo anche quando la cellula non
si sta dividendo e quindi di influenzare le cellule. La sua presenza è
comunque inutile per la produzione di RNA messaggero nei batteri. Questa
sequenza è assente dai plasmidi utilizzati da Moderna.
l vaccino Covid di Johnson & Johnson presenta
un rischio di integrazione ancora maggiore perché si basa su un virus a
DNA e utilizza un promotore molto più potente dell’SV 40, chiamato CMV.
Ciò comporta un rischio molto più elevato di oncogenesi e continua
produzione di proteine spike rispetto agli RNA messaggeri, afferma
Marc Wathelet, biologo molecolare e specialista di coronavirus che
abbiamo consultato (vedi intervista alla fine dell’articolo).
Poiché il DNA della proteina spike del plasmide prende di mira le
cellule dei mammiferi, ci sono pochissime possibilità che si integri
permanentemente nel genoma di un batterio intestinale. Non riuscendo a
diventare fabbriche proteiche avanzate, questi batteri – che non sono
cellule umane – potrebbero invece moltiplicare i plasmidi del vaccino e
contribuire così ad aumentare il rischio di contaminazione con cellule
umane, chiamato “bactofezione” o “trasfezione”.
Marc Wathelet conferma che se “il rischio di
contaminazione dei batteri nel microbioma rimane basso, sono i rischi di
infiammazione e soprattutto di tumori legati alla contaminazione delle
cellule del corpo delle persone vaccinate da parte del DNA che sono più
preoccupanti”.
L’esperto sottolinea che è “impossibile quantificare questo rischio”.
Trova “un aumento di alcuni tumori, ma non è chiaro se sia dovuto a DNA,
mRNA, un indebolimento del sistema immunitario, lipidi nelle
nanoparticelle o una combinazione di questi fattori
21.07.23
Come risulta, la proteina spike e l’mRNA non
sono gli unici rischi di queste iniezioni. Il team di McKernan ha anche
scoperto i promotori del virus della simmia 40 (SV40) che, da decenni,
sono sospettati di provocare il cancro negli esseri umani, compresi
mesoteliomi, linfomi e tumori del cervello e delle ossa.3 I
risultati4,5,6,7 sono stati pubblicati su OSF Preprints all’inizio di
aprile 2023. Come spiegato nell’abstract:8
“Sono stati utilizzati diversi metodi per valutare la composizione degli
acidi nucleici di quattro fiale scadute dei vaccini mRNA bivalenti
Moderna e Pfizer. Sono stati valutati due flaconi di ciascun fornitore…
Molteplici test supportano una contaminazione da DNA che supera i
requisiti dell’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) di 330ng/mg e della
FDA [Food and Drug Administration] di 10ng/dose…
Come riportato in una recensione del libro di
Lancet “The Virus and the Vaccine: The True Story of a Cancer-Causing
Monkey Virus, Contaminated Polio Vaccine and the Millions of Americans
Exposed”:13
“Nel 1960, gli scienziati e i produttori di vaccini sapevano che i reni
delle scimmie erano fogne di virus scimmieschi. Tale contaminazione
spesso rovinava le colture, comprese quelle di una ricercatrice del NIH
di nome Bernice Eddy, che lavorava sulla sicurezza dei vaccini… La sua
scoperta… minacciava uno dei più importanti programmi di salute pubblica
degli Stati Uniti…”.
Eddy cercò di informare i colleghi, ma fu
imbavagliata e privata dei suoi compiti di regolamentazione dei vaccini
e del suo laboratorio… [Due] ricercatori della Merck, Ben Sweet e
Maurice Hilleman, identificarono presto il virus del rhesus, poi
chiamato SV40, l’agente cancerogeno che era sfuggito a Eddy.
“Nel 1963, le autorità statunitensi decisero di passare alle scimmie
verdi africane, che non sono ospiti naturali dell’SV40, per produrre il
vaccino antipolio. A metà degli anni ’70, dopo studi epidemiologici
limitati, le autorità conclusero che, sebbene l’SV40 causasse il cancro
nei criceti, non sembrava farlo nelle persone.
“Arriviamo agli anni ’90: Michele Carbone, allora all’NIH [National
Institutes of Health], stava lavorando sul modo in cui l’SV40 induce i
tumori negli animali. Uno di questi era il mesotelioma, un raro tumore
della pleura che nelle persone si pensa sia causato principalmente
dall’amianto. L’ortodossia riteneva che l’SV40 non causasse tumori
nell’uomo.
“Incoraggiato da un articolo del 1992 del
NEJM [New England Journal of Medicine] che aveva trovato ‘impronte’ di
DNA di SV40 nei tumori cerebrali infantili, Carbone ha analizzato
biopsie di tumori umani di mesotelioma presso il National Cancer
Institute: Il 60% conteneva DNA di SV40. Nella maggior parte di esse, il
virus della scimmia era attivo e produceva proteine.
“Carbone pubblicò i suoi risultati su Oncogene nel maggio 1994, ma l’NIH
rifiutò di renderli pubblici… Carbone… si trasferì alla Loyola
University. Lì ha scoperto come l’SV40 disabilita i geni soppressori del
tumore nel mesotelioma umano e ha pubblicato i suoi risultati su Nature
Medicine nel luglio 1997. Anche studi in Italia, Germania e Stati Uniti
hanno mostrato associazioni tra SV40 e tumori umani”.
“Incoraggiato da un articolo del 1992 del
NEJM [New England Journal of Medicine] che aveva trovato ‘impronte’ di
DNA di SV40 nei tumori cerebrali infantili, Carbone ha analizzato
biopsie di tumori umani di mesotelioma presso il National Cancer
Institute: Il 60% conteneva DNA di SV40. Nella maggior parte di esse, il
virus della scimmia era attivo e produceva proteine.
“Carbone pubblicò i suoi risultati su Oncogene nel maggio 1994, ma l’NIH
rifiutò di renderli pubblici… Carbone… si trasferì alla Loyola
University. Lì ha scoperto come l’SV40 disabilita i geni soppressori del
tumore nel mesotelioma umano e ha pubblicato i suoi risultati su Nature
Medicine nel luglio 1997. Anche studi in Italia, Germania e Stati Uniti
hanno mostrato associazioni tra SV40 e tumori umani”.
Torniamo alle scoperte di McKernan, che
oltre al video in evidenza sono discusse anche nel podcast di Daniel
Horowitz qui sopra. In breve, il suo team ha scoperto livelli elevati di
plasmidi di DNA a doppio filamento, compresi i promotori SV40 (sequenza
di DNA essenziale per l’espressione genica) che sono noti per innescare
lo sviluppo del cancro quando incontrano un oncogene (un gene che ha il
potenziale di causare il cancro).
Il livello di contaminazione varia a seconda della piattaforma
utilizzata per la misurazione, ma indipendentemente dal metodo
utilizzato, il livello di contaminazione del DNA è significativamente
superiore ai limiti normativi sia in Europa che negli Stati Uniti,
afferma McKernan. Il livello più alto di contaminazione del DNA
riscontrato è stato del 30%, un dato piuttosto sorprendente.
Come spiegato da McKernan, quando si utilizza un tipico test PCR, si
viene considerati positivi se il test rileva il virus SARS-CoV-2
utilizzando una soglia di ciclo (CT) di circa 40. In confronto, la
contaminazione del DNA viene rilevata con TC inferiori a 20. Ciò
significa che la contaminazione è di un milione di milioni di unità.
Ciò significa che la contaminazione è un
milione di volte superiore alla quantità di virus che si dovrebbe avere
per risultare positivi al test COVID-19. “Quindi, c’è un’enorme
differenza per quanto riguarda la quantità di materiale presente”,
afferma McKernan.
Nel suo articolo su Substack14 , McKernan sottolinea anche che chi
sostiene che il DNA a doppio filamento e l’RNA virale siano una falsa
equivalenza, perché l’RNA virale è in grado di replicarsi, si sbaglia.
“La maggior parte dell’sgRNA che state rilevando in un tampone nasale
nel vostro naso NON È ADEGUATO ALLA REPLICAZIONE, come dimostrato da
Jaafar et al.15 È solo un frammento di RNA che dovrebbe avere una
longevità inferiore nelle vostre cellule rispetto ai frammenti
contaminanti di dsDNA”, scrive.
Se si sequenzia il DNA, si scopre che
corrisponde a quello che sembra essere un vettore di espressione usato
per produrre l’RNA… Ogni volta che vediamo una contaminazione del DNA,
come quella dei plasmidi, finire in un prodotto iniettabile, la prima
cosa a cui si pensa è se sia presente l’endotossina dell’E. coli
(Escherichia coli, ndr), perché crea anafilassi per chi viene iniettato.
Mentre i deceduti non vaccinati sono stati
soltanto 304 e quelli vaccinati con ciclo incompleto (senza seconda
dose) 25. Il periodo preso in considerazione dalla tabella ISS è quello
che va dal 29 aprile al 29 maggio 2022.
«Numerosi studi riportano l’insorgenza di
reazioni autoimmuni a seguito della vaccinazione contro il COVID-19
(Gadi et al., 2021; Watad et al., 2021; Bril et al., 2021; Portoghese et
al., 2021; Ghielmetti et al., 2021; Vuille – Lessard et al., 2021;
Chamling et al., 2021; Clayton-Chubb et al., 2021; Minocha et al., 2021;
Elrashdy et al., 2021; Garrido et al., 2021; Chen et al., 2022; Fatima
et al., 2022; Mahroum et al., 2022; Finsterer, 2022; Garg & Paliwal,
2022; Kaulen et al., 2022; Kwon & Kim, 2022; Ruggeri, Giovanellla &
Campennì, 2022). I dati istopatologici forniscono una prova
indiscutibile che dimostra che i vaccini genetici presentano una
distribuzione fuori bersaglio, provocando la sintesi della proteina
spike e innescando così reazioni infiammatorie autoimmuni, anche in
tessuti terminali differenziati».
Furono proprio gli esami patologici del
medico tedesco Morz a rilevare l’anomala persistenza nel corpo umano
della proteina Spike di cui un altro studio americano asseverato dalla
virologa Jessica Rose spiegò la proliferazione attraverso i plasmidi di
RNA.
«In generale, i potenziali rischi dei vaccini genetici che inducono le
cellule umane a diventare bersagli per l’attacco autoimmune non possono
essere valutati completamente, senza conoscere l’esatta distribuzione e
cinetica di LNP e mRNA, nonché la produzione e la farmacocinetica della
proteina spike».
Lo studio sottoscritto anche da Donzelli e
Bellavite poi conclude:
«Poiché il corpo umano non è un sistema strettamente compartimentato,
questo è motivo di seria preoccupazione per ogni vaccino genetico
attuale o futuro che induca le cellule umane a sintetizzare antigeni non
self. Infatti, per i tessuti terminalmente differenziati, la perdita di
cellule determina un danno irreversibile con prognosi potenzialmente
fatale. In conclusione, alla luce delle innegabili prove di
distribuzione fuori bersaglio, la somministrazione di vaccini genetici
contro COVID-19 dovrebbe essere interrotta fino a quando non saranno
eseguiti accurati studi di farmacocinetica, farmacodinamica e
genotossicità, oppure dovrebbero essere somministrati solo in
circostanze quando i benefici superano di gran lunga i rischi».
L’invito a indagare sui danni da sieri genici e a fermarne
l’inoculazione è giunto anche da una ricercatrice dell’Istituto
Superiore della Sanità e dalla sentenza del Tribunale di Firenze che ha
inviato gli atti alla Procura della Repubblica di Roma per un’accurata
inchiesta.
di Peter McCullough – pubblicato in origine
sul suo Substack
Mi viene spesso chiesto: perché tante persone che hanno assunto il
vaccino COVID-19 stanno apparentemente bene, mentre altre subiscono
danni al cuore, ictus, coaguli di sangue e finiscono per essere invalide
o morte? Da molti mesi si sospetta che ci possano essere variazioni nei
lotti o nelle partite di vaccino che potrebbero spiegare in parte queste
osservazioni. In altre parole, non tutti ricevono la stessa dose di
mRNA.
In base all’autorizzazione all’uso in emergenza, le aziende produttrici
di vaccini e i loro subappaltatori non effettuano alcuna ispezione delle
fiale finali riempite e finite. Si tratta di una situazione senza
precedenti per un prodotto di largo uso di qualsiasi tipo.
È possibile che le nanoparticelle lipidiche
si aggreghino in sospensione e quindi alcuni lotti potrebbero contenere
più mRNA di altri. Allo stesso modo, poiché le dimensioni dei lotti sono
variate nel tempo, è possibile che i contaminanti del processo di
produzione si concentrino in alcuni lotti più piccoli rispetto a quelli
più grandi.
Infine, il trasporto, la conservazione e l’uso del prodotto possono
essere fattori che denaturano l’mRNA, tra cui il riscaldamento, l’aria
iniettata nelle fiale e gli aghi multipli immersi nella sospensione.
Il problema della contaminazione è emerso quando il Giappone ha
restituito milioni di dosi e sono stati riscontrati detriti visibili sul
fondo delle fiale. Inoltre, poiché i contactor di biodifesa utilizzano
sfere metalliche, è possibile che i lotti iniziali più piccoli avessero
detriti magnetici che spiegavano il “magnetismo” nel braccio in cui
veniva somministrata l’iniezione, come riportato all’inizio della
campagna vaccinale.
Un rapporto di Schmeling e collaboratori sul
vaccino Pfizer BNT162b2 mRNA COVID-19 ha rilevato che il 71% degli
eventi avversi gravi proveniva dal 4,2% delle dosi (lotti ad alto
rischio), mentre <1% di questi eventi proveniva dal 32,1% delle dosi
(lotti a basso rischio). La variazione spiegata per i lotti ad alto e
moderato rischio è stata rispettivamente del 78 e dell’89%. Pertanto,
più dosi sono state somministrate da quelle fiale, maggiore è stato il
numero di effetti collaterali segnalati. Ciò significa che la maggior
parte del rischio risiede nell’iniezione e non nella persona che l’ha
ricevuta.
Si tratta di risultati di importanza
cruciale. Essi implicano che la debacle del vaccino COVID-19 è
effettivamente un problema di prodotto e non è dovuta alla
suscettibilità del paziente nella maggior parte delle circostanze.
Inoltre, la mancanza di ispezioni ha portato a un disastro di sicurezza.
Alcuni sfortunati pazienti ricevono una quantità eccessiva di mRNA, di
contaminanti o di entrambi e sono quindi esposti a iniezioni dannose e,
in alcuni casi, letali.
IN
ITALIA
Il trait d’union tra questa nuova ricerca
sponsorizzata dalla Commissione Europea e Rappuoli è proprio la
Fondazione Toscana Life Sciences (TLS) che ha creato un park science
accentratore di aziende operanti in campo sanitario medico, diagnostico
e farmaceutico.
TOSCANA LIFE SCIENCES NEL BIOTECNOPOLO DI SIENA
TLS è anche deputata a diventare uno dei pilastri del progetto del
Biotecnopolo di Siena, in fase di realizzazione nell’ex caserma in Viale
Cavour, che riceverà una cospicua dotazione finanziaria dal Piano
Nazionale Ripresa e Resilienza (PNNR) così suddivisa: 9 milioni di euro
per il 2022, 12 milioni per il 2023 e 16 milioni per il 2024. Ma la
fetta più grossa spetta proprio all’hub antipandemico (Centro Nazionale
Antipandemico – CNAP), che riceverà 340 milioni di euro da qui al 2026.
Una somma ingente in considerazione che le finalità sono praticamente
analoghe a quelle del Fondazione Centro Nazionale di Ricerca “Sviluppo
di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA” che vede come capofila
l’Università di Padova e come partner altri atenei italiani ma,
soprattutto, le Big Pharma dei vaccini Pfizer, Biontech e AstraZeneca.
Dal canto suo la Fondazione Toscana Life
Sciences (TLS) fin dall’agosto 2022 aveva subito accolto «con estremo
favore la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (GU) della Repubblica
Italiana dello Statuto della Fondazione Biotecnopolo, che avrà sede
legale e operativa a Siena. Un passo molto atteso che include la
partecipazione della Fondazione Toscana Life Sciences in qualità di
“nuovo fondatore” attraverso la stipula di un atto convenzionale entro
sessanta giorni dall’adozione dello Statuto stesso. Sono soci fondatori
il Ministero dell’Università e della Ricerca, il Ministero della Salute,
il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero dello Sviluppo
Economico, cui si aggiungerà la Fondazione TLS come “nuovo fondatore”
Esaote (che ha sede a Genova ma una filiale a
Firenze) e TLS, nella primavera 2021, si trovarono insieme a un vertice
convocato dalla Regione Toscana per costruire un eco-sistema per un
vaccino anti Covid-19 made in Tuscany. All’incontro presero parte, oltre
agli assessori Simone Bezzini (Sanità) e Leonardo Marras (Attività
produttive), i rappresentanti del Gruppo farmaceutico Menarini, di
Kedrion, Eli Lilly, Molteni Farmaceutici, Diesse Diagnostica, Aboca,
Abiogen, e di Gsk Vaccines.
Ora il Biotecnopolo di Siena e Toscana Life Sciences si assumeranno
l’onere di portare avanti questo obiettivo puntando sulla figura di
Rappuoli.
La Fondazione Toscana Life Sciences è il
soggetto operativo che coordina e gestisce le attività del Distretto
Toscano Scienze della Vita, il cluster regionale che aggrega tutti i
soggetti pubblici e privati che operano nei settori delle biotecnologie,
del farmaceutico, dei dispositivi medici, della nutraceutica, della
cosmeceutica e dell’Ict applicato alle life sciences.
E’ nata nel 2011 per iniziativa della Regione Toscana allora governata
dal presidente Alberto Monaci, bancario e ex deputato della Democrazia
Cristiana e poi del Partito Democratico, ed oggi rappresenta un
ecosistema dell’innovazione che raggruppa oltre 32 Centri Ricerca e 14
Enti di Ricerca, incluse le Università toscane (Firenze, Pisa, Siena);
le Scuole Superiori (Scuole di Alta Formazione Sant’Anna e Normale di
Pisa e Istituto di Alti Studi Imt di Lucca); gli Istituti del CNR. Sono
affiliate al Distretto oltre 200 aziende del settore pharma, medical
devices, biotech, ICT for health, nutraceutica, servizi correlati, per
oltre 6 miliardi di fatturato.
Tra queste spicca il nome della
bio-farmaceutica Kedrion della famiglia Marcucci dell’ex senatore del PD
Andrea Marcucci (non riconfermato alle elezioni del 2022) che attirò
l’attenzione dei media per l’interessamento a gestire a livello
industriale (con una società Israeliana del Gruppo della Big Pharma
americana Moderna finanziata da Gates) le cure del Covid-19 col plasma
del medico Giuseppe De Donno, primario di Pneumologia dell’ospedale Poma
di Mantova, morto suicida in circostanze misteriose dopo che la
sperimentazione fu sottratta dal governo al suo centro di ricerca e
assegnata a quello di Pisa.
19.10.24
Un gruppo di scienziati argentini ha
identificato 55 elementi chimici – non elencati nei foglietti
illustrativi – nei vaccini COVID-19 di Pfizer, Moderna, AstraZeneca,
CanSino, Sinopharm e Sputnik V, secondo uno studio pubblicato la scorsa
settimana sull’International Journal of Vaccine Theory, Practice, and
Research.
Gli elementi chimici includono 11 metalli pesanti – come cromo,
arsenico, nichel, alluminio, cobalto e rame – che gli scienziati
considerano tossici sistemici noti per essere cancerogeni e indurre
danni agli organi, anche a bassi livelli di esposizione.
I campioni contenevano anche 11 dei 15
lantanidi, o elementi delle terre rare, che sono metalli più pesanti e
argentei spesso utilizzati nella produzione. Questi elementi chimici,
che comprendono lantanio, cerio e gadolinio, sono meno noti al grande
pubblico rispetto ai metalli pesanti, ma hanno dimostrato di essere
altamente tossici.
“Il rilevamento di più elementi tossici non dichiarati, tra cui metalli
pesanti e lantanidi, nei vaccini COVID-19 solleva una duplice e
molteplice preoccupazione per la salute umana”, ha dichiarato a The
Defender James Lyons-Weiler, Ph.D., membro del comitato editoriale della
rivista e non coinvolto nella ricerca. “Singolarmente, queste sostanze
chimiche sono note per causare danni neurologici, cardiovascolari e
immunologici”.
Per lo studio argentino, i ricercatori
miravano a corroborare le precedenti scoperte di elementi non dichiarati
e a rilevare e misurare eventuali elementi non identificati in quegli
studi.
Hanno analizzato 13 fiale di diversi lotti di sei marche di vaccini
COVID-19 presso un laboratorio dell’Università Nazionale di Córdoba.
Hanno utilizzato una tecnica analitica altamente sensibile – la
spettrometria di massa al plasma accoppiato induttivamente – che
consente di misurare gli elementi a livelli di traccia nei fluidi
biologici.
I ricercatori hanno analizzato almeno due fiale di ogni vaccino, ad
eccezione di CanSino, un vaccino vettoriale virale prodotto in Cina, per
il quale hanno analizzato solo una fiala.
Il loro documento include un lungo elenco di componenti del vaccino
COVID-19 dichiarati dai produttori. I componenti variano a seconda del
produttore del vaccino. I ricercatori hanno ottenuto gli elenchi
attraverso richieste di informazioni pubbliche.
Ad eccezione di Sputnik V e Sinopharm, i
produttori non dichiarano le quantità degli eccipienti nominati nei loro
vaccini, cosa che i ricercatori hanno segnalato come una “omissione
molto grave a livello normativo”.
I vaccini spesso includono eccipienti – additivi utilizzati come
conservanti, coadiuvanti, stabilizzatori o per altri scopi. Secondo i
Centers for Disease Control and Prevention (CDC), le sostanze utilizzate
nella produzione di un vaccino, ma non elencate nel contenuto del
prodotto finale, devono essere riportate nel foglietto illustrativo.
L’elenco degli eccipienti è importante, sostengono i ricercatori, perché
gli eccipienti possono includere allergeni e altri “pericoli nascosti”
per i destinatari dei vaccini.
OpenVAERS riferisce che il CDC ha reso le informazioni sugli eccipienti
dei vaccini disponibili al pubblico “quasi impossibili da trovare”.
OpenVAERS offre un elenco completo degli eccipienti dei vaccini per tipo
e per vaccino.
Tuttavia, il sito OpenVAERS rileva anche che test indipendenti sulle
fiale di vaccino hanno trovato “contaminanti che vanno ben oltre quelli
resi pubblici dai produttori”, come identificato in questo studio.
Le tre fiale Pfizer contenevano
rispettivamente 19, 16 e 21-23 elementi non dichiarati. Le fiale Moderna
contenevano 21 e tra 16-29 elementi non dichiarati.
Tutti i metalli pesanti rilevati sono
collegati a effetti tossici sulla salute umana, scrivono i ricercatori.
Sebbene i metalli si presentassero con frequenze diverse, molti erano
presenti in più campioni. “Ci sono elementi chimici non dichiarati in
comune, come boro, calcio, titanio, alluminio, arsenico, nichel, cromo,
rame, gallio, stronzio, niobio, molibdeno, bario e afnio in tutte le
marche” di vaccini COVID-19, hanno scritto i ricercatori.
Altri elementi, come il cromo e l’arsenico,
che aumentano il rischio di gravi tumori e malattie della pelle, erano
presenti come elementi non dichiarati rispettivamente nel 100% e
nell’82% dei campioni. I ricercatori hanno anche trovato il lantanide
cerio, che può danneggiare il fegato e causare embolie polmonari, nel
76% dei campioni.
Questi elementi chimici sono solo alcuni esempi dei 62 elementi chimici
non dichiarati identificati da questo studio e da studi precedenti messi
insieme, scrivono i ricercatori. Essi hanno concluso che, data la
“diversità e la notevole presenza in tutte le marche, insieme alle
caratteristiche peculiari degli elementi trovati”, è improbabile che i
risultati siano dovuti a contaminazione o adulterazione accidentale.
INOLTRE il lavoro, pubblicato il 18 luglio
2024 sul’International Journal of Vaccine Theory, Practice, and Research
(IJVTPR con sede a Dallas, USA), conferma per l’ennesima volta la
presenza di grafene nei sieri genici mRNA e ne certifica la presenza non
solo in Pfizer ma pure nel prodotto farmacologico di Moderna, come
peraltro già testimoniato dagli specifici brevetti della Big Pharma di
Cambrdige (Massachusetts) .
Lo studio è stato condotto dalla dottoressa
Young Mi Lee, medica specializzanda in Ostetricia e Ginecologia
dell’Hanna Women’s Clinic di Jeju (Repubblica di Corea) che si occupa
anche di ricerche sulla fertilità e ha prestato particolare attenzione
anche sulla pericolosità di tali terapie geniche sul liquido seminale
maschile.
E dal ricercatore Daniel Broudy, docente di Linguistica dell’Okinawa
Christian University (Giappone) ma esperto anche nell’ambito
elettromagnetico che gospa News aveva già citato in realzione agli studi
sulle segnali Bluetooth riscontrati da un esperimento nei vaccinati.
A lui è toccato il compito di curare la redazione del testo finale ed
analizzare le immagini e i dati raccolti dalla scienziata medica in una
lunga e meticolosa analisi biochimica condotta con uno stereomicroscopio
(specializzato per l’esame di campioni tridimensionali e dinamici )
potenziato da una camera di conteggio Makler (specializzata anche nel
conteggio degli spermatozoi in spazi limitati per la valutazione della
fertilità maschile).
«Questo rapporto sui nostri risultati è
stato aiutato dalla ricerca indipendente di un gruppo noto come Korea
Veritas Doctors (KoVeDoc) con il quale abbiamo condiviso gli iniettabili
prodotti da Pfizer, Moderna, AstraZeneca e Novavax».
Come si spiega nel paragrafo Materiali e metodi: «Nello studio sono
stati utilizzati cinquantaquattro campioni: 50 fiale iniettabili residue
(43 Pfizer, 7 Moderna) acquisite immediatamente dopo il loro utilizzo
nella campagna di vaccinazione contro il COVID-19 e 4 fiale iniettabili
nuove non aperte (2 Pfizer, 1 AstraZeneca, 1 Novavax)».
riportiamo integralmente l’Abstract della
ricerca intitolata: “Autoassemblaggio in tempo reale di costruzioni
artificiali visibili allo stereomicroscopio in campioni incubati di
prodotti mRNA principalmente da Pfizer e Moderna: uno studio
longitudinale completo– Real-Time Self-Assembly of Stereomicroscopically
Visible Artificial Constructionsin Incubated Specimens of mRNA Products
Mainly from Pfizer and Moderna: A Comprehensive Longitudinal Study”.
«Le lesioni osservabili in tempo reale a livello cellulare nei
destinatari degli iniettabili COVID-19 “sicuri ed efficaci” sono
documentate qui per la prima volta con la presentazione di una
descrizione completa e un’analisi dei fenomeni osservati. La
somministrazione globale di questi prodotti, spesso obbligatori, dalla
fine del 2020 ha innescato una serie di studi di ricerca indipendenti
sulle terapie geniche iniettabili con RNA modificato, in particolare
quelle prodotte da Pfizer e Moderna. Le analisi qui riportate consistono
in una precisa “scienza da banco” di laboratorio che mira a comprendere
perché si sono verificati sempre più gravi infortuni debilitanti e
prolungati (e molti decessi) senza alcun effetto protettivo misurabile
da parte dei prodotti commercializzati in modo aggressivo. Il contenuto
degli iniettabili COVID-19 è stato esaminato allo stereomicroscopio con
un ingrandimento fino a 400X. I campioni accuratamente conservati sono
stati coltivati in una gamma di terreni distinti per osservare le
relazioni di causa-effetto immediate e a lungo termine tra le sostanze
iniettabili e le cellule viventi in condizioni attentamente
controllate».
«Da tale ricerca si possono trarre
ragionevoli deduzioni sugli infortuni osservati in tutto il mondo che si
sono verificati da quando le sostanze iniettabili sono state inoculate
su miliardi di individui. Oltre alla tossicità cellulare, i nostri
risultati rivelano numerose entità artificiali autoassemblanti
visibili, nell’ordine di 3~4 x 106 per millilitro di iniettabile, che
vanno da circa 1 a 100μm, o più, di molte forme diverse. C’erano
entità animate simili a vermi, dischi, catene, spirali, tubi, strutture
ad angolo retto contenenti altre entità artificiali al loro interno e
così via. Tutti questi sono estremamente al di là di qualsiasi livello
previsto e accettabile di contaminazione degli iniettabili COVID-19 e
gli studi di incubazione hanno rivelato il progressivo autoassemblaggio
di molte strutture artefatte. Con il passare del tempo durante
l’incubazione, semplici strutture uni e bidimensionali nell’arco di due
o tre settimane sono diventate più complesse nella forma e nelle
dimensioni sviluppandosi in entità stereoscopicamente visibili in tre
dimensioni. Assomigliavano a filamenti, nastri e nastri di nanotubi di
carbonio, alcuni apparivano come membrane trasparenti, sottili e piatte,
e altri come spirali tridimensionali e catene di perline. Alcuni di
questi sembravano apparire e poi scomparire nel tempo. Le nostre
osservazioni suggeriscono la presenza di qualche tipo di nanotecnologia
negli iniettabili COVID-19».
«Sulla scia del programma di vaccinazione di
massa, già nel marzo 2021 e nei mesi successivi, si sono verificati
aumenti significativi di decessi in eccesso per cause “sconosciute” e
gravi sequele: coaguli di sangue, emorragie inspiegabili, danni (e
guasti) a più organi), picchi improvvisi (cardiotossine) nelle malattie
cardiache, tumori del sangue tra cui leucemia e linfoma, una serie di
altri tumori “turbo”, aborti spontanei, disturbi neurologici e
autoimmuni, per citarne alcuni, sono comparsi nei pazienti (Nyström e
Hammarström, 2022; Santiago & Oller, 2023 Perez et al., 2023»
«Degno di nota è stato il comportamento di
ciascun tipo di cellule del sangue, che si mobilitano come in una
battaglia in prima linea contro ciascuno degli iniettabili: globuli
rossi contro Pfizer e AstraZeneca, globuli bianchi contro Moderna e
piastrine contro Novavax. Nonostante il comportamento osservato, questi
fenomeni specifici delle sostanze iniettabili potrebbero essere
correlati alla loro caratteristica fisiopatologia diretta del sangue:
stasi del flusso sanguigno e conseguente ipossiemia (affaticamento)
dovuta al modello Rouleaux, soppressione immunitaria dovuta a danno dei
globuli bianchi e formazione di coaguli di sangue (trombosi) o tendenza
al sanguinamento da danno o aggregazione piastrinica».«Nell’analisi dei
coaguli di sangue di persone vaccinate, sono state trovate alcune
strutture filamentose attaccate a coaguli bianchi torbidi omogenei
brunastri estratti dallo strato intermedio del sedimento di sangue
intero. Quando si trovano in prossimità di un campo elettromagnetico, i
filamenti potrebbero innescare la formazione di un coagulo e, quindi,
disturbare il libero flusso sanguigno o linfatico. Date le loro
dimensioni microscopiche e l’ampia distribuzione in tutto il corpo, se
questi materiali estranei interagiscono con fonti di energia interne o
esterne, come afferma la letteratura, potrebbero allungarsi, allargarsi
e fungere da misteriose modalità di morbilità ed eventuale
mortalità».
Scrivono Young MI Lee e Daniel Broudy tanto da sentirsi poi legittimati
a fare delle ipotesi assai inquietanti che partono da quanto affermato
(mai poi rimosso dopo l’inizio della produzione dei vaccini Covid) dal
sito di Moderna sull’uso della «tecnologia mRNA è spesso
commercializzata in termini di software come una sorta di sistema
operativo o piattaforma tecnologica».
«La ricerca nell’ingegneria dei nanomateriali
mostra che i robot magnetici bioibridi (Magnobot basati su microalghe)
potrebbero essere prodotti e azionati in tutto il corpo da una varietà
di fattori scatenanti: energia elettromagnetica, variazione
dell’intervallo di pH, manipolazione dei livelli di glucosio e
variazione degli spettri luminosi con l’obiettivo di colpire determinati
tessuti (Li et al., 2023). Le osservazioni durante i nostri studi di
incubazione suggeriscono la presenza di magnobot, soprattutto nel
campione Pfizer».
NO
AL NUCLEARE , SULL'H2-FOTOVOLTAICO NON SI SPECULA
IL RAZIONAMENTO ENERGETICO NON RISOLTO
CON LE RINNOVABILI PUO' ESSERE USATO PER GIUSTIFICARE IL
NUCLEARE CHE UCCIDE VEDI RUSSIA E GIAPPONE.
CON LA SCUSA DEL NUCLEARE SI PUO' FAR
PAGARE 10 QUELLO CHE VALE 1
MENTRE LA FRANCIA INVESTE PER SANARE LO
SFASCIO DEL NUCLEARE L'ITALIA CI VUOLE ENTRARE ?
GLI INCIDENTI NUCLEARI IN RUSSIA E
GIAPPONE NON CI HANNO INSEGNATTO NULLA ? NE VOGLIAMO UNO ANCHE IN
ITALIA ?
LA CHIMERA MANGIA-SOLDI DELLA FUSIONE NUCLEARE
QUANTE RINNOVABILI SI POSSONO FARE ? IL CNR SPENDE PIU' PER IL FINTO
NUCLEARE CHE PER LA BANCA DEL SEME AGRICOLO.
IL FUTURO H2 CHE
NON SI VUOLE VEDERE
E' ASSURDO CONTINUARE A PENSARE DI GESTIRE A COSTI BASSI
ECONOMICAMENTE VANTAGGIOSI LA FUSIONE NUCLEARE QUANDO ESISTONO ENERGIE
RINNOVABILI MOLTO più CONTROLLABILI ED EFFICIENTI A COSTI più BASSI,
COME DIMOSTRA IL :
https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_22_3131
IL DOPPIO SACRILEGIO DELLA BESTEMMIA
RICETTA LIEVITO MADRE
RICAMBIO POLITICO BLOCCATO
L'Ucraina in fiamme - Documentario di Igor Lopatonok Oliver Stone 2016
(sottotitoli italiano)
"Abbiamo creato un archivio online per documentare i crimini di guerra
della Russia". Lo scrive su Twitter il ministro degli Esteri ucraino,
Dmytro Kuleba. "Le prove raccolte delle atrocità commesse dall'esercito
russo in Ucraina garantiranno che questi criminali di guerra non
sfuggano alla giustizia", aggiunge, con il link al sito in inglese
Cosa c’entra il climate
change con l’incidente al ghiacciaio della Marmolada?
Temperature di 10°C a 3.300 metri di altezza
da giorni, anomalie termiche pronunciate da maggio. Sono questi i
fattori alla base del crollo del seracco che ha travolto due cordate di
alpinisti domenica 3 luglio sotto Punta Penia
Il ghiacciaio
della Marmolada si sta ritirando di 6 metri l’anno
(Rinnovabili.it) – Almeno 10 morti, 9
feriti e un disperso. È il bilancio provvisorio dell’incidente che
ha coinvolto il 3 luglio due cordate di alpinisti nella zona di
Punta Rocca, proprio sotto il ghiacciaio della Marmolada.
Una parte del ghiacciaio è collassata per le temperature elevate,
scivolando rapidamente a valle in una enorme valanga di ghiaccio,
pietre e acqua fusa.
La dinamica dell’incidente
Verso le 14 del 3 luglio ha ceduto un seracco del ghiacciaio della Marmolada, la vetta
più alta delle Dolomiti, tra Punta Rocca e Punta Penia a oltre 3000
metri di quota. La scarica che si è creata è stata imponente, alta 60 metri con un fronte largo circa 200, e
ha investito un tratto della via normale per la cima di Punta Penia
precipitando a 300 km/h.
Ogni ghiacciaio ha dei seracchi, blocchi
di ghiaccio che assomigliano a dei pinnacoli e si formano con il
movimento del corpo glaciale. Scorrendo verso il basso, il
ghiacciaio incontra delle variazioni nella pendenza della montagna.
Queste deformano il ghiacciaio e provocano la formazione di
crepacci, che a loro volta danno luogo a delle “torri” di ghiaccio,
i seracchi. Queste formazioni, seppur normali, sono per
loro natura instabili. Tendono a cadere a valle,
ricompattandosi con il resto del corpo glaciale, ed è difficile
prevedere quando esattamente un evento del genere si può verificare.
Il climate change sul ghiacciaio della
Marmolada
Il distacco del seracco dal ghiacciaio
della Marmolada, con ogni probabilità, è stato facilitato e reso più
rovinoso dal cambiamento climatico. Negli ultimi giorni,
anche sulle cime di quel settore delle Dolomiti il termometro è
salito regolarmente a 10°C. Ma è da maggio che si
registrano
anomalie termiche molto pronunciate.
Anomalie che investono tutto l’arco
alpino. Sulla cima del monte Sonnblick, in Austria, 100
km più a nord-est, uno degli osservatori con le serie storiche più
lunghe e affidabili della regione alpina ieri segnalava il quasi
completo scioglimento del manto nevoso. Un dato che illustra molto
bene quanto l’estate del 2022 sia eccezionale: lì la neve non si era
mai sciolta prima del 13 agosto (capitò nel 1963 e nel caldissimo
2003).
Che legame c’è tra il crollo del seracco e le
temperature elevate? Secondo la società meteorologica
alpino-adriatica, “il ghiacciaio si è destabilizzato alla
base a causa della grande disponibilità di acqua di fusione
dopo settimane di temperature estremamente elevate e superiori alla
media”. Il caldo ha accelerato lo scioglimento del
ghiacciaio: “la lubrificazione dell’acqua alla base (o negli
interstrati) e l’aumento della pressione nei crepacci pieni d’acqua sono
probabilmente le cause principali di questo evento catastrofico”.
Normalmente, il ghiaccio sciolto – acqua di
fusione – penetra fra gli strati di ghiaccio o direttamente sul fondo
del ghiacciaio, incuneandosi tra massa glaciale e rocce sottostanti, per
sgorgare poi al fondo della lingua glaciale. Questo processo “lubrifica”
il ghiacciaio, accelerandone lo scivolamento, ma può anche creare delle
“sacche” piene d’acqua che non trova uno sfogo e preme sul resto del
ghiacciaio.
Come tutti gli altri ghiacciai alpini, anche
il ghiacciaio della Marmolada è in veloce ritirata a causa del
riscaldamento globale. L’ultima campagna di rilevazioni, condotta dal
Comitato Glaciologico Italiano e da Arpa Veneto lo scorso agosto, ha
segnalato un ritiro di 6 metri in appena 1 anno, mentre la
perdita complessiva di volume raggiunge il 90% in 100 anni.
Il cambiamento climatico corre più veloce
sulle Alpi che nel resto del pianeta, facendo delle
terre alte uno dei settori più vulnerabili. Un aumento della
temperatura globale di 1,5 gradi si traduce in un innalzamento, sulle
montagne italiane, di 1,8 gradi (con un margine d’errore di ±0,72°C).
Superare i 2 gradi a livello globale significa invece Alpi
2,51°C più calde (±0,73°C). Ma durante i mesi estivi,
l’aumento di temperatura è ancora più pronunciato e può arrivare,
rispettivamente, a 2,09°C ±1,24°C e a 2,81°C ±1,23°C.
«Il
22 maggio 1988 il sommergibile Nautile esplora il Mar Tirreno alla
ricerca del Dc9 Itavia. Alle 11,58 le telecamere inquadrano una forma
particolare. Uno dei due operatori dell’Ifremer scandisce in francese la
parola “misil”. Alle 13,53 s’intravede un’altra classica forma di
missile. Le ricerche della società di Tolone vengono sospese tre giorni
dopo. L’ingegner Jean Roux, dirigente della sezione recuperi
dell’Ifremer, subisce uno stop inspiegabile dall’ingegner Massimo Blasi,
capo della commissione dei periti del Tribunale di Roma» si legge ancora
nell’articolo.
«I due missili non vengono raccolti neppure durante la seconda
operazione di recupero affidata a una società inglese. Forse, perché la
Stella di Davide è intoccabile? – si domanda Lannes – Trascorrono tre
anni prima che i periti di parte abbiano la possibilità di visionare i
nastri dell’operazione Ifremer. Secondo un primo tentativo di
identificazione di tratta di un “Matra R 530 di fabbricazione francese”
e di uno “Shafrir israeliano”. I dati tecnici parlano chiaro. Quel Matra
è “lungo 3,28 metri, ha un diametro di 26 centimetri con ingombro alare
di 110, pesa 110 chilogrammi: è munito di una testata a frammentazione e
può colpire il bersaglio a 3 km di distanza con la guida a raggi
infrarossi e a 15 km con la guida radar semiattiva”. L’altro missile è
“lungo 2,5 metri, 16 centimetri di diametro e 52 di apertura alare, pesa
93 kg e ha una gittata di 5 km”. Entrambi i missili erano in dotazione
ai caccia di Israele, in particolare: Mirage III, Kfir, F4, A4, F15,
F16. Uno di quei missili è stato lanciato contro il Dc9».
Lannes ha aggiunto particolari agghiaccianti.
«Qualche anno fa – accompagnato alla Procura della Repubblica di Roma da
due poliziotti della scorta della Polizia di Stato – ho riferito, o
meglio verbalizzato ai magistrati Amelio e Monteleone quanto avevo
scoperto indagando per dieci anni sulla strage di Ustica. Ed ho indicato
loro alcuni testimoni (ex militari) mai interrogati dall’autorità
giudiziaria. Uno di essi (un ex ufficiale della Marina Militare) ha
dichiarato che il 27 giugno 1980 era in corso un’imponente esercitazione
aeronavale della NATO nel Mar Tirreno. E che l’unità su cui era
imbarcato, la Vittorio Veneto non ha prestato alcun soccorso, pur
essendo vicina al luogo di impatto del velivolo civile, ma ricevette
l’ordine di far rientro a La Spezia. Due di questi ex militari, già
appartenenti all’Aeronautica Militare sono stati minacciati, ed uno di
essi ha subito addirittura un trattamento sanitario obbligatorio messo
in atto dall’Arma Azzurra».
IL
VERO OBBIETTIVO DELLA MAFIA ESSERE LEGITTIMATA A TRATTARE ALLA PARI CON
LO STATO.
QUESTO LA HA FATTO LO GIURISPRUDENZA DELLA
TRATTATIVA STATO MAFIA CHE HA LEGITTIMATO DI FATTO LA MAFIA A
TRATTARE ALLA PARI CON LO STATO.
LA RESPONSABILITA' DEI SERVIZI SEGRETI NELLA
MORTE DI FALCONE E BORSELLINO , E PALESE.
I SERVIZI SEGRETI DIPENDONO DELLA PRESIDENZA
DEL CONSIGLIO
Dichiarazione di Giuliano AMATO
«Stragi del '92 con matrice oscura. Giusto l'intervento di Pisanu» -
INTERVISTA
(02 luglio 2010) - fonte: Corriere della Sera - Giovanni Bianconi -
inserita il 02 luglio 2010 da 31
«Certo che il nostro è uno strano Paese», esordisce
Giuliano Amato, presidente del
Consiglio nel 1992 insanguinato dalle stragi di mafia, e dunque
testimone diretto di quella drammatica stagione rievocata nella
relazione del presidente della commissione parlamentare antimafia
Giuseppe Pisanu.
Perché, presidente?
«Perché quando un personaggio di primissimo rango come Giulio Andreotti
esce indenne da un lungo processo si dice che questo capita se si
confonde la responsabilità penale con quella politica, mentre quando un
presidente dell`Antimafia come Pisanu si sforza di cercare
responsabilità politiche laddove non ne sono state individuate di penali
gli si risponde che bisogna lasciar lavorare i giudici. Ma allora che
bisogna fare?».
Secondo lei?
«Secondo me il lavoro di Pisanu è legittimo e prezioso, perché può
aiutare la politica a cercare delle chiavi di lettura che non possono
sempre venire dalla magistratura. E a trovare finalmente il giusto modo
di affrontare la questione mafiosa. Provando a capire che cosa è
accaduto in passato si può affrontare meglio anche il presente».
Il passato, in questo caso, sono le stragi del 1992 e 1993. Lei divenne
capo del governo dopo la morte di Giovanni Falcone e prima di quella di
Borsellino. Ha avuto la sensazione di «qualcosa di simile a una
trattativa», come dice Pisanu?
«Sinceramente no. L`ho detto anche ai procuratori di Caltanissetta
quando mi hanno interrogato.
Io in quelle settimane ero molto impegnato ad affrontare l`emergenza
economico-finanziaria, dovevamo fare una manovra da 30.000 miliardi di
lire per il`92 e impostare quella del `93. La strage di via D`Amelio ci
colse nel pieno dei vertici economici internazionali.
Ricordo però che dopo quel drammatico avvenimento ebbi quasi un ordine
da Martelli, quello di far approvare subito il decreto-legge sul carcere
duro per i mafiosi varato dopo l`eccidio di Capaci. Andai di sera dal
presidente del Senato Spadolini, ed ottenni una calendarizzazione ad
horas del provvedimento».
Dei contatti tra alcuni ufficiali del Ros dei carabinieri e l`ex sindaco
mafioso di Palermo Ciancimino lei sapeva qualcosa, all`epoca?
«No, però voglio dire una cosa. Che ci sia stato un certo lavorio di
qualche apparato a livello inferiore è possibile, ma pensare che dei
contatti poco chiari potessero avere una sponda in Nicola Mancino che
era stato appena nominato ministro dell`Interno è un ipotesi che
considero offensiva, in primo luogo per lo stesso Mancino. Sulle ragioni
della sua nomina è Arnaldo Forlani che può fare chiarezza».
Perché?
«Perché la Dc di cui allora era segretario decise, o fu spinta a
decidere, che bisognava tagliare Gava dal governo. Ma a Gava bisognava
comunque trovare una via d`uscita onorevole, individuata nella
presidenza del gruppo al Senato che era di Mancino».
L`ex presidente del Consiglio Ciampi ha ripetuto che dopo le stragi del
'93 lui, da Palazzo Chigi, ebbe timore di un colpo di Stato. Lei pensò
qualcosa di simile, nello stesso posto, dopo le bombe del '92?
«No, ma del resto non ebbi timori di quel genere nemmeno dopo le stragi
degli anni Settanta. All`indomani di via D`Amelio non ebbi allarmi
particolari dal ministro dell`Interno, né dal capo della polizia Parisi
o da quelli dei servizi segreti. Parisi lo trovai ai funerali di
Borsellino, dove io e il presidente Scalfaro subimmo quasi
un`aggressione e avemmo difficoltà ad entrare in chiesa.
Ma attribuimmo l`episodio alla rabbia contro lo Stato che non era
riuscito ad evitare quella morte. Il problema che ancora oggi resta
insoluto è la vera matrice di quelle stragi».
Che intende dire?
«Che per la mafia furono un pessimo affare. Non solo quella di via
D`Amelio, dopo la quale Martelli applicò immediatamente il regime di
carcere duro a centinaia di boss, ma anche quella di Capaci. Certo,
Falcone era un nemico, ma in quel momento un`impresa economico-criminale
come Cosa Nostra avrebbe avuto tutto l`interesse a stare lontana dai
riflettori, anziché accenderli con quella manifestazione di violenza.
Quali interessi vitali dell`organizzazione mafiosa stava mettendo in
pericolo, Falcone?
La spiegazione che volevano eliminare un magistrato integerrimo, come
lui o come Borsellino, è troppo semplice. In ogni caso potevano
ucciderlo con modalità meno eclatanti, come hanno fatto in altre
occasioni. Invece vollero colpire lui e insieme lo Stato, imponendo una
devastante dimostrazione di potere».
Chi può esserci allora, oltre a Cosa nostra, dietro gli attentati che
per la mafia furono controproducenti?
«Purtroppo non lo sappiamo, ma è questa la domanda-chiave a cui dovremmo
trovare la risposta. Perché vede, per le stragi degli anni Settanta si
sono trovate molte spiegazioni; compresa quella che sosteneva il
prefetto Parisi, il quale immaginava un ruolo dei servizi segreti
israeliani per punire la politica estera italiana sul versante
palestinese. E per le stragi del 1993 io trovo abbastanza convincente la
tesi di una ritorsione per il carcere duro affibbiato a tanti boss e
soprattutto al loro capo, Riina, arrestato all`inizio dell`anno. Per
quelle del`92, invece, non riesco a immaginare motivazioni mafiose
sufficienti a superare le ripercussioni negative. E questo conferma
l`ipotesi di qualche condizionamento esterno rispetto ai vertici di Cosa
nostra.
Perciò ha ragione Pisanu a interrogarsi e chiedere di fare luce».
Anche laddove i magistrati non riescono ad arrivare?
«Ma certo. Noi siamo arrivati al limite del giuridicamente accettabile
con il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, che io
condivido ma che faccio fatica a spiegare all`estero.
Al di là di quel reato, però, non ci sono solo i boy scout; possono
esistere rapporti pericolosi, magari meno diretti o meno importanti, ma
pur sempre rapporti. E di questi dovrebbe occuparsi la politica, prima
dei magistrati».
Infatti Andreotti e Cossiga, agli ordini
di Henry Kissinger, se ne interessarono con Delle Chiaie che
rappresentava un estremismo di destra che teneva rapporti con la mafia
di Rejna , secondo Lo Cicero.
PERCHE' IL PRESIDENTE BIDEN NON
GRAZIA ASSANGE dimostrando di essere migliore dei suoi
predecessori ?
FATTI
NO BLA BLA BLA
DELLA STAMPA PER CONDIZIONARE LA VITA DELLE PERSONE CHE NON PENSANO
PRIMA DI AGIRE
LE NON RISPOSTE DI DRAGHI E CINGOLANI
DOCUMENTATE DA REPORT
QUALE E' LA VERITA' SUI MANDANTI DELLA MORTE DI
FALCONE E BORSELLINO ?
Era il 23 maggio del 1992 quando Giovanni Falcone
guidava la Fiat Croma della sua scorta che lo accompagnava
dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo.
Assieme a lui c’erano la moglie Francesca Morvillo, e l’autista Giuseppe
Costanza che quel giorno sedeva dietro.
Nel corteo delle auto che accompagnano il magistrato palermitano c’erano
anche altre due auto, la Fiat Croma marrone sulla quale viaggiavano gli
agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, e la Fiat Croma
azzurra sulla quale erano presenti gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare
Cervello e Angelo Corbo.
Alle 17:57 circa, secondo la ricostruzione della versione ufficiale,
viene azionato da Giovanni Brusca il telecomando della bomba posta sotto
il viadotto autostradale nel quale passava il giudice Falcone.
La prima auto, quella degli agenti Montinaro, Schifani e Dicillo viene
sbalzata in un campo di ulivi che si trovava vicino alla carreggiata.
Muoiono tutti sul colpo.
L’auto di Falcone e di sua moglie Francesca viene investita da una
pioggia di detriti e l’impatto tremendo scaglia entrambi contro il
parabrezza della macchina.
In quel momento sono ancora vivi, ma le ferite riportate sono molto
gravi ed entrambi moriranno nelle ore successive all’ospedale.
L’autista Giuseppe Costanza sopravvive miracolosamente alla strage ed è
ancora oggi vivo.
Mai in Italia la mafia era riuscita ad eseguire una operazione così
clamorosa e così ben congegnata tale da far pensare ad un coinvolgimento
di apparati terroristici e militari che andavano ben oltre le capacità
di Cosa Nostra.
Capaci è una strage unica probabilmente anche a livello internazionale.
Fu fatta saltare un’autostrada con 200 kg di esplosivo da cava. Appare
impossibile pensare che furono soltanto uomini come Giovanni Brusca o
piuttosto Totò Riina soprannominato Totò U Curtu potessero realizzare
qualcosa del genere.
Impossibile anche che nessuno si sia accorto di come nei giorni
precedenti sia stata portata una quantità considerevole di esplosivo
sotto l’autostrada senza che nessuno notasse nulla.
È alquanto probabile che gli attentatori abbiano utilizzato dei mezzi
pesanti per trasportare il tritolo e il T4 utilizzati per preparare
l’ordigno.
Il via vai di mezzi deve essere stato frequente ed è difficile pensare
che questo passaggio non sia stato notato da nessuno nelle aree
circostanti.
Così come è impossibile che gli attentatori sapessero l’ora esatta in
cui Falcone sarebbe sbarcato a Palermo senza avere una qualche fonte
dall’interno che li informasse dei movimenti e degli spostamenti del
magistrato.
Capaci per tutte le sue caratteristiche quindi è un evento che appare
del tutto inattuabile senza il coinvolgimento di elementi infedeli
presenti nelle istituzioni che diedero agli attentatori le informazioni
necessarie per eseguire la strage.
Senza i primi, è impossibile sapere chi sono i veri mandanti occulti
dell’eccidio che è costato la vita a 5 persone e che sconvolse l’Italia.
E per poter comprendere quali siano questi mandanti occulti è necessario
guardare a cosa stava lavorando Falcone nelle sue ultime settimane di
vita.
Senza posare lo sguardo su questo intervallo temporale, non possiamo
comprendere nulla di quello che accadde in quei tragici giorni.
La stampa nostrana sono trent’anni che ci offre una ricostruzione
edulcorata e distorta della strage di Capaci.
Ci vengono mostrate a ripetizione le immagini di Giovanni Brusca. Ci è
stato detto tutto sulla teoria strampalata che vedrebbe Silvio
Berlusconi tra i mandanti occulti dell’attentato, teoria che pare aver
trovato una certa fortuna tra gli allievi liberali montanelliani, quali
Peter Gomez e Marco Travaglio.
Non ci viene detto nulla però su ciò che stava facendo davvero Giovanni
Falcone prima di morire.
L’indagine di Falcone sui fondi neri del PCI
All’epoca dei fatti, Falcone era direttore generale degli affari penali,
incarico che aveva ricevuto dall’allora ministro della Giustizia,
Claudio Martelli.
Nei mesi prima di Capaci, Falcone riceve una vera e propria richiesta di
aiuto da parte di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica.
Cossiga chiede a Falcone di fare luce sulla marea di fondi neri che
erano piovuti da Mosca dal dopoguerra in poi nelle casse dell’ex partito
comunista italiano.
Si parla di somme da capogiro pari a 989 miliardi di lire che sono
transitati dalle casse del PCUS, il partito comunista dell’Unione
Sovietica, a quelle del PCI.
La politica del PCUS era quella di finanziare e coordinare le attività
dei partiti comunisti fratelli per diffondere ed espandere ovunque
l’influenza del pensiero marxista e leninista e dell’URSS che si
dichiarava custode di quella ideologia.
Questa storia è raccontata dettagliatamente in un avvincente libro
intitolato "Il viaggio di Falcone a Mosca" firmato da Francesco Bigazzi
e da Valentin Stepankov, il procuratore russo che stava collaborando con
Falcone prima di essere ucciso.
Il sistema di finanziamento del PCUS era piuttosto complesso e spesso si
rischia di perdersi in un fitto dedalo di passaggi e sottopassaggi nei
quali è spesso difficile comprendere dove siano finiti effettivamente i
fondi.
I finanziamenti erano erogati dal partito comunista sovietico agli altri
suoi satelliti nel mondo e di questo c’è traccia nelle carte esaminate
da Stepankov.
Ricevevano fondi il partito comunista francese e persino il partito
comunista americano rappresentato da Gus Hall che a Mosca assicurava
tutto il suo impegno contro l’imperialismo americano portato avanti da
Ronald Reagan.
Il partito comunista italiano era però quello che riceveva la quantità
di fondi più ingenti perché questo era il partito comunista più forte
d’Occidente ed era necessario nell’ottica di Mosca assicurargli un
costante sostegno per tenera aperta la possibilità di spostare l’Italia
dall’orbita del patto Atlantico a quella del patto di Varsavia.
Una eventualità che se fosse mai avvenuta avrebbe provocato non solo la
probabile fine della stessa NATO ma anche un probabile conflitto tra
Washington e Mosca che si contendevano un Paese fondamentale, allora
come oggi, per gli equilibri dell’Europa e del mondo.
Ed è in questa ottica che va vista la strategia della tensione ispirata
e attuata da ambienti atlantici per impedire che Roma si avvicinasse
troppo a Mosca.
Nell’ottica di questa strategia era necessario colpire la popolazione
civile attraverso gruppi terroristici, ad esempio le Brigate Rosse,
infiltrati da ambienti dell’intelligence americana per eseguire azioni
clamorose, su tutte il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
Il sangue versato dall’Italia nel dopoguerra per volontà del cosiddetto
stato profondo di Washington è stato versato per impedire all’Italia di
intraprendere un cammino politico che avrebbe potuto allontanarla troppo
dalla sfera di dominio Euro-Atlantica non tanto per approdare in quella
sovietica, ma piuttosto, secondo la visione di Moro, nel campo dei Paesi
non allineati né con un blocco né con l’altro.
Nel 1992 questo mondo era già crollato e non esisteva più la cosiddetta
minaccia sovietica. A Mosca regnava il caos. Una epoca era finita e
l’URSS era crollata non per via della sua struttura elefantiaca, come
pretende di far credere una certa vulgata atlantista, ma semplicemente
perché si era deciso di demolirla dall’interno.
La perestrojka, termine russo che sta per ristrutturazione, di cui l’ex
segretario del PCUS, Gorbachev, fu un convinto sostenitore fu ciò che
preparò il terreno alla caduta del blocco sovietico.
Gorbachev era ed è un personaggio molto vicino agli ambienti del
globalismo che contano e fu uno dei primi sovietici ad essere elogiato e
sostenuto dal gruppo Bilderberg che nel 1987 guarda con vivo interesse e
ammirazione alla sua apertura al mondo Occidentale.
Al Bilderberg c’è il gotha della società mondiale in ogni sua
derivazione politica, economica, finanziaria e ovviamente mediatica
senza la quale sarebbe stato impossibile perseguire i piani di questa
struttura paragovernativa internazionale.
Uno dei membri di spicco di questo club, David Rockefeller, ringraziò
calorosamente alcuni anni dopo gli esponenti della stampa mondiale,
soprattutto quella anglosassone, per aver taciuto le attività di questa
società segreta che senza il silenzio dei media non sarebbe mai riuscita
a portare avanti indisturbata i suoi piani.
Nella visione di questi ambienti, l’URSS, di cui, sia chiaro, non si ha
nostalgia, era comunque diventata ingombrante e doveva essere rimossa.
Il segretario del partito comunista, Gorbachev, attraverso le sue
“riforme” ebbe un ruolo del tutto fondamentale nell’ambito del
raggiungimento di questo obbiettivo.
I signori del Bilderberg avevano deciso che gli anni 90 avrebbero dovuto
essere gli anni della globalizzazione e della concentrazione di un
potere mai visto nelle mani della NATO che per poter avvenire doveva
passare dall’eliminazione del blocco opposto, quello dell’Unione
Sovietica.
Il crollo dell’URSS ebbe un impatto devastante sulla società
post-sovietica russa. Moltissimi dirigenti, 1746, si tolsero la vita. Un
numero di morti per suicidio che non trova probabilmente emuli nella
storia politica recente di nessun Paese.
Alcuni suicidi furono piuttosto anomali e si pensò che alcuni influenti
notabili di Mosca in realtà siano stati suicidati per non far trapelare
le verità scomode che sapevano riguardano ai finanziamenti del partito.
A Mosca era iniziato il grande saccheggio e le svendite di tutto quello
che era il patrimonio pubblico dello Stato.
L’URSS era uscita dall’era della proprietà collettivizzata per entrare
in quella del neoliberismo più feroce e selvaggio così come avvenne per
gli altri Paesi dell’Europa Orientale che furono messi all’asta e
comprati da corporation angloamericane.
Il procuratore russo Stepankov voleva far luce sulla enorme quantità di
soldi che era uscita dalle casse del partito. Voleva capire dove fosse
finito tutto questo denaro e come esso fosse stato speso.
Per fare questo, chiese assistenza all’Italia e il presidente Cossiga
girò questa richiesta di aiuto all’allora direttore generale degli
affari penali, Giovanni Falcone.
Falcone accettò con entusiasmo e ricevette a Roma nel suo ufficio il
procuratore Stepankov per avviare quella collaborazione, inedita dal
secondo dopoguerra in poi, tra l’Italia e la neonata federazione russa.
Al loro primo incontro, Falcone e Stepankov si piacciono subito.
Entrambi si riconoscono una integrità e una determinazione
indispensabili per degli inquirenti determinati a comprendere cosa fosse
accaduto con quella enorme quantità di denaro che aveva lasciato Mosca
per finire in Italia.
I fondi venivano stanziati in dollari e poi convertiti in lire ma per
poter completare questo passaggio era necessaria l’assistenza di
un’altra parte, che Falcone riteneva essere la mafia che in questo caso
avrebbe agito in stretto contatto con l’ex PCI.
I legami tra PCI e mafia non sono stati nemmeno sfiorati dai media
mainstream italiani. La sinistra progressista si è attribuita una sorta
di primato morale nella lotta alla mafia quando questa storia e questa
indagine rivelano invece una sua profonda contiguità con il fenomeno
mafioso.
L’indagine di Falcone rischiava di mandare a monte il piano di Mani
Pulite
Giovanni Falcone era determinato a fare luce su questi legami, ma non
fece in tempo. Una volta iniziata la sua collaborazione con Stepankov la
sua vita fu stroncata brutalmente nella strage di Capaci.
Era in programma un viaggio del magistrato nei primi giorni di giugno a
Mosca per continuare la collaborazione con Stepankov.
Il giudice si stava avvicinando ad una verità scabrosa che avrebbe
potuto travolgere l’allora PDS che aveva abbandonato la falce e martello
del partito comunista due anni prima nella svolta della Bolognina
inaugurata da Achille Occhetto.
Il PCI si stava tramutando in una versione del partito democratico
liberal progressista molto simile a quella del partito democratico
americano.
Il processo di conversione era già iniziato anni prima quando a
Washington iniziò a recarsi sempre più spesso Giorgio Napolitano che
divenne un interlocutore privilegiato degli ambienti che contano negli
Stati Uniti, soprattutto quelli sionisti e atlantisti.
A Washington avevano già deciso probabilmente in quegli anni che doveva
essere il nuovo partito post-comunista a trascinare l’Italia nel girone
infernale della globalizzazione.
Il 1992 fu molto di più che l’anno della caccia alle streghe
giudiziaria. Il 1992 fu una operazione internazionale decisa nei circoli
del potere anglo-sionista che aveva deciso di liberarsi di una classe
politica che, seppur con tutti i suoi limiti, aveva saputo in diverse
occasioni contenere l’atlantismo esasperato e aveva saputo esercitare la
sua sovranità come accaduto a Sigonella nel 1984 e come accaduto anche
con l’omicidio di Aldo Moro, che pagò con la vita la decisione di voler
rendere indipendente l’Italia dall’influenza di questi centri di potere
transnazionali.
Il copione era quindi già scritto. Il pool di Mani Pulite agì come un
cecchino. Tutti i partiti vennero travolti dalle inchieste giudiziarie e
tutti finirono sotto la gogna mediatica della pioggia di avvisi di
garanzia che in quel clima da linciaggio popolare equivalevano ad una
condanna anticipata.
Il PSI di Craxi fu distrutto così come la DC di Andreotti. Tutti vennero
colpiti ma le inchieste lasciarono, “casualmente”, intatto il PDS.
Eppure era abbastanza nota la corruzione delle cosiddette cooperative
rosse, così come era nota la corruttela che c’era nel partito comunista
italiano che riceveva fondi da una potenza straniera, allora nemica, e
poi li riciclava attraverso la probabile assistenza di organizzazioni
mafiose.
Questa era l’ipotesi investigativa alla quale stava lavorando Giovanni
Falcone e questa era la stessa ipotesi che subito dopo raccolse Paolo
Borsellino, suo fraterno amico e magistrato ucciso soltanto 55 giorni
dopo a via d’Amelio.
Mai la mafia era giunta a tanto, e non era giunta a tanto perché non era
nelle sue possibilità. C’è un unico filo rosso che lega queste due
stragi e questo filo rosso porta fuori dai confini nazionali.
Porta direttamente in quei centri di potere che avevano deciso che tutta
la ricchezza dell’industria pubblica italiana fosse smantellata per
essere portata in dote alla finanza anglosionista.
Questi stessi centri di potere globali avevano deciso anche che dovesse
essere il nuovo PDS a proseguire lo smantellamento dell’economia
italiana attraverso la sua adesione alla moneta unica.
E fu effettivamente così, salvo la parentesi berlusconiana del 94. Il
PDS portò l’Italia sul patibolo dell’euro e di Maastricht e privò della
sovranità monetaria il Paese agganciandola alla palla al piede della
moneta unica, arma della finanza internazionale.
E fu il turbare di questi equilibri che portò alla prematura morte dei
magistrati Falcone e Borsellino. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
avevano messo le mani sui fili dell’alta tensione. Quelli di un potere
così forte che fa impallidire la mafia.
I due brillanti giudici sapevano che il fenomeno mafioso non poteva
essere compreso se non si guardava al piano superiore, che era quello
costituito dalla massoneria e dal potere finanziario.
Cosa Nostra e le altre organizzazioni sono solamente della manovalanza
di un potere senza volto molto più potente.
È questa la verità che non viene raccontata agli italiani che ogni anno
quando si celebrano queste stragi vengono sommersi da un fiume di
retorica o da una scadente cinematografia di regime che mai sfiora la
verità su quanto accaduto in quegli anni e mai sfiora il vero potere che
eseguì il colpo di Stato del 1992 e che insanguinò l’Italia nello stesso
anno.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono due figure che vanno ricordate
non solo per il loro eroismo, ma per la loro ferma volontà e
determinazione nel fare il loro mestiere, anche se questo voleva dire
pagare con la propria vita.
Lo fecero fino in fondo sapendo di sfidare un potere enormemente più
forte di loro. Sapevano che in gioco c’erano equilibri internazionali e
destini decisi da uomini seduti nei consigli di amministrazione di
banche e corporation che erano i veri registi della mafia.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vanno ricordati perché sono due eroi
italiani che si sono opposti a ciò che il Nuovo Ordine Mondiale aveva
deciso per l’Italia e pur di farlo non hanno esitato a sacrificare la
loro vita.
Oggi, trent’anni dopo, sembra che stiano per chiudersi i conti con
quanto accaduto nel 1992 e l’Italia sembra più vicina all’avvio di una
nuova fase della sua storia, una nella quale potrebbe esserci la seria
possibilità di avere una sovranità e una indipendenza come non la si è
avuta dal 1945 in poi.
Autovelox mobili: la multa non è
valida se non sono segnalati
multe autovelox
La Cassazione ha confermato che anche gli autovelox posti sulle
pattuglie delle varie forze dell’ordine devono essere adeguatamente
segnalati.
Autovelox mobili: la multa non è valida se non sono segnalati
AUTOVELOX MOBILI - Subire una multa per eccesso di velocità non è
certamente piacevole, soprattutto perché questo comporta la necessità di
dover mettere mano al portafoglio per una spesa imprevista. Ci sono però
delle situazioni in cui la sanzione può essere ritenuta non valida e
quindi annullata, come indicata da una recente sentenza emessa dalla
Corte di Cassazione. Che ha così chiarito i dubbi su cosa può accadere
nel caso in cui l’autovelox presente in un tratto di strada non sia
opportunamente segnalato: l’obbligo è valido anche per gli autovelox
mobili montati sulle auto della polizia.
UNA LUNGA TRAFILA LEGALE - La vicenda trae origine da un’automobilista
di Feltre (Belluno) aveva subito sei anni fa una multa per eccesso di
velocità dopo essere stato sorpreso a 85 km/h in un tratto di strada in
cui il limite era invece di 70 m/h. Una pattuglia della polizia presente
sul posto dotata di autovelox Scout Speed aveva provveduto a
sanzionarlo. L’uomo era però convinto di avere subito un’ingiustizia e
aveva così deciso di fare ricorso. Alla fine, nonostante la trafila sia
stata particolarmente lunga, è stato proprio il conducente a vincere
fino ad arrivare alla sentenza della Cassazione emessa pochi giorni fa.
LA SENTENZA - Nella quale si legge: "In attuazione del generale obbligo
di preventiva e ben visibile segnalazione, contempla la possibilità di
installare sulle autovetture dotate del dispositivo Scout Speed messaggi
luminosi contenenti l'iscrizione “controllo velocità” o “rilevamento
della velocità”, visibili sia frontalmente che da tergo. Molteplici
possibilità di impiego e segnalazione sono correlate alle
caratteristiche della postazione, fissa o mobile, sicché non può dedursi
alcuna interferenza negativa che possa giustificare, avuto riguardo alle
caratteristiche tecniche della strumentazione impiegata nella postazione
di controllo mobile, l'esonero dall'obbligo della preventiva
segnalazione".
per non fare diventare l'ITALIA un'hotspot
europeo dell'immigrazione in quanto bisogna resistere come italiani nel
nostro paese dando agli immigrati un messaggio forte e chiaro : ogni
paese puo' svilupparsi basta impegnarsi per farlo con le risorse
disponibili e l'intelligenza , che significa adattamento nel superare le
difficolta'.
Inventarsi un lavoro invece che fare
l'elemosina.
Quanti miracoli ha fatto Maometto rispetto a
Gesu' ?
1)
esame d'italiano e storia italiana per gli immigrati
2)
lavori socialmente utili
3)
pulizia e cucina autonoma
3 gennaio 1917, Suor Lucia nel Terzo segreto di Fatima: Il sangue dei
martiri cristiani non smetterà mai di sgorgare per irrigare la terra e
far germogliare il seme del Vangelo. Scrive suor Lucia: “Dopo le
due parti che già ho esposto, abbiamo visto al lato sinistro di Nostra
Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano
sinistra; scintillando emetteva grandi fiamme che sembrava dovessero
incendiare il mondo intero; ma si spegnevano al contatto dello splendore
che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l’Angelo
indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza,
Penitenza, Penitenza! E vedemmo in una luce immensa che è Dio: “Qualcosa
di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano
davanti” un Vescovo vestito di Bianco “abbiamo avuto il presentimento
che fosse il Santo Padre”. Vari altri vescovi, sacerdoti, religiosi e
religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c’era una
grande croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la
corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande
città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di
dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel
suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi
della grande croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli
spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo
morirono gli uni dopo gli altri i vescovi, sacerdoti, religiosi e
religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e
posizioni. Sotto i due bracci della croce c’erano due Angeli ognuno con
un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il
sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a
Dio”.interpretazione del
Terzo segreto di Fatima era già stata offerta dalla stessa Suor Lucia in
una lettera a Papa Wojtyla del 12 maggio 1982. In essa dice: «La
terza parte del segreto si riferisce alle parole di Nostra Signora: “Se
no [si ascolteranno le mie richieste la Russia] spargerà i suoi errori
per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni
saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie
nazioni saranno distrutte” (13-VII-1917). La terza parte del segreto è
una rivelazione simbolica, che si riferisce a questa parte del
Messaggio, condizionato dal fatto se accettiamo o no ciò che il
Messaggio stesso ci chiede: “Se accetteranno le mie richieste, la Russia
si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il
mondo, etc.”. Dal momento che non abbiamo tenuto conto di questo appello
del Messaggio, verifichiamo che esso si è compiuto, la Russia ha invaso
il mondo con i suoi errori. E se non constatiamo ancora la consumazione
completa del finale di questa profezia, vediamo che vi siamo incamminati
a poco a poco a larghi passi. Se non rinunciamo al cammino di peccato,
di odio, di vendetta, di ingiustizia violando i diritti della persona
umana, di immoralità e di violenza, etc. E non diciamo che è Dio che
così ci castiga; al contrario sono gli uomini che da se stessi si
preparano il castigo. Dio premurosamente ci avverte e chiama al buon
cammino, rispettando la libertà che ci ha dato; perciò gli uomini sono
responsabili».
Le storie
degli immigrati occupanti che cercano di farsi mantenere insieme alle
loro famiglie , non lavoro come gli immigrati italiani all'estero:
1) Mi
trovavo all'opedale per prenotare una visita delicata , mentre stato
parlando con l'infermiera, una donna mi disse di sbrigarmi : era di
colore.
2) Mi
trovavo in C,vittorio ang V.CARLO ALBERTO a Torino, stavo dando dei
soldi ad un bianco che suonava una fisarmonica accanto ai suoi pacchi,
arriva un nero in bici e me li chiede
3) Ero su un
bus turistico e' salito un nero ha spostato la roba che occupava i primi
posti e si e' messo lui
4) Ero in un
team di startup che doveva fare proposte a TIM usando strumenti della
stessa la minoranza mussulmana ha imposto di prima vedere gli strumenti
e poi fare le proposte: molto innovativo !
5) FINO A
QUANDO I MUSSULMANI NON ACCETTANO LA PARITA' UOMO DONNA , ANCHE SE LO
SCRIVE IL CORANO E' SBAGLIATO. E' INACCETTABILE QUESTO PRINCIPIO CHE CI
PORTA INDIETRO.
6) perche'
lITALIA deve accogliere tutti ? anche gli alberghi possono rifiutare
clienti .
7) Immigrazione ed economia sono
interconnesse in quanto spostano pil fuori dal paese.
8) Gli
extracomunitari ti entrano in casa senza chiedere permesso. Non solo
desiderano la roba d altri ma la prendono.
Forse il primo insegnamento sarebbe il rispetto della liberta' altrui.
09.01.19
Tutti i nulllafacenti immigrati Boeri dice che
ne abbiamo bisogno : per cosa ? per mantenerli ?
04.02.17l
L'ISIS secondo me sta facendo delle prove di
attentato con l'obiettivo del Vaticano con un attacco simultaneo da
terra con la tecnica dei camion e dal cielo con aerei come a NY
l'11.09.11.
Riforma sostenuta da una maggioranza
trasversale: «Non razzismo, ma realismo» Case Atc agli immigrati La
Regione Piemonte cambia le regole Gli attuali criteri per le
assegnazioni penalizzano gli italiani .
Screening pagato dalla Regione e affidato alle
Molinette Nel Centro di Settimo esami contro la Tbc “Controlli da marzo”
Tra i profughi in arrivo aumentano i casi di scabbia In sei mesi sono
state curate un migliaio di persone.
Il Piemonte è la quarta regione italiana per
numero di richiedenti asilo. E gli arrivi sono destinati ad aumentare.
L’assessora Cerutti: “Un sistema che da emergenza si sta trasformando in
strutturale”. Coinvolgere maggiormente i Comuni.In Piemonte ci sono
14.080 migranti e il flusso non accenna ad arrestarsi: nel primo mese
del 2017 sono già sbarcati in Italia 9.425 richiedenti asilo, in
confronto ai 6030 dello scorso anno e ai 3.813 del 2015. Insomma, serve
un piano. A illustrarlo è l’assessora all’Immigrazione della Regione
Monica Cerutti, che spiega come la rete di accoglienza in questi anni
sia radicalmente cambiata, trasformando il sistema «da emergenziale a
strutturale».
La Regione punta su formazione e compensazioni
mentre aumentano i riconoscimenti In Piemonte 14 mila migranti Solo 1200
nella rete dei Comuni A Una minoranza inserita in progetti di
accoglienza gestiti dagli enti locali umentano i riconoscimenti delle
commissioni prefettizie, meno rigide rispetto al passato prossimo: la
tendenza si è invertita, le domande accolte sono il 60% rispetto al 40%
dei rigetti. Non aumenta, invece, la disponibilità a progetti di
accoglienza e di integrazione da parte dei Comuni. Stando ai dati
aggiornati forniti dalla Regione, si rileva che rispetto ai 14 mila
migranti oggi presenti in Piemonte quelli inseriti nel sistema Sprar -
gestito direttamente dai Comuni - non superano i 1.200. Il resto lo
troviamo nelle strutture temporanee sotto controllo dalle Prefetture.
Per rendere l’idea, nella nostra regione i Comuni sono 1.2016. La
trincea dei Comuni Un bilancio che impensierisce la Regione, alle prese
con resistenze più o meno velate da parte degli enti locali: il
termometro di un malumore, o semplicemente di indifferenza, che impone
un lavoro capillare di convincimento. «Di accompagnamento, di
compensazione e prima ancora di informazione contro la disinformazione e
certe strumentalizzazioni politiche», - ha precisato l’assessora Monica
Cerutti riepilogando le azioni previste nel piano per regionale per
l’immigrazione. A stretto giro di posta è arrivata la risposta della
Lega Nord nella persona del consigliere regionale Alessandro Benvenuto:
«Non esistono paure da disinnescare ma necessità da soddisfare sia in
termini di sicurezza e controllo del territorio, sia dal punto di vista
degli investimenti. Il Piemonte ha di per sé ben poche risorse, che
andrebbero utilizzate per creare lavoro e risolvere i problemi che
attanagliano i piemontesi, prima di essere adoperate per far fare un
salto di qualità all’accoglienza». Progetti di accoglienza Tre i
progetti in campo: «Vesta» (ha come obiettivo il miglioramento dei
servizi pubblici che si relazionano con i cittadini di Paesi terzi),
“Petrarca” (si occupa di realizzare un piano regionale per la formazione
civico linguistica), “Piemonte contro le discriminazioni” (percorsi di
formazione e di inclusione volti a prevenire le discriminazioni).
Inoltre la Regione ha attivato con il Viminale un progetto per favorire
lo sviluppo delle economie locali sostenendo politiche pubbliche rivolte
ai giovani ivoriani e senegalesi. Più riconoscimenti Come si premetteva,
aumentano i riconoscimenti: 297 le domande accolte dalla Commissione di
Torino nel periodo ottobre-dicembre 2016 (status di rifugiato,
protezione sussidiaria e umanitaria); 210 i rigetti. In tutto i
convocati erano mille: gli altri o attendono o non si sono presentati. I
tempi della valutazione, invece, restano lunghi: un paio di anni,
considerando anche i ricorsi. Sul fronte dell’assistenza sanitaria e
della prevenzione, si pensa di replicare nel Centro di Castel D’Annone,
in provincia di Asti, lo screening contro la tubercolosi che dal marzo
sarà attivato al Centro Fenoglio di Settimo con il concorso di Regione,
Croce Rossa e Centro di Radiologia Mobile delle Molinette.
INTANTO :«Non sono ipotizzabili anticipazioni di
risorse» per l’asilo che Spina 3 attende dal 2009. La lunga attesa aveva
fatto protestare molti residenti e c’era chi già stava perdendo le
speranze. Ma in Circoscrizione 4, in risposta a un’interpellanza del
consigliere della Lega Carlo Morando, il Comune ha messo nero su bianco
che i fondi dei privati per permettere la costruzione dell’asilo non ci
sono. Quella di via Verolengo resta una promessa non rispettata. Con la
crisi immobiliare, la società Cinque Cerchi ha rinunciato a costruire
una parte dei palazzi e gli oneri di urbanizzazione versati, spiegò mesi
fa l’ex assessore Lorusso, erano andati per la costruzione del tunnel di
corso Mortara. Ad ottobre c’è stata una nuova riunione. L’esito è stata
la fumata nera da parte dei privati. «Sarà necessario che la
progettazione e la realizzazione dell’opera vengano curate direttamente
dalla Città di Torino», scrive il Comune nella sua risposta. Senza
specificare come e dove verranno reperiti i fondi necessari, né quando
si partirà.
20 gen 2011 -L'immigrazione"circolare"
è quella in cui i migranti, dopo un certo periodo di lavoro
all'estero, tornano nei loro Paesi d'origine. Un sistema più ...
Tutto è iniziato quando è stato chiuso il bar. I
60 stranieri che erano a bordo del traghetto Tirrenia diretto a Napoli
volevano continuare a bere. L’obiettivo era sbronzarsi e far scoppiare
il caos sulla nave. Lo hanno fatto ugualmente, trasformando il viaggio
in un incubo anche per gli altri 200 passeggeri. In mezzo al mare, nel
cuore della notte, è successo di tutto: litigi, urla, botte, un
tentativo di assalto al bancone chiuso, molestie ai danni di alcuni
viaggiatori e persino un’incursione tra le cuccette. La situazione è
tornata alla calma soltanto all’alba, poco prima dell’ormeggio, quando i
protagonisti di questa interminabile notte brava hanno visto che sulle
banchine del porto di Napoli erano già schierate le pattuglie della
polizia. Nella nave Janas partita da Cagliari lunedì sera dalla Sardegna
era stato imbarcato un gruppo di nordafricani che nei giorni scorsi
aveva ricevuto il decreto di espulsione. Una trentina di persone, alle
quali si sono aggiunti anche altri immigrati nordafricani. E così a
bordo è scoppiato il caos. Il personale di bordo ha provato a riportare
la calma ma la situazione è subito degenerata. Per ore la nave è stata
in balia dei sessanta scatenati. All’arrivo a Napoli, il traghetto è
stato bloccato dagli agenti della Questura di Napoli che per tutta la
giornata sono rimasti a bordo per identificare gli stranieri che hanno
scatenato il caos in mezzo al mare e per ricostruire bene l’episodio.
«Il viaggio del gruppo è stato effettuato secondo le procedure previste
dalla legge, implementate dalle autorità di sicurezza di Cagliari – si
limita a spiegare la Tirrenia - La compagnia, come sempre in questi
casi, ha destinato ai passeggeri stranieri un’area della nave, a
garanzia della sicurezza dei passeggeri, non essendo il gruppo
accompagnato dalle forze di polizia. Contrariamente a quanto
avvenuto in passato, il gruppo ha creato problemi a bordo per tensioni
al suo interno che poi si sono ripercosse sui passeggeri». A bordo del
traghetto gli agenti della questura di Napoli hanno lavorato per quasi
12 ore e hanno acquisito anche le telecamere della videosorveglianza
della nave. Nel frattempo sono scoppiate le polemiche. «I protagonisti
di questo caos non sono da scambiare con i profughi richiedenti asilo -
commenta il segretario del Sap di Cagliari, Luca Agati - La verità è che
con gli sbarchi dal Nord Africa, a cui stiamo assistendo anche in questi
giorni, arrivano poco di buono, giovani convinti di poter fare cio’ che
vogliono una volta ottenuto il foglio di espulsione, che di fatto è un
lasciapassare che garantisce loro la libertà di delinquere in Italia.
Cosa deve accadere per far comprendere che va trovata una soluzione
definitiva alla questione delle espulsioni?» In ostaggio per ore
Per ore la nave è stata in balia dei sessanta scatenati, che hanno
trasformato il viaggio in un incubo per gli altri 200 passeggeri
21.02.17
Istituto comprensivo Regio Parco La crisi spegne
la musica in classe Le famiglie non pagano la retta da 10 euro al mese:
a rischio il progetto lanciato da Abbado, mentre la Regione Piemonte
finanzia un progetto per insegnare ai bambini italiani la lingua degli
immigrati non viceversa.
Qui Foggia Gli sfollati di una palazzina
crollata nel 1999 vivono in container di appena 24 mq Qui Messina Nei
rioni Fondo Fucile e Camaro San Paolo le baracche aumentano di anno in
anno Donne e bambini Nei rioni nati dopo il sisma le case sono coperte
da tetti precari, spesso di Eternit Qui Lamezia Terme Oltre 400
calabresi di etnia rom vivono ai margini di una discarica a cielo aperto
Qui Brescia Nelle casette di San Polino le decine di famiglie abitano
prefabbricati fatiscenti Da Brescia a Foggia, da Lamezia a Messina.
Oltre 50 mila italiani vivono in abitazioni di fortuna. Tra amianto,
topi e rassegnazione Caterina ha 64 anni e tenacia da vendere. Con gli
occhi liquidi guarda il tetto di amianto sopra la sua testa: «Sono stata
operata due volte di tumore, è colpa di questo maledetto Eternit».
Indossa una vestaglia a righe bianche e blu. «Vivo qui da vent’anni.
D’estate si soffoca, d’inverno si gela, piove in casa e l’umidità bagna
i vestiti nei cassetti. Il dottore mi ha detto di andare via. Ma dove?».
In fondo alla strada abita Concetta, che tra topi e lamiere trova la
forza di sorridere: «A ogni campagna elettorale i politici ci promettono
case popolari, ma una volta eletti si dimenticano di noi. Sono certa che
morirò senza aver realizzato il mio sogno: un balcone dove stendere la
biancheria». Antonio invece no, lui non ride. Digrigna i denti rimasti:
«Gli altri li ho persi per colpa della rabbia. In due anni qui sono
diventato brutto, mi vergogno». Slum, favela, bidonville: Paese che vai,
emarginazione che trovi. Un essere umano su sei, nel mondo, vive in una
baraccopoli. In Italia sono almeno 53 mila le persone che, secondo
l’Istat, abitano nei cosiddetti «alloggi di altro tipo», diversi dalle
case. Cantine, roulotte, automobili e soprattutto baracche. Le storie di
questi cittadini invisibili (e italianissimi) sono raccontate nel
documentario «Baraccopolis» di Sergio Ramazzotti e Andrea Monzani,
prodotto da Parallelozero, in onda domenica sera alle 21,15 su Sky
Atlantic Hd per il ciclo «Il racconto del reale». Le baraccopoli sono
non luoghi popolati da un’umanità sconfitta e spesso rassegnata. Donne,
uomini, bambini, anziani. Vittime della crisi economica o di circostanze
avverse. Vivono in stamberghe all’interno di moderni ghetti al confine
con quella parte di città degna di questo nome. Di là dal muro la
civiltà. Da questo lato fango, calcinacci, muffa, immondizia, fogne a
cielo aperto. A Messina le abitazioni di fortuna risalgono ad oltre un
secolo fa, quando il terremoto del 1908 rase al suolo la città. Qui
l’emergenza è diventata quotidianità. Fondo Fucile, Giostra, Camaro San
Paolo. Eccoli i rioni del girone infernale dei diseredati. Legambiente
ha censito più di 3 mila baracche e altrettante famiglie. I topi,
invece, sono ben di più. A Lamezia Terme oltre 400 calabresi di etnia
rom vivono ai margini di una discarica. Tra loro c’è Cosimo, che
vorrebbe andare via: «Non per me, ma per mio figlio, ha subìto un
trapianto di fegato». A Foggia gli sfollati di una palazzina crollata
nel 1999 vivono nei container di 24 mq. Andrea abita invece nelle
casette di San Polino a Brescia, dove un prefabbricato fatiscente è
diventato la sua dimora forzata: «Facevo l’autotrasportatore. Dopo due
ictus ho perso patente e lavoro. I miei figli non sanno che abito qui.
Non mi è rimasto nulla, nemmeno la dignità». Sognando un balcone «Il mio
sogno? È un balcone dove stendere la biancheria», dice la signora
Caterina nIl documentario «Baraccopolis» di Sergio Ramazzotti e Andrea
Monzani, prodotto da Parallelozero, andrà in onda domani sera alle 21.15
su Sky Atlantic Hd per il ciclo «Il racconto del reale». Su Sky Atlantic
Il documentario 3 domande a Sergio Ramazzotti registra e fotografo “Così
ho immortalato la vita dentro quelle catapecchie” Chi sono gli abitanti
delle baraccopoli? «Sono cittadini italiani, spesso finiti lì per caso.
Magari dopo aver perso il lavoro o aver divorziato». Quali sono i tratti
comuni? «Chi finisce in una baracca attraversa fasi simili a quelle dei
malati di cancro. Prima lo stupore, poi la rabbia, il tentativo di
scendere a patti con la realtà, la depressione, infine la
rassegnazione». Cosa ci insegnano queste persone? «È destabilizzante
raccontare donne e uomini caduti in disgrazia con tanta rapidità. Sono
individui come noi. La verità è che può succedere a chiunque».
Baraccopolid’Italia
01.03.17
GLI ITALIANI AIUTANO più FACILMENTE GLI
EXTRACOMUNITARI RISPETTO AGLI ITALIANI.
SE VUOI SCRIVERTI UN BREVETTO CONSULTA dm.13.01.10
n33
La Commissione
europea, tre anni dopo aver condannato quattro tra le più grandi banche
europee per aver truccato il tasso di interesse che incide sui mutui di
milioni di cittadini europei, ha finalmente tolto il segreto al testo
della sentenza. E quel documento di trenta pagine potrebbe valere, solo
per gli italiani che hanno un mutuo sulle spalle, ben 16 miliardi di
euro di rimborsi da chiedere alle banche.
La storia parte
con la scoperta di un'intesa restrittiva della concorrenza, ovvero un
cartello, tra le principali banche europee. Lo scopo, secondo
l'Antitrust europeo, era di manipolare a proprio vantaggio il corso
dell'Euribor, il tasso di interesse che funge da riferimento per un
mercato di prodotti finanziari che vale 400mila miliardi di euro. Tra
questi ci sono i mutui di 2,5 milioni di italiani, per un controvalore
complessivo stimabile in oltre 200 miliardi. L'Euribor viene calcolato
giorno per giorno con un sondaggio telefonico tra 44 grandi banche
europee, che comunicano che tasso di interesse applicano in quel momento
per i prestiti tra banche. Il risultato del sondaggio viene comunicato
all'agenzia Thomson Reuters che poi comunica il valore dell'Euribor agli
operatori e al pubblico. L'Antitrust ha scoperto che alcune grandi
banche, tra il 2005 e il 2008, si erano messe d'accordo per falsare i
valori comunicati e manipolare il valore del tasso secondo la propria
convenienza. «Alcune volte, -recita la sentenza che il Giornale ha
potuto visionare- certi trader (omissis...) comunicavano e/o ricevevano
preferenze per un settaggio a valore costante, basso o alto di certi
valori Euribor. Queste preferenze andavano a dipendere dalle proprie
posizioni commerciali ed esposizioni»
Il risultato
ovviamente si è riflettuto sui mutui degli ignari cittadini di tutta
Europa, che però finora avevano le unghie spuntate. Un avvocato di
Sassari, Andrea Sorgentone, legato all'associazione Sos Utenti, ha
subissato la Commissione di ricorsi per farsi consegnare il testo della
sentenza dell'Antitrust che condanna Deutsche Bank, Société Genéralé,
Rbs e Barclay's a pagare in totale una multa di oltre un miliardo di
euro.
La Ue ha sempre
rifiutato adducendo problemi di riservatezza delle banche, ma alla fine
l'avvocato ha ottenuto una copia della sentenza, seppur in parte
«censurata». E ora il conto potrebbe salire. E non solo per quelle
direttamente coinvolte, perché il tasso alterato veniva applicato ai
mutui variabili da tutte le banche, anche le italiane, che ora
potrebbero dover pagare il conto dei trucchi di tedesche, francesi e
inglesi. Sorgentone si dice convinto di poter ottenere i risarcimenti:
«Secondo le stime più attendibili -dice- i mutuatari italiani hanno
pagato interessi per 30 miliardi, di cui 16 indebitamente. La sentenza
europea è vincolante per i giudici italiani. Ora devono solo
quantificare gli interessi che vanno restituiti in ogni rapporto mutuo,
leasing, apertura di credito a tasso variabile che ha avuto corso dal 1
settembre 2005 al 31 marzo 2009».
27.01.17
Come creare un meeting su
Zoom? In un
periodo in cui è richiesto dalla società il distanziamento sociale,
la nota app per le videoconferenze diventa uno strumento importante
per molte aziende e privati. Se partecipare a un meeting è un
processo estremamente semplice, che non richiede neppure la
registrazione al servizio, discorso diverso vale per gli utenti che
desiderano creare un meeting su Zoom.
Ecco dunque una semplice guida per semplificare
la vita a coloro che hanno intenzione di approcciare alla
piattaforma senza confondersi le idee.
Come si crea un meeting su Zoom
Dopo aver
scaricato e installato Zoom, e aver effettuato la registrazione,
si dovrà dunque effettuare l’accesso premendo Sign In
(è possibile loggare direttamente con il proprio account Google o
Facebook, comunque). A questo punto, bisogna procedere in questo
modo:
Fare tap su New Meeting
(pulsante arancione)
Scegliere se avviare il meeting con la
fotocamera accesa o spenta, tramite il toggle Video On
Premere Start a Meeting
A questo punto è stata creata la
videoconferenza, ma affinché venga avviata è necessario invitare i
partecipanti. Per proseguire sarà necessario quindi:
Fare tap su Participants
(nella parte in basso dello schermo)
Premere su Invite
Scegliere il mezzo attraverso cui
inviare il link di partecipazione ai mittenti (tramite e-mail o
messaggio, per esempio)
Una volta invitati gli utenti, chi ha creato
il meeting avrà la possibilità di fare tap su ognuno di essi per
utilizzare diverse funzioni: per esempio si potranno silenziare,
piuttosto che chiedergli di attivare la fotocamera, eccetera.
Facendo tap sul pulsante Chats
(in basso a sinistra dello schermo), inoltre, si potranno inviare
messaggi di testo a tutti i partecipanti o solo a uno di essi. Una
volta terminata la videoconferenza, la si potrà chiudere facendo tap
sulla scritta rossa End in alto a destra: si potrà
in ultimo scegliere se lasciare il meeting (Leave Meeting),
permettendo agli altri di continuare a interagire, o se scollegare
tutti (End Meeting).
Windows File Recovery
recupera i file cancellati per sbaglio
È la prima app di questo tipo
realizzata direttamente da Microsoft.
A tutti - beh, a quanti non hanno un
backup efficiente - sarà capitato di cancellare per errore un file,
non solo mettendolo nel Cestino, ma facendolo sparire apparentemente per
sempre.
Recuperare i
file cancellati ha tante più possibilità di riuscire quanto meno la
zona occupata da quei file è stata sovrascritta, ed è un lavoro per
software specializzati.
Fino a oggi, l'unica possibilità per i sistemi
Windows era scegliere programmi di terze parti. Ora Microsoft ha
rilasciato una piccola
utility che si occupa proprio del recupero dei file.
Si tratta di un programma privo di
interfaccia grafica: per adoperarlo bisogna quindi superare la
diffidenza per la linea di comando che alberga in molti utenti di
Windows.
L'utility ha tre modalità base di funzionamento.
Default, suggerita per i drive
Ntfs, si rivolge alla Master File Table (MFT) per individuare i
segmenti dei file. Segment fa a meno della MFT e si basa invece
sul rilevamento dei segmenti (che contengono informazioni come il nome,
la data, il tipo di file e via di seguito). Signature, infine, si
basa sul tipo di file: non avendo a disposizione altre informazioni,
cerca tutti i file di quel tipo (Microsoft consiglia questo sistema per
le unità esterne come chiavette Usb e schede SD).
Windows File Recovery è in grado di tentare il
recupero da diversi filesystem - quali Ntfs,
exFat e ReFS - e per apprendere il suo utilizzo Microsoft ha messo a
disposizione una
pagina d'aiuto (in inglese) sul sito ufficiale.
Qui sotto, alcune schermate di Windows File
Recovery.
Non si può dire che Windows 10 sia un
sistema operativo essenziale: ogni nuova installazione porta con sé,
insieme al sistema vero e proprio, tutta una serie di applicazioni che
per la maggior parte degli utenti si rivelano inutili, se non
fastidiose, senza contare le aggiunte dei singoli produttori di Pc.
Rimuoverle a mano una a una è un compito
tedioso, ma esiste una piccola applicazione che facilita l'intera
operazione:
Bloatbox.
Nata come estensione per
Spydish, app utile per gestire le informazioni condivise con
Microsoft da
Windows 10 e più in generale le impostazioni del sistema che
coinvolgono la privacy, è poi diventata un software a sé.
Il motivo è un po' la medesima
ragione di vita di Bloatbox: non rendere
Spydish troppo "grasso" (bloated), ossia ricco di funzioni
che, per quanto utili, vadano a incidere sulla possibilità di avere
un'applicazione compatta, efficiente e facile da usare.
Bloatbox si scarica da GitHub sotto forma di
archivio.zip da estrarre sul Pc. Una volta compiuta questa
operazione non resta altro da fare che cliccare due volte sul file
Bloatbox.exe per avviare l'app.
La
finestra principale mostra sulla sinistra una colonna in cui è
presente la lista di tutte le app installate in Windows, tra cui anche
quelle che normalmente non si possono disinstallare - come il Meteo,
Microsoft News e via di seguito - e quelle installate dal produttore del
computer.
Ciò che occorre fare è selezionare quelle app
che si intende rimuovere e, quando si è soddisfatti, premere il
pulsante, che le aggiungerà alla colonna di destra, dove si
trovano tutte le app condannate alla cancellazione.
A questo punto si può premere il pulsante
Uninstall, posto nella parte inferiore della
colonna centrale, e il processo di disinstallazione inizierà.
L'ultima versione al momento in cui scriviamo
mostra anche, nella colonna di destra di un pratico link per effettuare
una "pulizia
generale" di una nuova installazione di Windows 10, identificato
dalla dicitura Start fresh if your Windows 10 is loaded with bloat....
Cliccandolo, verranno aggiunte all'elenco di
eliminazione tutte le app preinstallate e considerate
bloatware. Chiaramente l'elenco
può essere personalizzato a piacere rimuovendo da esso le app che si
intende tenere tramite il pulsante Remove selected.
Il sito che installa tutte le
app essenziali per Windows 10
Bastano pochi clic per ottenere
un Pc perfettamente attrezzato, senza dover scaricare ogni singolo
software.
Reinstallare il sistema operativo è solo il primo passo, dopo un
incidente al Pc che abbia causato la necessità di ripartire da capo, tra
quelli necessari per arrivare a riavere un computer perfettamente
configurato e utilizzabile.
A quel punto inizia infatti il processo di configurazione e di
installazione di tutte quelle grandi e piccole applicazioni che svolgono
i vari compiti ai quali il computer è dedicato. Si tratta di
un'operazione che può essere lunga e tediosa e che sarebbe bello poter
automatizzare.
Una delle alternative migliori da tempo esistente è Ninite, sito che
permette di selezionare le app preferite e si occupa di scaricarle e
installarle in autonomia.
Da quando però Microsoft ha lanciato un proprio gestore di pacchetti
(Winget) sono spuntate delle alternative che a esso si appoggiano e,
dato che funziona da linea di comando, dette alternative si occupano di
fornire un'interfaccia grafica.
Una delle più interessanti è Winstall, che semplifica l'installazione
delle app dai repository messi a disposizione da Microsoft.
Winstall è una Progressive Web Application (Pwa), ossia un sito da
visitare con il proprio browser e che permette di scegliere le app da
installare sul computer; in questo senso, dal punto di vista dell'uso è
molto simile al già citato Ninite.
Diverso è però il funzionamento: se Ninite scarica i singoli installer
dei vari programmi, Winstall si appoggia a Winget, che quindi deve
essere preventivamente installato sul Pc.
Inoltre offre una propria funzionalità specifica, che il suo
sviluppatore ha battezzato Featured Pack.
Si tratta di gruppi di applicazioni unite da un tema o una funzionalità
comune (browser, strumenti di sviluppo, software per i giochi) che si
possono selezionare tutte insieme; Winstall si occupa quindi di generare
il codice da copiare nel Prompt dei Comandi per avviare l'installazione.
In alternativa si può scaricare un file .bat da eseguire, che si occupa
di invocare Winget per portare a termine il compito.
I Featured Pack sono infine personalizzabili: gli utenti sono invitati a
creare il proprio e a condividerlo.
Leggi l'articolo originale su ZEUS News -
https://www.zeusnews.it/n.php?c=28369
Cos’è e a cosa serve la pasta madre
La pasta madre è un lievito naturale che permette di preparare un ottimo
pane, ma anche pizze e focacce. Conosciuta anche come pasta acida, la
pasta madre è un impasto che può essere realizzato in diversi modi. Ad
esempio, la pasta madre si può ottenere prelevando un impasto del pane
da conservare grazie ai “rinfreschi”, oppure preparando un semplice
impasto di acqua e farina da lasciare a contatto con l’aria, così che si
arricchisca dei lieviti responsabili dei processi fermentativi che
consentono la lievitazione di pane e altri prodotti da forno.
Gli impasti preparati con la pasta madre hanno generalmente bisogno di
lievitare per diverse ore, ma il risultato ripaga dell’attesa: pane,
pizze e focacce risulteranno infatti più gonfi, più digeribili,
conservabili più a lungo e con un sapore decisamente migliore.
La pasta madre, inoltre, accresce il valore nutrizionale del pane e di
altri prodotti da forno. Negli impasti preparati con la pasta madre
diverse importanti sostanze rimangono intatte e, grazie alla
composizione chimica della pasta madre, il nostro organismo riesce ad
assimilare meglio i sali minerali presenti nelle farine.
I lieviti della pasta madre, poi, favoriscono la crescita di batteri
buoni nell’intestino, favorendo un buon equilibrio del microbiota e
migliorando così la digestione. È importante anche notare che il pane
preparato con lievito naturale possiede un indice glicemico inferiore
rispetto al pane realizzato con altri lieviti. Questo significa che
quando i carboidrati presenti nel pane vengono assimilati sotto forma di
glucosio, questo si riversa più lentamente nel flusso sanguigno,
evitando picchi glicemici.
Oltre a conferire al pane proprietà organolettiche e nutrizionali
migliori, la pasta madre presenta altri vantaggi. Grazie ai rinfreschi,
si può infatti avere a disposizione questo straordinario lievito
naturale a lungo; in più, la pasta madre può essere preparata con vari
tipi di farine, anche senza glutine.
La dieta senza glutine è l’unica terapia per le persone celiache e per
chi presenta sensibilità verso le proteine del frumento e in altri
cereali come orzo e farro. Inoltre, ridurre il consumo di glutine può
migliorare alcuni disturbi intestinali ed è consigliato anche a chi
vuole seguire un regime alimentare antinfiammatorio.
ATTENZIONE MOLTO
IMPORTANTE PER LA TUA SALUTE :
La tecnologia di riferimento
per le Cellule Tumorali Circolanti